lidia gargiulo cipolle e lacrime la città e le stelle

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1 lidia gargiulo cipolle e lacrime la città e le stelle

2 La città e le stelle Via Manfredi Azzarita, Roma Tel e fax Internet: E.mail: info@cittaelestelle.it In copertina: Bruno Varacalli - Senza titolo (particolare) Dello stesso autore, per i Taccuini de La città e le stelle: A Giosafat, la carne, 2011, Appuntamenti, 2012.

3 lidia gargiulo cipolle e lacrime la città e le stelle - taccuini

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5 Cipolle e lacrime Una sera dei primi anni ottanta, in un cinema di Parigi, quando si riaccesero le luci sull ultima versione cinematografica della Traviata, una matura ragazza accanto a me singhiozzava senza ritegno. Io mi ero goduta la forte musica di Verdi ma la vicenda in sé mi aveva più irritata che commossa. L ipocrita razza dei Germont, pensavo, non è estinta, ma per fortuna ha una vita più difficile, a una Violetta di oggi non importerebbe gran che l onore di una pura siccome un angelo sorellina di Alfredo. Aujourd hui mormorai alla ragazza in lacrime il faut rire des histoires comme ça. Mi colpiva in lei, e mi disorientava, la persistenza della Violetta vecchio stile, che si ritira dalla vita per non turbare un ordine che la condanna, con il solo conforto di piangere sul 5

6 proprio destino. Anch io, confesso, i più bei pianti me li faccio davanti ai film sentimentali: lunghi, dolcissimi, bagnatissimi pianti, sebbene per storie differenti da quella che commuoveva la ragazza di Parigi. Nel buio della sala le lacrime mi solcano le guance, come si legge nei buoni romanzi di pessimo gusto; non mi asciugo gli occhi e non mi soffio il naso per non dare a vedere, ma qualche volta l accensione delle luci sulla parola Fine mi coglie di sorpresa. Anch io dunque verso lacrime sulle storie degli altri. Non che non abbia motivi per piangere di mio, ma nel tempo i miei dolori si sono dissociati dal funzionamento dell apparato lacrimale. Che del resto, come si legge nell Enciclopedia Medica, non è preposto solo ad esprimere emozioni, come credevo una volta e ancora credono in tanti, ma anche a più pratiche funzioni: mantenere umide la cornea e la congiuntiva, facilitare il movimento delle palpebre, esportare corpi estranei 6

7 e in genere proteggere l occhio. Piango molto al tempo della fioritura dei tigli, e le lacrime esportano il polline profumato, utile più alla produzione del miele che alla vista; piango quando ritorno dai profumi di Ravello allo smog di Roma, e le lacrime lavano la cornea dal pungentissimo fumo del traffico. Piango soprattutto se affetto cipolle sul tavolo di cucina, piango in silenzio perché so che una buona zuppa, o una buona frittata, non si ottiene ad occhi asciutti. Se riuscissi a dedicare questo tipo di lacrime alle mie pene di oggi o al ricordo di passati dolori potrei offrire, seppure per interposta cipolla, un po di cordoglio ai miei privati disagi, non c è niente di male, qualche volta, a prendersi sul serio. Questa idea di tanto in tanto la lancio per ridere tra gli amici, ma forse merita più seria considerazione. Certo, occorre metodo, ci vuole concentrazione e io sono distratta, anche un po lenta ad entrare in tema, ma non è una ragione per non provare. 7

8 Per la cena di stasera preparo appunto una zuppa di cipolle. Qui il tagliere, qui il coltello a sega, qui un bel chilo di cipolle, qui una sedia comoda e qui la radio, i programmi di mattina tengono compagnia. A quest ora danno le notizie del giorno: alleanze politiche, accordi internazionali, scambi diplomatici e la cronaca, un pacco misto di feste mondane e disastri di popoli e individui. Le annunciatrici devono stare nei tempi: frettolose e sorridenti (si sente, si sente che sorridono), usano lo stesso tono per la sfilata di moda e l esplosione di una bombola. «Signora, cosa è accaduto? questo è il cronista in affanno che cosa ha sentito quando ha visto saltare in aria il suo appartamento?». Accanto a lui un Vada via soffocato e avanti un altra notizia. Prima cipolla: per non irritare gli occhi, tenere il viso a distanza. Ma l invisibile esalazione mi raggiunge lo stesso, l apparato lacrimale comin- 8

9 cia a secernere le sue difese. Nobilitiamo dunque le cipolle, mandiamo queste lacrime a raggiungere altre lacrime. Battevo le mani contro la parete, sconvolta dal rovesciamento delle cose: i vermicelli mandati in gola risalivano in bocca, la tosse li spingeva fuori a penzolare e oscillare sotto il naso, poi tutti insieme in forma di bianca matassa precipitavano sul rosso del pavimento e già un altro groppo saliva con uno strano sapore-odore e a terra il marroncino dei fagioli picchiettava il chiaro dei vermicelli-vermi: lucidi e interi fagioli e vermi come li avevo ingoiati in fretta ad occhi chiusi. E perché piangi? mia sorella grande rideva butta, butta fuori. lo vedi? quando mangi devi masticare, devi masticare tutto, anche i fagioli. altrimenti vomiti e poi piangi, hai capito? Così appresi che stavo vomitando. Dopo quella volta vomitai ancora ma vomitare non mi fece piangere più. Che il dolore abbia una relazione col nome delle cose? Che il mio piangere 9

10 bambino fosse anche assenza del nome di ciò che mi accadeva? I nomi contengono gli accadimenti, le forme e i suoni dell alfabeto sono la cintura di sicurezza che attutisce l impatto con le cose. Ma è solo un armistizio: noi siamo sempre esposti al nuovo, e poiché saremo sempre sorpresi o spaventati da cose per le quali non avremo pronto un nome, le ghiandole lacrimali non rimarranno mai oziose. Da bambina non avevo il pianto facile e il mio involontario stoicismo, dovuto forse più a un anomalia dell apparato lacrimale che a una presa di posizione, irritava le buone maestre. Quando vedevo punire un compagno di asilo, se ero colpevole del medesimo reato mi mettevo ad aspettare una pari razione di schiaffi e bacchettate, ma su di me la punizione era sempre più lunga e più energica. Ancora non sapevo quello che altri bambini avevano capito: che se piangi subito il picchiatore, specie se picchiatrice, si in- 10

11 tenerisce e lascia la presa. Ero brava negli indovinelli; le tabelline le sapevo tutte in salita e in discesa, eppure non sapevo che la giustizia è una questione fra Giudice e Imputato. Quando arrivava quel disordinato colpire di piatto, di palmo o di dorso sulla mia schiena infante, il dolore del corpo si scollegava dal meccanismo delle lacrime; ad occhi asciutti e capo chino aspettavo che finisse, e nel frattempo seguivo le oscillazioni del crocefisso Sposo Gesù di legno, che come pendolo sfuggito all orologio colpiva a vanvera ora l aria ora me, ora l aria ora me. Poi il ripiegato corpo della sposa di Cristo recuperava posizione eretta con respiro affannato. Dopo questa lotta a dir poco impari, se un intervistatore della non ancora onnipresente TV mi avesse chiesto: «Come si sente, signorina? nei suoi quattro-cinque anni di vita, che calcolati in mesi sono ormai quarantotto-sessanta (come passa il tempo!), quale atteggiamento ha maturato nei riguardi dei picchiatori?», io avrei detto che non lo sapevo, 11

12 ammesso che avessi saputo dire Non lo so. Un po di pena, questo sì, per la paonazza picchiatrice con l affanno. Gli affanni degli uomini, dice la nonna, bisogna informarla che ci sono anche gli affanni delle suore che picchiano. Che sotto il velo sono donne. A chi dedicare le lacrime di questa cipolla: alla piccola stoica che non si sente incompresa perché ignora la parola incompresa o all abbrutimento della Sposa di Cristo? Altre volte invece piangevo per nulla, questo almeno dicevano i grandi. Assediata da un inquieta malinconia, piagnucolavo Voglio qualcosa, voglio qualcosa... Che cosa? Che cosa, parla! Dicevano i grandi. Ma che dire? Piuttosto come mai loro, i grandi, non capivano quello che io non sapevo? Voglio qualcosa, ripetevo, e piangendo entravo e uscivo dalle porte, una stanza dopo l altra. Se dicessi che era angoscia dell esistere sarebbe comunque una spiegazione a posteriori, perché a 12

13 quel tempo, se la solita intervistatrice mi avesse chiesto : «Signorina, è risaputo che fra i quattro e i sei anni si vivono momenti durissimi; lei pensa che nel suo caso si potrebbe parlare di angoscia esistenziale?», ecco, sinceramente io avrei fatto fatica a seguirla. Eppure con altro nome, o anche senza nome (li abbiamo trovati proprio tutti, i nomi?) quella cosa io la provavo, e mi era intollerabile. Non ancora Ser Petrarca mi aveva parlato di accidia, né il poeta di Recanati mi aveva nominato il tedio, eppure io trascinavo, a meno di un metro da terra, una riccioluta scatola cranica piena di disagio e vuota di parole. Era ancora, a farmi piangere, l assenza di parole para-dolore? Johann Sebastian Bach: Fuga canonica in epidiapente: con questo pezzo si riempiono i minuti tra una rubrica e l altra. Sono le tredici e quarantadue. Con l aiuto di qualche pubblicità Bach ci accompagna al giornale delle tredici e quarantacinque. 13

14 Quel dopopranzo avevo trovato le fotografie degli zii d America e le mettevo in fila sul pavimento assieme ad altri zii e cugini, un popolo di alti e di piccoli, di vesti bianche e vesti nere; i bambini cugini ridevano contro il sole attorno a una sorridente zia candida sposa, la coroncina col velo sull onda larga dei capelli, e in piedi accanto a lei sorrideva più austero lo zio sposo alto e baffuto con gli occhi tondi e neri e il panciotto e la cravatta a farfalla, in prima fila una bimba aveva scarpette bianche e un calzino abbassato, era ancora più piccola di me. Il nonno e la nonna li avevo messi in prima fila perché i nonni nascono prima, però quando sono piccoli non lo sanno che sono nonni. Altri cugini e altri zii aspettavano di essere sistemati nei riquadri del pavimento, tra poco lo scatolone sarà vuoto e la stanza sarà piena di zii e cugini. Ma a un tratto: Sù sù, la mamma mi chiama, devi tornare a scuola, si fa tardi. Oggi non mi va di tornarci, ma la mamma: Come? e 14

15 perché? E a scuola bisogna andare, e io non volevo, e lei voleva e io non volevo lasciare gli zii che sorridevano e la cuginetta piccola con gli altri cuginetti, e la mamma sempre: Devi tornare a scuola. che sono sti capricci. Fu allora che piansi come piangono tutti i bambini, un pianto fluviale che inondò me ma non commosse la mamma. Dura e straniera alle mie ragioni, lei che mi voleva tanto bene, che mi dava sempre ragione, mi portò di peso a lavarmi le mani e la faccia, mi diede una lisciatina ai capelli, mi aggiustò il fiocco e mi mise fuori la porta: Giochi quando torni, adesso va a scuola (asilo) e sta attenta alle macchine. Ora che le mie lacrime sono semplice secrezione, pura difesa dagli acidi dei bulbi chiamati cipolle, mi fa una certa impressione ritrovare, incrostato al ricordo dei pianti trascorsi, un di più che potrei chiamare sentimento, una condizione dell anima che fa tutt uno con la condizione del 15

16 corpo. Ma i rapporti fra dolore, sentimento e pianto sono complicati. E che dire dei dolori senza pianto e del pianto senza dolore? A sei anni ero innamorata di Suor Clara; non mi stancavo mai di guardarla e quando il suo sguardo incrociava il mio era tutto uno sciogliermi e turbarmi e annebbiarsi degli occhi, guarda dove va a ficcarsi il Dolce Stilnuovo. Quando ho avuto qualche cognizione di anatomia e fisiologia dell amore, mi sono ritrovata gusti e tendenze banalmente conformi alla media, ma all epoca della beata ignoranza l amore non bada a spese, non ha interesse a garantirsi la riproduzione della specie; dunque io amavo perdutamente la mia maestra, arrossivo se mi passava accanto, assorbivo le parole che uscivano dalla sua bocca dove il sorriso era una linea bianca fra le larghe guance rosse rosse tonde tonde. Una mattina entrando in classe suor Clara annunciò che tra poco avremmo saputo il voto del 16

17 compito del giorno prima e a me disse ammiccando: Eh eh, tu hai preso un brutto voto, hai preso quattro. E sorrise. Io capii lo scherzo, aspettai che passando per i banchi venisse a portarmi il mio splendido dieci. Che invece era sette. «E allora? perché piangi, non vedi che ho scherzato? non è vero che hai preso quattro, hai fatto un bel compito, non sei contenta?» Non ero contenta: nel mio pianto c era come uno stridere di freni, il rattrappirsi di qualcosa che avevo immaginato grandioso, quel votino di brava bambina non era la gloria promessa dalla complice strizzatina d occhio. Di quel pianto, che adesso mi torna così presente, so trovare solo una ragione da adulta, che sarebbe questa: mi vergognavo di essere, e di essere vista, più piccola dei miei desideri. La sua voce affettuosa e gaia Ci avevi creduto? ma non vedi che scherzavo? si incontrò dentro di me con qualcosa di nuovo, un pensiero che ancora non era pensiero ma già mi consolava: lei non mi vedeva dentro, lei non po- 17

18 teva sapere perché piangevo. Cominciavo a gustare quello che in seguito sarebbe stato uno dei più sottili piaceri: l orgoglio di chiudermi, di non essere capita, carpita. È una vera fortuna che in quell occasione non ci fosse l intervistatrice di un TG a chiedermi: «Signorina, quali tumulti si agitano nel suo giovane cuore di sei anni e qualche mese, che cosa ha sentito mentre piangeva, che cosa vorrebbe dire alla sua maestra?» A questa intervistatrice, finite le lacrime, che per fortuna da giovani non durano a lungo, io avrei potuto rispondere: «Me lo dica lei, signorina, me lo dica lei come si chiama questa matassa annodata e aggrovigliata di devozione e vergogna e voglia di scomparire e scoperta dell invisibilità». Al mercato, al banco di patate e cipolle, il venditore mi ha chiesto «Come le vuole, dolci, più saporite o belle forti? che ci deve fare? ci sono anche le cipolline da preparare in agrodolce...» Per me cipolle vuol dire cipolle, e invece un professionista parla così, perbacco. Coraggio, continuiamo. 18

19 Nemmeno quell ultimo giorno di scuola della prima media c era l intervistatrice con le sue domande che sembrano fatte apposta per distrarre dall argomento. La signorina di quel giorno sarebbe stata meno moderna di quelle che cinguettano adesso davanti alle scuole, meno palestrata (non so che ne pensi la Crusca, ma questa parola ha già conquistato un posto fisso nel vocabolario); quel giorno la cinguettante inviata mi avrebbe chiesto: «Perché piangi? pensi di non essere promossa? Ma aspetta i risultati, non si può mai dire». Depistata e depistante, lei non poteva sapere. Quel giorno davanti alla scuola sciamavano tutti, sciamavo anch io; era il tempo che mi piaceva coniugare in coro qualsiasi verbo, ma quel giorno non riuscivo a coniugare con le altre fanciulle in fiore la gioia delle vacanze estive, che pure mi piacevano e ancora mi piacciono tanto. Avevo imparato il latino, avevo imparato a disegnare, avevo preso gusto a visitare altre forme di 19

20 vita, in tempi e spazi sempre più lontani. E avevo amato alla perdizione la mia insegnante di lettere. Parlava sempre bene di me e andava dicendo che ero un genio, io sapevo di non essere un genio ma non facevo niente per chiarire l equivoco. E allora, quando ti assale l onda dell amore e non sai a chi dedicarla perché tutto ti è piaciuto in quest inizio di terzo lustro, e intanto ti assale anche un onda contraria, il pensiero che ancora è tutto da vedere e rivedere, e forse non ci sarà nessuno a dirti come si fa, e le due onde ti danno il capogiro perché ora stai in alto a cavallo dell una e subito dopo l altra ti passa sulla testa e dice Non sei padrona di niente, di niente, che ne sarà di te... Quando, gentile palestrata, le onde dell azzurro e le onde del nerofumo si scontrano nel sistema simpatico e mandano all aria ogni rosa dei venti, che può fare la povera macchina del corpo se non spingere verso una via d uscita quella schiuma che blocca il respiro, gridare a bocca aperta alzando e abbassando il diaframma, allargare la 20

21 cassa toracica e mandarla fuori col lubrificante torrente salato delle lacrime? Come classificare questo pianto? Ah, gentile palestrata, ha fatto bene a scegliere il mestiere di cronista, ogni giorno succede qualcosa e lei non deve mai capire che cos è, deve solo fare domande del tipo :«E mi dica, che cosa sentiva mentre annegava nel suo fiumicello di lacrime?». Sto quasi a metà, stasera la mia zuppa sarà proprio saporita, sento già Fernanda che dice È buona, buonissima, soprattutto si vede che è fatta con sentimento. quello che fai tu sa sempre di vissuto. Non ricordo perché piangessi, ricordo solo che piangendo avevo intorno compagne di gioco e compagne di classe. A un tratto una di loro disse a un altra: «Guarda come piange, sembra che ride». Cominciò allora la consapevolezza che fuori di me un occhio altrui vedeva me; fu allora 21

22 che cominciai a chiedermi, e mi sarei chiesta per molti anni, come apparisse agli altri il mio pianto; quelle teste che scrutavano la faccia in lacrime al di là del riparo del gomito furono il primo pubblico di un pianto che si faceva spettacolo. Alla consapevolezza di essere guardata si aggiungeva il desiderio e poi il piacere e poi il bisogno di essere guardata, e il piangere fu rappresentazione, parata di variazioni per un pubblico curioso di visioni e indifferente alle ragioni, che si pasceva di me come io mi pascevo di lui. Nei film d amore, da cui prendevo lezione, il viso della diva rimaneva luminoso e levigato anche nelle più lacrimevoli situazioni; a me invece gli occhi si deformavano in vescichette rosaviolacee, che a malapena servivano a farmi vedere qualcosa attraverso le loro fessure. In compenso il sonoro funzionava: modulavo i singhiozzi alternandoli ai sospiri, lunghi o spezzati, striduli o profondi, il corpo a terra dorso al soffitto, faccia al suolo su un braccio ripiegato, per 22

23 lo più il sinistro. Intorno, la piccola folla guardava, commentava, masticava. Immaginiamo la solita intervistatrice, anzi questa volta voglio pensare a uno svelto cronista che, ancor prima di interpellarmi, va dicendo che è tutta una finta, che la ragazza sta recitando, si sa che le donne sono isteriche. «Ah cronista oggi gli direi sta zitto. che ne sai tu del buio dal quale noi donne guardiamo la luce, quando ci chiediamo con quali abiti abbigliarci per essere bene accolte, come apprendere a farci amare, poiché l amore dicono per una donna è tutto. Che ne sai tu, cronista, delle prove prima di metterci in scena, prove di repertorio e prove di improvvisazione, prove di gesti e prove di parole, prove perfino di pensiero, perché ancora non ci lascia l idea che il nostro petto sia la vetrina dove tutti possono ficcare il naso. Le prove, mio caro cronista, si fanno le prove della vita, per poi, quando si è nella vita, sentirci dire che la vera vita era quella delle prove. Ah, cronista, l isteria? E ti 23

24 sembra da prendere alla leggera? Ma lo sai, cronista, che l isteria è sacra? Le sacerdotesse non si riempiono del dio se rimangono coi piedi a terra, coi piedi a terra i profeti non vedono i tempi, i martiri non conquistano la palma. Cronista, l isteria è la voce di un dolore che cerca un nome, è nel nome che si trovano le cose di cui il dolore ha bisogno, solventi, catalizzatori, vie di sublimazione, e anche il diritto ad esistere. Un dolore senza nome, cronista, non può durare senza uccidere, e allora col dolore si viene a patti, gli si mette una maschera, si fa salire sul palcoscenico a dire cose che non gli appartengono ma intanto parla, e parlare è vita. Cronista, dovremmo essere riconoscenti tutti all isteria, che gentilmente ricompone in simboli ancora leggibili oceani di dolore che altrimenti sarebbero scomposta follia. Cronista inginocchiati, quando vedi qualcuno piangere così». Al ritorno dalle vacanze estive le compagne raccontavano con fervore un film di passione che si 24

25 intitolava Ho pianto per te. Io non lo avevo visto ma ugualmente mi prese il bisogno di piangere per qualcuno, o meglio di dire a qualcuno Ho pianto per te. Perciò colsi la prima occasione per esibire singhiozzi e scuotimenti di spalle e stiramenti di collo; dopo di che, perché l operazione fosse completa, bisognava consumare la frase fatale. La scrissi su un foglio di quaderno che ripiegai in otto pronto per un destinatario ancora da trovare. Frugando nella memoria recente trovai solo qualche spintone, un inizio di litigio, poche occhiate storte, finché mi parve ingiuria di qualche rilievo un «Pazza!» detto qualche ora prima tra serio e scherzoso da Elena, spensierata compagna che amava cantare; mi convinsi di avere avuto da lei una gravissima offesa e fu lei a ricevere il drammatico messaggio: «Ho pianto per te». Per fortuna, quando ho veramente pianto per qualcuno, non avevo più bisogno di dirlo, ma se non avessi consumato in situazioni vicarie il di più di sentimento che cercava un uscita, quante volte e a quanti uomini avrei detto «Ho pianto per te»!. Quasi sempre infatti parole grandi, pur di farsi pronunciare, si adattano a combinarsi con 25

26 fatti inconsistenti mentre fatti veramente degni non ricevono il sigillo di parole memorabili. Solo nelle biografie ufficiali, dove la retorica dà una mano alla storia, i grandi personaggi dicono grandi frasi in grandi momenti con grande congruenza. La vita al naturale, invece, il più delle volte è fatta a strisce, disposte in modo che, quando tentiamo di ricomporle, i colori e le ampiezze non si corrispondono. Il pizzicore è diventato bruciore, mi aggrinza i muscoli attorno agli zigomi e secerne, nel senso che mette fuori, il segreto umore delle mie brave ghiandole; in quanto proveniente dai più intimi laboratori è segreto ma una volta secreto non è più un segreto. Intanto continuo ad applicare la presente lacrimazione da affettazione di cipolle a episodi degni di affettuoso compianto. Da dove è uscita la parola affettazione? Affettare: fare a fette. Affettare: fingere, simulare. Verrà fuori una signora zuppa: pensata, vissuta, molto affettata, un po affettata. 26

27 Un moto di gioia mi sento nel cuor: bella accoppiata, Mozart e la Schwarzkopf. E la radio, vi pare un invenzione da niente? In un racconto della Fuga in Egitto la Sacra Famiglia lascia Nazareth per salvare il Bambino dalla crudeltà di Erode. Il mite Giuseppe guida un asinello grigio, al suo passo dondolante il Bimbo si è assopito, la testa affondata nel petto della mamma, il piccolo corpo raccolto nelle pieghe del manto. Triste e mite, Maria stringe la sua creatura addormentata, piange ad occhi bassi, piange senza parole e senza sospiri per non turbare lo sposo, per non svegliare il bambino e il pianto scivola sulle gote. Senza rumore. Questo mi parve il più raffinato dei modi di piangere, più ancora di quelli che vedevo al cinema. Quando facevo l amore con L. B., il fervore con cui esprimeva il suo piacere, la dimenticanza del mio essere lì, la gentilezza di modi con cui abbelliva il proprio godimento, 27

28 erano in fiero contrasto con la scomodità della posizione che non mi permetteva di lasciarmi andare; e poiché la penetrazione in assenza di compenetrazione è un vero martirio, niente di più adeguato al mio dolore del pianto della Vergine in Egitto. Ultima cipolla; poi, solo da cuocere e condire. I treni erano in perfetto orario ma io non aspettavo un treno. Ci eravamo dati appuntamento al binario 10, da qualsiasi posto venissimo, quel giorno a quella ora. Si sarebbe sorpreso della mia puntualità. Io lo portavo sempre dentro di me, incontrarlo era, ogni volta, constatare con ilare stupore che lui, così dentro di me, esisteva anche fuori di me. Per questo mi fu difficile accorgermi che non c era. Lui così presente in me e il vuoto davanti a me al binario 10, ore 16, giorno 16 agosto, alla stazione di Firenze. Ma sto veramente a Firenze? E sono veramente le sedici, cioè le quattro pomeridiane e non le sei, a volte si 28

29 fa confusione Sono al binario 10, oggi te l ho fatta, gli dirò, tu che vieni sempre primo agli appuntamenti. La stazione, le pensiline, la gente che si chiama, la gente che si abbraccia, la gente che aspetta. Come me. Quando si aspetta è meglio non muoversi, si rischia di girare a vuoto. È passata solo mezz ora, forse il suo treno ritarda (ma quale treno, da dove?). Sono passate tre ore, mi disse l orologio; tre ore era durata l incredulità che mi aveva inchiodata al binario 10. Un treno mi riportò a casa. Calmamente mangiai qualcosa, lessi un giornale, riposi la borsa nell armadio. Il pane, la carta, la borsa mi dicevano che il mondo esisteva ancora, ma quando fu il momento di andare a letto, in quale pensiero trovare il sonno, quale posizione dare alla testa, in quale parte del mondo immaginare lui? Piansi come piange un orfana che ha perduto tutto, che non sarà più bambina, che nessuno più prenderà per mano. Fu desolazione senza misura e senza 29

30 speranza, da dentro qualcosa premeva e non usciva, da fuori premeva qualcosa e non entrava, in mezzo io, compressa, schiacciata. Nel fazzoletto cercato a tentoni le lacrime sfrigolavano assieme a fanali semafori e neon delle stazioni, e non ritrovavo dentro di me la sua ferma presenza, e più piangevo più la perdevo, più la perdevo e più piangevo, in quella notte non sapevo fare che piangere. Di me, che ero stata custodia dell amore fatto uomo, rimanevano tre gusci doloranti fra le lenzuola: la testa, il petto, la pancia. All alba il telefono squillò. L appuntamento mancato aveva ragioni più che plausibili, ma il panico della fine fu indelebile, quell attesa così a lungo delusa era entrata come un addio. Quell uomo rimase accanto a me, ma incontrarlo fu ogni volta come uno di quei sogni in cui rivediamo le persone perdute e allo stesso tempo sappiamo che le abbiamo perdute, la loro vicinanza ci fa felici per il sogno ma tristi perché sappiamo che ci sveglieremo; una parte di me ri- 30

31 maneva sveglia a proteggere la parte che sognava, ma aspettava ogni volta il risveglio. Il risveglio non venne perché quell uomo mi amava e non mi avrebbe mai lasciata, ma poiché ugualmente l idea del risveglio mi riusciva insostenibile, alla fine sono fuggita. Per svegliarmi, per non avere più paura di svegliarmi. Più di una volta ho desiderato dirglielo, ma anche tra persone che si dicono tutto c è un doppio fondo che rimane chiuso. L ultima cipolla ha trovato già aperta la via e, come capita ai bulbi fortunati, penetrando più a fondo, ha ripescato uno di quei momenti in cui il dolore non ha schermi né mediazioni, un piangere che è un modo di essere più che modo di fare, che è abbandono e resa. È il più nobile e puro ma anche il più pericoloso perché consuma le nostre risorse proprio quando dovremmo impiegarle a dimensionare l immensità del dolore sulla nostra limitata capacità di soffrire. 31

32 Oggi il dolore è assestato nel fondo più fondo di me, zoccolo duro della mia geologia; quando emerge si traveste da malumore o da triste moralismo o da calma pragmatica. Talvolta ne vedo l effetto sulla faccia, un effetto Guernica: i pezzi ci sono tutti ma la bocca il naso la fronte l occhio destro l occhio sinistro stanno fuggendo l uno dall altro, come per l urto di una palla da biliardo. Se, in una giornata di quelle, da una vetrina del Corso mi viene incontro la mia faccia Guernica, accelero e guardo altrove. Mi sembra di aver fatto un buon lavoro. Il gemellaggio bulbi cipolle-bulbi oculari è un buon metodo di depurazione, e inoltre contribuisce a fertilizzare questa nostra valle di lacrime per la quale, dicono, il pianto degli uomini è come il Nilo per l Egitto. Non mi sento, però, di continuare l indagine, e del resto adesso devo procedere alla cottura. In 32

33 linea provvisoria, lasciando il tavolo per i fornelli, formulerei l ipotesi che raramente il pianto ha un rapporto diretto con ciò che ci fa soffrire, ammesso che si trovi una definizione condivisa del verbo soffrire. È certo, però, che gli ingredienti del pianto sono diversi per qualità e per dosi, e si combinano in maniera sempre diversa, proprio come in cucina. Le vie che mi porterebbero alla sorgente delle lacrime io le ho perdute, ma in compenso è rimasto, come dicevo, il piacere di andare a piangere nelle storie degli altri. Per caso si chiama catarsi? Perbacco direbbe quel personaggio di Molière ho fatto catarsi tutta la vita e non l ho mai saputo!! 33

34 Lidia Gargiulo Nelle sue varie esperienze e attività (insegnamento nei licei classici, collaborazione alla cattedra di Psicologia, addetta agli Istituti di Cultura all'estero, partecipazione a Convegni nazionali e internazionali, formazione di insegnanti, collaborazione alle Biblioteche, letture pubbliche...) Lidia Gargiulo è un' intellettuale sui generis: conduce una seria ricerca sul senso delle cose e le parole per dirlo, ma non perde di vista le forme elementari e visibili del quotidiano, guarda i suoi simili anche quando sono dissimili, fa lunghe passeggiate nei parchi e nelle vie cittadine, costruisce senza ricette cose buone in cucina, tra cui eccellenti marmellate. Ha pubblicato: Dalla selva alla rosa, A. Signorelli, 1990; Duetto per Clodia, Il Ventaglio, 1992; Insegnare il Novecento, C.I.D.I., 1994; Penelope classica e jazz, Il Ventaglio, 1994; Di chi è il bambino, Fermenti, 2003; I segni di Proserpina, La città e le stelle, 2006; L invenzione del paradiso, Manni, 2006; Le dita nell inchiostro, Armando, 2008; Ossovage, 2009; 34

35 Nacchere, Versi e racconti su periodici e riviste (Malavoglia, Tuttestorie, Insegnare, Pagine, Fermenti, Ecole...) Collabora alle riviste : Ecole; Echi di psicoanalisi;treccani Scuola online. Magna Laus al Concorso Internaz. di poesia latina Certamen Catullianum di Verona (1990) Segnalazione speciale al Concorso Internaz. di poesia Eugenio Montale (1992) Finalista al Premio Narrativa Inedita Italo Calvino (2002). 35

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