Inviato da TIZIANA MASTROPASQUA, TEATRO DELL ANIMA C. BAUDELAIRE SPLEEN (ANGOSCIA)

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1 Inviato da TIZIANA MASTROPASQUA, TEATRO DELL ANIMA C. BAUDELAIRE SPLEEN (ANGOSCIA) Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio Sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni, E versa abbracciando l'intero giro dell'orizzonte Una luce diurna più triste della notte; Quando la terra è trasformata in umida prigione, Dove come un pipistrello la Speranza Batte contro i muri con la sua timida ala Picchiando la testa sui soffitti marcescenti; Quando la pioggia distendendo le sue immense strisce Imita le sbarre di un grande carcere Ed un popolo muto di infami ragni Tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli, Improvvisamente delle campane sbattono con furia E lanciano verso il cielo un urlo orrendo Simili a spiriti vaganti senza patria Che si mettono a gemere ostinati E lunghi trasporti funebri senza tamburi, senza bande Sfilano lentamente nella mia anima vinta; la Speranza Piange e l'atroce angoscia dispotica Pianta sul mio cranio chinato il suo nero vessillo.

2 Inviato da ROSSELLA OLIVA, STUDENTE SICSI D. BUZZATI UNA GOCCIA D ACQUA (PAURA) Una goccia Una goccia d'acqua sale i gradini della scala. La senti? Disteso in letto nel buio, ascolto il suo arcano cammino. Come fa? Saltella? Tic, tic, si ode a intermittenza. Poi la goccia si ferma e magari per tutta la rimanente notte non si fa più viva. Tuttavia sale. Di gradino in gradino viene su, a differenza delle altre gocce che cascano perpendicolarmente, in ottemperanza alla legge di gravità, e alla fine fanno un piccolo schiocco, ben noto in tutto il mondo. Questa no: piano piano si innalza lungo la tromba delle scale lettera E dello sterminato casamento. Non siamo stati noi, adulti, raffinati, sensibilissimi, a segnalarla. Bensì una servetta del primo piano, squallida piccola ignorante creatura. Se ne accorse una sera, a ora tarda, quando tutti erano già andati a dormire. Dopo un po' non seppe frenarsi, scese dal letto e corse a svegliare la padrona. «Signora» sussurrò «signora!» «Cosa c'è?» fece la padrona riscuotendosi. «Cosa succede?» «C'è una goccia, signora, una goccia che vien su per le scale!» «Che cosa?» chiese l'altra sbalordita. «Una goccia che sale i gradini!» ripeté la servetta, e quasi si metteva a piangere. «Va, va» imprecò la padrona «sei matta? Torna in letto, marsch! Hai bevuto, ecco il fatto, vergognosa. E un pezzo che al mattino manca il vino nella bottiglia! Brutta sporca, se credi» Ma la ragazzetta era fuggita, già rincantucciata sotto le coperte. Chissà che cosa le sarà mai saltato in mente, a quella stupida" pensava poi la padrona, in silenzio, avendo ormai perso il sonno. Ed ascoltando involontariamente la notte che dominava sul mondo, anche lei udì il curioso rumore. Una goccia saliva le scale, positivamente. Gelosa dell'ordine, per un istante la signora pensò di uscire a vedere. Ma che cosa mai avrebbe potuto trovare alla miserabile luce delle lampadine oscurate, pendule dalla ringhiera? Come rintracciare una goccia in piena notte, con quel freddo, lungo le rampe tenebrose? Nei giorni successivi, di famiglia in famiglia, la voce si sparse lentamente e adesso tutti lo sanno nella casa, anche se preferiscono non parlarne; come di cosa sciocca di cui forse vergognarsi. Ora molte orecchie restano tese, nel buio, quando la notte è scesa a opprimere il genere umano. E chi pensa a una cosa, chi a un'altra. Certe notti la goccia tace. Altre volte invece, per lunghe ore non fa che spostarsi, su, su, si direbbe che non si debba più fermare. Battono i cuori allorché il tenero passo sembra toccare la soglia. Meno male, non si è fermata. Eccola che si allontana, tic, tic, avviandosi al piano di sopra. So di positivo che inquilini dell'ammezzato pensano di essere ormai al sicuro. La goccia - essi credono - è già passata davanti alla loro porta, né avrà più occasione di disturbarli; altri, ad esempio io che sto al sesto piano, hanno adesso motivi di inquietudine, non più loro. Ma chi gli dice che nelle prossime notti la goccia riprenderà il cammino dal punto dove era giunta l'ultima volta, o piuttosto non ricomincerà da capo, iniziando il viaggio dai primi scalini, umidi sempre, ed oscuri di abbandonate immondizie? No, neppure loro possono ritenersi sicuri. Al mattino, uscendo di casa, si guarda attentamente la scala se mai sia rimasta qualche traccia. Niente, come era prevedibile, non la più piccola impronta. Al mattino del resto chi prende più questa storia sul serio? Al sole del mattino l'uomo è forte, è un leone, anche se poche ore prima sbigottiva. O che quelli dell ammezzato abbiano ragione? Noi del resto, che prima non sentivamo niente e ci si teneva esenti, da alcune notti pure noi udiamo qualcosa. La goccia è ancora lontana, è vero. A noi arriva solo un ticchettio leggerissimo, flebile eco attraverso i muri. Tuttavia è segno che essa sta salendo e si fa sempre più vicina. Anche il dormire in una camera interna, lontana dalla tromba delle scale, non serve. Meglio sentirlo, il rumore, piuttosto che passare le notti nel dubbio se ci sia o meno. Chi abita in quelle camere riposte talora non riesce a resistere, sguscia in silenzio nei corridoi e se ne sta in anticamera al gelo, dietro la porta, col respiro sospeso, ascoltando. Se la sente, non osa più allontanarsi, schiavo di indecifrabili paure. Peggio ancora però se tutto è tranquillo: in questo caso come escludere che,

3 appena tornati a coricarsi, proprio allora non cominci il rumore? Che strana vita, dunque. E non poter far reclami, né tentare rimedi, né trovare una spiegazione che sciolga gli animi. E non poter neppure persuadere gli altri, delle altre case, i quali non sanno. Ma che cosa sarebbe poi questa goccia: - domandano con esasperante buona fede - un topo forse? Un rospetto uscito dalle cantine? No davvero. E allora - insistono - sarebbe per caso una allegoria? Si vorrebbe, così per dire, simboleggiare la morte? o qualche pericolo? o gli anni che passano? Niente affatto, signori: è semplicemente una goccia, solo che viene su per le scale. O più sottilmente si intende raffigurare i sogni e le chimere? Le terre vagheggiate e lontane dove si presume la felicità? Qualcosa di poetico insomma? No, assolutamente. Oppure i posti più lontani ancora, al confine del mondo, ai quali mai giungeremo? Ma no, vi dico, non è uno scherzo, non ci sono doppi sensi, trattasi ahimé proprio di una goccia d'acqua, a quanto è dato presumere, che di notte viene su per le scale. Tic, tic, misteriosamente, di gradino in gradino. E perciò si ha paura.

4 Inviato da GIANFRANCO LETTERA, STUDENTE R. CATELLO - NUNN È POESIA (GUERRA /AMORE/ANGOSCIA) Nu Sunetto e Guerra.. Uocchie ca chiagneno amare Suonno che tarda a venì vocca ca nun tene cchiù ppane guerra can un vo fernì Jesce o Sole stammatina. po o core ca nun trova cchiu pace. Sotto e bombe stai annascuso simme carne ncoppe a brace. Un Sonetto di Guerra Occhi che piangono amaro Sonno che tarda a venire Bocca che non ha più pane Guerra che non vuol finire... Esce il Sole stamattina... Per il cuore che non trova più pace; Sotto le bombe stai nascosto siamo carne sulla brace.

5 Inviato da RAFFAELE RIZZO C. COLLODI LE AVVENTURE DI PINOCCHIO (ANGOSCIA) XXII PINOCCHIO SCOPRE I LADRI E. IN RICOMPENSA DI ESSERE STATO FEDELE. VIEN POSTO IN LIBERTA' (...) "Bravo ragazzo!" gridò il contadino battendogli sur una spalla. "Cotesti sentimenti ti fanno onore: e per provarti la mia grande soddisfazione, ti lascio libero fin d'ora di tornare a casa". E gli levò il collare da cane. XXIII PINOCCHIO PIANGE LA MORTE DELLA BELLA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI: POI TROVA UN COLOMBO CHE LO PORTA SULLA RIVA DEL MARE. E LÌ SI GETTA NELL'ACQUA PER ANDARE IN AIUTO DEL SUO BABBO GEPPETTO. Appena Pinocchio non sentì più il peso durissimo e umiliante di quel collare intorno al collo, si pose a scappare attraverso i campi, e non si fermò un solo minuto, finché non ebbe raggiunta la strada maestra, che doveva ricondurlo alla Casina della Fata. Arrivato sulla strada maestra, si voltò in giù a guardare nella sottoposta pianura, e vide benissimo a occhio nudo il bosco, dove disgraziatamente aveva incontrato la Volpe e il Gatto: vide, fra mezzo agli alberi, innalzarsi la cima di quella Quercia grande, alla quale era stato appeso ciondoloni per il collo: ma guarda di qua, guarda di là, non gli fu possibile di vedere la piccola casa della bella Bambina dai capelli turchini. Allora ebbe una specie di tristo presentimento e datosi a correre con quanta forza gli rimaneva nelle gambe, si trovò in pochi minuti sul prato, dove sorgeva una volta la Casina bianca. Ma la Casina bianca non c'era più. C'era, invece, una piccola pietra di marmo sulla quale si leggevano in carattere stampatello queste dolorose parole: QUI GIACE LA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI MORTA DI DOLORE PER ESSERE STATA ABBANDONATA DAL SUO FRATELLINO PINOCCHIO. Come rimanesse il burattino, quand' ebbe compitate alla peggio queste parole, lo lascio pensare a voi. Cadde bocconi a terra e coprendo di mille baci quel marmo mortuario, dette in un grande scoppio di pianto. Pianse tutta la notte, e la mattina dopo, sul far del giorno, piangeva sempre, sebbene negli occhi non avesse più lacrime: e le sue grida e i suoi lamenti erano così strazianti e acuti, che tutte le colline all'intorno ne ripetevano l'eco. E piangendo diceva: "O Fatina mia, perché sei morta? Perché, invece di te, non sono morto io, che sono tanto cattivo, mentre tu eri tanto buona?.. E il mio babbo, dove sarà? O Fatina mia, dimmi dove posso trovarlo, che voglio stare sempre con lui, e non lasciarlo più! Più! Più! O Fatina mia, dimmi che non è vero che sei morta!... Se davvero mi vuoi bene... se vuoi bene al tuo fratellino, rivivisci...ritorna viva come prima! Non ti dispiace a vedermi solo e abbandonato da tutti? Se arrivano gli assassini mi attaccheranno daccapo al ramo dell' albero e allora morirò per sempre. Che vuoi che faccia qui, solo in questo mondo? Ora che ho perduto te e il mio babbo, chi mi darà da mangiare? Dove andrò a dormire la notte? Chi mi farà la giacchettina nuova? Oh! sarebbe meglio, cento volte meglio, che morissi anch'io! Sì, voglio morire!... ih! ih! ih!" E mentre si disperava a questo modo, fece l'atto di volersi strappare i capelli: ma i suoi capelli, essendo di legno, non poté nemmeno levarsi il gusto di ficcarci dentro le dita. Intanto passò su per aria un grosso Colombo, il quale soffermatosi, a ali distese, gli gridò da una grande altezza: "Dimmi, bambino, che cosa fai costaggiù?" "Non lo vedi? piango!" disse Pinocchio alzando il capo verso quella voce e strofinandosi gli occhi colla manica della giacchetta. "Dimmi" soggiunse allora il Colombo "non conosci per caso fra i tuoi compagni, un burattino, che ha nome Pinocchio?". "Pinocchio?.. Hai detto Pinocchio?" Ripeté il burattino saltando subito in piedi. "Pinocchio sono io!". Il Colombo, a questa risposta, si calò velocemente e venne a posarsi a terra. Era più grosso di un tacchino.

6 Inviato da ANNALISA CURZIO F. FESTA NUOVI OCCHI (ANGOSCIA) Chiuse gli occhi. Le capitava di sedersi a riposare su gradini dall aria indicibilmente tranquilla, ed ecco: la pianta accanto a lei, calma e rassicurante nel suo verde chiaroscuro, la assaliva con un unica minuscola fogliolina rossa. Le nervature della foglia le avvinghiavano la gola stringendo fino a farla soffocare, e il rosso della foglia era il suo sangue che le colava dalla bocca. E lei no, non si ribellava. Il suo corpo fremeva per gli spasmi della ricerca di ossigeno, e lei lottava contro il suo istinto, per lasciarsi schiacciare; finché la vista le si annebbiava, un fischio nelle orecchie le impediva di sentire anche il suo stesso grido, e mentre i sensi, tutti la stavano abbandonando, era la foglia stessa a lasciarla andare, impedendole persino di decidere di non reagire. Chiuse gli occhi. Le capitava, altre volte, che fosse il cielo, alto e immenso sopra la sua testa, a catturare il suo sguardo con mani invisibili nascoste nell azzurro più profondo. Allora il suo corpo restava disteso supino, schiacciato contro la terra, e quelle astratte dita le estirpavano lentamente tutti gli organi dal corpo, dilaniandone la carne nel tentativo di attirarli verso l alto, loro patria; sentiva i polmoni schiacciati sotto la gabbia toracica diventare sempre più sottili fido ad espirare anche l ultimo filo d aria. E mentre inerme a tanta violenza sentiva a poco a poco la morte sopraggiungere ecco che quelle enormi mani si aprivano, facendola rimbalzare a terra come un elastico teso fino quasi al punto di rottura e poi lasciato all improvviso. Chiuse gli occhi. Le capitava seduta a terra a gambe incrociate che migliaia di minuscoli sassolini la accerchiassero da ogni lato, con l ordine di un preciso schema geometrico, e cominciassero a tirarla ognuno verso di sé preoccupandosi solo di trovare ognuno il proprio pezzo di carne a cui anelare, e sperando ognuno di riuscire a portare a sé tutto il corpo. E mentre il corpo rimaneva immobile nell equilibrio di forze provenienti da ogni direzione, la carne le si staccava dalle ossa, le vene le esplodevano in tutto il corpo tingendolo di viola scuro, e appena prima che le ossa fossero completamente nude l energia proveniente dai sassolini la lasciava e ognuno di essi spostava la propria presenza verso un punto diverso e insignificante per lei. Chiuse gli occhi. Non era tanto quel paesaggio che la opprimeva quanto l energia che esso riusciva ad emanare, e come questa interagisse col suo corpo e la sua mente. Terrificante, come fossero gli oggetti a decidere come mostrarsi e quando. A nulla valeva spostarsi, correre, cercare posti nuovi, lanciarsi in situazioni caotiche, perdersi nei meandri più solitari della campagna, e neppure chiudersi nella sua camera, un tempo così rassicurante. Era ossessionata dalla ricerca di un paesaggio meno ostile, che non gli si rivoltasse contro con tutta la sua energia; o del più ostile dei paesaggi che decidesse di portare a termine la propria opera e di condurla alla morte, ormai agognata. Dove, dove doveva scappare? Chiuse gli occhi.

7 Percepì, forte, la sua energia roteare a spirale su se stessa, incerta sul proprio futuro. Poi la spirale si fece più larga, fino ad avvolgerle la testa e poi il torace e il corpo tutto. Roteando la distrasse da ogni possibile pensiero fino a farle dimenticare ogni meta e persino il punto di partenza, fino a farle perdere coscienza del suo tesso corpo; e il movimento divenne tanto veloce da sollevarla per un secondo da terra, prima di diventare ancora più rapido e trascinare l energia ancora più in alto, oltre la sua testa. E ricadde, l energia, circondandola di un immobilità irreale dopo tale frenesia. Aprì gli occhi. Un mondo è davanti a lei, adesso, inesplorato e meraviglioso. Il cielo è crollato, e al suo posto un infinità di cieli diversi. L universo ha perso il suo centro e milioni di punti impazziti vibrano nella ricerca di un improbabile ordine. Non un mondo nuovo ma nuovi occhi per guardarlo: il vero viaggio.

8 Inviato da ANNA URBANI, LETTERE E FILOSOFIA, STUDENTESSA E. FLAIANO TEMPO DI UCCIDERE (ANGOSCIA) Profonda bellezza di lei nel sonno. Soltanto nel sonno la sua bellezza si rivelava completamente come se il sonno fosse il suo vero stato e la veglia una tortura qualsiasi. Dormiva proprio come l Africa, il sonno caldo e greve della decadenza, il sonno del grandi imperi mancati che non sorgeranno finché il signore non sarà sfinito dalla sua stessa immaginazione e le cose che inventerà non si rivolgeranno contro di lui. Povero signore, Allora questa terra si ritroverà come sempre; e il sonno di costei apparirà la più logica delle risposte. Teneva il braccio sul ventre e la pochissima luce della notte si concentrava sull argento dell orologio che le avevo affibbiato al polso. Che cosa avrebbe fatto di quell arnese testardo e avariato, lei che non sapeva leggerci? Anche se avesse saputo leggerci, quale tristezza il giorno non lontano che il meraviglioso tic-tac si fosse fermato: forse le sarebbe parso di cattivo augurio. Certo, un orologio era la cosa più assurda ch io potessi constatare sulla pelle di quel braccio rotondo che poco prima avevo avuto attorno alla nuca. Il tempo è indivisibile come un sentimento, pensavo. Che significa un anno, un mese, un ora, quando la vera misura è in me stesso? Io sono antichissimo e mi reputo immortale, non per vincere il timore della morte, ma perché ne vedo la prova in queste montagne e in questi alberi, negli occhi di questa donna che ritrovano i miei come dopo una lunga assenza. La sua bocca era appena socchiusa per il respiro e gli occhi riposavano come due gatti discreti; e ora ne scoprivo la perfezione del taglio, il tremare improvviso delle palpebre e le grandi ciglia, che, aperte, facevano sembrare gli occhi socchiusi.

9 Inviato da GIUSEPPE DI MICHELE AIELLO, LICEO ARTISTICO G. LORCA POESIE (ANGOSCIA/TRISTEZZA) Vorrei lasciar in questo libro tutto il mio cuore. Questo libro che ha visto con me i paesaggi e vissuto ore sante. Che pena quei libri che ci riempiono le mani di rose e di stelle e lentamente passano! Che tristezza profonda guardare i pannelli di pene e dolori che un cuore porta! Veder passare gli spettri di vite che si cancellano, vedere l'uomo nudo, in Pegaso senz'ali, veder la vita e la morte, la sintesi del mondo, che in spazi profondi si guardano e si abbracciano Un libro di poesie è un autunno morto: i versi son le foglie nere sulla bianca terra, e la voce che li legge è il soffio del vento che li affonda nei cuori intime distanze -. Il poeta è un albero con frutti di tristezza e con foglie secche per pianger ciò che ama. Il poeta è il medium della Natura che spiega la sua grandezza con delle parole. Il poeta capisce tutto l'incomprensibile, e chiama amiche cose che si odiano. Sa che i sentieri son tutti impossibili, e per questo la notte

10 li percorre con calma. Nei libri di versi, fra rose di sangue, passano le tristi e eterne carovane che lasciano il poeta, quando piange la sera, circondato e stretto dai suoi fantasmi. Poesia è amarezza, celeste miele che sgorga da un invisibile favo che fabbricano i cuori. Poesia è l'impossibile fatto possibile. Arpa che invece di corde ha cuori e fiamme. Poesia è la vita che attraversiamo in ansia aspettando colui che porta la nostra barca senza rotta. Dolci libri di versi sono gli astri che passano nel muto silenzio verso il regno del Nulla, scrivendo nel cielo strofe d'argento. Oh! che pene profonde e mai riparate, le voci dolenti che cantano i poeti! Vorrei in questo libro lasciar tutto il mio cuore...

11 Inviato da CESTAIO, STUDENTE MEDICINA E CHIRURGIA E. HEMINGWAY LA DENUNCIA (ANGOSCIA) Che cosa dice? disse John. Io capisco solo un po. C è qui un uomo che conoscevamo tutti e due nei vecchi tempi. Era straordinario nel tiro al piccione e io andavo a vederlo sparare. E un fascista e per lui venire qui adesso, per qualsiasi ragione, è molto stupido. Ma è sempre stato coraggioso e molto stupido. Mostramelo. E lì a quel tavolo con gli aviatori. Qual è? Quello con la faccia molto scura e col cappello calcato su un occhio. Adesso sta ridendo. E fascista? Sì. Non avevo più visto un fascista così da vicino dopo Fuentes del Ebro. Ci sono tanti fascisti qui? Qualcuno, ogni tanto. Beve lo stesso drink che bevi tu disse John. Noi beviamo questo e altri pensano che noi siamo fascisti, eh? Senti, sei mai stato in Sud America, Costa Occidentale, Magallanes? No. E molto bello. Solo troppi oc-to-pòdi. Troppi che? Oc-to-pòdi. Pronunciava questa parola con l accento sulla penultima sillaba. Sai con otto braccia. Ah dissi. Polipi. Polipi disse John. Vedi, io sono anche sommozzatore. E un bel posto per lavorare, per fare tanti soldi, solo troppi polipi. Ti davano fastidio? Non lo so. Prima volta che io vado a Magallanes io vedo polipo. Sta in piedi così. John puntò le dita sul tavolo e sollevò le mani, alzando contemporaneamente le spalle e inarcando le sopracciglia. E più alto di me e mi guarda fisso negli occhi. Io do strattone alla corda perché mi tirino su. Quanto era grosso, John? Non so bene perché il vetro del casco me lo deforma un po. Ma la testa era comunque grossa più di un metro e venti. E se ne stava lì come sulla punta dei piedi e mi guardava così. (Mi scrutò in viso.) Allora quando vengo fuori dall acqua mi tolgono l elmo e io dico che non scendo più. E l uomo che mi dava il lavoro dice: Che ti succede, John? Ha più paura il polipo di te che tu di lui. E io gli dico: Impossibile!. Che ne diresti di un altro di quei drink fascisti? D accordo dissi. Stavo guardando l uomo seduto al tavolo. Si chiamava Luis Delgado e l ultima volta che l avevo visto era stato nel 1933 a una gara di tiro al piccione a San Sebastiano e ricordavo di essermi trovato con lui in cima alla tribuna ad assistere alla finale. Avevamo scommesso, più di quanto io potessi permettermi di scommettere e,secondo me, più di quanto lui potesse permettersi di perdere in quell anno, e quando pagò mentre scendevamo le scale, ricordavo come era stato gentile e come mi aveva fatto sembrare che pagare fosse un grande privilegio. Poi ricordavo noi due al bar che bevevamo un martini e io avevo quel meraviglioso senso di sollievo che ti viene quando grazie ad una scommessa ti sei tirato fuori da un brutto pasticcio e mi chiedevo quanto fosse stato grave per lui perderla. Io avevo sparato male tutta la settimana e lui aveva sparato benissimo, ma gli erano capitati piccioni quasi impossibili e aveva continuato a puntare su se stesso. Vogliamo fare testa e croce? domandò. Lo vuoi proprio? Sì, se sei d accordo. Quanto ci giochiamo?

12 Tirò fuori un portafoglio,ci guardò dentro e rise. Quello che vuoi tu, direi rispose. Ma se facessimo ottomila pesetas? Mi sembra che non ce ne siano altre. Allora erano quasi mille dollari. Bene dissi, e tutta la bella serenità interiore era sparita e tornava a farsi sentire quel vuoto che il gioco d azzardo produce. Chi risponde? Rispondo io. Scuotemmo le pesanti monete da cinque pesetas nelle mani a coppa: dopo di che ciascuno posò la propria sul dorso della sua mano sinistra e ogni moneta fu coperta dalla mano destra. Cos è la tua? domandò. Scoprii il grosso pezzo d argento con il profilo di Alfonso XIII, come se mostrassi un neonato. Testa dissi. Prendi questi maledetti e fammi la cortesia di offrirmi da bere. Svuotò il portafoglio. Non lo compreresti un buon fucile Purdey? No dissi. ma senti, Luis, se hai bisogno di soldi Gli stavo porgendo le verdi banconote da mille pesetas di carta pesante e lucente, rigidamente piegate. Non dire sciocchezze, Enrique disse. Abbiamo scommesso, no? Sì, ma ci conosciamo piuttosto bene. Non così bene. E vero dissi. Sei tu il giudice migliore. Allora cosa vuoi bere? Che ne dici di un gin and tonic? E un drink meraviglioso, sai? Prendemmo dunque un gin and tonic e io ero molto dispiaciuto di averlo ridotto al verde e terribilmente euforico per aver vinto quel denaro e in tutta la mia vita un gin and tonic non ebbe mai per me un miglior sapore. In queste cose è inutile mentire o fingere che non sia un piacere vincere; ma questo Luis Delgado era un signor giocatore. Non credo che sarebbe molto interessante se la gente puntasse ciò che può permettersi. Non trovi, Enrique? Non so. Io non ho mai potuto permettermelo. Non dire sciocchezze. Tu hai un mucchio di soldi No che non li ho dissi. Davvero Oh, tutti hanno soldi disse lui. Per procurarseli basta vendere qualcosa. Io non ne ho molti. Davvero. Oh, non dire sciocchezze. Non ho mai conosciuto un americano che non fosse ricco. Sospettai che fosse la verità. A quei tempi non ne avrebbe certo incontrati né al bar del Ritz né da Chicote. E adesso era tornato da Chicote e tutti gli americani che vi poteva incontrare erano quelli che non aveva incontrato mai; a parte me, e io ero uno sbaglio. Ma avrei pagato qualcosa per non averlo visto in quel locale. Tuttavia, se aveva voglia di fare una cosa così maledettamente idiota, era affar suo. Ma, guardando il suo tavolo e ricordando i vecchi tempi, ero dispiaciuto per lui ed ero ancor più dispiaciuto di aver dato al cameriere il numero dell ufficio del controspionaggio alla centrale della Seguridad, Lui avrebbe potuto mettersi in contatto con la Seguridad rivolgendosi semplicemente al centralino. Ma io gli avevo fornito la scorciatoia per far arrestare Delgado, per uno di quegli eccessi d imparzialità, di rettitudine e di ponziopilateria, nonché per quell osceno desiderio di vedere come si comporta la gente sottoposta a un conflitto emotivo, che rende gli scrittori amici così simpatici.

13 Inviato da CHIARA DE SIVO, ISTITUTO MAGISTRALE FONSECA K. HOSSEINI IL CACCIATORE DI AQUILONI (ANGOSCIA/PAURA) Che ci facevo io su quella strada nel cuore della notte? Avrei dovuto essere a letto con un libro. Stavo sognando. Al mattino mi sarei svegliato e guardando fuori dalla finestra non avrei visto soldati russi dalla faccia tetra che pattugliavano i marciapiedi, né i loro carri armati che percorrevano incessantemente le strade della mia città, con le torrette girevoli puntate un indice accusatore contro i passanti. Dietro di me, sentii Baba che prendeva accordi con Karim su come proseguire il viaggio da Jalalabad. Karim assicurava che suo fratello aveva un grande autocarro, "di prima qualità" e che il passaggio a Peshawar non avrebbe presentato nessuna difficoltà. «Vi ci potrebbe portare a occhi chiusi» disse, aggiungendo che lui e il fratello conoscevano i soldati russi e afgani dei posti di blocco, con i quali avevano stretto un accordo «di reciproco vantaggio». Non era un sogno. Per tutta conferma un Mig tagliò il cielo con un sibilo assordante. Karim gettò via il mozzicone ed estrasse una pistola dalla cintura. La puntò verso il cielo facendo il gesto di sparare, poi sputò mandando maledizioni Mi chiesi dove fosse Bassan. Poi, l'inevitabile. Vomitai su un cespuglio e i miei conati si mescolarono al rombo del Mig.

14 Inviato da NATASHA VIGLIONE, ISTITUTO MAGISTRALE FONSECA K. HOSSEINI IL CACCIATORE DI AQUILONI (ANGOSCIA/PAURA) C'erano tre ragazzi che gli bloccavano ogni via di fuga. Gli stessi tre che ci avevano minacciato sulla collina il giorno dopo il colpo di stato di Daud Khan. Wali su un lato, Kamal sull'altro e in mezzo Assef. Sentii il mio corpo rattrappirsi, mentre un brivido gelido mi correva lungo la schiena. Assef roteava il pugno di ferro con spavalderia. Gli altri due, inquieti, facevano scorrere lo sguardo da Assef ad Hassan, come se avessero intrappolato un animale feroce che solo il loro capo poteva addomesticare. «Dov'è la tua fionda, hazara?» chiese Assef rigirando il pugno di ferro nella mano destra. «Cosa avevi detto? "Ti chiameranno Assef il Monocolo." Molto spiritoso. Proprio spiritoso. Però è facile fare lo spavaldo con un'arma carica in mano.» Ero paralizzato. Li vidi stringersi attorno al ragazzo con cui ero cresciuto, il cui viso con il labbro leporino rappresentava il mio primo ricordo. «Oggi è il tuo giorno fortunato, hazara» disse Assef. Mi volgeva le spalle, ma avrei potuto scommettere che sfoderava il suo sorriso da pazzo. «Mi va di perdonare oggi. Che ne dite, ragazzi?» «Molto generoso da patte tua» si affrettò a dire Kamal. «Dati i modi villani che ci ha riservato l'ultima volta.» Cercava di imitare il tono di Assef, ma si sentiva che gli tremava la voce. Capii subito che non era di Hassan che aveva paura. Ma del fatto di ignorare che cosa avesse in testa Assef. Assef lo tacitò con un gesto altezzoso. «Bakhshida. Perdonato.» Abbassò un poco la voce. «Naturalmente in questo mondo niente è gratuito e il mio perdono ha un suo piccolo prezzo.»

15 Inviato da LINDA IRACE M. HOUELLEBECQ LA POSSIBILITÀ DI UN ISOLA (ANGOSCIA) La giovinezza era il tempo della felicità, la sua stagione unica; conducendo una vita oziosa e priva di preoccupazioni, occupata solamente in studi poco impegnativi, i giovani potevano dedicarsi senza limiti alla libera esultanza dei loro corpi. Potevano giocare, ballare, amare, moltiplicare i piaceri. Alle prime ore del mattino potevano uscire da una festa in compagnia dei partner sessuali che si erano scelti per contemplare la tetra fila degli impiegati che si recavano al lavoro. Erano il sale della terra e veniva dato loro tutto, per loro tutto era possibile. In seguito, fondata una famiglia, entrati nel mondo degli adulti, avrebbero conosciuto le seccature, la fatica, le responsabilità, le difficoltà dell esistenza, avrebbero dovuto pagare le tasse, assoggettarsi a formalità amministrative senza smettere di assistere, impotenti, al degrado irrimediabile - lento dapprima, poi sempre più rapido - dei loro corpi; avrebbero dovuto mantenere dei figli, soprattutto, come nemici mortali della propria casa; avrebbero dovuto coccolarli, nutrirli, preoccuparsi delle loro malattie, assicurare i mezzi della loro istruzione e dei loro divertimenti e contrariamente a ciò che avviene negli animali, ciò non sarebbe durato una stagione, sarebbero rimasti schiavi della loro prole sino alla fine, il tempo della gioia era definitivamente tramontato per loro; avrebbero continuato a penare fino in fondo, nel dolore e nei disturbi fisici crescenti, fino a essere definitivamente gettati tra gli scarti, una volta diventati vecchi buoni a nulla. Dai figli in cambio non avrebbero affatto ricevuto riconoscenza, anzi, i loro sforzi, per quanto accaniti, non sarebbero mai stati ritenuti sufficienti, fino alla fine sarebbero stati ritenuti colpevoli per il semplice fatto di essere genitori. Da questa vita dolorosa, segnata dalla vergogna, ogni gioia sarebbe stata spietatamente bandita. scomparse le promesse di un corpo adolescente entriamo nella vecchiaia dove ci attendono soltanto la memoria vana dei nostri giorni scomparsi soprassalti di odio e la nuda disperazione.l importanza incredibile che assumeva il sesso per gli esseri umani ha sempre gettato i loro commentatori neoumani in uno sbalordimento inorridito. Era penoso vedere Daniel 1 avvicinarsi a poco a poco al Segreto Malvagio ( ) Nel corso delle varie epoche, la maggior parte degli uomini con l arrivo della vecchiaia aveva ritenuto corretto alludere ai problemi del sesso come se fossero solamente ragazzate di nessun conto, e considerare che i veri argomenti, gli unici degni dell attenzione di un uomo fatto, fossero la politica, gli affari, la guerra. La verità, all epoca di Daniel 1 cominciava a venire a galla; appariva sempre più chiaramente e risultava sempre più difficile da dissimulare, che i veri scopi degli uomini, i soli che avrebbero perseguito spontaneamente se ne avessero avuto la possibilità, erano di ordine sessuale. ( ) Questa subordinazione dell individuo alla specie, basata su meccanismi biochimici immutati, restava altrettanto forte nell animale umano, con l aggravante che le pulsioni sessuali, non limitate ai periodi di calore, potevano esercitarvisi in permanenza i racconti di vita umani ci mostrano per esempio, con evidenza che il mantenimento di un aspetto fisico suscettibile di sedurre i rappresentati dell altro sesso, era l unica vera ragione d essere della salute, e che la cura minuziosa del corpo, cui i suoi contemporanei dedicavano una parte crescente del loro tempo libero, non aveva altro obiettivo.

16 inviato da ORNELLA GONZALES Y REYERO M. KUNDERA L INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL ESSERE (ANGOSCIA) Deve chiederle di tornare a Praga per sempre? È una responsabilità che lo spaventa. Se adesso la invitasse a casa sua, lei verrebbe, per offrirgli tutta la sua vita. Oppure non deve più sentirla? In tal caso, Tereza rimarrà una cameriera in un ristorante di provincia e lui non la rivedrà mai più. Voleva o no che lei lo raggiungesse? Guardava in cortile, gli occhi fissi sul muro di fronte, e cercava una risposta. Ritornava sempre a vederla distesa sul suo divano; non gli ricordava nessuna persona della sua vita passata. Non era né un amante né una moglie. Era un bambino che lui aveva tirato fuori da una cesta spalmata di pece e aveva adagiato sulla riva del proprio letto. Si era addormentata. Lui le si inginocchiò accanto. Il respiro febbricitante si fece più rapido, si sentì un debole lamento. Appoggiò il viso a quello di lei e le sussurrò nel sonno parole rassicuranti. Dopo qualche istante gli parve che il respiro si fosse calmato e che il viso di lei si sollevasse meccanicamente verso il suo. Sentiva dalle sue labbra l odore un po acre della febbre e lo aspirò come se avesse voluto impregnarsi dell intimità del suo corpo. Allora si immaginò che lei fosse lì da lui già da molti anni e che stesse morendo. All improvviso ebbe la chiara sensazione che non sarebbe sopravvissuto alla sua morte. Le si sarebbe disteso accanto e avrebbe desiderato di morire insieme a lei. Premette il viso sul cuscino accanto alla sua testa e rimase così a lungo. Adesso stava alla finestra e tornava con il pensiero a quell istante. Che altro poteva essere se non l amore, che era venuto in quel modo da lui a farsi conoscere? Ma era davvero l amore? Quel voler morire accanto a lei era evidentemente un sentimento eccessivo: era solo la seconda volta in vita sua che la vedeva! Non si trattava piuttosto dell isteria di un uomo che, scoprendo nel profondo della sua anima la propria incapacità di amare, aveva cominciato a fingere l amore con se stesso? D altra parte, il suo subconscio era tanto vigliacco da scegliere per la sua commedia quella povera cameriera di provincia che non aveva praticamente nessuna possibilità di entrare nella sua vita! Guardava i muri sporchi del cortile e si rendeva conto di non sapere se fosse isteria o amore. E gli dispiaceva che in una situazione simile, quando un vero uomo avrebbe saputo immediatamente come agire, lui esitava privando in tal modo l istante più bello della sua vita (era in ginocchio al capezzale di lei e gli sembrava di non poter sopravvivere alla sua morte) del suo significato. Se la prese con se stesso, ma alla fine si disse che in realtà era del tutto naturale non sapere quel che voleva. Non si può mai sapere che cosa si deve volere perché si vive una vita soltanto e non si può né confrontarla con le proprie vite precedenti, né correggerla nelle vite future. È meglio stare con Tereza o rimanere solo? Non esiste alcun modo di stabilire quale decisione sia la migliore, perché non esiste alcun termine di paragone. L uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni. Come un attore che entra in scena senza aver mai provato. Ma che valore può avere la vita se la prima prova è già la vita stessa? Per questo la vita somiglia sempre a uno schizzo. Ma nemmeno «schizzo» è la parola giusta, perché uno schizzo è sempre un abbozzo di qualcosa, la preparazione di un quadro, mentre lo schizzo che è la nostra vita è uno schizzo di nulla, un abbozzo senza quadro. «Einmal ist keinmal». Tomáš ripete tra sé il proverbio tedesco. Quello che avviene soltanto una volta è come se non fosse mai avvenuto. Se l uomo può vivere solo una vita, è come se non vivesse affatto.

17 Inviato da MARINACCIO A. LERNET-HOLENIA LO STENDARDO (ANGOSCIA) infine giunsi in una sala dove un grande fuoco ardeva dentro un caminetto e alcuni sottufficiali erano intenti a portare verso il fuoco fasci interi di bandiere e stendardi. Rimasi a guardarli per un momento, poi chiesi che cosa stessero facendo. Stiamo bruciando le bandiere, risposero per non lasciarle cadere in mano al nemico. La seta delle bandiere che quegli uomini portavano verso il caminetto a fasci, come fascine, strascicava sul pavimento mandando un fruscio come di foglie secche. E i lunghi nastri delle bandiere seguivano, strascicando, la vecchissima e logora seta insanguinata che sfrascava e frusciava. Quegli uomini stavano bruciando le insegne di tutto l esercito. Facendo leva sul ginocchio spezzavano le aste dipinte e scanalate e poi gettavano nel fuoco ogni cosa:broccato,legno, seta e serti di alloro. Tutto era arido e secco. Le fiamme si levavano altissime, crepitando. E divoravano le bandiere. Ma nell istante successivo avrei voluto strapparla di nuovo alle fiamme, così come su un ponte incendiato un alfiere strapperebbe al fuoco l insegna che gli è affidata, ma ormai era troppo tardi. Le fiamme l avevano già afferrata. Le bandiere bruciavano e gli stendardi avvampavano, io fissavo il luogo, le fiamme infuriavano e le insegne si dissolvevano in mucchietti di brace sanguigna. Ma nello stesso momento in cui si dissolvevano mi pareva che si risollevassero. Come fiamme che tornano a levarsi alte, le bandiere risorgevano dalla brace. Fissando il fuoco vedevo, sopra le bandiere che bruciavano e si dissolvevano, risollevarsi tutto un dedalo d insegne, una spettrale selva di bandiere e stendardi, non più di velluto, seta e broccato, ma fatti interamene di quelle stesse fiamme che frusciavano e crepitavano. E non erano più le vecchie bandiere con le caratteristiche bordure a mezze losanghe bianco-rosse e giallo-nere, erano bandiere nuove. Erano un intera selva e svettavano sopra tutto il popolo. Poi il fuoco si afflosciò su se stesso,la visione scomparve, solo poche isolate fiammelle guizzarono ancora qua e là nel nero antro del caminetto, ma alla fine anch esse si spensero, e non rimase altro che un mucchio di cenere grigia. Mi ritrovai ancora fermo davanti a quella cenere dopo che i sottufficiali se n erano già andati da un pezzo. Il rogo era finito, io mi riscossi e mi allontanai anch io

18 inviato da HEIDI MONTI L. LEVI UNA BAMBINA E BASTA (ANGOSCIA/PAURA) Ecco, siamo nella nostra casa striminzita e rappezzata e con Maria, la nonna e i loro litigi ora siamo davvero stretti. La sera ci lasciano restare un po' alzate con loro carne se fossimo diventate più grandi, mentre in verità è passato appena un anno da quando correvamo a piedi scalzi a Villa Sciarra. Nella penombra soffice e calda, quando c'è la corrente elettrica ascoltiamo tutti insieme la radio. Risuonano frasi misteriose scandite regolarmente a spezzare i nostri programmi preferiti. «Il nonno ha la barba bianca...ripetiamo...il nonno ha la barba bianca...». Sono messaggi che vanno lontano, dove ancora combattono...meglio non sapere, non capire troppo, come succede prima di addormentarsi quando tutto si confonde: è più dolce la nebbiolina ed essere cullati da quella nenia magica e amica. Alla radio scrivo un giorno una lettera per partecipare a un gioco, forse un concorso. Sono ancora nel cerchio di mia madre e così corro a fargliela leggere, prima d'imbucare il foglietto nitido dove ho sforzato la scrittura al meglio. «Cara radio» comincia la letterina, «sono una bambina ebrea...». Mia madre legge e con un grande gesto come di teatro comincia a strappare il foglio scritto in pezzi sempre più piccoli. La guardo sbalordita: che grande errore ci può mai essere? E anche se c'è da correggere, perché questo insolito rompere tutto? Dispetti così la mamma non li aveva mai fatti. Mamma non sembra arrabbiata, anzi, è quasi allegra e butta i pezzetti del mio lavoro in aria come se fossero coriandoli di carnevale. La guardo irosa e offesa. Anche mamma mi guarda, ma con una specie di ilare indulgenza: «Non sei una bambina ebrea, hai capito? Hai capito? Sei una bambina. Una bambina e basta». Una bambina e basta.

19 Inviato da STEFANO MARRANGHELLO A. MACHADO POESIE SCELTE (ANGOSCIA) Le dodici batteva l orologio Ed eran dodici Colpi di vanga in terra La mia ora! gridai Oh non temere Mi rispose il silenzio tu non vedrai cadere la finale goccia nella clessidra tremolante. Ancora molte ore dormirai Sopra la vecchia spiaggia, e una pura mattina troverai la tua barca ormeggiata a un altra riva.

20 Inviato da GIUDITTA PAUDICE L. MANDARINO QUEL GIORNO I GIORNI (ANGOSCIA) Pilato non riusciva a prendere sonno. Uscì a osservare le stelle e una luna luminosa e rotonda. Poche voci della Natura in quella Gerusalemme inquieta e bellissima. Un suono, come di cetra, triste e malinconico, impregnava uno strano silenzio, urlato dentro il suo petto. Le orecchie tese e pronte non percepivano rumore, solo il cuore pulsava e sentiva malessere. Pilato amava la notte e le sue stranezze, ma questa notte lo teneva come sospeso, in attesa di un volo. Il silenzio della notte è vita e profezia. Ci si mette in ascolto e vi si sente la circolazione dei sogni. Si intuiscono il dolore, la miseria e la grandezza. Le passioni e le infamie. Il silenzio della notte è un grande libro aperto nel quale si scrive e si legge il cammino degli uomini. Certamente non avevano nulla a che fare, queste sue sensazioni, con quanto gli era stato riferito e con quanto lui stesso aveva consentito: l'arresto di quell'uomo, un vagabondo, in giro per la città e i villaggi della Palestina; un certo Gesù, così malvisto dai capi della Sinagoga. Roba da poco, di normale amministrazione in quel Paese così difficile. All'indomani avrebbe risolto la faccenda e tranquillizzato i gran sacerdoti che, gli dicevano, erano totalmente terrorizzati da quel vagabondo predicatore.che cosa poteva dire mai di così terribile? E perché poi non ascoltarlo, se non possedeva neppure un'arma e i suoi pochi seguaci erano solo degli straccioni? La luna ora sembrava velarsi e adombrarsi pur senza nubi. Il silenzio era sempre più pieno e gonfio di quel suono triste di cetra esistente solo dentro di lui. Passare dall'inquietudine alla paura è un processo rapido, ma egli sapeva dominarsi e vincere ogni sorta di timore. Solo gli veniva da riflettere sulla paura dei gran sacerdoti, che alimentava in loro un odio enorme, inspiegabile proprio per tale sproporzione. Ma bisognava pur convivere in un Paese come quello e con capi come quelli. Solo a tratti la sua razionalità, la sua capacità di discernimento rapido gli offrivano momenti di serenità, come un appiglio solido e concreto in quel fluttuare di sensazioni strane. Vedremo' pensò. 'Credo che i sacerdoti si faranno sentire. Li terrò a bada, li tranquillizzerò facendo in modo che si sentano rispettati. Poi risolvano a modo loro le loro questioni. E' importante che Roma ne venga tenuta fuori. ' Ombre dense vagavano in quella notte chiara di luna piena, tanto da destare la sua attenzione e da costringerlo a seguirle con gli occhi, come corpi reali in movimento. Ogni tanto metteva mano alla spada per cercare una concretezza di esistenza in oggetti di sua conoscenza, come una certezza indubitabile per i suoi sensi e la sua ragione. Era una notte lunga. L'alba esitava, con timidissimi lucori per tempi interminabili. "Eh, si! Sia quello che deve essere!" Esclamò Pilato. Deciso e sicuro rientrò nelle sue interne stanze, per consultare Lari e Penati. Incominciò ad apparire l'alba, prima un po livida, incerta, poi nell'esplosione dei suoi colori. Le cose ripresero le normali dimensioni. La Natura si risvegliò, ma in una totale mancanza di suoni, come di morte. Improvvisi rumori, urla, scalpitii invasero i luoghi intorno al palazzo. Rumori come scaturiti dal nulla, voci sboccate dal seno della terra, improvvisamente spalancata. Le urla penetrarono fin nelle remote stanze facendo sobbalzare Pilato. Le guardie, i soldati, i centurioni riempirono il Palazzo. Bloccarono le entrate. Si posero in difesa davanti a quel movimento forsennato di uomini. Poi apparve un uomo, malconcio, spintonato, quasi sollevato di peso, attorniato da uomini furenti, accesi, dalle bocche aperte piene di urla, che cangiavano colore per la rabbia e il livore che li divorava, seguiti, un po' più discosti, dai gran sacerdoti, visibili per le loro vesti, ma uguali nei volti. Tutti i volti sembravano uno solo,

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