COMUNE dì ROSETO VALFORTORE ASSOCIAZIONE SENZA CONFINI COMUNICATO STAMPA Per la prima volta, dopo 153 anni, la comunità di Roseto Valfortore, in provincia di Foggia, renderà onore ai cinque uomini che la notte del 7 novembre 1860 furono fucilati dai garibaldini lungo il costone che domina la valle del fiume Fortore. Uccisi perché si dichiaravano borbonici e fedeli al Re Francesco II. Una pagina drammatica della storia del piccolo comune dei Monti Dauni e dell Italia intera che rischiava di finire nell oblio se non fosse stato per don Annibale Facchiano e don Michele Marcantonio, entrambi preti e studiosi di storia locale, che in alcune loro pubblicazioni raccontano l efferato delitto che si consumò quella gelida notte del 1860. Di quella strage, oltre al racconto dei due studiosi locali, rimane una piccola lapide in pietra sulla quale fu scolpita una croce e la data del 1860, incastonata nell abitazione eretta decenni dopo sul luogo della fucilazione. L associazione Senza Confini, in collaborazione con il Comune di Roseto Valfortore, il prossimo 7 novembre, con una solenne cerimonia, riporterà alla memoria collettiva quel delitto consumato in nome dell Unità d Italia. Il programma prevede alle ore 11 l incontro, in piazza Sant Antonio, nei pressi del Municipio di Roseto, con le autorità civili e religiose e gli alunni delle scuole del paese. Subito dopo, il corteo raggiungerà via Coste, là dove 153 anni fa, avvenne l esecuzione dei cinque dissidenti. A raccontare nei sui particolari la vicenda sarà Giuseppe Osvaldo Lucera, storico e profondo conoscitore dei retroscena che portarono all Unità d Italia. La manifestazione si concluderà con la posa di una lapide vergata con i nomi delle cinque giovani vite falcidiate dal fuoco dei garibaldini e di una corona di fiori.
Gli alunni della scuola Elementare in corteo verso il luogo dell eccidio Gli alunni della scuola Elementare in corteo verso il luogo dell eccidio
Il luogo dell eccidio prima della commemorazione Il luogo dell eccidio prima della commemorazione
Arrivo della scolaresca sul posto della commemorazione Presentazione della manifestazione da parte del vice presidente dell Associazione Senza Confini Domenica Giannini
Discorso del Prof. Osvaldo Lucera Posa della corona da parte di alunni della Scuola Elementare
Benedizione della targa commemorativa da parte del parroco Don Antonio Discorso del Sindaco Lucia Luisi
Scolaresca e parte del pubblico Parte del pubblico
L ammirazione del pubblico alla targa commemorativa Targa commemorativa e finalmente i nomi dei 5 rosetani uccisi ingiustamente
Da sinistra il il Prof. Carpino, il Sindaco Lucia Luisi, il Prof. Lucera, l Assessore Troiano e il Dott. Nassisi Parte del direttivo e soci dell Associazione Senza Confini. Da Sinistra Domenica Giannini, Giovanni Emanuele,Rossella Bozzelli, Gianluca D Avella, Giovanni Tardivo, Giuseppe Rinaldi e Pietro Frisi
Luogo della commemorazione
Unità d Italia: la strage dimenticata di Roseto Valfortore ROSETO VALFORTORE (FG) Il lettore che dopo aver visto il titolo si appresta a leggere l articolo si aspetta la solita storia retorica di altri eroi che si sono immolati per l Unità d Italia. Ma si sorprenderà, invece, nel leggere l altra storia, quella nascosta, quella censurata, che in questi ultimi decenni sta urlando e chiede di venir finalmente alla luce. E una storia come tante che, o per vergogna, o per convenienza, o per quant altro, è stata per decenni tenuta segregata in un cassetto. Roseto Valfortore è un paesino di mille anime arrampicato sulle montagne dell Appennino Dauno, in provincia di Foggia. Un luogo accogliente dove gli abitanti hanno ancora il tempo e la volontà di regalare un sorriso ai visitatori che vi giungono. Ma è anche un territorio che ha dentro di sé una ferita storica che mai nessuno gli ha riconosciuto; questa è la vicenda di 4 ragazzi di appena vent anni e di un adulto, padre di famiglia, che furono trucidati dai garibaldini a causa delle loro simpatie per i Borbone. Tutto avvenne la sera del 7 novembre 1860 quando i 5 furono allineati ad un muro e passati alle armi da chi era appena sopraggiunto e definiva se stesso un liberatore. A nulla valsero le suppliche di pietà che i ragazzi invocarono ai carnefici, a nulla valsero le grida delle donne che assistettero impotenti all esecuzione. Questa triste vicenda, ancora una volta, non sarebbe mai venuta fuori se non ci fosse stata la caparbietà e la voglia di sapere di uno studioso, il prof. Michele Marcantonio, che scrisse nel 1983 un libro in cui raccontava l eccidio (Abbasso la guerra, ossia tre passi a ponente Italia Letteraria, Milano 1983). Libro, ancora una volta, corredato da documenti storici ufficiali che provavano l accaduto, ma che furono deliberatamente ignorati. I padri della patria, infatti, dovevano apparire ancora una volta senza macchia e senza peccato! Questo fu l ordine impartito agli storici. Proprio grazie a tali testimonianze scritte si è potuta realizzare una ricostruzione dettagliata di cosa avvenne quel triste giorno; si riporta integralmente uno stralcio tratto da Il Frizzo, giornale di Lucera: I cinque vennero allineati lungo il muro che guardava alla torretta, di fronte al plotone. L aria rigida, la pioggia, che ora con furia, il vento, fatto ora cattivo, che tempestava il viso dei condannati con bordate d acqua gelida e dura come grossi grani di sabbia, e, forse, il contenuto di quel biglietto consigliarono il generale a far presto, a sbrigarsi. Nell estremo tentativo di muovere a pietà, tre dei condannati, cioè Giuseppe Cotturo, Vito Sbrocchi e Leonardo Marrone, s inginocchiarono nel fango: Pietà! Siamo innocenti! Parole e lacrime alla pioggia e al vento che mugghiava nella siepe e sui tetti. Pietà di noi!, fece Nunzio. Il quinto, più di là che di qua (è Liberato Farace, 22 anni appena, ferito a morte presso la propria abitazione dalle camicie rosse) era
ricaduto in un assenza totale e si teneva ritto al muro come un tronco senza vita. Il sergente rizzava in alto la sciabola come un ricurvo dito d acciaio guardando fisso il generale. Il sergente non batteva ciglio. Ecco Il generale fece con l indice un cenno distratto, quasi meccanico. La sciabola piegò verso terra. Fuoco! I primi tre, a partire dall angolo, caddero fulminati. Al quarto un secondo colpo. Il quinto, Liberato Farace, indenne. Il fuciliere di grazia esplose su di lui il terzo e il quarto colpo. Solo quest ultimo spinse fuori da quel giovane corpo il lieve alito di vita residuo. E ora di iniziare a raccontare una storia diversa del Risorgimento: è iniziata al Sud un inarrestabile rivoluzione culturale atta a far sì che si cancelli la retorica e che si guardi in faccia la realtà di quello che successe 150 anni or sono. Documenti come questo e come tanti altri devono servire per risvegliare la voglia di verità che gli storici, assoggettati al potere, hanno perso. E una questione soprattutto di libertà: soltanto quando uno studioso potrà scrivere le verità storiche senza dover seguire una linea comune, allora si sentirà libero. domenica 14 novembre 2010 articolo Il Frizzzo Il 7 novembre 1860 cinque inermi cittadini, tra cui 3 ragazzi ventunenni ed un ex soldato borbonico padre di famiglia, vengono trucidati dai garibaldini solo perché rei di essere simpatizzanti borbonici - Ci hanno raccontato e continueranno a raccontarci a scuola solo balle! In poche righe, in libri confezionati ad hoc, si racconta e si decanta che l unificazione d Italia avvenne grazie alla spedizione dei mille, con l incontro di Garibaldi e Vittorio Emanuele a Teano e con il plebiscito. Tutto qui? Ed il resto, la verità storica, quella che da anni è venuta fuori? Tutto tace I libri, quelli confezionati ad hoc, non ne devono parlare. Né c è altro da aggiungere! Tra ricerche ed approfondimenti su quella che comunemente viene definita unità d Italia per la quale si ha anche il coraggio di festeggiare facendo finta che al Sud nulla sia successo non passa giorno che dalle carte degli archivi spuntano documenti relativi ad avvenimenti e fatti che la storiografia ufficiale e chi ha interesse a non far conoscere, volutamente ignora a dir poco raccapriccianti! Una terra ed un popolo furono messi a ferro e fuoco da invasori stranieri senza scrupoli e sottoposti alle più disparate angherie che«gli untori servitori del mendacio: storiografi e giornalisti, ciucci
e venduti» preferiscono non raccontare, salvo alcuni casi: stragi di massa, esecuzioni sommarie con esposizione di teste di cadaveri in gabbie, interi paesi incendiati, ragazzi e ragazze seviziati ed uccisi, ruberie generali, fucilazione di minorenni appellati col nome di briganti, farsa del plebiscito e quant altro, hanno fatto dei liberatori del Popolo delle Due Sicilie quello che, circa un secolo dopo, hanno compiuto i nazifascisti in Italia: infamia e vergogna! A Roseto Valfortore, in provincia di Foggia, quindi in Italia, si è compiuta una di queste infamie vergognose, una storia poco conosciuta apparsa anche in un Romanzo Storico dell illustre Prof.Don Michele Marcantonio, Abbasso la guerra, ossia tre passi a ponente, 1983 (Ed. Italia Letteraria, MI). Della storia che si sta per raccontare, riferita a cinque cittadini di Roseto Valfortore, mi ero già procurato gli atti di morte per descriverne la loro dolorosa vicenda quando ho ritrovato il libro di Don Michele che lui stesso mi regalò anni addietro agevolandomi il compito. La storia realmente successa, e gli atti di morte ne sono la testimonianza (portano tutti la stessa data, stesso giorno e stessa ora) racconta di cinque cittadini rosetani di cui l autore di un «manoscritto» ne fornisce alcune sommarie generalità: «COTTURO Giuseppeantonio, terza elementare, una sorella di 29 anni; FARACE Liberato, analfabeta, due sorelle, una di 12 e una di 23 anni; SBROCCHI Vito, 1º anno di agraria, moglie di anni 36 e figlia di anni 15; MARRONE Leonardo, terza elementare, sorella di anni 21; ZITA Nunziantonio, perito agrario con diploma conseguito presso la cattedra di Roseto, poi soppressa dai piemontesi, e il fratello di Giuseppeantonio, quinta elementare, una sorella di anni 20, sposata con Donato Sbrocchi». I cinque sacrificati cittadini di Roseto Valfortore vengono accusati dal galantuomo don Vito Capobianco, fratello del sindaco, come reazionari e di essere dei franceschielli, cioè fedeli al Re Francesco II di Borbone. «I vermi e le lumache appaiono dopo la bufera: i liberali e i mazziniani ricomparvero solo ora si legge nel libro di Marcantonio garantiti da scorta armata. Le carte fanno i nomi: don Vito, il figlio don Noè, Luigi Basso e Donato Cascioli. Il primo (don Vito Capobianco) aveva preparato la nota delle famiglie da punire esemplarmente». Sommariamente giudicati da un tribunale composto da garibaldini, senza alcuna colpa, i cinque martiri rosetani vengono condannati a morte mediante fucilazione. L esecuzione avvenne il 7 novembre 1860 alle ore 23:00. Lascio parlare il manoscritto di Don Michele Marcantonio. Siamo orfani di patria? «( ) I cinque vennero allineati lungo il muro che guardava alla torretta, di fronte al plotone. L aria rigida, la pioggia, che ora con furia, il vento, fatto ora cattivo, che tempestava il viso dei condannati con bordate d acqua gelida e dura come grossi grani di sabbia, e, forse, il contenuto di quel biglietto consigliarono il generale a far presto, a sbrigarsi». Il generale di cui si parla è, udite, udite, Liborio Romano, (omonimo del vigliacco e traditore che vendette il Sud al Piemonte ), garibaldino e comandante della Legione Peucetia. «Nell estremo tentativo di muovere a pietà don Liborio, tre dei condannati, cioè Giuseppe Cotturo, Vito Sbrocchi e Leonardo Marrone, s inginocchiarono nel fango: Pietà!Siamo innocenti! Parole e lacrime alla pioggia e al vento che mugghiava nella siepe e sui tetti. Pietà di noi!,fece Nunzio.
Il quinto, più di là che di qua (è Liberato Farace, 22 anni appena, ferito a morte presso la propria abitazione dalle camicie rosse) era ricaduto in un assenza totale e si teneva ritto al muro come un tronco senza vita. Il sergente rizzava in alto la sciabola come un ricurvo dito d acciaio guardando fisso il generale. Il sacerdote, adempiuto il suo alto e pietoso ufficio, s era nascosto nel vano di quel cunicolo-fogna. Don Liborio parlottava con don Vito, quasi estraneo, senza neppur guardare. Il sergente non batteva ciglio.ecco Il generale fece con l indice un cenno distratto, quasi meccanico. La sciabola piegò verso terra. Fuoco! I primi tre, a partire dall angolo, caddero fulminati. Al quarto un secondo colpo. Il quinto, Liberato Farace, indenne. Il fuciliere di grazia esplose su di lui il terzo e il quarto colpo. Solo quest ultimo spinse fuori da quel giovane corpo il lieve alito di vita residuo. Nel tratto dalle Coste al suo palazzo don Vito assaporò tutta la voluttuosa ebbrezza di quel trionfo. Entrò insieme col generale nel suo caseggiato e ne uscì dopo un quarto d ora. Si strinsero la mano sul portone e don Liborio ripartì subito. Don Vito non fece in tempo a chiudere, che il parroco era comparso come un fantasma sulla soglia, con sul volto lo sdegno più vivo e amaro. Poiché il Capobianco voleva sfuggirgli, lo afferrò per un braccio e lo schiaffeggiò con queste parole: Nel cielo c è un Dio che vendica le lacrime dei deboli. Maledetta la generazione dell uomo che sparge il sangue innocente! Parola di Dio! Ritornò sulle Coste a fianco dei suoi caduti. Li coprì col suo mantello. Restò a vegliarli fino al mattino con il rosario in mano, ritto sotto il gelo della coltre bianca novembrina. Al collo dell ultimo martire, Liberato Farace, un abitino del Carmine, forato da una pallottola, tamponava la ferita». Dulcis in fundo, «don Liborio pretese dal popolo rosetano una taglia di ducati 5.035, oltre 240 per il mantenimento della forza». Cinque croci di legno Nel 1861 l amministrazione comunale di Roseto Valfortore fece installare cinque croci di legno poggiate sul muro, lungo il quale erano stati allineati e fucilati i cinque martiri. Quando questo suolo venne concesso ai privati per la costruzione delle case, lo scalpellinolorenzo Bozzelli, nel 1910, di propria iniziativa, murerà su quella costruzione con una lapide, data e croce il ricordo di quel massacro. Una pagina drammatica e nello stesso tempo commovente quella appena descritta, che riporta alla luce come fu fatta l unità d italia al Sud: con il sangue degli innocenti, con il silenzio dei vincitori e con gli spot! Ah, quante ombre su questa unità d italia, altro che! Mentre in queste ore, ahimè!, nel vesuviano, Italia, in una sorta di guerra civile, uomini, ragazzi, ragazze e donne vulcaniche si apprestano a decretare quello che probabilmente sarà il funerale del 150º tra incendi del tricolore e al grido di «siamo orfani di patria!». A sùpala nin tene uocchie e vere, nun tene recchie e sente! Allego i certificati di morte (leggi); vengono tutti
contrassegnati dalla nobile professione di contadino i cinque cittadini rosetani vittime, sacrificate dalla mano feroce dei conquistatori garibaldini. La speranza è che il sindaco, la giunta ed il consiglio comunale di Roseto Valfortore vogliano erigere una lapide a ricordo di quei martiri che dopo 150 anni gridano ancora giustizia! All elenco dei cinque sacrificati bisogna aggiungere anche il nome digiuseppe Zita, fratello di Nunzio Antonio, di anni trenta, ucciso durante un rastrellamento dei garibaldini il 6 novembre del 1860 (tra gli atti di morte allegati). In chiusura, voglio rendere omaggio al grande Angelo Manna che solo citarlo mi rende orgoglioso di essere meridionale con il suo memorabile messaggio rivolto ai ragazzi del Sud, pubblicato periodicamente sulla rivista Due Sicilie. «Ragazzi del Sud!» «L unificazione italiana ci costò, in poco più di dieci anni, un milione di morti, tutti uccisi a tradimento, e ci costò, in meno di un secolo, e sempre a tradimento, ventisei milioni di emigranti! Ed ha le meningi imbottite di puttanate, l Italia! Ad imbottirgliele sono stati e sono i nord-dipendenti politicanti del Sud, gli eredi dei pragmatici e immorali traditori del fatal sessanta. E sono stati e sono gli untori servitori del Mendacio: gli storiografi e i giornalisti, ciucci e venduti. Ma noi abbiamo un dovere da compiere. Una Mamma offesa, tradita, maltrattata, calunniata e in catene sta chiamando dal 1860 i suoi figli attorno alle sue piaghe fisiche e morali che ormai l hanno ridotta allo stremo. È possibile che nessuno di essi ne oda il rantolo, che giorno dopo giorno si fa sempre più forte, e accorra al suo capezzale?». Eduardo Gemminni