MATTHEW PEARL L'OMBRA DI EDGAR (The Poe Shadow, 2006)

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1 MATTHEW PEARL L'OMBRA DI EDGAR (The Poe Shadow, 2006) Ai miei genitori NOTA DELL'EDITORE: Il mistero della strana morte di Edgar Allan Poe nel 1849 viene svelato nelle pagine che seguono. Vi rivelerò, Vostro Onore e signori della Corte, la verità sulla morte di quest'uomo e sulla mia vita, una vicenda mai narrata finora. Per quanto sia stato privato di tutto, mi rimane ancora una cosa: questa storia. Oggi sono presenti in aula alcuni abitanti della nostra città che hanno cercato di farmi tacere per sempre. Seduto qui tra voi, vi è chi ancora mi reputa un criminale, un bugiardo, un reietto, un assassino vile e scaltro. Me, Vostro Onore, Quentin Hobson Clark, cittadino di Baltimora, membro del foro e appassionato lettore. Ma questa storia non riguarda me. Se non terrete conto di null'altro, vi prego di tenere conto almeno di questo. Non ha mai riguardato me; l'ambizione non c'entra. Quel che è accaduto non è stato motivato dalla mia fortuna rispetto agli altri rappresentanti della mia classe né dalla mia reputazione agli occhi di giudici superiori. Riguarda qualcosa più grande di me, più grande di tutto questo, ovvero un uomo grazie al quale i posteri ci ricorderanno, sebbene voi l'abbiate dimenticato ancor prima che la terra ricoprisse la sua bara. Qualcuno doveva pur farlo. Non potevamo limitarci a tacere. Non potevo tacere. Quanto segue è la pura verità. E io devo raccontarvela perché sono il più vicino a essa. O meglio, l'unico ancora in vita. Una delle stranezze dell'esistenza è che solitamente sono le storie di chi non c'è più a racchiudere la verità... Scarabocchiai queste righe sulle pagine del mio taccuino (l'ultima frase è cancellata, al suo posto un «Retorico!» scritto a mano a mo' di commento). Prima di recarmi in tribunale, scribacchiai queste parole nel disperato tentativo di predispormi ad affrontare i miei diffamatori, convinti che la mia rovina fosse la loro salvezza. Poiché sono avvocato, penserete forse che la prospettiva di ritrovarmi di fronte a un'aula di curiosi ed ex amici, oltre a

2 due donne che probabilmente mi volevano bene... penserete, dicevo, che tale prospettiva non dovesse essere troppo preoccupante per un abile avvocato di Baltimora. Non è così. Per fare l'avvocato, occorre adoperarsi per gli interessi degli altri. Questa professione non prepara a dedicarsi ai propri interessi. Non prepara un uomo a salvare se stesso. Libro primo 8 ottobre 1849 Capitolo 1 Ricordo il giorno in cui tutto ebbe inizio, perché aspettavo con ansia una lettera importante. E anche perché quel giorno era previsto che mi fidanzassi con Hattie Blum. E, naturalmente, perché fu il giorno in cui lo vidi morto. I Blum abitavano poco lontano da casa mia. Hattie era la minore e la più affabile di quattro sorelle, considerate forse le più graziose di Baltimora. Ci conoscevamo da quando eravamo nati, come ci avevano spesso ripetuto nel corso degli anni. E ogni volta che qualcuno ce lo rammentava ritengo che sottintendesse anche: «E vi conoscerete per sempre, statene certi». Nonostante quelle pressioni, che avrebbero tranquillamente potuto allontanarci, già a undici anni cominciai a comportarmi come un piccolo marito nei confronti della mia compagna di giochi. Non le avevo mai fatto alcuna dichiarazione d'amore esplicita, ma mi preoccupavo della sua felicità in tanti piccoli modi mentre lei mi intratteneva conversando. Vi era qualcosa di rasserenante nella sua voce, che sovente assomigliava a una ninnananna. Crescendo, avevo sviluppato un'indole assai schiva e taciturna: quando mi trovavo in società non di rado qualcuno mi domandava se mi fossi appena svegliato. In gruppi più ristretti diventavo invece inspiegabilmente loquace, se non addirittura sconclusionato, nei miei discorsi. Pregustavo dunque le lunghe e briose chiacchierate con Hattie. Vi facevo affidamento, credo. Quando ero con lei, non avvertivo il bisogno di attirare l'attenzione su di me; ero felice e a mio agio. Orbene, dovrei precisare che non sapevo di dover chiedere la sua mano proprio la sera del giorno in cui questo racconto ha inizio. Mi stavo recando dal mio studio legale all'ufficio postale poco distante, allorché mi imbattei nella signora Blum, la zia di Hattie, una donna della buona società di

3 Baltimora. Osservò subito che avrei dovuto affidare l'incarico di ritirare la corrispondenza a uno dei miei assistenti più umili e meno indaffarati. «Voi sì che siete un bel tipo, Quentin Clark!» commentò. «Vagate per le strade quando lavorate e, quando non lavorate, avete un'espressione come se steste lavorando!» Era una tipica abitante di Baltimora; non sopportava un uomo senza a- deguati interessi economici più di quanto sopportasse una ragazza che non fosse bella. Quella era Baltimora: sotto il sole come con la nebbia di quel giorno, era un luogo assai frenetico, dove i movimenti delle persone sulle vie ben lastricate e sui gradini di marmo erano svelti e chiassosi ma privi di gaiezza. Questa non era molto presente nella nostra intraprendente città, dove le dimore, imponenti, s'innalzavano sopra un'affollata baia mercantile. Il caffè e lo zucchero giungevano dal Sudamerica e dalle isole delle Indie Occidentali a bordo di enormi velieri, e i barili di ostriche e farina partivano per Filadelfia e Washington sulle rotaie ferroviarie in rapida moltiplicazione. All'epoca, nessuno sembrava povero a Baltimora, neppure chi lo era, e i negozi parevano, uno sì e uno no, centri di dagherrotipia pronti a immortalare quel fatto per i posteri. In quell'occasione, la signora Blum sorrise e mi prese sottobraccio mentre percorrevamo la strada principale. «Be', è tutto pronto per questa sera.» «Questa sera» le feci eco, cercando di indovinare a cosa si riferisse. Peter Stuart, il mio socio, aveva accennato a una cena da un conoscente comune. Ero così preoccupato per via della lettera che dovevo ricevere da essermi completamente dimenticato dell'impegno fino a quell'istante. «Questa sera, certo, signora Blum! Non vedo l'ora.» «Sapete...» continuò «sapete, signor Clark, che solo ieri ho udito alcune persone parlare della cara signorina Hattie in Market Street?» La sua generazione chiamava ancora Baltimore Street con il suo vecchio nome. «Sì, la definivano la ragazza da marito più affascinante di tutta Baltimora!» «Io oserei dire la più affascinante delle donne di Baltimora, comprese quelle sposate» replicai. «Senti, senti...» proseguì. «Sono commenti da farsi? Ancora celibe a ventisette anni e... Ora non interrompetemi, caro Quentin! Un giovanotto perbene non...» Non capii quel che disse in seguito, perché il frastuono di due carrozze risuonò alle nostre spalle. Se quella che sta arrivando è una vettura a nolo, pensai, spingerò dentro la cara signora Blum e offrirò il doppio della tarif-

4 fa. Quando ci superarono constatai tuttavia che erano entrambe private, e che quella davanti era un carro funebre lustro ed elegante. I cavalli tenevano la testa bassa, quasi in segno di rispetto per il loro solenne carico. Nessun altro si voltò a guardare. Dopo essermi congedato dalla mia accompagnatrice, mi ritrovai ad attraversare il viale successivo. Un branco di maiali mi passò accanto tra urla bellicose, e la mia deviazione mi condusse lungo Greene Street fino a Fayette Street, dove i due veicoli che avevo visto passare poco prima erano ora parcheggiati uno accanto all'altro. Una cerimonia ebbe inizio e improvvisamente terminò in un tranquillo cimitero lì vicino. Scrutai i presenti tra la nebbia. Era come vivere in un sogno dove ogni cosa era una macchia indistinta, e scacciai la vaga sensazione che non mi sarei dovuto trovare lì. Dalla mia posizione accanto al cancello l'orazione del sacerdote suonava attutita. Il gruppetto era così esiguo da non richiedere, suppongo, un grande sforzo alla sua voce. Erano le esequie più tristi a cui avessi mai assistito. Forse tale sensazione era accentuata dal tempo lugubre; oppure dallo scarso numero di persone intervenute: quattro o cinque uomini, il minimo indispensabile per sollevare la bara di un adulto. O forse la melanconia era imputabile soprattutto alla conclusione fredda e sbrigativa della funzione. Neppure il rito funebre del povero più indigente, neppure i servizi celebrati nel camposanto degli ebrei bisognosi poco lontano da lì... neppure quelli mostravano un'indifferenza così poco cristiana. Non vi fu nemmeno un fiore, nemmeno una lacrima. Più tardi tornai sui miei passi solo per scoprire che l'ufficio postale era chiuso. Nonostante non potessi sapere se vi fosse una lettera per me all'interno, feci rientro in studio e mi tranquillizzai. Presto avrei avuto sue notizie. Quella sera, prima della cena, mi ritrovai a fare una passeggiata da solo con Hattie Blum lungo un campo di bacche, ora dormienti per la stagione ma memori dei ricevimenti estivi a base di fragole e champagne. Come sempre, riuscii a parlare senza difficoltà con Hattie. «A volte la nostra professione è interessantissima» affermai. «Credo tuttavia che dovrei scegliere i casi con maggior discernimento. Sapete, gli avvocati dell'antica Roma giuravano di non difendere mai una causa a meno che non la ritenessero giusta. Noi, invece, accettiamo i casi se l'onorario è adeguato.»

5 «Potreste modificare il ruolo che svolgete allo studio, Quentin. Dopo tutto, la targa reca anche il vostro nome e cognome. Rendetelo più simile a voi, anziché adattarvi voi a lui.» «Dite sul serio, signorina Hattie?» Stava calando il crepuscolo, e Hattie divenne stranamente silenziosa, il che significava, temo, che io ero diventato così loquace da risultare insopportabile. Studiai il suo volto, ma nulla indicava la ragione di quel comportamento distaccato. «Ridevate al mio posto» aggiunse distrattamente, quasi sussurrando per non farsi sentire. «Signorina Hattie?» Alzò gli occhi su di me. «Pensavo solo a quando eravamo bambini. Sapete che, sulle prime, vi avevo giudicato sciocco?» «Me n'ero accorto» ridacchiai. «Mio padre accompagnava mia madre a cambiare aria quando la sua malattia si acutizzava e allora voi venivate a giocare mentre mia zia mi accudiva. Eravate l'unico che riuscisse a farmi sorridere fino al ritorno dei miei genitori, perché ridevate sempre delle cose più bizzarre.» Lo disse con nostalgia, sollevando l'orlo delle lunghe gonne per evitare che si sporcassero nel terreno fangoso. In seguito, dopo che fummo rientrati per scaldarci, Hattie prese a parlottare con sua zia, il cui atteggiamento si era irrigidito rispetto a qualche ora prima. La donna le chiese come desiderasse festeggiare il suo compleanno. «Già, si sta avvicinando» rispose Hattie. «Di solito non ci penso, zietta. Ma quest'anno...» La sua voce sfumò in un mesto borbottio. A cena, non toccò quasi cibo. Quella situazione non mi piaceva affatto. Ebbi l'impressione di essere ridiventato l'undicenne sollecito difensore della ragazza che abitava sull'altro lato della via. Hattie era stata una presenza così costante nella mia vita che qualsiasi disagio da parte sua mi turbava. È probabile che io cercassi di risollevarle il morale per un puro moto egoistico, ma in ogni caso desideravo davvero che fosse felice. Altri ospiti, come Peter, il mio socio, tentarono di rallegrarla, e li osservai uno a uno con attenzione per capire chi fosse colpevole di aver causato in lei un attacco di depressione. Ma, quella sera, qualcosa mi impediva di consolarla: il funerale cui avevo assistito. Non riuscivo a capire il perché, ma mi aveva completamente destabilizzato rendendomi inquieto. Mi sforzai di rievocarne le immagini.

6 Soltanto i quattro uomini intervenuti avevano ascoltato l'orazione del sacerdote. Uno, più alto degli altri, era rimasto verso il fondo, lo sguardo rivolto lontano, come ansioso di essere altrove. Poi, mentre si dirigevano verso la strada, mi avevano colpito le loro bocche arcigne. Pur non conoscendo i loro visi, non li avevo scordati. Solo uno aveva indugiato, rallentando i suoi passi con aria dispiaciuta, quasi mi avesse letto nel pensiero. Quell'avvenimento mi sembrava indicare una perdita davvero terribile, ma senza farle onore. In una parola, era sbagliato. Nel torpore di quella distrazione indefinita, i miei sforzi si esaurirono senza riuscire a restituire il sorriso a Hattie. Potei soltanto salutare con un inchino ed esprimere il mio rammarico impotente insieme con gli altri invitati quando lei e zia Blum furono tra i primi ad andarsene. Fui lieto allorché Peter propose di imitarle. «Ebbene, Quentin? Che cosa vi è preso?» mi domandò all'improvviso, mentre tornavamo a casa con una carrozza a nolo. Pensai di descrivergli la lugubre cerimonia, ma non avrebbe capito perché mi assillava tanto. Poi, dalla gravità della sua espressione, intuii che si riferiva a tutt'altro. «Peter» lo interrogai «a cosa alludete?» «Così avete deciso di non chiedere la mano di Hattie Blum questa sera?» proseguì, espirando forte. «Chiedere la sua mano? Io?» «Compirà ventitré anni tra qualche settimana. Oggi, per una giovane di Baltimora, equivale praticamente a essere una vecchia zitella. Non amate nemmeno un po' quella cara ragazza?» «Chi potrebbe non amare Hattie Blum? Ma aspettate, Peter, da cosa avete concluso che ci saremmo fidanzati questa sera? Avevo mai dato a intendere che quella fosse la mia intenzione?» «Da cosa ho concluso...? Non sapete forse bene quanto me che oggi è la ricorrenza del fidanzamento dei vostri genitori? Non vi è venuto in mente neppure una volta durante la serata?» In effetti, non mi era venuto in mente e, anche quando Peter mi rammentò quella coincidenza, non compresi i motivi della sua singolare supposizione. Zia Blum, aggiunse, aveva dato per scontato che avrei colto l'occasione del ricevimento per dichiararmi, e aveva persino creduto che vi avessi accennato nel pomeriggio, sicché aveva informato Peter e Hattie di quella possibilità affinché non restassero sorpresi. Dunque ero stato io la causa principale e involontaria della misteriosa angoscia di Hattie. Ero stato io il miserabile!

7 «Ci sarebbe forse stato momento più opportuno?» insistette Peter. «Un anniversario così importante per voi! Quando, altrimenti? Era un'ipotesi più che logica.» «Non mi ero reso conto...» farfugliai. «Come avete potuto non accorgervi che Hattie vi stava aspettando, che è ora di dare inizio al vostro futuro? Be', eccovi arrivato. Vi auguro di dormire bene. Probabilmente, in questo istante, la povera Hattie starà inzuppando il cuscino di lacrime!» «Non avrei mai voluto rattristarla» protestai. «Avrei solo voluto sapere quello che, a quanto pare, tutti gli altri si aspettavano da me.» Peter borbottò qualche aspra parola di approvazione, dal momento che finalmente avevo compreso il mio madornale errore. Certo che avrei chiesto la sua mano, certo che ci saremmo sposati! Hattie era sempre stata la mia buona stella. Mi illuminavo ogni volta che la vedevo, e ancor più ogni volta che eravamo lontani e pensavo a lei. Da quando ci conoscevamo, si erano verificati così pochi cambiamenti che mi era semplicemente sembrato assurdo provocarli ora con una proposta di matrimonio. «Che cosa vi passa per il capo?» parve domandarmi Peter corrugando la fronte mentre gli auguravo buona notte e chiudevo lo sportello della carrozza. Lo riaprii. «Questo pomeriggio c'è stato un funerale» dissi, deciso a cercare di riscattarmi con una spiegazione. «Sapete, l'ho veduto passare, e suppongo che mi abbia turbato per una ragione che non...» Ma no, non riuscivo ancora a trovare le parole per giustificare il suo effetto su di me. «Un funerale! Il funerale di uno sconosciuto!» sbottò Peter. «Ebbene, che cosa mai ha a che fare con voi?» Tutto, ma allora non lo potevo sapere. L'indomani mattina scesi in vestaglia e sfogliai il giornale per distrarmi. Anche se qualcuno mi avesse avvertito, non avrei potuto prevedere il mio sgomento di fronte a quanto vidi, tanto che mi scordai di tutte le altre preoccupazioni. Ad attirare la mia attenzione fu un titoletto su una delle pagine interne: Morte di Edgar A. Poe. Avrei lanciato il giornale e poi lo avrei recuperato, girando le pagine per leggere qualcos'altro; poi lessi e rilessi quel titoletto: Morte di Edgar A. Poe... illustre poeta, erudito e critico americano, all'età di trentanove anni.

8 No! Quaranta, calcolai, ma dotato di una saggezza che valeva cento volte tanto... «Nato in questa città.» Ancora no! Com'era tutto confuso, ancor prima che ne sapessi di più! Poi notai... quelle quattro parole: «Morto in questa città». In questa città? Non era una notizia telegrafata, quindi doveva essere accaduto proprio qui a Baltimora. Morto nella nostra città, e forse anche sepolto. Poteva essere che il funerale tra Greene e Fayette Street...? No! Quel misero funerale, quella cerimonia per nulla cerimoniosa, quella tumulazione nell'angusto cimitero? Quel giorno, allo studio, Peter si lanciò in un altro sermone riguardo a Hattie, ma quella notizia appresa dal giornale mi aveva incuriosito tanto che faticai a discutere qualsiasi altra questione. Mandai a chiedere conferma al becchino, il custode del camposanto. «Povero Poe...» era stata la risposta. Sì, Poe era il morto. Mentre mi precipitavo all'ufficio postale per verificare se fosse arrivata quella lettera, i miei pensieri vorticavano intorno a ciò di cui ero stato inconsapevole testimone. Una formalità così spietata era stata l'addio di Baltimora al salvatore letterario della nostra nazione, al mio autore preferito, al mio (forse) amico? Stentavo a frenare il sentimento di collera che cresceva dentro di me, una collera tale da oscurare tutto il resto. Quello che si era spento poco lontano da me era l'autore che prediligevo, ma già allora era molto di più. Probabilmente non riuscirò a spiegare in maniera sintetica e obiettiva il motivo per cui quel fatto fu tanto sconvolgente per un giovanotto con prospettive sentimentali e professionali che chiunque, a Baltimora, avrebbe reputato invidiabili. Forse dipese da questo: senza accorgermene, ero stato io, io, l'ultimo a vederlo; o meglio, mentre tutti gli altri si allontanavano frettolosi, ero stato l'ultimo a guardare la terra che tamburellava indifferente sulla sua bara, come su tutti i cadaveri anonimi del mondo. Avevo un morto come cliente e il Giorno del Giudizio come data dell'udienza. Fu quello il commento beffardo di Peter quando iniziai le mie indagini qualche settimana dopo. Il mio socio possedeva così poco il senso dell'umorismo che sarà riuscito a essere sarcastico non più di tre o quattro volte in vita sua, sicché potete immaginare quale turbamento in realtà vi era dietro quelle parole. Peter, un uomo alto e robusto, aveva solo qualche anno più di me, ma sospirò come un vecchio, soprattutto quando menzionai E-

9 dgar A. Poe. Quando ero adolescente, due caratteristiche della mia esistenza erano già apparse immutabili come il destino: la mia ammirazione per le opere letterarie di Poe e, come ho già più volte ripetuto, il mio affetto per Hattie Blum. Già da bambino, Peter aveva parlato del matrimonio fra me e Hattie con la lucidità di un uomo d'affari. Nel suo animo assennato, quel fanciullo era più grande di tutti gli altri ragazzi. Quando suo padre era morto, i miei genitori, tramite la parrocchia, avevano aiutato la signora Stuart, che era quasi caduta in disgrazia a causa dei debiti, e papà si era preso cura di Peter come di un secondo figlio. Questi gli era stato così riconoscente da fare proprie tutte le sue opinioni sulla vita con deferenza e sincerità, molto più di quanto io fossi mai parso in grado di fare. Anzi, un estraneo avrebbe potuto credere che fosse lui il Clark legittimo, e io un mediocre pretendente a quel cognome. Peter aveva condiviso persino l'avversione di mio padre per le mie preferenze letterarie. «Questo Edgar Poe,» avevano continuato ad asserire entrambi «questo Poe che leggi con tanta passione è bizzarro al di là di ogni buon gusto. Leggere per sfuggire al tedio è un semplice passatempo, non più utile che sonnecchiare nel bel mezzo del pomeriggio. La letteratura dovrebbe arricchire lo spirito; queste fantasie lo storpiano.» Era così che quasi tutti giudicavano Poe, e all'inizio non avrei dato loro torto. Ero da poco uscito dall'infanzia la prima volta che mi ero imbattuto in un'opera di Poe, un racconto intitolato William Wilson e pubblicato sul «Gendeman's Magazine». Confesso di non aver capito granché. Mi era sembrato senza capo né coda, e non ero riuscito a distinguere le parti incentrate sulla ragione da quelle incentrate sulla follia. Era stato come tentare di leggere una pagina dopo averla messa davanti allo specchio. Nessuno cercava il genio nelle riviste, e io non ne avevo scorta una maggiore quantità nel signor Poe. Ma ero soltanto un ragazzo. Avevo cambiato parere dopo aver letto Gli assassinii della Rue Morgue, un racconto d'investigazione appartenente a un genere tipico di Poe. Il protagonista è C. Auguste Dupin, un giovane francese che scopre abilmente la verità dietro l'efferato assassinio di due donne. La prima viene rinvenuta in una dimora di Parigi, conficcata a testa ingiù nel camino. Frattanto, l'altra vittima, sua madre, è stata sgozzata con tanta ferocia che, quando la polizia cerca di rimuovere il cadavere, il capo le si stacca dal busto. Nei loro alloggi vi sono alcuni oggetti preziosi in

10 bella vista, ma qualunque squilibrato si sia introdotto in casa non li ha nemmeno toccati. La singolarità del crimine riempie di sconcerto la polizia parigina, la stampa e i testimoni... tutti quanti, insomma, a eccezione di C. Auguste Dupin. Dupin capisce. Capisce che è la natura insolita e straordinaria dei delitti a renderli facilmente risolvibili, giacché li differenzia immediatamente dall'accozzaglia caotica dei crimini comuni. La polizia e la stampa hanno la sensazione che il colpevole, per quanto irrazionale, non possa essere una persona; infatti non lo è. Il ragionamento di Dupin segue un metodo che Poe chiama «raziocinio»: l'uso dell'immaginazione per effettuare l'analisi, e dell'analisi per scalare le vette dell'immaginazione. Grazie a questo processo, Dupin dimostra che a commettere quelle orribili atrocità è stato un orang-outang, incattivito dai maltrattamenti. Se fossero usciti dalla penna di una persona comune, questi particolari apparirebbero sciocchi e assurdi. Appena il lettore esprime incredulità di fronte allo svolgimento dei fatti, ogni difficoltà viene eliminata da una catena di ragionamenti irreprensibili. Poe stimola la curiosità per ciò che è possibile fino al limite, e questo trascina l'anima. Quei racconti del raziocinio (con seguiti imperniati su altri casi di Dupin) diventarono gli scritti più popolari di Poe tra una moltitudine di lettori, ma, a mio avviso, per i motivi sbagliati. I lettori passivi amavano assistere alla soluzione di un e- nigma inesplicabile, ma vi era un livello più alto di significato. Il mio oggetto finale è solamente la verità dice Dupin al suo assistente. Grazie a Dupin avevo compreso che la verità era anche l'unico obiettivo finale di Edgar A. Poe, ed era proprio quello il fattore che spaventava e confondeva tante persone. Il vero mistero non era il singolo rompicapo che la mente desiderava districare; la mente dell'uomo: era quello il mistero autentico e durevole del racconto. E avevo anche scoperto una cosa che, come lettore, mi era sconosciuta: l'immedesimazione. A un tratto mi ero sentito meno solo con le sue parole davanti a me. Forse è questa la ragione per cui la morte di Poe, che avrebbe potuto deprimere un qualsiasi altro lettore per uno o due giorni, ossessionava i miei pensieri. Mio padre amava ripetere che la verità risiede nei professionisti onesti, non nei racconti incredibili e nelle storie ingannevoli dello scrittore di un periodico. Non sapeva che cosa farsene del genio. Diceva che i membri degli eserciti dovevano adempiere ai doveri prosaici della vita, in cui la la-

11 boriosità e l'intraprendenza erano più utili del genio, troppo schizzinoso verso l'ottusità degli uomini per affermarsi sulla Terra. Operava nel settore dei conservifici, ma sosteneva che un giovanotto dovesse divenire avvocato: un'azienda completa in sé e per sé, aggiungeva con orgoglio. Peter aveva aderito a quel progetto con entusiasmo, come se si stesse imbarcando sulla prima nave in partenza per la California attratto dalle voci sulla presenza dell'oro. Dopo aver raggiunto la maturità, Peter aveva completato l'apprendistato in uno studio legale di un certo prestigio, facendosi notare per la compilazione di un'opera accurata, L'indice delle leggi del Maryland, dall'anno 1834 al Ben presto mio padre gli aveva aperto uno studio tutto suo, ed era stato chiaro che io avrei dovuto studiare e lavorare sotto la direzione del mio amico. Era un'idea troppo ragionevole per opporvisi, e infatti non avevo pensato di farlo, nemmeno per un istante, almeno per quanto mi ricordo. «Siete fortunato» mi aveva scritto Peter quando frequentavo ancora l'università. «Avrete un ufficio elegante qui con me sotto gli auspici di vostro padre e vi sposerete appena lo vorrete. A proposito, ogni fanciulla avvenente di buona famiglia vi sorride in Baltimore Street. Se fossi in voi, se avessi un viso bello solo la metà del vostro, Quentin Clark, io saprei bene che cosa fare con lo sfarzo e l'agiatezza in società!» Nell'autunno del 1849, avevo un'attività così florida da non rendermene quasi conto. Io e Peter Stuart eravamo soci eccellenti. Purtroppo entrambi i miei genitori erano morti a causa di un incidente occorso alla carrozza su cui viaggiavano mentre si recavano in Brasile per degli affari di mio padre. Là dove un tempo vi era stata la sua guida, era rimasto uno spazio vuoto. Eppure, la vita che aveva programmato per me era proseguita anche in sua assenza. Tutti - Hattie, Peter, i clienti dagli abiti ben stirati che venivano ogni giorno allo studio, l'imponente casa della mia famiglia, ombreggiata da antichi pioppi e battezzata Glen Eliza, dal nome di mia madre - e tutto ciò che mi circondava avevano seguitato a funzionare come se fossero stati azionati da un meccanismo automatico, silenzioso e intelligente. Fino alla scomparsa di Poe. La debolezza giovanile mi portava a desiderare che gli altri comprendessero tutto quanto mi riguardasse e ad avvertire l'esigenza di fare in modo che gli altri mi comprendessero. Credevo di esserne capace. Rammento la prima volta che avevo proposto a Peter di lavorare per proteggere Edgar A.

12 Poe; pensavo che il mio socio avrebbe acconsentito e speravo così di poter riferire la buona notizia al signor Poe. La mia prima lettera a Edgar Poe, datata 16 marzo 1845, era scaturita da un dubbio che mi aveva assalito mentre leggevo Il corvo, una poesia pubblicata da poco. Nei versi conclusivi, il corvo è posato su un busto di Pallade sopra la porta della mia stanza. In quelle ultime righe, l'uccello dispettoso e misterioso continua a perseguitare il giovane protagonista del poemetto, forse per l'eternità: E i suoi occhi sembrano quelli di un demone che sogna, e la luce della lampada ne riflette l'ombra sul pavimento, e la mia anima da quell'ombra che fluttua sul pavimento non si solleverà mai più, mai più! Se il corvo è sopra la porta della stanza, quale lampada alle sue spalle può proiettarne l'ombra sul pavimento? Con l'impetuosità della giovinezza, avevo scritto a Poe per appagare quella curiosità, giacché volevo essere in grado di capire ogni sfumatura del testo. Oltre al quesito, avevo allegato la quota di abbonamento per la nuova rivista «The Broadway Journal», di cui Poe era direttore, per avere la possibilità di leggere qualsiasi cosa uscisse dalla sua penna. Dopo mesi senza alcuna risposta, e senza neppure un numero del «Broadway Journal», gli avevo scritto nuovamente. Ma il silenzio si protraeva, perciò avevo inviato un reclamo a un distributore newyorkese del giornale, pretendendo che mi risarcissero l'intero abbonamento. Non volevo più nemmeno vedere quel periodico. Ma un giorno avevo ricevuto i miei tre dollari insieme a una lettera. Firmata da Edgar A. Poe. Com'era stato stupefacente, com'era stato edificante! Un visionario così superbo che si abbassava a scrivere di persona a un modesto lettore di ventitré anni. Mi aveva persino svelato il piccolo mistero riguardo all'ombra del corvo: «La mia idea era quella di un braccio portalampada fissato al muro, in alto, sopra la porta e il busto, come si vede sovente nei palazzi inglesi, e persino in alcune delle migliori dimore di New York». Ecco il perché di quell'ombra, spiegato solo per me. Poe mi aveva anche ringraziato per le opinioni letterarie che avevo espresso, incoraggiandomi a inviargliene altre. Aveva precisato che i finanziatori avevano imposto la cessazione del «Broadway Journal» dopo l'ennesima sconfitta nella batta-

13 glia tra denaro e letteratura, e di non aver mai considerato il giornale più di un'appendice temporanea agli altri suoi progetti. Un giorno, aveva concluso, ci saremmo potuti incontrare di persona, e mi avrebbe confidato i suoi propositi, chiedendomi consiglio. «Sono del tutto ignorante in campo legale» aveva ammesso. Gli avevo spedito nove lettere tra il 1845 e la sua morte, avvenuta nell'ottobre del In cambio, avevo ricevuto quattro biglietti sinceri ed educati scritti di suo pugno. I suoi commenti più vigorosi concernevano le sue ambizioni riguardo a «The Stylus», il giornale che sperava di fondare dopo aver trascorso anni a dirigere riviste altrui. Sosteneva che il suo periodico avrebbe finalmente consentito agli uomini di genio di trionfare sugli uomini di talento, agli uomini che sapevano sentire di prevalere sugli uomini che sapevano pensare. Non avrebbe elogiato un autore che non lo meritasse, e avrebbe pubblicato solo opere letterarie accomunate dalla chiarezza e, soprattutto, dalla verità. Quello era il suo sogno da molti anni. L'estate precedente alla sua scomparsa mi aveva scritto che avrebbe atteso fino al Giorno del Giudizio, se ciò avesse aumentato le sue probabilità di successo. Tuttavia, aveva specificato, si augurava di far uscire il primo numero nel gennaio dell'anno successivo. Poe, ansioso di recarsi a Richmond per raccogliere consensi e finanziamenti, era convinto che, se tutto fosse andato come previsto, il successo finale sarebbe stato assicurato. Doveva trovare fondi e sottoscrittori. Ma la cosiddetta stampa specializzata aveva continuato a ostacolarlo, alimentando sia i pettegolezzi sulle sue abitudini sregolate e immorali sia i dubbi sulla sua salute mentale, sui suoi amoreggiamenti indecorosi e in genere sui suoi eccessi. I nemici, asseriva Poe, gli davano sempre addosso perché aveva pubblicato critiche esplicite dei loro scritti e perché aveva avuto l'ardire di denunciare la totale mancanza d'originalità di autori illustri come Lowell e Longfellow. Temeva che il rancore di uomini meschini avrebbe vanificato i suoi sforzi dipingendolo come un beone, un ubriacone indegno di qualsiasi influenza pubblica. Era stato allora che gliel'avevo domandato. Gliel'avevo domandato con franchezza, forse con troppa franchezza. C'era del vero nelle accuse che udivo da anni? Lui, Edgar A. Poe, era davvero un avvinazzato che si era abbandonato a eccessi di ogni genere? Mi aveva risposto senza il minimo tono di offesa o di arroganza. Aveva giurato a me (a me, un perfetto estraneo, e un presuntuoso per giunta) di

14 essere del tutto astemio. Qualche lettore potrebbe mettere in dubbio la mia capacità di discernimento, ma il mio istinto parlava con assoluta certezza. Nella mia lettera successiva, gli avevo confermato di avere piena fiducia nella sua parola. Poi, poco prima di sigillare la busta, avevo deciso di fare di meglio. Gli avevo fatto una proposta. Avrei citato in giudizio qualsiasi falso accusatore intenzionato a intralciare il lancio di «The Stylus». Giacché in passato avevamo rappresentato gli interessi di alcuni periodici locali, avevo maturato l'esperienza necessaria. Avrei fatto la mia parte per impedire che il genio venisse calpestato. Quello sarebbe stato il mio dovere, proprio come il suo era sorprendere il mondo con i suoi scritti. «Grazie per la promessa in merito a "The Stylus"» aveva risposto. «Potete o volete aiutarmi? Non ho spazio per aggiungere altro. Faccio totale affidamento su di voi.» Tutto questo era avvenuto poco prima del ciclo di conferenze da lui tenuto a Richmond. Incoraggiato dalla sua risposta alla mia offerta, gli avevo scritto ancora, tempestandolo di domande su «The Stylus» e sugli ambienti in cui intendeva procurarsi il denaro. Speravo che mi avrebbe risposto mentre era in viaggio e pertanto mi recavo spesso all'ufficio postale e, quando il lavoro non assorbiva tutto il mio tempo, controllavo gli elenchi della corrispondenza giacente che il direttore pubblicava con regolarità sui giornali. Avevo seguitato a leggere più che mai le opere di Poe, soprattutto dopo la scomparsa dei miei genitori. Alcuni giudicavano disgustosa la mia passione per una letteratura che si soffermava così spesso sul tema della morte. In Poe, la morte, pur non essendo piacevole, non è tuttavia un argomento proibito. E non è neppure una conclusione prestabilita. La morte è un'esperienza che i vivi possono plasmare. La teologia ci insegna che gli spiriti continuano a vivere anche senza il corpo, e Poe ci credeva. All'epoca, naturalmente, Peter si era ribellato con veemenza all'idea che il nostro studio accettasse la causa di «The Stylus». «Preferirei mozzarmi una mano piuttosto che trascorrere il mio tempo a preoccuparmi di quelle maledette riviste di narrativa. Preferirei essere investito da un omnibus piuttosto che...» Avrete già capito dove voleva arrivare. Forse penserete che il vero motivo dell'opposizione di Peter fosse stata la mia incapacità di rispondere ai suoi quesiti sugli onorari. I giornali defi-

15 nivano regolarmente Poe uno squattrinato. Perché addossarci quello che gli altri avrebbero rifiutato? Avevo obiettato che la fonte dei nostri pagamenti era ovvia: la nuova pubblicazione, il cui successo era garantito. Ecco che cosa avrei voluto dirgli: «Non avete mai l'impressione che la vita da avvocato vi inaridisca? Dimenticate gli onorari! Non vorreste lavorare con l'unico obiettivo di proteggere qualcosa che sapete essere grande e che tutti gli altri cercano di dissacrare? Non desiderate contribuire a cambiare qualcosa, anche a rischio di cambiare voi stesso?». Quelle argomentazioni non avrebbero sortito alcun effetto su di lui. Quando Poe morì, Peter gioì tra sé e sé, contento che la faccenda fosse conclusa. Ma io non gioii, nemmeno un poco. Mentre leggevo gli articoli che tessevano un amaro elogio funebre di Poe, il mio desiderio di tutelare il suo nome non fece altro che acuirsi. Bisognava fare qualcosa, ancor più di prima. Essendo morto, non poteva più difendersi da solo. A mandarmi su tutte le furie era soprattutto il fatto che quei vermi irriverenti non solo infioravano i racconti con gli aspetti negativi dell'esistenza di Poe, ma si affollavano anche intorno alla scena del suo decesso come piccole mosche affamate. Ecco la prova suprema, il massimo simbolo (affermava la loro logica) di una vita moralmente fragile. La dipartita umile e squallida di Poe serviva a confermare l'oscurità della sua condotta e le imperfezioni della sua produzione causate dalle inclinazioni morbose. «Pensate alla sua triste fine», diceva in tono piagnucoloso un quotidiano. Pensate alla sua triste fine! Non al suo genio senza pari? Non alla sua maestria letteraria? Non al modo in cui accendeva la vita nei suoi lettori quando costoro non la avvertivano dentro di sé? Pensate a gettare un corpo senza vita in un rigagnolo a forza di calci e a percuoterne la gelida fronte! «Andate a visitare quella tomba di Baltimora» suggeriva il medesimo giornale «e capterete nell'aria circostante il terribile monito che l'esistenza di quest'uomo rappresenta per la nostra.» Un giorno annunciai che era venuto il momento di fare qualcosa. Peter rise. «Non potete citare in giudizio nessuno. L'uomo ormai è sottoterra!» e- sclamò. «Non avete più alcun cliente. Lasciatelo riposare in pace; lasciateci riposare.» Iniziò a fischiettare un motivetto popolare. Ogni volta che era insoddisfatto, fischiettava, anche se era nel bel mezzo di una conversazione.

16 «Sono stanco di lavorare per una manciata di spiccioli e di dover dire o fare cose diverse da quelle in cui credo, Peter. Mi ero impegnato a rappresentare i suoi interessi. Una promessa, mio caro, e non venite a raccontarmi che le promesse decadono alla morte di qualcuno.» «Probabilmente aveva accettato il vostro aiuto solo per evitare che continuaste a tormentarlo.» Notando che quella frase mi aveva infastidito, ribadì la sua tesi con un tono più comprensivo ma saccente. «Sarebbe possibile, amico mio?» Ripensai a una frase che Poe aveva inserito in una delle sue lettere concernenti «The Stylus»: «Questo è il grande scopo della mia vita. Sicuramente (a meno che non muoia) lo realizzerò». Nella medesima missiva a- veva insistito affinché smettessi di pagare l'affrancatura anticipata per la nostra corrispondenza. Si era firmato: «Il Vostro amico». E così gli avevo scritto le stesse parole, le stesse tre semplici parole tracciate con un inchiostro qualsiasi, apponendo la mia firma lì sotto come a- vrei fatto in un giuramento solenne. Chi avrebbe mai scommesso, all'epoca, che non l'avrei mantenuto? «No» risposi alla domanda di Peter. «Sapeva che sarei stato in grado di difenderlo.» Capitolo 2 La minaccia giunse un lunedì pomeriggio. Non vi furono spade, pistole o pugnali (né avrei mai creduto che il destino li avesse in serbo per me). La sorpresa assoluta di quella giornata si dimostrò più imprevedibile. Le mie visite alle sale di lettura della biblioteca di Baltimora stavano diventando un'abitudine. La causa di un grosso debitore, intrapresa più o meno in quel periodo, ci costrinse a raccogliere numerosi ritagli di giornale. Nei momenti di lavoro frenetico, Peter preferiva chiudersi in studio giorno e notte senza vedere mai un raggio di sole, perciò toccò a me coprire la breve distanza fino alla biblioteca per svolgere le ricerche. Mentre ero lì, avrei indagato anche su Edgar Poe e sulla sua morte. I tipici resoconti biografici su Poe, moltiplicatisi da quando si era diffusa la notizia della sua scomparsa, citavano alcune delle sue poesie (Il corvo, Ulalume), il luogo in cui era stato rinvenuto (il Ryan, un hotel dotato di taverna tra High e Lombard Street, che, in quella giornata elettorale, aveva anche funto da seggio), la data in cui si era spento (domenica 7 ottobre, in un letto d'ospedale) e via discorrendo. Altri articoli su Poe iniziarono a

17 comparire nei maggiori quotidiani di New York, Richmond e Filadelfia, che preferivano gli eventi dal sapore sensazionalistico. Riuscii a trovare alcuni di quegli accenni nella nostra sala di lettura. E che accenni! La sua vita era stata un deplorevole fallimento. Era stato un uomo di profonda intelligenza che aveva sprecato tutto il suo potenziale. Le sue poesie fantastiche e artificiose e i suoi racconti inquietanti erano stati contaminati troppo spesso dalla sua esistenza funesta e infelice. Aveva vissuto da ubriacone. Era spirato da ubriacone, da essere indegno e da farabutto che con i suoi scritti aveva leso solidi princìpi morali. Pochi avrebbero sentito la sua mancanza (affermava un quotidiano newyorkese). Nessuno l'avrebbe ricordato a lungo. Date un'occhiata voi stessi: Edgar Allan Poe è morto. Non conosciamo le circostanze del decesso. È stato improvviso e, giacché si è verificato a Baltimora, possiamo presumere che lo scrittore stesse tornando a New York. Questo annuncio stupirà parecchie persone, ma pochissime ne saranno addolorate. Non potevo assistere a quella dissacrazione. Volevo distogliere lo sguardo, ma al tempo stesso mi scoprii ansioso di conoscere tutto ciò che avevano scritto su di lui, per quanto fosse ingiusto. O meglio (quanto è strana la mente umana!), più quelle parole erano ingiuste e più avevo bisogno di leggerle; più erano inique e più mi sembravano fondamentali. Poi arrivò il pomeriggio freddo e piovigginoso di un giorno in cui il cielo di mezzodì era identico a quello delle sei del mattino o della sera. Una fitta nebbia sfiorava il viso al pari di una mano e penetrava negli occhi e giù per la gola. Camminavo verso la biblioteca, quando un tale mi urtò. Era alto suppergiù come me e doveva avere l'età che avrebbe avuto mio padre. In condizioni normali, lo scontro non mi sarebbe parso intenzionale, se non fosse stato per il fatto che lo sconosciuto dovette piegarsi in maniera alquanto innaturale per allungare il gomito nella mia direzione. Non era stato uno spintone, ma piuttosto un colpetto esitante, se non addirittura delicato. Mi aspettavo che mi rivolgesse delle scuse e invece l'uomo pronunciò il seguente avvertimento: «Chi interferisce giacerà là in fondo, signor Clark». Mi fulminò con un'occhiataccia che tagliò persino la fitta foschia tutt'intorno e quindi, prima che riuscissi a riflettere, svanì tra la nebbia. Mi guardai alle spalle, come se si fosse rivolto a qualcun altro.

18 No, aveva detto: «Clark». Io ero Quentin Hobson Clark, ventisette anni, un avvocato che si occupava perlopiù di cause riguardanti debiti e ipoteche. Ero il signor Clark, ed ero appena stato minacciato. Non sapevo che cosa fare. Nella confusione, avevo lasciato cadere il mio taccuino, che si era aperto a casaccio per terra. In quell'istante, mentre lo recuperavo prima che un tacco incrostato di fango lo calpestasse, mi resi conto di quanto avevo investigato su Poe. Il suo nome compariva su quasi ogni pagina della mia agenda. Compresi con chiarezza improvvisa il significato delle parole di quel tizio. Si riferivano al grande letterato. Confesso che la mia reazione stupì anche me. Divenni calmo e controllato, così misurato che Peter mi avrebbe stretto la mano con orgoglio; se tutto ciò avesse riguardato qualsiasi altra questione, beninteso. Non sarei mai potuto essere un avvocato come Peter, un uomo che si appassionava alle cause e alle deposizioni più noiose, anzi soprattutto a quelle. Benché possedessi una mente abbastanza sveglia, l'abilità non sarebbe mai riuscita a superare la passione, per quanto imparassi a memoria le pagine dei volumi di legge di Blackstone e Coke. In quel momento avevo tuttavia un cliente e una causa che non volevo fosse archiviata. Mi sentivo l'avvocato più brillante mai esistito sulla faccia della Terra. Mi riscossi quanto bastava per tuffarmi fra la moltitudine di ombrelli, e ben presto individuai la schiena dell'uomo. Aveva l'andatura rilassata di chi se ne va a zonzo, anzi di chi si gode una passeggiata estiva. Ma mi ero sbagliato, non era lui. Procedendo, notai che, tra i banchi di nebbia, tutti assomigliavano più o meno all'oggetto del mio inseguimento, persino le signore più avvenenti e gli schiavi più scuri. Quella foschia strisciante ci avvolgeva e ci fondeva tutti insieme, disturbando l'ordinato viavai. E per di più a me pareva che ciascuno facesse del suo meglio per camminare e tenere la testa in un'imitazione perfetta di quel tale, di quel fantasma. Sull'angolo, il chiarore di un lume a gas emanato da una vetrina nascosta per metà sotto il livello della strada fendeva la fitta nebbia. Proveniva dalle lampade esterne di una taverna, e pensando che potesse essere un richiamo per un individuo dalle intenzioni losche, corsi giù ed entrai. Mi feci largo tra i capannelli di avventori impegnati a bere, e alla fine di una lunga fila rie scorsi uno curvo su un tavolo. Il cappotto, un tempo elegante, era lo stesso che avevo veduto addosso al fantasma. Lo presi per un braccio. Levò piano il capo e sussultò vedendo la mia espressione indagatrice. «Uno sbaglio, signore. Signore! Un grave sbaglio da parte mia» urlò. Le

19 sue parole si spensero nel torpore dell'ebbrezza. Non era nemmeno lui. «Il signor Watchman» mi sussurrò in tono solidale un uomo ubriaco lì accanto. «Quello è John Watchman. Bevo alla sua salute, poveraccio! E bevo anche alla vostra, se volete.» «John Watchman» ripetei annuendo, anche se quel nome non significava nulla per me (se vi ero incappato nei giornali, l'avevo letto solo di sfuggita). Lasciai qualche moneta di rame affinché l'uomo potesse continuare a indulgere al suo vizio e mi affrettai a uscire per proseguire la mia ricerca. Distinsi il vero colpevole nel punto in cui la nebbia si diradava. A un tratto, in preda all'angoscia, ebbi l'impressione che tutti gli abitanti della via lo pedinassero, facendo appello al loro coraggio per dargli la caccia. Ho già detto che il nostro fantasma era alto come me? Sì, ed era vero. Ma ciò non significa che mi somigliasse in qualche modo. Anzi, forse ero l'unico per la strada a non presentare una netta somiglianza con lui. Io avevo i capelli di un castano opaco pettinati accuratamente e il volto piccolo, armonioso e ben rasato, troppo spesso definito infantile. Lui, il fantasma, aveva un fisico dalle proporzioni diverse: le sue gambe parevano lunghe quasi il doppio delle mie, tanto che, per quanto camminassi spedito, non riuscivo a ridurre la distanza tra noi. Mentre correvo nella nebbia pungente, fui assalito da pensieri frenetici e angosciosi, che mi spaventavano al di là di ogni logica. Andai a sbattere contro una spalla, contro un'altra, e una volta quasi contro tutto il corpo di un robusto individuo che avrebbe potuto appiattirmi sui mattoni rossi del marciapiede. Scivolai su un tratto sterrato, imbrattandomi di melma il fianco sinistro. Dopodiché mi ritrovai solo all'improvviso... Nessuno nei paraggi. Rimasi immobile. Ora che avevo perduto la mia preda (o che lui aveva perduto la sua), i miei occhi misero a fuoco, come se avessi inforcato un paio di occhiali. Eccomi lì, a non più di venti metri di distanza dall'angusto cimitero presbiteriano, dove le sottili lastre di pietra che sporgevano dal suolo erano solo poco più scure dell'aria. Mi domandai se lo sconosciuto mi avesse condotto fin lì di proposito mentre mi sfuggiva per mezza Baltimora oppure se si era dileguato sin dall'inizio del pedinamento, prima che mi approssimassi a quel luogo... Il luogo in cui ora Edgar Poe avrebbe dovuto riposare in pace. Molti anni prima, quando ero soltanto un adolescente, si era verificato

20 un episodio che mi pare utile raccontare. Viaggiavo in treno con i miei genitori. Benché ai familiari fosse permesso sedere nel vagone riservato alle signore, lo scompartimento era affollato, e solo mia madre aveva potuto fermarsi. Mi ero accomodato con mio padre qualche carrozza più in là, e percorrevamo il convoglio a intervalli regolari per andare dalla mamma, nell'area in cui era vietato sputare e imprecare. Dopo una di quelle brevi visite, ero tornato ai nostri posti senza papà e lì avevo trovato due uomini. Avevo spiegato loro l'errore con cortesia. Uno dei due si era adirato, ammonendomi che sarei dovuto «passare sul suo cadavere» prima di ottenere quel posto a sedere. «È proprio quello che farò, se non vi spostate» avevo ribattuto. «Come hai detto, ragazzo?» Avevo ripetuto la stessa assurda affermazione con altrettanta calma. Immaginatemi nei panni di un quindicenne esile... diciamo pure mingherlino. Di norma, mi sarei scusato con lui e avrei cercato con deferenza due posti di classe inferiore. Frattanto vi sarete chiesti del secondo intruso di questo aneddoto, l'altro ladro di sedili. Dal taglio degli occhi, si sarebbe detto che fosse il fratello del primo; dallo sguardo vacuo e dalla testa che andava su e giù, supposi che fosse ritardato. Vi sarete anche meravigliati della mia reazione. La presenza di mio padre mi aveva avviluppato fino a poco prima. Papà aveva sempre il pieno controllo su tutti coloro che lo attorniavano. Perciò, in quell'istante, era perfettamente logico che credessi anch'io di poter piegare il mondo alla mia volontà. Era stata quella la subdola natura dell'illusione. Tanto vale che finisca la storia. Quel farabutto non aveva smesso di colpirmi con violenza la faccia e la testa finché mio padre era ricomparso. Meno di un minuto dopo, lui e il controllore avevano confinato quei due tizi in un altro vagone, che sarebbe stato sganciato alla stazione successiva. «Ebbene, che cosa hai combinato, figliolo?» mi aveva chiesto papà in seguito, mentre giacevo sui sedili fiacco e stordito. «Non ho proprio potuto farne a meno, padre! Voi non c'eravate!» «Hai provocato quei signori e loro avrebbero potuto ucciderti. Che cosa avresti dimostrato allora, Quentin Hobson Clark?» Avevo guardato l'immagine sfocata di quell'uomo che mi faceva la ramanzina, torreggiando sopra di me con la sua consueta compostezza, e avevo capito la differenza tra noi. Tornai a riflettere sul nuovo avvertimento che avevo ricevuto. «Chi interferisce...» La figura del fantasma mi attanagliava la mente accanto al

21 demone sul treno della mia giovinezza. Ardevo dal desiderio di parlarne con qualcuno. In quei giorni, la mia prozia alloggiava da me per aiutarmi a sovrintendere il governo della casa. Potevo raccontarle della minaccia? Il suo commento sarebbe stato: «Qualcuno avrebbe dovuto prenderti da giovane ed educarti per bene» o qualcosa del genere. Essendo una prozia paterna, applicava la severità dei princìpi professionali di mio padre per promuovere un comportamento assennato in tutti gli altri ambiti. Elogiava papà per le sue «solide concezioni sassoni». Parte del suo affetto per lui pareva essersi riversata su di me, e mi sorvegliava con zelante attenzione. No, non feci parola dell'accaduto con lei, che di lì a poco lasciò Glen Eliza. L'avrei riferito a mio padre se fosse stato vivo? Avrei voluto dirlo a Hattie Blum. Aveva sempre ascoltato volentieri le mie avventure. Dopo l'incidente occorso ai miei genitori, era stata l'unica a parlarmi con un tono e una sicurezza capaci di sottintendere che, pur essendo morti, mamma e papà sarebbero stati sempre con me. Tuttavia, poiché non la vedevo dal giorno in cui ci saremmo dovuti fidanzare, non potevo prevedere come avrebbe giudicato il mio interesse per quella faccenda. In un certo senso, la frase del fantasma mi incuriosiva tanto quanto mi stupiva. «Chi interferisce giacerà là in fondo». Sebbene lo sconosciuto mi avesse esortato a desistere, quel monito criptico ammetteva la possibilità di «interferire» nell'opinione su Poe. In altre parole, potevo ancora modificarla. Se così si può dire, quell'avvertimento mi incoraggiò. Mi pervase un'euforia che era solo lontanamente familiare e solo in parte indesiderata. Era diversa da tutto ciò che avevo conosciuto nel mio lavoro. Durante un lungo pomeriggio, sedevo in ufficio osservando la strada dalla mia scrivania. Peter era lì accanto. Stava rimproverando il copista per la qualità di qualche deposizione, quando mi lanciò un'occhiata. Riprese il suo predicozzo, quindi tornò a guardarmi all'improvviso. «Tutto bene, Quentin?» Talvolta cadevo in una sorta di trance, fissando l'aria senza concentrarmi su nulla in particolare. Peter era divertito, ma anche un po' spaventato in quelle occasioni. Scosse rumorosamente il sacchetto di biscotti allo zenzero che stavo mangiando. «Tutto bene, Quentin?» «Tutto bene» gli assicurai. «Abbastanza bene, Peter.» Intuendo che non avrei aggiunto altro, si rivolse ancora al copista, riprendendo dal punto e- satto in cui si era interrotto. Non riuscii più a trattenermi. «Tutto bene, certo! Se si può dire che vada

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