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OSSERVATORIO SULLA GIURISPRUDENZA PENALE AGGIORNATO AL 28 FEBBRAIO 2014 A cura di Epifania Maria Ferro CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE, SENTENZA 3 febbraio 2014, n. 5107 Sulla responsabilità penale dell hosting provider per il trattamento illecito dei dati personali Con la sentenza in commento, gli Ermellini, dopo aver esaminato le disposizioni contenute nel Codice della Privacy, escludono la configurabilità in capo al provider, sia esso anche un hosting provider, di un obbligo generale di sorveglianza dei dati immessi da terzi sul sito da lui gestito. Né sussiste in capo al provider alcun obbligo sanzionato penalmente di informare il soggetto che ha immesso i dati dell'esistenza e della necessità di fare applicazione della normativa relativa al trattamento dei dati stessi. Infatti, ai sensi dell art. 4 del Codice della Privacy, se non vi è dubbio che il concetto di 'trattamento' sia assai ampio, perché comprensivo di ogni operazione che abbia ad oggetto dati personali, indipendentemente dai mezzi e dalle tecniche utilizzati, il concetto di 'titolare' è, invece, assai più specifico, perché si incentra sull'esistenza di un potere decisionale in ordine alle finalità, alle modalità del trattamento di dati personali e agli strumenti utilizzati. Peraltro, dal complesso dei precetti fissati dagli artt. 13, 17, 23, 26 del Codice Privacy, interpretati in combinato disposto con le norme sanzionatorie degli artt. 161 167 dello stesso Codice emerge, poi, che essi sono tutti diretti al titolare del trattamento, eventualmente nella persona del 'responsabile', ovvero del soggetto preposto al trattamento stesso dal titolare, ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera g). Tali disposizioni presuppongono, infatti, l'esistenza di un effettivo potere decisionale circa: a) le finalità e le modalità del trattamento cui sono destinati i dati e la comunicazione eventuale dei dati stessi ad altri soggetti, anche attraverso la designazione dei responsabili (art. 13); b) la gestione dei rischi specifici «per i diritti e le libertà fondamentali, nonché per la dignità dell'interessato, in relazione alla natura dei dati o alle modalità del 1

trattamento» (art. 17); c) la ricezione del consenso degli interessati, nel rispetto dei divieti legge (artt. 23 e 26). In particolare, i reati oggetto di contestazione (ex art. 167 del Codice Privacy) devono essere intesi come reati propri, trattandosi di condotte che si concretizzano in violazioni di obblighi dei quali è destinatario in modo specifico il solo titolare del trattamento e non ogni altro soggetto che si trovi ad avere a che fare con i dati oggetto di trattamento senza essere dotato dei relativi poteri decisionali. Ne discende che, stante il disposto di cui all'art. 16 del d.lgs. n. 70 del 2003, il gestore del servizio di hosting non ha alcun controllo sui dati memorizzati, né contribuisce in alcun modo alla loro scelta, alla loro ricerca o alla formazione del file che li contiene, essendo tali dati interamente ascrivibili all'utente destinatario del servizio che li carica sulla piattaforma messa a sua disposizione. Tuttavia, in conformità della direttiva 2000/31/CE, la suddetta esenzione di responsabilità è subordinata alla ricorrenza di due condizioni: che il provider non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l'attività o l'informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l'illiceità dell'attività o dell'informazione; che, non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso. In sintesi, finché il dato illecito è sconosciuto al service provider, questo non può essere considerato quale titolare del trattamento, perché privo di qualsivoglia potere decisionale sul dato stesso; quando, invece, il provider sia a conoscenza del dato illecito e non si attivi per la sua immediata rimozione o per renderlo comunque inaccessibile esso assume a pieno titolo la qualifica di titolare del trattamento ed è, dunque, destinatario dei precetti e delle sanzioni penali del Codice Privacy. In via generale, sono, dunque gli utenti ad essere titolari del trattamento dei dati personali di terzi ospitati nei servizi di hosting e non i gestori che si limitano a fornire tali servizi. La lettura avallata dalla Suprema Corte è suggellata anche dall art. 17 del D.Lgs. 196/2993, che esclude la configurabilità di un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni trasmesse o memorizzate e di un obbligo generale di ricercare attivamente eventuali illeciti. Ultronea conferma, altresì, è data dalla sentenza della Corte di giustizia dell'unione Europea 23 marzo 2010, nei procedimenti da C-236/08 a C-238/08 (punto 120), nella quale si afferma che l'art. 14 della Direttiva sul commercio elettronico (corrispondente all'art. 16 del d.lgs. n. 70 del 2003) deve essere interpretato nel senso che si applica al prestatore di un servizio di posizionamento su 2

Internet qualora detto prestatore non abbia svolto un ruolo attivo a conferire la conoscenza o il controllo dei dati memorizzati. Se non ha svolto un tale ruolo, il provider non può essere ritenuto responsabile per i dati che ha memorizzato, salvo che, essendo venuto a conoscenza della natura illecita di tali dati, abbia omesso di prontamente rimuoverli o di disabilitare l'accesso agli stessi. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE - SENTENZA 3 febbraio 2014, n. 5277 Sull interpretazione dell art. 63 c.p.p. Nel confermare il consolidato orientamento giurisprudenziale, i Giudici di Legittimità ritengono che ai fini della configurabilità dell'elemento soggettivo del delitto di abuso d'ufficio, l'esistenza di una collusione tra il privato ed il pubblico ufficiale non può essere dedotta dalla mera coincidenza tra la richiesta dell'uno e il provvedimento adottato dall'altro, essendo invece necessario che il contesto fattuale, i rapporti personali tra i predetti soggetti, ovvero altri dati di contorno, dimostrino che la domanda del privato sia stata preceduta, accompagnata o seguita dall'accordo con il pubblico ufficiale o, comunque, da pressioni dirette a sollecitarlo o persuaderlo al compimento dell'atto illegittimo (Cass., Sez. VI, n. 40499 del 21/05/2009, Bonito, Rv 245010). Si tratta, in sostanza, di verificare se, nel caso di mancata interruzione del verbale, le dichiarazioni rese dal privato trasgressore, sentito come persona informata sui fatti, possano essere utilizzate contra se e contro il pubblico ufficiale. Non può, quindi, prescindersi dalla lettura e dall interpretazione dell art. 63 c.p.p., che prevede due ipotesi: - quella relativa a un dichiarante cui avrebbero dovuto apprestarsi ab initio le prescritte garanzie difensive (prevista dal comma 2, con la sanzione dell'inutilizzabilità erga omnes ivi sancita). Invero, la sanzione di inutilizzabilità erga omnes delle dichiarazioni assunte senza garanzie difensive da un soggetto che avrebbe dovuto fin dall'inizio essere sentito in qualità di imputato o persona soggetta alle indagini, postula che a carico dell'interessato siano già acquisiti, prima dell'escussione, indizi non equivoci di reità, come tali conosciuti dall'autorità procedente, non rilevando a tale proposito eventuali sospetti od intuizioni personali dell'interrogante (Cass., Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, Fruci, Rv 243417); 3

- quella del soggetto nei cui confronti emergono indizi di reità solo nel corso della deposizione, con la conseguente inutilizzabilità - ex art. 63, comma 1, ma solo contra se - delle dichiarazioni rese fino al momento della interruzione del verbale. Nonostante la tassatività della previsione legislativa, è stato individuato un tertium genus, ricorrente allorquando taluno, correttamente sentito come persona informata sui fatti, renda nel corso della sua audizione dichiarazioni auto-indizianti senza che gli inquirenti interrompano il verbale. A tal proposito, non si comprende perché l'eventuale omissione degli stessi inquirenti circa la doverosa interruzione dell'atto dovrebbe comportare l'applicazione del comma 2, piuttosto che del regime di inutilizzabilità relativa di cui al comma precedente. In particolare, a favore della prima lettura (quella estensiva dell art. 63, co. 2, c.p.p.), si è espressa Cass., Sez. VI, n. 6425 dell'11/04/1994, la quale, pur riferendosi ad un soggetto che avrebbe dovuto essere sentito fin dall'inizio come persona sottoposta alle indagini, mira a sanzionare ipotesi patologiche, in cui deliberatamente si ignorano i già preesistenti indizi di reità a carico dell'escusso (Sez. VI, n. 6425 dell'11/04/1994, Curatola). Per contro, e a favore dell applicabilità del co. 1, si è espressa Cass., Sez. VI, n. 8057 del 23/05/1995, secondo cui le dichiarazioni rese da un soggetto che, pur dovendo assumere la veste di imputato, sia stato, ciononostante sentito senza il difensore, sono inutilizzabili nei confronti dello stesso dichiarante, ma non vi è ragione per escluderne la utilizzabilità nei confronti di un terzo, dato che la ratio della norma è ispirata alla tutela del diritto di difesa della persona sottoposta ad indagini. Del pari, si è detto che le dichiarazioni rese da persona raggiunta da indizi di colpevolezza nel corso dell'esame, e non ancora posta in condizione di esercitare i diritti della difesa, non possono essere utilizzate contro di lei, ma possono esserlo nei confronti di terzi (Cass., Sez. VI, n. 29535 del 02/07/2013, Oppolo, Rv 256151). Tali principi, peraltro, non sono disattesi nemmeno dalla sentenza Mills (Sezioni Unite, sentenza n. 15208 del 25/02/2010), che, - in relazione al disposto di cui all'art. 210 cod. proc. pen. - rimane confinata alla diversa ipotesi della 'originaria esistenza di gravi indizi di reità'. 4

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE, SENTENZA 12 febbraio 2014, n. 6773 Sull applicazione della circostanza aggravante di cui all art. 640, comma secondo, n. 1, cod. pen. La questione posta al vaglio della Cassazione in funzione nomofilattica è la seguente: "se, ai fini dell'applicazione della circostanza aggravante di cui all'art. 640, comma secondo, n. 1, cod. pen., debba riconoscersi natura pubblica o privata ad una società per azioni partecipata da un ente pubblico e concessionaria di opera pubblica". A tal proposito, la Corte ritiene che, per un corretto esame della questione, non si potrebbe prescindere dal considerare che, nell'ipotesi in cui, come nella fattispecie in esame, la natura pubblica o privata di un ente non risulti chiaramente dalla legge o non sia convalidata da una lunga tradizione giuridica, dovrebbe essere risolto preliminarmente il problema degli "indici di riconoscimento" della natura pubblica di un ente, variamente individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Invero, la difficoltà di individuare il perimetro concettuale della nozione unitaria di ente pubblico ha progressivamente comportato un'analisi di carattere casistico per definire tale categoria. Il fenomeno ha, altresì, acquisito maggiore rilievo a seguito del processo di privatizzazione di enti pubblici, consistente nella tendenza legislativa a riconoscere in capo a soggetti, anche a struttura societaria, operanti normalmente iure privatorum la titolarità o l'esercizio di compiti di spiccata valenza pubblicistica. Si tratta, in sostanza, di verificare se l'affidamento da parte di un ente pubblico ad un soggetto esterno, da esso controllato, della gestione di un servizio pubblico, integri una relazione incentrata sull'inserimento del soggetto medesimo nell'organizzazione funzionale dell'ente pubblico con l'attribuzione della conseguente responsabilità in cui può incorrere il concessionario privato di un pubblico servizio o di un'opera pubblica, quando la concessione investe il privato dell'esercizio di funzioni obiettivamente pubbliche, attribuendogli la qualifica di organo indiretto dell'amministrazione, onde egli agirebbe per le finalità proprie di quest'ultima. Tuttavia, l accertamento della natura pubblicistica dell ente ricorrendo all interpretazione sostanzialista implica che, nel caso di un rapporto strumentale tra enti, non potrebbe parlarsi di danno all'ente partecipante quale mero effetto riflesso della partecipazione societaria ; atteso che i concessionari, come gli organi diretti, svolgono attività di natura amministrativa. Ne consegue che essi operano, nell'ambito delle funzioni pubbliche trasferite, con gli stessi poteri e con gli stessi obblighi che avrebbe un organo diretto della p.a.. 5

Pertanto, la individuazione del danno diretto nei confronti della sola società concessionaria rende impossibile affrontare in modo sistematico i termini della questione presupposta, proprio perché il perimetro dell'analisi, sia essa funzionale ad una decisione che possa condividere la tesi "nominalistica" ovvero la tesi "sostanzialista", appare delimitato in modo parziale ed insufficiente. Ciò posto, le Sezioni Unite, ritenendo impossibile entrare nel merito del quesito di diritto formulato, dichiarano inammissibile il ricorso. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE, SENTENZA 13 febbraio 2014, n. 6990 Sull associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti La vicenda posta all attenzione della Suprema Corte riguarda la sussunzione nell art. 74 del D.P.R. 309/1990 della condotta di colui che, operando come acquirente, sia stabilmente disponibile a ricevere le sostanze, assumendo, così, una funzione continuativa, che trascende il significato negoziale delle singole operazioni, per costituire un elemento della complessa struttura che facilita lo svolgimento dell'intera attività criminale (ex plurimis: Cass. pen. sez. 5, 10077/1997 Rv. 208822). Infatti, l'associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti sussiste non solo nel caso di condotte parallele poste in essere da persone accomunate dall'identico interesse di realizzazione del profitto mediante il commercio di droga, ma anche nell'ipotesi di un vincolo durevole che accomuna il fornitore di droga agli acquirenti, che in via continuativa la ricevono per immetterla nel mercato del consumo, non essendo di ostacolo alla costituzione del vincolo associativo e alla realizzazione del fine comune né la diversità di scopo personale, né la diversità dell'utile, ovvero il contrasto tra gli interessi economici che i singoli partecipi si propongono di ottenere dallo svolgimento dell'intera attività criminale (Cassazione, sent. n. 3509 del 10/1/2012). In particolare, agli effetti della configurabilità del sodalizio D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74 non è richiesto un patto espresso fra gli associati, ben potendosi desumere la prova del vincolo dalle modalità esecutive dei reati-fine e dalla loro ripetizione, dai rapporti tra gli autori, dalla ripartizione dei ruoli fra i vari soggetti in vista del raggiungimento di un comune obiettivo e dall'esistenza di una struttura organizzativa, sia pure non particolarmente complessa e sofisticata, indicativa della continuità temporale del vincolo criminale (Cassazione, n. 40505/2009 Rv. 245282). 6

In sostanza, l'associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti si concretizza ogniqualvolta tra tre o più persone si formi, anche di fatto, cioè senza un preventivo accordo formale (Cass. pen. sez. 1, 23424/02, r.v. 224589; Cass. pen. sez. 1, 3133/1998 Rv. 210186), un patto, che ha in sé la cosiddetta affectio societatis, in forza del quale tutti gli aderenti sono portati ad operare nel settore del traffico della droga, nella consapevolezza che le attività proprie ed altrui ricevano vicendevole ausilio e tutte insieme contribuiscano all'attuazione del programma criminale. In conclusione, quindi, deve ritenersi che ciò che rileva non è un accordo consacrato in atti di costituzione, statuto, regolamento, iniziazione o in altre manifestazioni di formale adesione, e neppure una cassa comune ma l'esistenza, di fatto, della struttura prevista dalla legge, in cui si innesta il contributo apportato dal singolo nella prospettiva del perseguimento dello scopo comune (Cass. pen. sez. 6, 3846/2000, r.v. 218418; 8046/1995 Rv. 202031) che finisce col dare corpo e sostanza all'affectio societatis stessa. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I PENALE, SENTENZA 28 febbraio 2014, n. 9770 Sul concorso anomalo (ex art. 116 c.p.) Con la sentenza in epigrafe, i Giudici di Piazza Cavour ritengono che integri il concorso anomalo la condotta di un concorrente che, pur non avendo voluto contribuire alla tentata uccisione della vittima, aveva pur sempre avuto la possibilità di prospettarsi il grave evento che si stava per verificare e, anziché impedirlo, abbia agevolato l esecutore materiale. Infatti, la giurisprudenza di legittimità è orientata nel ravvisare la responsabilità ex art. 116 c.p allorquando sussiste la volontà di partecipare con altri a realizzare un determinato evento criminoso ed allorché l'evento diverso e più grave, pur costituendo il logico sviluppo del reato meno grave da lui voluto, secondo l'ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, non sia stato da lui effettivamente previsto, si che, in ordine ad esso, non sia stato accettato il relativo rischio, posto che l'accettazione di tale ultimo rischio avrebbe comportato il concorso pieno, di cui all'art. 110 c.p.; è altresì noto che la prevedibilità dell'evento più grave deve essere valutata in concreto, tenendo conto della personalità dell'imputato e delle concrete circostanze di fatto nelle quali si è svolta l'azione (cfr. Cass. Sez. 5, n. 39339 dell'8.7.09, Rv. 245152). 7