Elena Loewenthal L ARTE DELLA LETTURA BOLLETTINO della BIBLIOTECA dell ISTITUTO BLAISE PASCAL Giaveno N 3 GENNAIO 2011
CONTA LE STELLE SE PUOI Einaudi, 2008 Quando Abramo ormai vecchissimo si lamentò con Dio per il fatto che a tutti aveva dato figli tranne che a lui e alla sua sposa Sara, Dio rispose con un gesto ed una promessa: lo portò fuori e disse: Conta le stelle se puoi tale sarà la tua discendenza. Questa citazione, scelta da Elena Loewenthal come titolo per il romanzo, non poteva essere più appropriata. E la storia di una saga familiare, quella di Moise Levi, che partì da Fossano, nel Cuneese, a ventitrè anni, con un carretto e un po di stracci, nell estate del 1872, per andare a Torino a commerciare stoffe. Non sapeva ancora che a lui sarebbero toccate due mogli, sei figli e un infinità di nipoti e pronipoti sparsi, in un secolo e più, nei cinque continenti. La saga di questa famiglia ebraica piemontese è una storia dentro e al tempo stesso fuori della Storia. E dentro, perché con una prosa leggera, calda e penetrante, la Loewenthal ci immerge nella realtà quotidiana di questo pezzo di mondo e di epoca, con i suoi colori, con il calore umano dei tanti personaggi, e ci fa toccare con mano la loro casa in via Maria Vittoria (nel quartiere che fu un ghetto fino al 1848 quando il re Carlo Alberto concesse agli Ebrei, con le Lettere Patenti, le libertà civili), il negozio della ditta che sarà Levi & Molvano. E poi i matrimoni, gli amori, i mestieri, le piccole e grandi gioie dell esistenza. Le stramberie, l umorismo, i caratteri tutti diversi e così uniti. Ed è anche fuori dalla Storia perché tutta la vicenda familiare viene immaginata con un clamoroso sfondo bugiardo: prescinde dalla Shoah e dalle leggi razziali del 1938. La Loewenthal immagina infatti, che il Fascismo prenda sì il potere nel 1922, ma termini di lì a poco nel 1924 perché Mussolini muore all improvviso, e che il re Vittorio Emanuele III abdichi a favore della repubblica nel 1938, mentre in Palestina viene fondato lo Stato d Israele. Mentre Primo Levi, in Sommersi e salvati, aveva avvertito che la Shoah non è testimoniabile: i testimoni, per il fatto che si sono salvati, sono in fondo dei traditori; la Loewenthal, tra non potere dire e dire tradendo, fa un altro passo: azzarda una sfida alla Storia e in qualche modo anche al nostro sentimento della memoria. Racconta una storia come se l orrore di ciò che è stato non fosse stato. Non sceglie il silenzio e neppure il realismo del romanzo sulla Shoah. Gioca la carta della narratrice che racconta storie, la cui legge fondamentale è che quel che si dice in una storia è più o meno vero ; del resto, l approssimazione è propria di chi racconta storie. Se la Storia ha il compito di tramandare una memoria di ciò che è stato, la LETTERATURA usa l invenzione per narrare una memoria futura e ipotetica: ciò che sarebbe potuto essere. Privilegiare la fantasia significa sfidare la morte, privilegiare la vita, rigettare il silenzio e dar voce all umanità. Nutrire l immaginazione, dunque, che proprio come le famiglie, per durare, per trasmettere una storia, deve essere prolifica.
La Loewenthal non indugia, perciò, sul ricordo della tragedia che è stata, ma prova a Nella scelta della Loewenthal c è la decisione di ricordare i morti non ricordando la morte, il buio, il silenzio, ma donando loro ancora vita, discendenza, e parole, e storia. Stavolta la storia mette fuori la Shoah e mette dentro chi non c è più, per poter raccontare una storia che diventa Storia per una volta insieme a loro, non senza di loro. E una sfida all eredità tragica che ci è stata consegnata e che di una vicenda straordinaria trasmettere l idea di che raccolto ricco e magnifico sarebbe potuto crescere. di uomini e donne ci costringe a ricordare di fatto solo la loro assenza e la loro fine, l orrore della morte. Invece la Loewenthal mette la vita al centro, laddove la morte ha cancellato tutto La forza di una storia che viene trasmessa a chi viene dopo è che aiuta la memoria non solo a ricordare, ma anche ad inventare il proprio futuro. Quello che ci attende, che attende sempre, nonostante il buio. Consigliato dalla Biblioteca
ENRICO DONAGGIO, DIEGO GUZZI A GIUSTA DISTANZA. IMMAGINARE E RICORDARE LA SHOAH L Ancora del Mediterraneo, dicembre 2009 Il problema in materia di Shoah non è ricordare per conoscere quel che non si riesce neppure ad immaginare, ma chiarire che cosa bisognerebbe rammentare e perché. Altrimenti si rischia la futilità di un evento per tutti e per nessuno rispetto al cui orrore o si resta irretiti (ma tenere lo sguardo fisso su di esso non rende migliori, anzi, rende sempre più inerti o morbosi), o se si diserta sulla soglia del male, distogliendone lo sguardo anzitempo, ci si regala sì un innocenza, ma di corto respiro. Occorre dunque prediligere l approccio dell attraversamento di quell evento, nel cervello e nel cuore, stimandone l utilità e il danno per la nostra vita attuale. In primo luogo occorre chiarire che lo specifico tratto di assolutezza del male assunto dalla Shoah, la sua esemplarità negativa, trae origine dal trauma culturale patito al cospetto dei crimini nazisti. In altri termini, occorre considerare l impatto di quell evento abominevole per la cultura del Novecento: fu avvertito come enorme, scandaloso, tanto che fu difficile o impossibile accordargli un significato, interpretarlo. Si assunse che la cultura non proteggeva dal male, anzi, poteva agevolarne il trionfo ad opera della fredda meticolosità di carnefici colti, equipaggiati dei più progrediti strumenti disponibili (medicina, pedagogia, burocrazia statale offrirono il loro appoggio al massacro). Si giunse a pensare che la barbarie fosse il lato oscuro, il segreto del progresso della civilizzazione. L evento fu avvertito come inimmaginabile, come impossibile di fatto ed inaccettabile eticamente. Mentre la Repubblica Federale Tedesca, la nazione più compromessa col nazismo, anticipò il processo di elaborazione del passato attraverso l accusa, da parte dei giovani del 1968, alla generazione dei padri; gli USA, che contribuirono in modo risolutivo a sconfiggere il nazismo, furono i fautori del processo di universalizzazione della memoria e della SHOAH, in cui divenne prioritaria la dimensione simbolica, atta ad innescare meccanismi di identificazione psicologica ed emotiva in chi si percepiva estraneo al suo contenuto. E nella Conferenza tenutasi a Stoccolma dal 26 al 28 gennaio 2000, con la partecipazione di 600 delegati (tra cui 20 capi di stato) di 46 paesi, che si è approvata all unanimità la dichiarazione per cui L Olocausto avrà sempre un significato universale. Lì si sono poste le basi di una giornata internazionale della memoria. Alla luce del fatto che in futuro si parlerà di Shoah solo rifacendosi a film, libri e fotografie, scomparendo, per ragioni anagrafiche, i testimoni, si è in quella sede respinta ogni forma di negazione, parziale (revisionismo) o totale (negazionismo) della Shoah, col nobile intento di difendere la verità
dei fatti e di esercitare la memoria nella direzione di monito rivolto al futuro. E chiaro che la cura di una materia così esplosiva passa ora alla nelle nostre mani. Starà a noi ricordare, con rabbia e speranza, il peggio di cui siamo stati capaci, e ciò contro il fatalismo greve o beato che troppo spesso accerchia questa esperienza. A questo proposito, gli autori si soffermano nel saggio su quello che fu il triangolo della violenza nei lager: vittime, carnefici, spettatori: ruoli che rappresentano il sedimentarsi di scelte. Scrisse Primo Levi in Se questo è un uomo : (Torino, EINAUDI, 1976, pag. 113): Se potessi racchiudere in un immagine tutto il male del nostro tempo sceglierei [ ]un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero. Questa è la VITTIMA del lager, il prodotto finito di un dispositivo di disumanizzazione, una bruta materia organica da sfruttare prima e dopo la morte. Ecco la metamorfosi della vittima in una bestia, degna soltanto di essere eliminata, senza rimorso e senza pena, per mezzo di strumenti seriali in grado di minimizzare il coinvolgimento e la responsabilità di chi li impiegava. Alcune vittime si opposero a tale degradazione umana con forme di microresistenza. Furono le virtù quotidiane, più di quelle eroiche, che permisero a molti di non sprofondare: - eseguire un comando come se fosse una scelta spontanea; - non attenersi pienamente alle regole (ad es., non marciare mai esattamente in fila); - esercitare la sfrontatezza - discettare di poesia. Dal canto loro, i CARNEFICI di Hitler furono persone normali, non motivate da nessuna particolare aggressività, dedite al proprio lavoro, in genere povere di risorse per opporsi all autorità, e per questo si resero complici del massacro. Si illusero che i propri comportamenti fossero conformi alla statistica e alla morale del tempo. Ciò che li spinse fu soprattutto lo spirito gregario. La guerra gela i cuori, ma incendia il cameratismo. Il gruppo di commilitoni diventa uno dei rari spazi di appartenenza, un indulgente riparo da solitudine e paura. Persino dalla morte, quando ci si muove vicini sul campo di battaglia. Scegliere di comportarsi in modo diverso non è facile. Significa rinunciare ad una serie di rapporti di protezione, esporsi al rischio dell isolamento, della differenza o addirittura della vita. La prospettiva mette angoscia e risulta più conveniente integrarsi. Chi invece può rompere il mondo vittima/carnefice, essendo sempre parte coinvolta, ma mai neutra o incolume, è lo SPETTATORE. E per definizione il soggetto (minoritario) che guarda senza intervenire (l astante), come in stand by, lacerato da dilemmi morali e politici, è indeciso se passare all azione. Egli, quale giusto, è colui che accorciando la distanza con le vittime, può precipitare nella loro stessa condizione, fornendo loro cibo, rispetto, cura, protezione. Quale indifferente, può non intromettersi, tenersi a distanza di sicurezza, non esporsi alle insidie del destino. Ma, come ebbe a scrivere Antonio Gramsci in Indifferenti (in Oper, Roma, Editori Riuniti, 1997, pag. 23): Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita [ ]L indifferenza è il peso morto della storia [ ]E il male che si abbatte su tutti [ ] Ma nessuno o pochi si domandano:: se avessi anch io cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo quel che è successo?. Consigliato dalla Biblioteca
HANNAH ARENDT LA BANALITA DEL MALE EICHMANN A GERUSALEMME Feltrinelli, 2006 Il punto centrale della riflessione della Arend riguarda l interpretazione di Auschwitz: mentre per il tribunale di Gerusalemme esso non è stato altro che l ultima manifestazione delle antiche persecuzioni ( il più orribile pogrom della storia ebraica ), per la filosofa lo sterminio degli ebrei costituisce un attentato alla diversità umana in quanto tale, cioè ad una caratteristica della condizione umana senza la quale la stessa parola umanità si svuoterebbe di ogni significato. L antisemitismo spiegava la scelta delle vittime, ma il loro sterminio radicale faceva riferimento all umanità intera. Il resoconto sul processo Eichmann provocò non poche polemiche, quasi che l espressione banalità del male producesse un effetto di banalizzazione del genocidio. In realtà la Arendt aveva cercato di posare lo sguardo sull uomo Eichmann: da una fredda analisi a partire dal processo il tenente colonnello delle SS risultava essere di una terrificante normalità, un semplice burocrate incapace di risposte che non fossero di tipo formale. Non si trattava di una figura tragica, travolta dal dilemma del bene e del male, ma semplicemente di qualcuno totalmente privo di autonomia di pensiero: egli non provava rimorso perché durante il nazionalsocialismo il male era la legge, e la legge non poteva essere violata. La soluzione finale non era per Eichmann che un impiego con la sua routine, i suoi alti e i suoi bassi. In questa prospettiva muta la sua riflessione sul male radicale : Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso sfida come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità. Solo il bene è profondo e può essere radicale. Consigliato dalla Biblioteca