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2 Della stessa autrice abbiamo già pubblicato: Highlander. Amori nel tempo Highlander. Torna da me Di prossima pubblicazione: Il mistero del talismano perduto Prima edizione: gennaio 2012 Titolo originale: Darkfever 2006 by Karen Marie Moning 2012 by Sergio Fanucci Communications S.r.l. Il marchio Leggereditore è di proprietà della Sergio Fanucci Communications S.r.l. via delle Fornaci, Roma tel Indirizzo internet: This translation published by arrangement with Delacorte Press, an imprint of The Random House Publishing Group, a division of Random House, Inc. All right reserved. Proprietà letteraria e artistica riservata Stampato in Italia Printed in Italy Tutti i diritti riservati Progetto grafico: Grafica Effe

3 Karen Marie Moning I segreti del libro proibito

4 ANeil, che mi ha tenuta per mano per entrare insieme nella Zona Oscura.

5 When the walls come tumblin down When the walls come crumblin crumblin... JOHN COUGAR MELLENCAMP, Crumblin Down

6 Prologo La mia filosofia è alquanto semplice: qualsiasi giorno in cui nessuno tenta di uccidermi per me è un buon giorno. Ultimamente non ho avuto molti giorni buoni. Non da quando i muri che separano l Umano dal Fatato sono crollati. Prima che Il Patto fosse siglato tra Umani ed Esseri Fatati (intorno al a.c., per chi non conosce la storia del Popolo Fatato) i Cacciatori Unseelie ci davano la caccia per ucciderci come animali. Ma Il Patto proibì agli Esseri Fatati di versare sangue umano, perciò nei successivi seimila anni, secolo più secolo meno, quelli dotati della Vera Visione persone come me che non si lasciano ingannare né dal fascino né dalla magia degli Esseri Fatati erano ridotti in cattività e tenuti prigionieri fino alla morte nel Paese Fatato. Che grande differenza: morire o restare bloccati nel Mondo Fatato per tutta la vita. Adifferenza di altri che conosco, io non subisco l incantesimo degli Esseri Fatati. Avere a che fare con loro è come affrontare una qualsiasi dipendenza: se ti arrendi, ti posseggono; se resisti, non riusciranno mai ad averti. Ora che i muri sono caduti, i Cacciatori cercano nuova- 11

7 mente di ucciderci. Vogliono eliminarci neanche fossimo la peste su questo pianeta. Aoibheal, la Regina della Luce Seelie, non è più sul trono. In realtà nessuno sembra sapere più dove sia e alcuni cominciano a chiedersi se sia ancora viva. Dalla sua scomparsa, Seelie e Unseelie hanno portato la loro sanguinosa guerra in tutto il nostro mondo e, a costo di apparire sfiduciata e pessimista, penso che gli Unseelie stiano avendo decisamente la meglio sui loro fratelli più buoni. Il che è davvero, ma davvero una brutta cosa. Non che i Seelie mi piacciano di più. Proprio no. A mio parere, l unico Essere Fatato buono è quello morto. È solo che i Seelie non sono pericolosamente letali come gli Unseelie. Loro non ci uccidono a vista. Loro ci usano per uno scopo preciso. Il sesso. Pur considerandoci a malapena esseri senzienti, a letto ci apprezzano notevolmente. Quando hanno finito con una donna, per lei è un gran problema. È qualcosa che le entra nel sangue. Fare sesso non protetto con un Essere Fatato risveglia nella donna un frenetico appetito sessuale per qualcosa che non avrebbe mai dovuto cominciare a fare e che non riuscirà mai a dimenticare. Le occorre molto tempo per riprendersi, ma almeno è viva. Il che si traduce nella possibilità di lottare un altro giorno. Di tentare di riportare il nostro mondo nelle condizioni di un tempo. Di rispedire quei bastardi fatati nel dannato inferno da cui provengono. Tutto ha avuto inizio come iniziano le cose in genere. Non in una notte buia e tempestosa. Non preannunciato da minacciose colonne sonore tipo ecco-che-arriva-il-cattivo, né da sinistri ammonimenti sul fondo di una tazza da tè e nemmeno da terrorizzanti presagi in cielo. 12

8 Tutto è cominciato in sordina, in maniera innocua, come avviene di solito con le catastrofi. Una farfalla batte le ali da qualche parte e il vento cambia, un fronte caldo si scontra con uno freddo a largo della costa dell Africa occidentale e in men che non si dica ecco approssimarsi un uragano. Quando ci rendemmo conto della tempesta in arrivo, era ormai troppo tardi per fare qualcosa eccetto inchiodare assi alle finestre e tentare di limitare i danni. Mi chiamo MacKayla. Abbreviato in Mac. Sono una veggente sidhe, verità che ho accettato solo di recente e con estrema riluttanza. Là fuori eravamo più di quanti si pensasse. Il che è una cosa dannatamente buona, anche. Noi siamo quelli che limitano i danni. 13

9 1 Un anno prima... 9 luglio, Ashford, Georgia Trentaquattro gradi e mezzo. Novantasette percento di umidità. D estate qui nel Sud fa un caldo pazzesco, ma vale la pena sopportarlo in cambio di inverni tanto brevi e miti. Le stagioni, i vari climi, mi piacciono un po tutti. So apprezzare una nuvolosa, piovigginosa giornata autunnale l ideale per raggomitolarsi a leggere un buon libro tanto quanto un azzurro e terso cielo estivo, anche se non vado pazza per la neve e il ghiaccio. Non so come facciano gli abitanti del Nord a sopportarli. Tuttavia immagino che sia un bene che ci riescano, altrimenti scenderebbero tutti in massa qua da noi. Abituata alla soffocante calura meridionale, me ne stavo distesa sul bordo della piscina nel cortile posteriore della casa dei miei genitori, con addosso il mio bikini preferito a pois rosa che si abbinava perfettamente alla mia nuova manicure e pedicure rosa della serie in-realtà-non-sono-unacameriera. Ero sdraiata su un lettino coperto da un materassino, con i lunghi capelli biondi avvolti in un appuntito nodo 14

10 sulla testa, un acconciatura con la quale in realtà speri nessuno ti possa mai vedere. Mamma e papà erano andati in vacanza, per festeggiare il loro trentesimo anniversario di matrimonio con una crociera di ventuno giorni da un isola all altra dei tropici, iniziata due settimane prima a Maui e destinata a concludersi il weekend successivo a Miami. In loro assenza curavo devotamente la mia abbronzatura, concedendomi rapidi bagni nelle schiumose, fresche acque del mare, sdraiandomi al sole per asciugare le gocce d acqua sulla pelle, desiderando che mia sorella Alina fosse lì con me per passare un po di tempo insieme e magari invitare qualche amico. L ipod inserito nel Sound-Dock Bose di papà trasmetteva allegramente dal patio la compilation che avevo scelto specificatamente per prendere il sole in piscina, composta da un centinaio di singoli degli ultimi decenni più qualche brano di quelli che mi facevano sorridere, musica felicemente spensierata per trascorrere un po di tempo felicemente e spensieratamente. Al momento suonava una vecchia canzone di Louis Armstrong: What a Wonderful World. Per essere una che appartiene a una generazione che considera cool essere cinici e disincantati, a volte esco dal seminato. Oh, al diavolo! Avevo a portata di mano un bicchierone di tè dolce e ghiacciato e anche il telefono, nel caso che mamma e papà sbarcassero prima del previsto. In teoria non avrebbero dovuto raggiungere l isola successiva prima dell indomani, ma già due volte la nave aveva attraccato in anticipo sul programma. Dato che qualche giorno prima avevo accidentalmente fatto cadere il cellulare in piscina, mi portavo dietro il cordless in modo da non perdere nessuna chiamata. Il fatto era che i miei genitori mi mancavano da morire. All inizio, vedendoli partire, la prospettiva di stare da sola mi aveva entusiasmato. Vivo con loro e a volte il trambusto 15

11 trasforma casa in una sorta di Grand Central Station, con le amiche di mamma, i compagni di golf di papà, le signore della chiesa in visita, intervallati dai figli dei vicini che fanno irruzione con una scusa o con l altra, adeguatamente vestiti in calzoncini da bagno... diamine, una mossa astuta per scroccare un bagno? Ma trascorse due settimane di tanto agognata solitudine, non ne potevo più. La casa, in genere caotica, sembrava dolorosamente silenziosa, soprattutto di sera. Intorno all ora di cena mi sentivo completamente persa. Oltre che affamata. Mamma è una cuoca eccezionale, mentre io m ingozzavo di pizza, patatine e mac and cheese. Non vedevo l ora di gustare il suo pollo fritto, il purè, le erbette in padella e la crostata di pesche con la panna fatta in casa. Mi ero persino preoccupata di acquistare in anticipo tutti gli ingredienti necessari. Amo mangiare. Fortunatamente non si vede. Ho un bel seno e un bel sedere, ma vita sottile e cosce magre. Merito di un metabolismo che funziona bene, anche se mamma dice: «Sì, aspetta di arrivare a trent anni. E poi a quaranta e a cinquanta.» Al che papà ribatte: «C è più da amare, Rainey.» E lancia a mamma un occhiata che mi costringe a concentrarmi con tutte le forze sulla prima cosa che capita. Qualsiasi cosa. Adoro i miei genitori, ma questo loro comportamento diventa un EDI, ovvero un Eccesso Di Informazioni. Tutto sommato, vivo una vita felice, a parte il sentire la mancanza dei miei e il contare i giorni che mancano al rientro di Alina dall Irlanda, due problemi comunque temporanei e presto risolti. A breve, la mia esistenza tornerà a essere perfetta come prima. Che l essere troppo felice stuzzichi il Fato a recidere uno dei fili più importanti che tengono insieme la tua vita? Quando il telefono squillò, pensavo fossero i miei genitori. Così non fu. 16

12 ** * Buffo come un atto minuscolo, insignificante, ripetuto decine di volte al giorno, possa trasformarsi in una linea di demarcazione. Il sollevare un telefono. Il premere un tasto. Prima che lo facessi per quanto ne sapevo mia sorella Alina era ancora viva. Nel momento in cui schiacciai il tasto, la mia vita si divise in due epoche ben distinte: Prima della chiamata e Dopo la chiamata. Prima della telefonata, non sapevo che uso fare del termine demarcazione, una di quelle parole che conoscevo solamente perché ero un avida lettrice. Prima, mi lasciavo trasportare nella vita da un momento felice all altro. Prima, pensavo di sapere tutto. Credevo di sapere chi ero, che posto occupavo nel mondo ed esattamente che cosa mi riservava il futuro. Prima, pensavo di avere un futuro. Dopo, cominciai a scoprire che in realtà non sapevo nulla di nulla. Aspettai per due settimane, dal giorno in cui appresi che mia sorella era stata assassinata, che qualcuno facesse qualcosa qualsiasi cosa oltre a seppellirla dopo un funerale a cassa chiusa, ricoprirla di rose e affliggersi. Piangere non l avrebbe fatta tornare e di certo non mi faceva cambiare idea sulla persona che l aveva ammazzata e che se ne andava in giro da qualche parte, soddisfatto della sua visione psicotica, mentre mia sorella giaceva gelata e bianca sotto due metri di terriccio. Quelle settimane rimarranno per sempre annebbiate per me. Piansi per tutto il tempo, con la visione e la memoria offuscate dalle lacrime. Le mie erano lacrime involontarie. Era la mia anima a gocciolare e gemere. Alina non era soltanto mia 17

13 sorella: era anche la mia migliore amica. Sebbene negli ultimi otto mesi fosse andata a studiare al Trinity College di Dublino, comunicavamo incessantemente via mail e ci sentivamo al telefono almeno una volta alla settimana, confidandoci su tutto, senza avere segreti. O almeno così credevo. Ragazzi, non mi ero mai sbagliata tanto. Immaginavamo di prendere un appartamento insieme appena fosse rientrata. Progettavamo di trasferirci in città, dove finalmente avrei pensato seriamente al college e Alina avrebbe lavorato al suo dottorato nella stessa università di Atlanta. Non era un segreto che quella ambiziosa in famiglia fosse mia sorella. Da quando mi ero diplomata alle superiori, ero stata più che contenta di lavorare come cameriera al Brickyard quattro o cinque sere alla settimana, di vivere con i miei, di conservare la maggior parte dello stipendio e di seguire il minor numero possibile di lezioni della locale Pudunk University (una o due a semestre, e corsi tipo Come usare internete L etichetta del viaggiatorenon soddisfacevano i miei vecchi) in modo da fornire a mamma e papà la ragionevole speranza che un giorno mi sarei laureata e avrei trovato un lavoro vero nel mondo reale. Tuttavia, ambizione a parte, al ritorno di Alina progettavo realmente di mettere la testa a posto e di apportare qualche grosso cambiamento nella mia vita. Quando l avevo salutata mesi prima in aeroporto, il pensiero che avrei potuto non rivederla mai più viva non mi era nemmeno passato per la testa. Alina era una certezza, esattamente come l alba e il tramonto. Era felice. Aveva ventiquattro anni e io ventidue. Avremmo vissuto per sempre. I trenta erano lontani anni luce. I quaranta non erano nemmeno nella stessa galassia. La morte? Ah ah. La morte era destinata alla gente molto vecchia. Per niente. Dopo due settimane, l annebbiata cortina di lacrime co- 18

14 minciò a sollevarsi un poco. Il dolore no, quello rimaneva. Sono convinta di avere espulso dal corpo tutto il liquido che non era assolutamente necessario per mantenermi in vita. E la rabbia irrigava il mio animo disseccato. Volevo delle risposte. Volevo fosse fatta giustizia. Volevo vendetta. Ma sembravo essere l unica. Qualche anno prima avevo seguito un corso di psicologia nel quale si diceva che la gente affronta la morte superando i vari stadi del dolore. Io non mi ero crogiolata nell intontimento della negazione che dovrebbe essere la prima fase. In un attimo ero schizzata dallo stordimento alla sofferenza. Con mamma e papà lontani, ero quella che doveva identificare il corpo. Non era stato facile e in nessun modo avrei potuto negare che Alina fosse morta. Dopo due settimane, ero in piena fase rabbia. In teoria la successiva sarebbe stata quella della depressione, seguita poi, salute permettendo, dall accettazione. Scorgevo già i primi segni di accettazione in quelli che mi circondavano, come se fossero passati direttamente dall obnubilamento alla sconfitta. Parlavano di atti casuali di violenza. Dicevano la vita continua. Sostenevano la polizia sa cosa fare. Siamo in buone mani. Io non ero così positiva. Nemmeno mi fidavo della polizia irlandese. Accettare la morte di Alina? Mai. «Non ci andrai, Mac, punto e basta.» Mamma era in piedi davanti al bancone della cucina, con uno strofinaccio sulla spalla, un vivace grembiule rosso e giallo con stampati sopra bianchi fiori di magnolia legato in vita, e le mani imbiancate di farina. Infornava. Cucinava. Puliva. Infornava ancora. Era diven- 19

15 tata un vero e proprio diavolo di Tasmania della vita domestica. Nata e cresciuta nel profondo Sud, quella era la sua maniera di far fronte all accaduto. Quaggiù, le donne si rifugiano nel nido come chiocce quando la gente muore. Fanno così. Discutevamo da un ora. La sera prima, la polizia di Dublino aveva chiamato per comunicarci che con grande rammarico, a causa della mancanza di prove, alla luce del fatto che non disponeva di un solo indizio e di nessun testimone, non aveva nulla su cui indagare. In pratica, ci annunciavano ufficialmente che non gli restava loro che girare l omicidio di Alina alla Divisione casi irrisolti, che chiunque con un briciolo di cervello sapeva non essere affatto una divisione, ma un semplice schedario in un archivio scarsamente illuminato e dimenticato dai più, situato in chissà quale scantinato. Nonostante l assicurazione che il caso sarebbe stato riesaminato periodicamente alla ricerca di nuove prove, che nulla sarebbe stato tralasciato, il messaggio suonava forte e chiaro: Alina era morta, era stata spedita nel suo Paese e non era più di loro competenza. Avevano gettato la spugna. Il tutto in un tempo record, no? Tre settimane. In soli ventuno giorni. Era inconcepibile! «Puoi scommetterci quello che vuoi che se vivevamo lì non avrebbero rinunciato così in fretta» dissi amaramente. «Questo non puoi saperlo, Mac.» La mamma si tolse una ciocca di capelli biondo cenere dagli occhi azzurri cerchiati di rosso per il pianto, lasciando un velo di farina sul sopracciglio. «Dammi la possibilità di scoprirlo.» Le labbra si strinsero a formare una sottile linea bianca. «Assolutamente no. Ho già perso una figlia in quel Paese. Non intendo perderne un altra.» Impasse. Eravamo ferme a questo punto sin dalla colazio- 20

16 ne, quando avevo annunciato la mia decisione di prendermi del tempo per andare a Dublino a scoprire cosa aveva fatto realmente la polizia per far luce sull omicidio di Alina. Avrei chiesto una copia del fascicolo e fatto il possibile per motivarli a proseguire le indagini. Avrei dato un volto e una voce una voce forte e speravo molto persuasiva alla famiglia della vittima. Nessuno mi toglieva dalla testa che se mia sorella avesse avuto un suo rappresentante a Dublino, le forze dell ordine avrebbero preso più sul serio il caso. Avevo tentato di spingere papà ad andare, ma al momento non c era modo di raggiungerlo, perso com era nel suo dolore. Nonostante io e Alina avessimo visi e corporature differenti, il colore dei capelli e quello degli occhi erano identici e le poche volte che mio padre mi aveva guardato ultimamente, sul volto gli era comparsa un espressione che mi aveva fatto desiderare di essere invisibile. O bruna con gli occhi marroni come lui, anziché bionda con colpi di sole e con gli occhi verdi. All inizio, dopo il funerale, si era buttato a capofitto nell azione, facendo telefonate interminabili, contattando e parlando con tutti. L ambasciata si era dimostrata gentile, ma l aveva indirizzato all Interpol. L Interpol l aveva tenuto occupato per qualche giorno mentre valutava la situazione prima di rimandarlo diplomaticamente al punto di partenza: la polizia di Dublino. Il corpo di polizia di Dublino non aveva mai vacillato: nessuna prova, niente indizi, nulla su cui indagare. Se la cosa non la convince, signore, si rivolga alla sua ambasciata. Allora aveva telefonato alla polizia di Ashford... No, loro non potevano andare in Irlanda per occuparsi della faccenda. Aveva contattato di nuovo la polizia di Dublino... Erano sicuri di avere interrogato proprio tutti gli amici, i compagni di studio e i professori di Alina? Non avevo dovuto sentire le repliche a quella domanda dall altra parte della linea per sapere che la polizia di Dublino cominciava a irritarsi. 21

17 Alla fine si era rivolto a un vecchio amico del college che ricopriva un importante quanto segreta carica governativa. La risposta dell amico quale fosse sia stata lo aveva sgonfiato del tutto. Da allora si era chiuso la porta alle spalle, si era allontanato da noi. Il clima era decisamente cupo in casa Lane, con mamma che sembrava un tornado in cucina e papà un buco nero nel suo studio. Non potevo starmene ferma all infinito in attesa che si riprendessero. Perdevamo tempo e la pista si raffreddava sempre più. Se si poteva fare qualcosa, bisognava farlo subito, e dovevo essere io a muovermi. Dissi: «Io vado e non m importa se siete d accordo o no.» Mamma scoppiò in lacrime. Sbatté la pasta che stava lavorando sul piano dell armadietto e corse fuori dalla cucina. Dopo un minuto, sentii la porta della camera da letto sbattere. Una cosa che non riesco ad affrontare sono le lacrime di mia madre. Come se non avesse pianto abbastanza ultimamente, ero appena riuscita a scatenare un altra crisi. Mi precipitai fuori e scivolai di sopra, sentendomi la schifezza più schifezza sulla faccia della terra. Mi tolsi il pigiama, feci la doccia, mi asciugai i capelli e mi vestii, poi rimasi ferma in piedi nel corridoio per qualche istante, completamente smarrita, con gli occhi fissi sulla porta chiusa della stanza di Alina. Quante migliaia di volte ci chiamavamo a vicenda in un solo giorno, quante altre bisbigliavamo di notte, svegliandoci l un l altra per essere confortate dopo un brutto sogno? Ora mi dovevo rincuorare da sola se avevo degli incubi. Controllati, Mac. Mi scossi da quel torpore e decisi di andare al campus. Stando a casa, rischiavo di essere risucchiata anch io dal buco nero il cui diametro lo percepivo chiaramente si allargava in maniera esponenziale. Mentre mi dirigevo in centro in macchina, mi rammentai che il cellulare era finito in piscina Dio, ma era veramente 22

18 successo tutte quelle settimane prima? e decisi di fermarmi in un centro commerciale per acquistarne uno nel caso i miei avessero avuto necessità di parlarmi mentre ero fuori. Sempre che si accorgessero che ero uscita. Giunta al negozio, comprai il Nokia più a buon mercato che avevano, feci disattivare la scheda vecchia e attivare la nuova mantenendo il mio numero. Una volta acceso il telefono, scoprii di avere quattordici nuovi messaggi, un vero record per me. Difficile definirmi una gran compagnona. Non sono una di quelle sempre attaccate al telefono o fissate col servizio recall. Anzi, l idea di essere così facilmente rintracciabile mi fa venire la pelle d oca. Non ho un cellulare con macchina fotografica né la possibilità di inviare sms. Niente internet né radio satellitare, solo un account base, niente di più. L unico altro gadget tecnologico che mi serve è il mio fidato ipod: la musica è la mia grande evasione. Tornai in auto, avviai il motore affinché il condizionatore d aria potesse contrastare l implacabile caldo di luglio e cominciai ad ascoltare i messaggi registrati in segreteria. Vecchi, perlopiù, di amici di college o del Brickyard con i quali avevo parlato dopo il funerale. Presumo che, inconsciamente, credessi di non avere potuto usufruire della linea telefonica da qualche giorno prima della morte di Alina e nutrissi la speranza di ricevere un messaggio da lei. Speravo che mi avesse chiamato, di sentirla felice prima della sua morte. Speravo che potesse dirmi qualcosa in grado di alleviare il dolore che provavo, anche solo temporaneamente. Desideravo disperatamente sentire un altra volta la sua voce. Quando fui accontentata, quasi lasciai cadere il telefono. La voce che uscì dal minuscolo altoparlante suonava frenetica, atterrita. «Mac! Oddio, Mac, dove sei? Devo parlarti! Scatta subito la 23

19 segreteria! Perché diavolo hai spento il cellulare? Richiamami appena ascolti questo messaggio! Subito, non perdere tempo!» Nonostante l opprimente calura estiva, mi sentii raggelare sotto la pelle umidiccia. «Oh, Mac, è andato tutto storto! Pensavo di sapere quello che facevo. Pensavo che mi stesse aiutando, ma... dio, non riesco a credere di essere stata tanto stupida! Credevo di essere innamorata di lui e invece è uno di loro, Mac! È uno di loro!» Sbattei le palpebre, senza capire. Uno di loro? E poi, chi era questo lui che era uno di loro? Alina... innamorata? Impossibile! Alina e io ci dicevamo tutto. A parte qualche ragazzo con cui era uscita senza impegno nei primi mesi del trasferimento a Dublino, non aveva mai accennato a nessun altro uomo nella sua vita. E tanto meno a uno di cui si era innamorata! La voce venne rotta da un singhiozzo. Serrai con forza la mano sul telefono, come se così facendo potessi raggiungere mia sorella. Fare in modo che questa Alina restasse viva e al sicuro dal pericolo. Seguì una serie di scariche statiche e poi di nuovo la sua voce, più bassa, come se temesse che qualcuno origliasse. «Dobbiamo parlare, Mac! Ci sono tante cose che non sai. Mio dio, nemmeno sai chi sei! Avrei dovuto darti un sacco di spiegazioni, ma pensavo di riuscire a tenerti fuori finché la situazione si fosse fatta più sicura per entrambe. Sto cercando di tornare a casa,» s interruppe con una risatina amara, un suono caustico totalmente estraneo ad Alina «ma non credo che mi permetterà di lasciare il Paese. Ti chiamerò appena...» Altre scariche. Un sospiro. «Oh, Mac, arriva!» La voce si ridusse a un sussurro disperato. «Ascoltami bene! Dobbiamo trovare...» La parola che seguì pareva distorta o straniera, qualcosa simile a sci-sadu, pensai. «Dipende tutto da questo! Non possiamo permettergli di averlo! Dobbiamo 24

20 trovarlo prima noi! Lui mi ha mentito per tutto il tempo. Ora so che cos è e dove...» Silenzio. La telefonata era stata terminata. Attonita, rimasi seduta immobile cercando di dare un senso a ciò che avevo sentito. Mi dissi che forse possedevo una doppia personalità e che esistevano due Mac: una che aveva almeno qualche idea su quanto avveniva nel mondo attorno a lei e un altra il cui senso della realtà era a malapena sufficiente a farla vestire al mattino e a non farla sbagliare a infilarsi le scarpe. La Mac-coi-piedi-per-terra doveva essere morta insieme ad Alina, perché questa Mac ovviamente non sapeva un accidente della sorella. Lei si era innamorata e non me l aveva mai detto! Nemmeno accennato. E a quanto sembrava non era l unica cosa che mi aveva taciuto. Rimasi a bocca aperta. Mi sentivo tradita. Mia sorella mi teneva nascosta da mesi una parte importante della sua vita. In che guaio si era cacciata? Da quale pericolo cercava di tenermi lontano? Quando la situazione sarebbe stata più sicura per entrambe? Che cosa dovevamo trovare? Era stato l uomo di cui pensava di essersi innamorata a ucciderla? Perché oddio, perché non mi aveva detto il suo nome? Controllai data e ora della telefonata: il pomeriggio dopo la caduta in piscina del telefono. Fui assalita dalla nausea. Lei aveva bisogno di me e io non ero lì per lei. Mentre Alina cercava freneticamente di contattarmi, io oziavo al sole in giardino, ascoltando la mia compilation di spensierate canzonette, col cellulare in corto circuito abbandonato sul tavolo della sala da pranzo. Premetti cautamente il tasto Salva, poi ascoltai gli altri messaggi, con la speranza che mi avesse richiamato. Invece no. Stando a quanto detto dalla polizia, mia sorella Alina era morta approssimativamente quattro ore dopo avere cercato 25

21 di raggiungermi, anche se il corpo era stato rinvenuto quasi due giorni dopo in un vicolo. Una visione, questa, che mi sforzavo di allontanare dalla mente, ma senza riuscirci. Chiusi gli occhi e cercai di non indugiare sul pensiero di avere perso l ultima occasione di parlarle, tentai di non pensare che se avessi risposto forse avrei potuto salvarla in qualche modo. Questi pensieri rischiavano di farmi impazzire. Ascoltai di nuovo il messaggio. Che cos era uno sci-sadu? E che cosa intendeva con quel criptico nemmeno sai chi sei? Qual era il significato di quella misteriosa affermazione? Al terzo ascolto, sapevo il messaggio a memoria. Sapevo inoltre che in nessun modo potevo farlo ascoltare a mamma e papà. Oltre a spingerli ulteriormente nella depressione più profonda (sempre che fosse possibile farli stare peggio di quanto stavano), probabilmente avrebbero segregato me in camera e buttato via la chiave. Non ce li vedevo proprio a rischiare di giocarsi l unica figlia che restava loro. Ma... se andavo a Dublino e lo facevo sentire alla polizia, forse avrebbero riaperto il caso, no? Questa era indubbiamente una buona pista. Se Alina aveva un uomo, di sicuro qualcuno li aveva visti insieme da qualche parte. All università, nel suo appartamento, sul lavoro, in giro. Qualcuno doveva pur sapere chi era lui. E se questo uomo misterioso non era l assassino, di certo era la chiave per scoprirne l identità. Dopo tutto, era uno di loro. Mi accigliai. Chiunque, o cosa, fossero questi loro. 26

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