CAPITOLO SECONDO Oggi La pioggia aveva appena smesso di cadere e l asfalto di Edgware Road, a secco da alcuni giorni, tornava finalmente a lavarsi. Rientravo a casa facendo lo slalom tra le pozzanghere, dopo una giornata a perder tempo nel vano tentativo di tenere occupato il mio cervello. Ero uscita con l'intento di andare a fare una decina di vasche nella piscina di un centro fitness della zona, ma davanti all'ingresso mi ero bloccata; troppo freddo. Allora ero finita a ciondolare per almeno due ore tra le bancarelle del mercato di Spitalfields. Quindi avevo raggiunto Piccadilly Circus, dove mi ero mescolata a un gruppo di turisti, rimbalzando tra Oxford Street e Regent Street. Ora più che mai avevo bisogno di stare in mezzo al caos, al traffico, ai rumori di Londra. Non potevo rilassarmi e permettere ai miei pensieri di prendere il sopravvento, distrarmi era l unica maniera per tirare avanti.
Erano trascorsi due mesi dal giorno in cui i miei occhi si erano trovati davanti il corpo di mio padre, Christopher McInley, che penzolava inerme in una chiesa sconsacrata. A volte sembrava una vita, più spesso sembrava ieri. Gli stessi due mesi erano trascorsi dall ultima volta che avevo incrociato lo sguardo di Lars. Uno che aveva venduto l anima al diavolo nel 1540, quando di nome faceva Morgante di Fortebraccio, e se ne andava in giro da secoli come se nulla fosse. E gli stessi giorni, infine, mi separavano dal momento in cui avevo conficcato quel pugnale nella schiena di Astorre di Malatesta, uccidendolo. Mettevo a punto semplici meccanismi di sopravvivenza e non avevo idea per quanto ancora mi sarebbero serviti, forse era soltanto troppo presto e non dovevo avere fretta, forse avrei trascorso il resto della mia esistenza in quello stato. Tra atroci dubbi e misteri irrisolti. Con la coscienza piegata sotto un enorme peso. Sarebbe stato possibile vivere così per il resto della propria vita? Chissà. Le festività di Natale erano passate. Un mesto susseguirsi di visite di parenti, ricordi e condoglianze delle quali avrei fatto volentieri a meno. Avevo deciso di lasciare casa ed ero finita a dividere settanta metri quadrati in Albion
Street, con una vecchia compagna di scuola e una sua amica. La scelta, per me difficilissima, era maturata quando mia madre aveva deciso di prendere in mano le redini della famiglia. Dal nulla aveva tirato fuori quella grinta che sarebbe servita mesi prima, quando suo marito, mio padre, stava finendo nel baratro e lei non si staccava dai fornelli. Avevamo litigato ogni giorno per almeno un mese dopo il nostro rientro a Londra, perché lei aveva stabilito che tutto doveva andare avanti come se nulla fosse accaduto. Come se non bastasse si era permessa di fissare a mia insaputa un appuntamento da una sua conoscente psicologa. Quando mi comunicò giorno e ora della seduta le mangiai la faccia, le urla si sentirono fino al pub in fondo alla strada. A farmi analizzare ci andai lo stesso, ma cinque giorni dopo portavo la mia valigia oltre la soglia della mia nuova stanza, mettendo tre fermate della metropolitana tra me e mia madre. Mi abituai agli orari delle mie coinquiline, al frigorifero sempre vuoto, al bagno in condizioni pietose e a nessun vestito stirato. Poi c era il lavoro da cameriera in un fast food, sei ore senza tregua e senza mai sedersi. Quando ero libera, e non crollavo sul letto, mi perdevo per Londra. In altre occasioni, e capitava spesso,
uscivo con le amiche e mi ubriacavo. Non vedevo alternativa per tirare avanti senza pensare ai miei giorni a Perugia. Non poteva essere quello il mio futuro, ne ero consapevole, ma in quel momento era la migliore soluzione possibile. Quando tornavo a trovare mia madre mi scontravo contro il suo sorriso: falso e forzato. Non ricordavo l ultima volta che le mie labbra si erano inclinate all insù senza l aiuto di almeno tre pinte di birra. Mi faceva solo pena e tenerezza nel suo goffo tentativo di rivalsa, ma non potevo sopportala. Aveva trovato conforto in sua cugina che abitava dall altra parte della città. Ogni giorno prendeva l autobus e si sobbarcava una lunga collezione di fermate fino ad Hackney, per passare il pomeriggio con lei. Come vasi comunicanti le due donne si trasmettevano le loro tragedie. Ad una un marito suicida, all altra un meccanico bolso, maleodorante e dai modi rozzi. Andava e tornava con il frutto di quei pomeriggi noiosi: chili di biscotti ipercalorici, centrotavola ricamati, torte di verdura o gli stupidi risultati degli esperimenti di decoupage. Non era più affar mio, per fortuna. Mio fratello invece era rimasto quello di sempre, una specie di automa, non sapevo
nemmeno se gli fosse scesa una lacrima per il padre. Aveva l agenda piena di impegni, tra la scuola, i corsi pomeridiani e gli allenamenti di calcio. Era indipendente e indifferente, quello era il suo modo per metabolizzare il dolore. Non mi mancava, ad essere sincera. Volevo soltanto pensare a me stessa. In quel momento mi mancava altro: mi mancava qualcosa per cui vivere. Mi mancava mio padre. Mi mancava Lars. Era l'inizio di febbraio, ogni volta che il sole tramontava era un giorno buttato via.