Egitto: verso l oasi di Siwa di Pietro Jovane - BdM - Mountain Bike World, novembre 2000



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Transcript:

Egitto: verso l oasi di Siwa di Pietro Jovane - BdM - Mountain Bike World, novembre 2000 Un raid nel deserto egiziano verso l oasi di Siwa, la più vicina al confine libico, dove risiedeva l oracolo di Ammone, suggeritore del faraone. 1000 Kilometri pedalati in solitudine, tra dune di sabbia e civiltà antiche. Guardando la cartina dell Egitto si nota subito la traccia del Nilo che taglia in due il Paese da nord a sud e la zona fertile che lo circonda da cui è fiorita la civiltà egizia. A sinistra del Nilo, nel mezzo del deserto che si estende verso la Libia, si trova una fenditura nella sabbia: non è visibile come il Nilo, ma taglia in due la crosta terrestre, non è il corso di un fiume, ma vi affiora dell acqua. Dove c è l acqua c è l oasi e la terra è fertile. Anche in questa zona, infatti, si è sviluppata una civiltà ricca di cultura preservata integra dall isolamento del deserto. Ai tempi dei faraoni questi giardini erano estremamente apprezzati perché vi si producevano datteri eccezionalmente dolci, c erano migliaia di ulivi, negli orti cresceva un grande assortimento di vegetali e nelle sorgenti termali la regina Cleopatra era solita rigenerarsi e lasciar loro il proprio nome. In particolare ci riferiamo all oasi di Siwa, la più vicina al confine libico, dove risiedeva l oracolo di Ammone, il suggeritore del faraone. La densa storia delle oasi e l affascinante mistero del deserto ci attraevano irresistibilmente: volevamo trovare il modo di raggiungere Siwa, come prima di noi avevano voluto Cambise e Alessandro Magno. Il primo, re dei persiani, aveva fallito disperdendo un numerosissimo esercito nella sabbia; Alessandro, invece, fu accolto con ovazioni perché l oracolo lo consacrò figlio del dio Ammone. Noi (io e i miei due compagni di viaggio, Laura e Maurizio) non sapevamo in quali condizioni saremmo arrivati, ci bastava arrivare all oasi, attraversando più di 1000 kilometri di deserto. Un progetto ambizioso Era un progetto ambizioso, un percorso sconosciuto e abitato da un popolo con tradizioni rigorose e severe. Per il primo problema - le difficoltà del deserto - ci saremmo affidati alla nostra esperienza maturata in molti anni di viaggi. Alle incognite del percorso avremmo ovviato rendendoci autonomi, portando nelle borse tutto ciò di cui avremmo potuto aver bisogno nei tratti di percorso tra le oasi. Per quanto riguardava le popolazioni native, avevamo imparato a rispettare le loro tradizioni e costumi: conoscendo un po di arabo e vestendo alla loro maniera, non ci avrebbero scambiati per i soliti turisti. Al Cairo incontriamo Hibrahim, un uomo dal carattere gentile, che ci propone di andare a trovare la sua famiglia, originaria dell oasi di Dakhla. Lui ha un agenzia di viaggi che lavora con l Italia, la Cali Travel, e vorrebbe far visitare le oasi agli amanti del deserto. In noi ha trovato le persone giuste. La sera prendiamo un bus pubblico per la città di Assiut, sul Nilo che poi prosegue fino alla prima oasi, lasciandoci alla cittadina di El Kharga. Appena arrivati andiamo a vedere il tempio di Hibis, il più importante e ben conservato delle oasi, con bassorilievi e dipinti sul soffitto: ci ritroviamo improvvisamente immersi nella storia e nella cultura egiziane. Tornati alla cittadina facciamo spese alimentari e prima del calare del sole partiamo per Baris, in direzione sud. Dista 90 kilometri, ma dopo poco siamo già nel deserto e piantiamo la tenda su una duna lontano da tutto, circondati dal silenzio. È il primo assaggio di un gusto nuovo, uno spazio enorme, vuoto, ma dura poco: in mattinata siamo a Baris. Subito si diffonde la notizia del nostro arrivo e il professore d inglese ci raggiunge al ristorantino in piazza: è l'unico a poter comunicare con noi. Ci ospita a casa sua e ci rende partecipi della vita quotidiana di una famiglia islamica. Forse quello che ci piace di più dei nostri viaggi sono i momenti come questo, trascorsi con gente che non ci conosce e ci tratta con gentilezza antica. Questa parte del deserto era percorsa dagli eserciti diretti nell alto Egitto; a Dush fu eretto un tempio dedicato a Iside e Osiride su cui si leggono riferimenti a Domiziano e Adriano. I nostri nuovi amici arabi ci accompagnano a visitare le stanze e i colonnati della costruzione. Torniamo a El Kharga Ripercorsi i nostri passi torniamo a El Kharga e proseguiamo verso ovest, scivolando di nuovo nel nulla del deserto alla volta di Dakhla. Ci separano 160 kilometri, 3 giorni in cui dobbiamo contare solo su noi stessi e per non farci mancare nulla abbiamo provviste di datteri, halawa (un dolce a base di arachidi e sesamo), arance, pane, pomodori, ma anche fiocchi di cereali, biscotti integrali e formaggio Grana Padano portati da casa, e ovviamente acqua. Carichi e appesantiti, andiamo incontro a nuove emozioni seguendo la sottile striscia della pista che ci dovrà portare fuori dal labirinto del deserto: ci sentiamo un po come Teseo, appesi al filo di Arianna. Ma percorsi pochi kilometri il filo si interrompe: una duna di granelli di sabbia alta 6 metri ci sbarra la strada! Una lunga nuvola bianca attraversa il cielo e una lingua di sabbia gialla si stende davanti a noi. La natura è artista: dipinge la vita di imprevisti e la colora di emozioni, come uno scherzo che il deserto ci ha fatto per giocare, e senza troppo sgomento l abbiamo superata. In realtà abbiamo anche capito la forza della natura che può spostare le montagne, la stessa forza che ha ingoiato l esercito di 50.000 persiani partiti per espugnare l oracolo di Ammone dal suo tempio nel cuore del deserto e mai arrivati. La pista sparisce dietro l orizzonte piatto

Il paesaggio non rimane a lungo costante e delle semisfere di roccia spuntano in lontananza; mentre ci avviciniamo sembra che emergano dalla terra. Le ombre si allungano, il sole cala e la strada serpeggia tra le montagne rotonde e nere. Tra queste dimensioni gigantesche l uomo è fuori dimensione: la nostra tendina Ferrino a igloo è come un granello di sabbia. Pedaliamo per 2 giorni consumando le provviste: direttamente seduti in sella, senza fermarci, mangiamo uva passa, datteri e biscotti. Finalmente da lontano si vedono le palme dell oasi di Dakhla. Alcune costruzioni fiancheggiano la strada e delle anfore di terracotta con l acqua offrono il primo ristoro di benvenuto al viaggiatore. Come il cumulo di un formicaio, il villaggio berbero di Balat è traforato da sottopassi e corridoi interni su cui si aprono le casette. La suggestiva architettura spontanea utilizza materiali locali ed è la più adatta al clima: legno di palma e terra regolano la temperatura e l umidità. A Mut, il capoluogo dell oasi, passiamo la notte vicino alle hot springs (sorgenti calde), dove ci rimette al mondo un bagno tonificante nelle acque termali. Il giorno dopo raggiungiamo il villaggio di Budkhula e rintracciamo Hanafi, il parente di Hibrahim. Buon sangue non mente e anche questo signore ha un animo nobile e gentile. Ci porta a visitare le sorgenti di Bet El Gabel e i campi coltivati sulla sabbia. Sembra che una particolare amicizia ci leghi a questa gente anche se la conosciamo solo da poche ore, deve essere la solidarietà del deserto che unisce le persone. Il banchetto che ci preparano è ricco di specialità raffinate e pregiate. Ripartiamo a malincuore lasciando degli amici, ma abbiamo molta strada da fare e possono sempre sopraggiungere degli imprevisti: come un inizio di pioggia. Ma non ci lasciamo intimorire, siamo ben equipaggiati e proseguiamo. Le bici sono coperte di fango che si stacca pedalando; il sole torna a splendere, mentre altri 290 kilometri ci separano dall oasi di Farafra. Siamo di nuovo soli con noi stessi, la paura è ormai domata; l emozione di essere liberi e di riempire lo spazio con pensieri immaginari e fantastici è un attrazione: questo luogo adesso infonde pace e serenità... i giorni sono scanditi da albe e tramonti intervallati da sogni, e il tempo scorre leggero. Passiamo sotto un costone roccioso circondato da dune e una lunga salita ci porta sull altipiano. Vediamo alle spalle il deserto curvo sparire all infinito e sul pianoro per un paio di giorni pedaliamo in solitudine. L arrivo a Farafra L arrivo a Farafra non ci dà una grande soddisfazione, non c è quasi nulla, poche case, poche piante, pochi rifornimenti. Un ragazzo ci ospita: lavora in un azienda agricola poco lontano. Un progetto di sviluppo economico sembra essere promosso dal governo per sfruttare l alto potenziale di quest area, fertile se irrigata. Il cielo s infuoca al tramonto e la serata si scalda al ritmo della musica degli operai della fattoria: si improvvisa un party approfittando dell occasione. Pochi kilometri dopo l oasi ci immergiamo in un ambiente fiabesco: rocce bianche tipo meteore sono disseminate sulla sabbia e con la bici ci passiamo attraverso. Era uno strato di gesso che il vento ha corroso modellando sfere, muri, torri, scivoli e colonne. È nominato deserto bianco. Il paesaggio continua a variare: una ripida salita scavalca dei costoni di roccia. Il fondo dissestato della pista minaccia la stabilità dei bagagli. La strada è invasa da lingue di sabbia che spezzano il ritmo della pedalata costringendoci a repentini cambi di rapporto. Gli operai di un cantiere stradale ci invitano a prendere un tè aromatizzato con foglie di menta. È un rito che non si rifiuta mai, figuriamoci nel deserto. Se fosse per loro non dovremmo più andar via: quando incontreranno altri stranieri in bicicletta? La loro curiosità è insaziabile come la loro solitudine: non sono affatto contenti di lavorare per 6-8 mesi nel deserto. Quella notte dormiamo nel rudere di una casa e la mattina arriviamo a Baharia, dove la Volpe del Deserto ci porta da un suo amico all Ahmed Safari Camp, un villaggio di bungalow. La Volpe è un condottiero, conosce il deserto e ha fatto da guida a grandi spedizioni. Ha un carattere forte ma buono. L oasi più vicina al Cairo Baharia è l oasi più vicina al Cairo: in 334 kilometri potremmo tornare alla civiltà ma non ci interessa, noi andiamo a occidente, verso la Libia, per 400 kilometri desolati e sconosciuti che portano a Siwa. La mattina presto siamo già sulla strada, una ripida salita ci mette subito alla prova: da su in cima si vede, alle nostre spalle, Baharia, davanti inizia, sconfinato, il deserto, dove non transita nessuno e non ci sono occasioni di fare rifornimenti. Per tutto il giorno e per il giorno successivo pedaliamo su un pianoro uniforme. Lo scenario è monotono ma non noioso: è come se aspettassimo da un momento all altro un cambiamento, una nuova emozione, mentre la strada sotto le nostre ruote è molto ruvida. La sera cala l umidità e all alba tutto è avvolto da una fitta nebbia, non si vede la strada né il paesaggio. Il vento spazza la nebbia; per fortuna non il Khamsin, che soffia da occidente e porta tempeste che durano settimane. Torna a splendere il sole, ma la temperatura non è troppo alta: tra qualche mese questo posto sarà una fornace. La sabbia riluccica ma non è un miraggio: mi avvicino e trovo uno strato di dischi lucidi di calcare, smerigliati dal vento, che riflettono la luce del sole. Sono miliardi di conchiglie fossili a forma di monete, le Numuliti: una volta qui c era il mare. La notte un ospite indesiderato, forse una volpe, approfitta delle nostre razioni di formaggio. I viveri erano contati e per questo imprevisto arriveremo a Siwa senza cibo. Non potendo portare con noi il cibo sufficiente, è bene scegliere alimenti ad alto valore nutritivo ed energetico. Appena alzati mangiamo fiocchi di cereali con acqua e miele, frutta secca, nocciole e mandorle; durante il giorno uvetta, datteri, pane e formaggio. La qualità c è, la quantità scarseggia. A metà strada, nella solitudine, vediamo la pista bloccata da bidoni: i predoni? No, un posto di blocco di militari disperati, divorati dalla malinconia; sembra che fermino i veicoli più

per scambiare due parole che per fare controlli e ci accolgono con la simpatia di vecchi amici. L'enorme generosità di questi ragazzi ci consente di cambiare dieta e mangiamo omelette con formaggio Grana per cena. Vorrebbero trattenerci, ma dobbiamo proseguire. E infatti un imprevisto in agguato ci mette in difficoltà: un mare di sabbia ricopre la pista. Avventurarci tra le dune è rischioso: una traccia taglia la sabbia e si perde tra le dune. La seguiamo. Tenendo dei punti di riferimento e mantenendo il sangue freddo ci spingiamo più avanti e individuiamo la pista che riappare dall altra parte. Che sollievo! I granelli si spostano sotto le ruote e i piedi sprofondano mentre trasciniamo le bici. Il deserto ci mette di fronte a situazioni sempre diverse. Il tramonto tra le dune è meraviglioso; calando il sole, si alza un vento freddo e nella tenda i sacchi letto sono un giaciglio atteso e meritato. Un profondo canyon scenografico In un profondo canyon scenografico e affascinante pedaliamo un tratto di pista su cui è rimasto un po di asfalto con frammenti di pietra arrotati dal vento, che sporgono come lame. Sembra di scorrere sulla carta vetrata e i copertoni si consumano velocemente mettendoci fretta di arrivare. Ma non ci preoccupiamo, e prima che il sole sia basso vediamo una costruzione di terra, la strada comincia a scendere nella depressione dell oasi di Siwa: stiamo arrivando. Al posto militare mostriamo i permessi ufficiali che ci autorizzano a percorrere la pista per Siwa e riceviamo attenzioni particolari: chiamano una macchina per venirci a prendere. L attesa è di 2 ore, ma poi in 10 minuti raggiungiamo il quartier generale. Insomma, come Alessandro più di 2000 anni fa, anche noi siamo accolti con tutti gli onori nella stanza dei tappeti, seduti sui cuscini per terra ma con la gioia nel cuore. L oasi è veramente un paradiso, più di quanto si racconta: giardini con aiuole fiorite, datteri maturi ovunque, gente gentile, piscine d acqua calda, frantoi con olio sopraffino. L architettura spontanea, rigorosamente di fango, è folcloristica, misteriosa e leggendaria. Sono ancora forti le tradizioni e si utilizzano oggetti artigianali endemici con origini curiose e antiche; le donne, bellissime, vivono un mondo protetto e severamente vietato agli uomini, in cui il passato, rimasto inalterato, è arrivato fino al nostro presente. Ma Siwa è una roccaforte di fango e si sta sciogliendo. Sparirà perché, invece di ricostruirla con la salubre e pittoresca terra, si propagandano cemento e mattoni bianchi: un pugno nell occhio tra i colori sobri e naturali. Forse l interesse di organizzazioni internazionali come l Unesco la proteggerà dalla speculazione e da ambizioni sconsiderate. Solo così Siwa potrà sopravvivere all Occidente come è sopravvissuta alla storia. Il nostro raid finisce qui, tra i confini dell oasi e l acquisizione di una nuova e diversa esperienza di viaggio. Articolo pubblicato su BdM - Mountain Bike World / novembre 2000

India: la salita al Campo Everest di Pietro Jovane - BdM - Mountain Bike World, febbraio 1996 Un impresa di quelle che si ricordano: la salita in mtb al campo base dell Everest, quota 5288 metri, a 25 gradi sotto zero. Gorak Shep, situato ai piedi del Kumbu, il ghiacciaio che scende dal Sagarmata (Everest), è il punto di partenza di tutte le spedizioni per la montagna sacra. Il sentierino, largo 80 centimetri, era tagliato nel pendio roccioso. Da un lato si aggrappava alla montagna, dall altro c era il baratro; sporgendomi un brivido mi faceva sobbalzare indietro: il precipizio cadeva per centinaia di metri e in fondo, piccolo e spumeggiante, scorreva il fiume. Con attenzione evitavo le pietre e le radici che ostacolavano le mie ruote; evitavo i rami dei cespugli ingombranti; stavo attento a non urtare gli speroni di roccia che sostenevano la montagna. Procedevo sicuro e spedito senza immaginare che qualcosa di inaspettato, più avanti, avrebbe interrotto la mia corsa; ero ignaro che la mia spavalderia mi avrebbe messo di fronte ad un grave pericolo. Davanti ai miei occhi un enorme parete di ghiaccio luccicava nel cielo terso a quasi 7000 metri. Lo spettacolo affascinante e inebriante rendeva evidente il contrasto: la mountain bike è, per definizione, un mezzo adatto a salire le montagne, ma non sempre è così: non tutte le montagne sono accessibili. Un sentiero, spesso, presenta difficoltà che impediscono di spostarsi in bicicletta: nonostante la tecnica, l equilibrio e la forza, non si possono superare ostacoli come grosse pietre, strettoie di roccia, pendenze eccessive su terreni sconnessi, curve a gomito e punti esposti con pericolosi precipizi. Queste sono le condizioni di un sentiero al limite della pedalabilità, ma il limite è comunque soggettivo e non ha una valutazione fissa: esiste il margine di adattamento degli individui a situazioni estreme. La sfida Nella sfida singolare e conclusiva che mi ero lanciato avrei scoperto il mio limite: volevo salire fino al campo base dell Everest (Gorak Shep 5288 metri). Il percorso non si snoda su una stradina appena carrabile o jeeppabile (percorribile in jeep) e neanche su una mulattiera: si parla di un sentiero alpinistico che raggiunge i 5300 metri di quota nel cuore del più alto e affascinante massiccio montuoso del mondo. All inizio della mia sfida dell itinerario non sapevo nulla; alpinisti e carovane di yak sono gli unici a percorrerlo e per loro non ha bisogno di essere descritto. Esisteva quindi l eventualità che non fosse pedalabile e che la mia impresa non avesse senso: il mio scopo non era quello di portare la bici al campo base ma di farmi portare da lei. In altre parole, la mia sfida consisteva nel pedalare per una parte consistente del percorso, tale da dare un senso all utilizzo della mtb, altrimenti sarebbe stato inutile. Il piccolo aeroplano della Royal Nepal è appena atterrato sulla pista di Lucla; porta al villaggio le merci e i turisti che le compreranno! La gente, curiosa, si raduna improvvisando un mercato. Da Lucla si parte per il campo base, ed è per questo che la cittadina è diventata un posto alla moda: ci sono belle ragazze in costume da bagno che prendono il sole e pseudo alpinisti che si aggirano in calzoncini, scarponi e occhiali da ghiacciaio! Ecco perché c è un gran raduno: è una sorta di passerella! I nepalesi, spaesati, sono gentili ma sembrano essere impreparati al turismo di massa che, sprovveduto sulle realtà locali, non sa stabilire un contatto con loro. Tra la folla due strani individui armeggiano con dei tubi neri, si vergognano un po dell atmosfera: gli sguardi furtivi degli occidentali cercano di individuare le spedizioni e i protagonisti delle imprese per collezionare un nuovo incontro con gli eroi della montagna. I due individui cercano di non dare nell occhio e ai tubi neri in carbonio attaccano due ruote: la bicicletta è pronta! Quei due individui siamo io e il mio amico Stefano, pronti a partire per la sfida! Jalalì, un portatore della Trekking International e Stefano si occuperanno del trasporto dei viveri, io mi confronterò con la montagna: a Katmandu abbiamo fatto la spesa portando persino gli spaghetti e il Grana Padano per mangiare all italiana! Siamo pronti a partire. Sono a Lucla e la mia impresa ha inizio, il sentiero mi impegna subito e devo superare dei roccioni insidiosi, ma è già incoraggiante che sia pedalabile! Io e i miei compagni che mi seguono a piedi siamo attratti dalla musica proveniente da un monastero che incontriamo lungo la valle stretta del Dud Cosi e siamo invitati ad assistere alle preghiere. Per socializzare tutti bevono una bevanda di riso fermentato e noi ci uniamo alla festa. E un atmosfera mistica e cameratesca al tempo stesso, in cui i monaci pregano e ridono, uomini e donne scherzano e noi osserviamo incuriositi e divertiti. Trascorriamo la notte loro ospiti. La salita al paese di Namche Bazar Il mattino dopo la giornata inizia in allegria anche se il sentiero si presenta subito difficile con molte rocce, tratti pietrosi e la salita al paese di Namche Bazar che spezza le gambe. E decisamente ripida e non finisce mai. In alcuni tratti non riesco a pedalare. L arrivo al paese è un sollievo, ma è tardi e non troviamo persone gentili: i gestori del lodge ci negano l acqua e ci proibiscono di mangiare! Il paese è carino e caratteristico, acciambellato in una piega del terreno, adagiato sui terrazzamenti tra le coltivazioni. Da qui parte un sentiero che taglia qua- si orizzontalmente il ripido pendio della valle del bianco, spumeggiante Dud Cosi (fiume di latte). Si cominciano a vedere le sontuose cime innevate dell Ama

Dablam, del Tiansercu e altre montagne tutte intorno. In fondo appare la cresta del Lotze con la piramide dell Everest che gli spunta dietro, misteriosa. La visione è stimolante e il desiderio di arrivare in fondo al labirinto di cime è irresistibile: voglio vincere me stesso e toccare la montagna! Il sentiero è facile ma molto pericoloso, bisogna avere molta prontezza di riflessi e agilità, pena un bel salto nel vuoto con tuffo! Ostacoli, sassi, radici, curve improvvise, speroni di roccia e altre insidie vanno intercettate velocemente. Con il baratro da un lato non si possono correre rischi e, prima di ogni curva, sollevato sulle gambe, mi sporgo per vedere in anticipo quello che mi aspetta. La parete di roccia gira, lo sguardo la insegue cercando la fine con il fiato sospeso; la tensione previene il pericolo, le ruote filano veloci sulla terra e vorrebbero continuare. Ma improvvisamente il cuore mi sale in gola, l adrenalina inonda i muscoli, le dita stringono i freni, i tacchetti bloccano i cerchi e i copertoni sollevano una nuvola di polvere: mi trovo davanti il muso di uno yak! Come evitare la carovana dei grossi bovini e il baratro? E la fine. I bestioni, con le corna e i carichi sporgenti alla vista del proiettile a due ruote sono presi dal panico e non sanno più dove cacciarsi: qualcuno indietreggia e urta gli altri, qualcuno cerca di arrmapicarsi o di scendere il dirupo, poi si intasano e rimane loro una sola scappatoia...dritti verso di me! Mi butto da una parte ma, per carità, non dal lato del baratro: se mi passano a fianco e mi urtano volo di sotto. Mi schiaccio con tutta la bici contro la roccia... Me la vedo brutta ma il pericolo è sventato: la carovana corre via. Con quale coraggio ora svolterò la prossima curva? Guardo ancora le montagne...la visione è talmente affascinante che non mi lascio dissuadere, ma rallento la marcia. Con la notte arriviamo a Tiamboche dove sorge l omonimo monastero buddista. E un posto affascinante: un simpatico lodge ci accoglie con un stufa ardente e una calda atmosfera. La notte risentiamo dell altezza, ma è normale, occorre un po di tempo all organismo per adattarsi. Alla volta di Pangboche Il giorno dopo, lasciato il monastero alla volta di Pangboche, attraversiamo una facile radura nella vegetazione e nel fango. Chiude la valle una stretta gola di roccia, un ponte sospeso attraversa il fiume e ci troviamo su grossi e impegnativi lastroni di pietra. Il pericolo è sempre in agguato e le difficoltà sono notevoli. La prudenza è la qualità più apprezzata e necessaria. Lungo il sentiero incontriamo iscrizioni votive, chorten (sorta di piccole edicole religiose) e divinità dipinte sulla roccia. Il misticismo che avvolge questo luogo è così forte e denso da conferire all aria una fragranza particolare: un po come in una cattedrale gotica con nervature in granito, guglie di 7-8000 metri, archi rampanti di ghiaccio e la caratteristica aria fredda e umida... ma il silenzio è rotto dal soffio del vento che, come un richiamo divino, filtra da una volta celeste blu cobalto piuttosto che dalla volta a sesto acuto delle navate! Sotto al pinnacolo di 6828 metri dell Ama Dablam, le casette di Pangboche sono appena dei muretti di sassi: la vita qui è estremamente semplice e naturale. I campi coltivati, sottratti alle pietre, sono la principale e più dignitosa fonte di guadagno: con il lavoro delle braccia si producono patate e cereali, poco altro cresce sopra i 4000 metri. La sera apprezziamo la calda comodità del sacco-letto Ferrino che conclude una giornata faticosa. Siamo in compagnia di una spedizione che punta all Ama Dablam; stanno allestendo i campi, sono tre svizzeri e un ticinese, chiacchieriamo in italiano. Dando fondo alle provviste, ci facciamo raccontare i dettagli dell impresa: ci incuriosisce come si proteggano dal freddo e con quali alimenti si sostengano nei campi alti. Fino a tarda sera le parole scorrono a fiumi poi, con il freddo e il sonno scivoliamo nel sacco-letto. Il villaggio di Pangboche Tra le pietre del villaggio di Pangboche serpeggia il difficile sentiero. Gli sguardi simpatici e divertiti della gente ci seguono e i bambini ci inseguono. Sul sentiero alcuni portatori con le gerle appoggiate sulla testa si fermano a osservarci mentre giriamo delle riprese video. Emozionati e sorpresi esclamano qualcosa con voce gioiosa, poi riprendono la marcia saltellando allegramente. Noi continuiamo a filmare un po commossi per la candida ingenuità di questa gente. Nel pomeriggio la temperatura si abbassa mentre pedalo su colline di terra: indosso una calzamaglia in ACL e devo cercare di non fermarmi per non essere assalito dal freddo. Pheriche è come un piccolo villaggio medioevale situato sulla via dei pellegrinaggi: due file di botteghe e caravanserragli di fianco alla strada. Colonnine di pietre con scolpite le preghiere buddiste, recitate dal sussurro incessante del vento, adornano i valichi testimoniando la devota fede. Tra le rocce della morena escono cascate cristallizzate. Attraversiamo il torrente che scorre tra pietre ricoperte di ghiaccio e forma vasche gelate; siamo a quota 4926 metri e si sente. In cima alla morena il sentiero attraversa una ripida scarpata erbosa che intrappola le ruote in un crudele attrito. Pedalare su un terreno così soffice è stancante e la carenza d ossigeno rappresenta l ostacolo maggiore: percorso un breve tratto, il fiatone stringe la gola e la fatica attanaglia i muscoli. Procedere comincia a diventare una tortura: è il tratto più impegnativo della salita. Per un alpinista questo percorso non presenta grosse difficoltà: può rallentare il passo o addirittura fermarsi; l uomo a piedi ha molte più alternative. Invece per me, seduto in sella, l andatura ha un limite minimo da mantenere, sotto il quale si cade! Per questo la prestazione di elevata dinamicità alla quale mi devo

sottoporre è estremamente impegnativa: è un po come correre in salita. E chiaro che potrei fermarmi, scendere e continuare a piedi, ma la mia impresa consiste proprio nel non scendere dalla bicicletta; queste sono le regole che mi sono imposto, le ho fatte io e devo rispettarle: se cedo alla tentazione e alla fatica, se scendo a piedi dove si può pedalare, ho perso la sfida! La vita ce lo insegna: mentendo si imbrogliano gli altri ma non se stessi e si rimane con il desiderio di sapere se ce l avremmo fatta senza barare. Solo affrontando la realtà si impara a conoscerla e si acquista il coraggio e la sicurezza per viverla. Respiro affannosamente per irrorare il più possibile i muscoli d ossigeno, prima che ne soffrano la mancanza; la gola è bruciata dall aria gelida e secca. Il pendio erboso continua con un inclinazione costante e la mia meta si nasconde dietro la curvatura in cima alla salita. Spingo sui pedali con forza e ad un ritmo elevato fino a sentire i muscoli esplodere, lacerarsi dilaniati dalla bicicletta che li tira, come se fosse lei a impormi il movimento. Tale è lo sforzo che mi viene il dubbio di non farcela. Che succederà alle mie gambe? E se dovessero cedere, strapparsi i muscoli, scoppiare e non farcela più? Ma è proprio questo il pensiero che devo evitare: non devo aver dubbi, ce la farò! Devo concentrarmi sulle risorse che ho a disposizione: respiro più intensamente, tiro il manubrio con le braccia in un movimento ritmato per far intervenire tutto il corpo, compio una pedalata integrale in modo da sforzare muscoli diversi durante tutto il giro di pedale. E difficile, ma proprio il sottopormi a sfide estreme mi ha portato oltre, fino a superare me stesso. Così ho capito che un azione è sempre legata ai sentimenti e alle emozioni che ci stimolano a compierla: non è importante il risultato ottenuto ma come lo si ottiene. Ma poi l impressione di soffocamento mi assale, i polmoni sembrano rimanere vuoti, i muscoli cominciano a bruciare e credo di annegare come se fossi in fondo al mare! Anche respirare non mi dà abbastanza sollievo e con i polmoni pieni ho ancora la sensazione di asfissiare. Ora conosco il limite, questa è la realtà delle cose: in funzione di essa formulerò le mie scelte future.. Devo riprendere fiato a lungo prima di poter ripartire. Il Khumbu Il Khumbu, che lambisce il sentiero, è un così detto ghiacciaio nero, perché è coperto di pietre e detriti. Quando ci si trova sopra non lo si distingue dalle colline moreniche che lo circondano, solo ogni tanto si aprono dei crepacci in cui si vede il ghiaccio. A Lobuche troviamo una manciata di casette di pietra e diverse carovane di yak si riposano. Arriviamo lì per la sera. La mattina cerchiamo la bici sepolta da mezzo metro di neve: una bufera ci avvolge e siamo incerti se partire; alla fine ci infiliamo tra i fiocchi bianchi. Per individuare il sentiero seguo le impronte degli yak di una spedizione inglese. Procedere è veramente difficile con tutte queste avversità: il foulard che mi copre la faccia per filtrare l aria si ghiaccia, ci sono una decina di gradi sotto zero; pedalo intorno ai 5200 metri e l organismo deve lavorare intensamente per compensare le molte mancanze. Ma lo sforzo da compiere è l ultimo: questa sera dormiremo a Gorak Shep, il campo base. Il denso strato di nubi diffonde una fioca luce che non dà né ombre né colori: se non fosse per le tinte delle nostre giacche Berghaus il mondo sarebbe in bianco e nero! Il labirinto di pietre e blocchi di ghiaccio è un paesaggio suggestivo: appare come un mare di sassi in tempesta con onde alte decine di metri. Come posso pedalare alla cieca fra tanti ostacoli? Urtando i sassi nascosti, cado di frequente e sono costretto a movimenti veloci e intensi che richiedono molte energie. Finalmente, nel disordine della morena, vedo delle forme regolari: sono i piccoli ripari di pietra del campo base: ce l ho fatta! Sono a 5288 metri. Abbraccio Stefano: non credevo sarebbe stata così dura, non credevo di arrivare così in alto. Il mal di testa aumenta appena ci fermiamo, per vincerlo ci idratiamo con quattro scodelle di minestra e con del Grana Padano per rimetterci in sesto. La notte si alza una tempesta proveniente dal Tibet, la temperatura scende a -25 C. Tra le mura passano le lame gelate del vento. Per fortuna i sacchi letto sono collaudati per queste situazioni e ci proteggono il sonno. L indomani le spettacolari cime hanno lunghe criniere bianche che svolazzano al vento: la tempesta sta spazzando via la neve e soffia, gelida, almeno a 80 km/h. Noi non siamo ancora soddisfatti e affrontiamo il vento per raggiungere il Kala Pattar, la cima nera situata sopra al campo base, a 5545 metri. La salita, estremamente ripida e pietrosa, sembra impossibile. Poi procedo obliquamente e riesco a far fronte alla resistenza del vento. Il tragitto è breve e tra i blocchi di pietra raggiungiamo la cima. Il sacro Sagarmatha Finalmente si apre davanti a noi la vista del sacro Sagarmatha, l Everest, fino ad allora coperto dal Nuptse: regna sovrano sul tetto del mondo. Per noi è una straordinaria vittoria: il mondo, visto dal tetto, sembra essere ai nostri piedi. La soddisfazione è un emozione così intensa che riempie e appaga, ho dato il massimo e mi sento ricambiato con la stessa carta: una vittoria completa e una natura generosa e riconoscente verso i miei sacrifici. Ma dopo ogni salita si deve scendere! In bici è sempre la parte più gratificante: sembra di salire apposta per questo. Non è vero ma mi accingo a concentrare in poche ore l intensità di una lunga salita: in un solo giorno brucio tutta la strada fatta all andata, mettendo alla prova la prudenza e i riflessi e dimostrando il saggio e valido utilizzo della mtb. Dopo questa straordinaria prova mi si saprono illimitate possibilità per la mia mtb e per la mia vita: imparando a staccarmi dagli schemi convenzionali ho capito come ottenere un benessere più maturo e dargli il giusto valore. n. 61 e 64. Articolo pubblicato su BdM - Mountain Bike World / febbraio 1996

Isole Cook: vacanze con la mtb di Pietro Jovane - BdM - Mountain Bike World, settembre 1996 Isole Cook, 3000 chilometri a nord-est della Nuova Zelanda. Un paradiso marino abitato da una popolazione accogliente e serena, dove con le due ruote si può assaporare al meglio la loro bellezza: spiagge bianche, mare turchese, palme da cocco e atmosfera coloniale. Le Isole Cook mi apparsero, in sogno, come remoti scogli di lava eruttati dal cuore della terra, coperti di palme e coralli, su cui viveva un popolo di adulti-bambini cresciuti in grembo a madre natura. Sentivo il caldo sole dei Mari del Sud, dormendo beatamente sulla poltrona della Business Class, tra Honolulu e Rarotonga, avvolto nella morbida coperta di lana New Zelandese. Poi la gentile assistente di volo mi avvertiva che potevo smettere di sognare: era arrivato il momento di viverlo il sogno! L aereo dell Air New Zealand lascia me e il mio amico Francesco sull isola, un po come un vascello lascia i coloni sulla spiaggia, e prosegue il suo volo verso Auckland. Mi sento smarrito su 67 km quadrati di terra in pieno Oceano ma l inquietudine passa subito: tirate fuori le Lee Cougan dai cartoni ci prepariamo a esplorare l isola quasi duecento anni dopo che gli ammutinati del Bounty la scopersero. In un tratto dimenticato della costa troviamo un lodge tranquillo ed economico, il Rutaki. Sembra che da anni nessuno abbia più messo piede su questo angolo dell isola: le persone sono gentili e accoglienti e cercano di metterci a nostro agio. L atmosfera che si respira è quella coloniale: un vecchio ci guarda fissi dalla sua bottega, il legno è sverniciato, la finestra è senza vetri, la stanza è buia, la testa è appoggiata alla mano per non cadere. Ancora non sappiamo se ci guardava o dormiva! I primi giorni dormiamo in piedi: dobbiamo abituarci al fuso orario. Percorrendo il perimetro dell isola ci fermiamo diverse volte incuriositi dalle valli e dagli angoli nascosti. L isola Rarotonga Rarotonga è un isola di recente formazione quindi il suo interno è ancora costituito da grandi montagne, speroni rocciosi e una densa foresta. La barriera corallina in alcuni tratti è ancora interrotta e in altri è molto vicina alla costa formando invitanti spiaggette bianche. Il giro dell isola è di 32 chilometri percorrendo la Ara Tapu, strada sacra, intersecata dalle numerose stradine che portano all interno delle valli. I luoghi da visitare sono molti ed essendo brevi le distanze maggiore sarà l attenzione con cui potremo osservare ogni cosa. Scopriamo subito che il ritmo della vita è proporzionato alle dimensioni dell isola: è tutto così lento che il tempo vola. Per cominciare daremo un occhiata in giro e ci faremo un idea generale: andiamo ad Avarua, capitale dell arcipelago, e facciamo colazione al Blue Note Caffè. All ombra della veranda, sorseggiando una bevanda alla frutta, ci godiamo l atmosfera creata dal luccichio dell Oceano, le onde spumeggianti sul reef e il relitto del brigantino Yankee che sembra disegnato da Hugo Pratt in un avventura di Corto Maltese. Il Cook Islands Tourist Authority è giusto alle spalle (tel. 682-29435, fax. 682-21435), prendiamo delle informazioni per organizzarci gli spostamenti sulle altre isole. L aria fresca e limpida è particolarmente rilassante e non riusciamo a percorrere più di qualche chilometro che un attraente spiaggetta ci cattura. Girando in senso antiorario dal Rutaki Lodge, dopo meno di un chilometro, prendiamo una stradina che s inoltra nelle piantagioni. In lontananza vediamo un pinnacolo di roccia spuntare dalla giungla che diventa la nostra meta. Ma la stradina non continua per molto, si ferma poco prima delle cascate di Wigmore che raggiungiamo a piedi. Il torrente Papua Il torrente Papua forma un laghetto in cui fare il bagno in acqua dolce e fresca dopo l accaldante salita. Questo sentiero continua attraverso l isola, nella giungla, sotto le montagne e il pinnacolo, e scende nel distretto di Avati. Diverse stradine come questa si inoltrano nel cuore dell isola ma nessuna l attraversa, si rimpiccoliscono diventando dei sentieri che spariscono nella giungla. Oltre alla strada principale, l Ara Tapu, che gode di una buona manutenzione, un altra strada più interna e più antica, originariamente costruita in blocchi di corallo, passa tra le coltivazioni alle pendici delle montagne, l Ara Metua. Tranquilla e poco trafficata, attraversa gli spazi bucolici polinesiani. Fermandoci a chiacchierare con i contadini che lavorano scopriamo un mondo parallelo al nostro ma basato su principi completamente diversi: la vita è vissuta in modo emozionale e non materiale. La terra è una divinità fertile e il contadino la lavora e la feconda. La terra generosa offre tuberi, frutta, ortaggi, fiori e ogni cosa desiderabile. Alle 10 di domenica mattina, nelle cinque chiese della CICC (Cook Island Cristian Church) si celebra la messa contemporaneamente e le donne indossano i vestiti ricamati e i tipici cappellini di merletti bianchi. Vicino all aeroporto una strada sale all ospedale e continua oltre, fino ad un cucuzzolo da cui si gode la vista del distretto di Arorangi con le colline di muschio e la pianura più coltivata dell isola. Per tenere vive le tradizioni i giovani si ritrovano al Cultural Village dove danzano, intrecciano fiori e foglie e raccontano leggende. Nel distretto di Matavera troviamo un altra stradina che scorre nella foresta tra piante dalle foglie giganti, alberi con grossi fiori rossi e frutta selvatica.

La scoperta della Nuova Zelanda Ci godiamo il fresco tra la vegetazione e in tutto relax, sdraiati su un pareo, leggiamo la storia Maori che racconta della scoperta della Nuova Zelanda: nel 1350 partirono dal Natangi Harbour sette grandi tronchi scavati, con bilancieri stabilizzatori, guidati dagli dei verso la terra su cui si sarebbero fermati per la vita, a ondate successive, i figli dei figli dei guerrieri. Tra le usanze dei nativi molte altre notizie ci colpiscono: il culto dei grassi, oggi sicuramente non più osservato, l attribuire alla morte cause divine e non naturali e non concepire l esistenza di un creatore ma immaginare le isole emerse dalle profondità della mitica Awaiki. Nel distretto di Ngatangiia incontriamo una stradina che costeggia il torrente di Avana e s inoltra nella montagna; verso il mare c è il tratto di laguna più bello dell isola: il distretto di Muri con i suoi motu (isole formate dalle noci di cocco) di sabbia bianca coperti di palme. L acqua cristallina e tiepida è ricca di vita e i colori sono affascinanti. Il mare accarezza la spiaggia con un soffice sciacquettio e le foglie delle palme ondeggiano dolcemente nella brezza. La luce dell aurora, fresca e tersa, ricopre tutto con una gelatina di cristallo rosato. Cullate dalla tiepida acqua della laguna, le noci di cocco vagano per posarsi su una spiaggetta e formare un altro motu. Tra le palme aspettiamo che il sole cominci a scaldare l aria. Su Rarotonga sventola la bandiera blu con un circolo di quindici stelle, quante le isole dell arcipelago, e il quadratino inglese che dimostra l autorità della Corona sulle Cook e la semi-indipendenza dalla Nuova Zelanda. L atollo di Aitutaki Diversi piccoli aeroplani dell Air Rarotonga volano ogni giorno sulle numerose isolette dell arcipelago sparse per l Oceano, Francesco ed io carichiamo le due Lee Cougan su uno di questi e dopo un breve volo avvistiamo l atollo di Aitutaki: una gemma turchese incastonata nell Oceano di lapislazzulo si avvista distesa all orizzonte e piano piano prende forma allargandosi sotto i nostri sguardi. In mezzo alla laguna di sabbia c è l isola vulcanica, ciò che rimane dall eruzione di migliaia di anni fa. I Maori (abitanti delle isole) dicono che siano stati gli abitanti di Aitutaki a portare l isola in mezzo all atollo; sostengono sia stata tagliata dalla montagna Raemaru di Rarotonga e trasportata attraverso il mare! Le sale d attesa del piccolo aeroporto di sabbia dove siamo atterrati sono dei bungalow di paglia; la prima cosa che notiamo è che sull isola esistono pochissime macchine e le strade sono tutte di terra e pasta di corallo: una fitta rete di sentieri s insinua in tutti gli anfratti, nella foresta fin sulla spiaggia, un paradiso per le nostre ruote artigliate! Attraversando il villaggio di Arutanga, il più grande dei sette distretti dell isola, ci troviamo nel bel mezzo di una cerimonia religiosa con la lunga processione di stendardi, la banda e le donne in abito bianco e cappellini. La popolazione di questo atollo è molto religiosa e bisogna rispettare le loro abitudini e credenze per non irritarli. New Jerusalem C è persino un distretto, nella parte meridionale dell isola, che si chiama New Jerusalem dove il Vangelo è seguito alla lettera, si vive in armonia con la natura senza né luce né prodotti industriali. Per arrivarci abbiamo percorso un tratto di strada sterrata nel bosco che non prosegue oltre perché inghiottita dalla vegetazione. Intuiamo che poche persone vengono da queste parti; scavalcando tronchi abbattuti e passando sotto ai cespugli arriviamo al distretto di Tautu. Nei dintorni si trovano dei resti di marae, gli antichi templi Maori, ormai poco visibili. Al centro dell isola saliamo sul pianoro di un simpatico villaggio; dall alto, tra le palme e gli alberi da frutta dei rigogliosi giardini, si domina la costa e la laguna. Saliamo ancora fino a Maungapu, il punto più alto dell isola, a 124 metri: seguendo con lo sguardo il reef lo vediamo girare tutt intorno e oltre c è l Oceano. Per la prima volta, dopo averlo visto dall aereo, ammiriamo l atollo tutto intero. A sorprenderci arriva una balena che fa uno spruzzo e si immerge: le proporzioni cambiano e a confronto dell enorme cetaceo l isola sembra ancora più piccola, sospesa sul misterioso mondo marino. Lungo il versante orientale dell isola ci sono dei pontili dove attraccano le piccole imbarcazioni da pesca e i motoscafi. Da qui si parte per i motu disposti nella parte sud-est della laguna. Lo scopriamo al Crusher Bar, dove andiamo a mangiare filetto di mai-mai (pesce vela del Pacifico), preparato da Lesley; Riki, il simpatico padrone del ristorante ci porta con il suo motoscafo e con sua figlia a One Foot Island dove il motu Tapuaetai è uno dei più incantevoli scorci che il Pacifico possa offrire! Un mare di sabbia corallina accecante con canali e vasche di limpidissima acqua tiepida traboccante di variopinti pesci e tutt intorno la fresca ombra delle palme. Articolo pubblicato su BdM - Mountain Bike World / settembre 1996

Hawaii: nel Tropico del Cancro di Pietro Jovane - BdM - Mountain Bike World, ottobre 1995 Situato appena a sud del Tropico del Cancro, l arcipelago delle Hawaii è una meta ambita per biker avventurosi e surfisti arditi. Le isole assicurano itinerari suggestivi tra una natura rigogliosa e il fascino dei vulcani ancora in attività. La dea della creazione ha gli occhi di fuoco. E una dea buona e cattiva: dà la vita, crea le montagne ma allo stesso tempo uccide. Il suo carattere generoso e materno è anche maligno e crudele. I suoi capelli di lava rossa infuocata le si posano sulle spalle addensandosi in un mantello avvolgente di dure incrostazioni rocciose su cui, spumeggianti, si infrangono le onde. Sul suo fertile corpo cresce rigogliosa una ricca vegetazione che dà riparo e sostentamento agli uomini e agli animali. A lei venivano sacrificate vittime per ringraziarla e per scongiurare la sua benevolenza. Questa dea è il vulcano, imprevedibile e incombente sulla vita degli uomini. Gli anziani delle isole la ricordano con tante leggende risalenti al tempo in cui, prima dei missionari, le Hawaii erano sotto l influenza di divinità animiste. Oggi la natura delle Hawaii sembra rimasta la stessa e segue il suo corso come da migliaia di anni. Anche il vulcano continua ad eruttare e rimane un aspetto dell arcipelago intorno al quale ruota la cultura. Ma oggi il fulcro della cultura è il turismo! Molte cose sono cambiate nell arcipelago. Di hawaiani ne sono rimasti pochi ed è stata assegnata loro solo un isola dove esprimere le loro tradizioni. Nelle altre isole le autostrade, i grattacieli, gli shopping center e l organizzazione statunitense hanno sostituito l atmosfera dei Mari del Sud con quella della main land californiana. Volando sopra Honolulu si ha l impressione che la piccola isola di Oahu sia completamente sommersa dagli edifici della capitale. Si atterra passando sopra Pearl Harbor, proprio come i caccia giapponesi durante il più famoso attacco aereo del Pacifico della Seconda Guerra Mondiale. Il volo del 747 dell Air New Zealand arriva alle 2 del mattino: è il momento più tranquillo per andare a Waikiki percorrendo la Freeway, che di giorno è trafficata e pericolosa. All alba mi fermo a fare colazione sulle panchine del lungomare e già a quell ora i surfisti mettono le tavole in acqua per cavalcare qualche onda prima di andare a lavoro o a scuola. Waikiki è il centro turistico della città di Honolulu, dell isola e dell arcipelago: una selva di grattacieli fronteggia il mare, negozi e shopping center lambiscono le ampie Avenue, sulle spiagge si riversano migliaia di persone dagli aspetti più stravaganti. Mi fermo all Interclub, in Kuhio Avenue, nel cuore della città, a un passo dalla spiaggia. E un cosiddetto backpakers place dove alloggiano i ragazzi che vanno in giro per il mondo con lo zaino in spalla. Con pochi dollari si ottiene un posto dove dormire e incontrare gente strana, non sempre raccomandabile! Per viaggiare indipendenti e campeggiare occorre ottenere un permesso e prenotare il camping, ma i campeggi sono tutti pieni. Nei dintorni della città esistono degli itinerari interessanti tipo quello che si sviluppa nei pressi dell università, che conoscono tutti, o la salita al Diamond Head, un piccolo vulcano attaccato a Waikiki, dal quale vale la pena ammirare la città al tramonto. Ai piedi del cratere passa l omonima Road, proseguimento della Kalakaua Avenue che esce da Waikiki. Lungo la Kalanianaole Highway che costeggia l Oceano, si affollano lussuose ville in cui i ricchi e facoltosi proprietari competono nell ostentare i propri beni. Il massimo dello sfoggio lo vedo al Kahala Hilton, dove un laghetto artificiale che si estende tra i pilastri dell edificio, ospita variopinti pesci tropicali di grosse dimensioni e due delfini salutano i turisti che passano sul ponticello, compiendo salti acrobatici. Il parco marino di Hanauma Bay Il primo vero impatto con la natura ancora integra avviene ad Hanauma Bay dove è stato istituito un parco marino. Si tratta di un insenatura quasi perfettamente rotonda. La baia ha un apertura verso l Oceano da cui entrano delle onde di dimensioni leggendarie; una meravigliosa spiaggia orlata da palme fa da cornice e ospita i surfisti. Dalla strada d accesso alla spiaggia si vedono, attraverso l acqua limpida, i pesci tra i coralli e, con un po di fortuna, anche le tartarughe marine. La costa continua frastagliata e la strada è tagliata nella scogliera su cui l Oceano si abbatte con grande violenza. Ogni spiaggetta raggiunta dalle onde, raccoglie un assembramento di giovani in calzoncini e canottiera o a torso nudo, con un surfboard o un buggi, pronti a cavalcare le onde. Questa punta dell isola, a est, è meno affollata e frequentata perché la Pali HWY, che proviene dal centro di Honolulu, attraversa la catena di montagne e arriva a Kailua; da qui poi continua una sola strada intorno all isola, la Kamehameha HWY, che raccoglie tutto il traffico. L estate è la stagione in cui gli uragani fanno visita all arcipelago. Quando arrivo a Waimanalo Beach il cielo è ormai coperto e Emilia sta passando a 100 miglia dall isola. La gente mi consiglia di non continuare da solo e meno che mai a campeggiare: se l uragano dovesse arrivare ancora più vicino, il vento potrebbe portarmi via con tutta la mia roba. Dei polinesiani mi invitano a restare con loro e trascorro una giornata sotto al loro tendone ben ancorato a terra: chiacchieriamo mentre fuori piove. La semplicità di questa gente è sconvolgente: conducono una vita non certo facile, dovendo conciliare la propria cultura con la società consumistica, capitalista e materialista americana; nonostante tutto, uno di loro, Jim, mi dice che lui non si lamenta mai, e detesta quelli che si lamentano, perché

comunque la vita ci dà abbastanza e bisogna gioire per quello. Dopo un giorno di sosta riparto sotto una leggera pioggerella. La temperatura è comunque molto alta: clima tropicale. Porto sempre delle provviste con me come della frutta secca e del Grana Padano per le situazioni d emergenza: cibi nutrienti e dal gradevole sapore. Basta trovare un po di pane e me la cavo in qualsiasi situazione. Da questo punto di vista le Hawaii sono perfettamente organizzate: ci sono supermercati sparsi per tutto il perimetro dell isola e l orario di apertura spesso arriva fino a tarda sera o addirittura 24 hours. Nella valle di Kaawa Nella valle di Kaawa il ranch di Kualoa è situato in una posizione stupenda e con 4000 acri di sorprendente natura intorno. Nell ambiente in cui è stato girato Jurassic Park ci sono splendidi itinerari di Bike&Hike cioè bici + trekking nella foresta pluviale tra palme e felci, fino al monte Ko olau da cui si può godere della vista sull Oceano. Tra le piante selvatiche ce ne sono alcune che producono deliziosi frutti rinfrescanti. Dà un senso di grande libertà e armonia con la natura, poterli cogliere direttamente dall albero e mangiarli. Un escursione molto bella è nella valle delle Sacred Falls, le cascate sacre. Il cancello d accesso è spesso chiuso e cartelli di pericolo d inondazioni scoraggiano i visitatori del parco. Non preoccupatevi: vi accedono tutti, basta essere un po prudenti e non si corrono rischi; aggirando la recinzione si prende il sentiero e si arriva fino al torrente con la bici. Un breve tratto a piedi conduce dove i due versanti delle montagne quasi si toccano e uno scivolo di roccia scavato dall acqua accoglie le piene improvvise. Poco sopra c è un laghetto con una cascata: è la miglior ricompensa ad una giornata di caldo. Questo tipo di escursioni è comodo farle con la bici scarica, quindi conviene trovare un posto dove lasciare i bagagli, ad esempio fare amicizia con Tuey, il padrone dell Hau ula Gifts shop, simpaticissimo viaggiatore che ora vende souvenir e oggetti tradizionali. Poco più avanti c è il circuito di Hauula, in inglese loop trail, un sentiero che sale le colline, tutto nel bosco, dal quale si può godere di punti panoramici molto belli. Questo è terreno pubblico ma forse non esattamente dedicato alle mountain-bike! Rispettate i pedoni! A Kahuku esiste un altro itinerario di circa 30 miglia che s inerpica sulle colline; alcune strade conducono a basi militari ma non c è da preoccuparsi, in genere i marines sono molto gentili! Passata l estremità nord dell isola, sul versante occidentale si trova la spiaggia dei campionati invernali di surf: Sunset beach. Sul litorale esistono parecchi giardini attrezzati con servizi igienici e docce; non sarebbe consentito campeggiarvi ma non trovando alternative, lo confesso, ci ho dormito! La Pupukea Road Altri itinerari consentono di conoscere l interno dell isola: la Pupukea Road dopo poco diventa di terra e fa un bel tratto nei boschi. Anche alla Waimea Valley, dove c è un bel giardino botanico con delle cascate, organizzano simpatici itinerari in mtb. Il giro di Ohau si può considerare terminato, gli hawaiani sconsigliano di procedere oltre, lungo la costa. Così, in autostop con tanto di bicicletta, arrivo ad Honolulu. Per gli itinerari conviene rivolgersi a chi ha accesso ai luoghi più belli e organizza raid: Kualoa Ranch tel. (808) 2378515 o Waimea Valley tel. (808) 6388511. La scelta di quale altra isola visitare non è facile ma mi lascio attrarre da Big Island. Chiedendo un po in giro scopro una piccola agenzia di viaggi, la Pacific Monarch Travel, dove prendo un biglietto molto economico per Hilo con l Hawaiian Airlines; 10 dollari in più sono per i bagagli in eccedenza come surf o biciclette, che comunque non richiedono imballaggio. Il volo è comodo e veloce e la vista dell arcipelago dall alto è suggestiva. A Hilo per dormire non c è molta scelta e per fortuna, lungo la Kalanianaole Avenue, trovo il posto migliore: Arnott s Lodge, 98 Apapane Road, tel. (808) 9697097. Offrono la frutta del giardino: casse di papaie, avocadi, banane... Organizzano escursioni nei posti più interessanti dell isola, come il cratere di Kilauea dove la lava scorre al mare, oppure nella foresta pluviale della valle di Waipi o, sulla cima del vulcano Manua Kea di 4600 metri d altezza, e poi la possibilità di fare il bagno con le tartarughe marine alla spiaggia nera. Queste escursioni, se avete abbastanza tempo, le potete fare con la vostra bicicletta: al lodge potrete raccogliere informazioni utili e magari trovare dei compagni di viaggio. Il distretto di Volcano dista 28 miglia da Hilo e si raggiunge in una giornata, attraversando foreste cresciute sulla lava di recenti eruzioni come quella dell 85 che quasi distruggeva Hilo. Nei prossimi quattro anni è prevista un altra eruzione di proporzioni simili! Nel Parco di Volcano Nel Parco di Volcano è un problema passare la notte: per questioni di sicurezza, ci sono molti divieti ed è obbligatorio andare in hotel. Lasciando l ingresso al Parco sulla sinistra e continuando oltre si trova un campeggio ma è in un posto non molto bello e lontano da dove la lava scorre in mare: visione mozzafiato di notte più che di giorno, quando la luce rossa del magma fende le tenebre. Tutta la zona è veramente suggestiva come la grossa caldera del Kilauea: un buco tagliato nel terreno e tra gli alberi, dal quale salgono i vapori di zolfo. Una ripida e lunga discesa conduce alla costa e dei cartelli avvertono di fare attenzione

perché la strada potrebbe spaccarsi, la terra aprirsi e da un momento all altro verificarsi... l apocalisse! Ma non vi allarmate, trovo sia un pò esagerato: si tratta solo di qualche terremoto! Costeggiando il mare, l asfalto sparisce sotto le strisce nere delle colate più recenti e una colonna di fumo si alza dall acqua: il magma continua a scorrere e si getta in mare raffreddandosi in nubi di vapore. Se vorrete trascorrere qualche giorno nella zona, esistono diversi itinerari a piedi ma anche con le bici. All ingresso del Parco chiedete ai ranger le carte e le condizioni dei sentieri, assicuratevi che ci sia acqua, e informatevi su cosa si possa fare e cosa no: gli americani sono ossessionati dal bisogno di avere divieti e regolamenti, sembra proprio non sappiano gestirsi da soli. E voi dovrete adeguarvi. A meno che non troviate un altra soluzione dovrete risalire la scarpata per tornare sulla Volcano HWY. Tutto il paesaggio è stato trasformato dalle eruzioni degli anni scorsi e si attraversa un deserto di blocchi di pietra bruciata, in cui appaiono i primi germogli con i quali la vita ritorna. Bisogna percorrere circa 50 miglia, continuando il giro dell isola verso sud, per raggiungere il punto più meridionale degli Stati Uniti: Ka Lae. Riconoscere la South Point Road non è così semplice perché non è segnalata, ma dopo Naalehu c è un cartello con indicato Kau Baseyard e, prima della chiesa di Waiohinu, prendete la strada a sinistra che passa tra i prati. La zona è battuta da forti venti che sollevano giganteschi cavalloni. Enormi mulini sono posizionati sulle colline: con delle lunghissime pale spinte dal vento trasformano l energia eolica in elettricità. La HWY 19, a nord di Hilo, è in ottime condizioni, quasi monotona per il raider in mountain bike; interessanti deviazioni vi portano in luoghi più emozionanti. Poco più avanti una piccola strada porta alle cascate di Akaka e Gorgeous. Dopo aver attraversato ranch e fattorie in stile texano, di gran lusso, si sprofonda nuovamente nella natura selvaggia e nella foresta pluviale dove le lingue bianche delle cascate tagliano il verde intenso. A Waipio una scogliera cade a picco sul mare e la strada si interrompe: la vista suggestiva dello strapiombo con la cascata che si getta nell Oceano sembra un set cinematografico. Continuando per Waimea Continuando per Waimea e poi in direzione Kona, si incrocia la Saddle Road che taglia a metà l isola passando tra i due vulcani: il Mauna Loa e il Manua Kea. Il primo è ancora attivo, il secondo, più alto di 40 metri, non dà segni di vita da migliaia di anni. La strada sembra scorrere tra le montagne russe: è un continuo sali-scendi estenuante sulle strisce di lava colate dal vulcano e sui cumuli di detriti ormai irriconoscibili perché coperti da prati verdissimi. In una giornata uggiosa il paragone con la Svizzera o l Irlanda è spontaneo: ci sono perfino le mucche che pascolano sotto i pini! La strada sale fino a circa 2000 metri, si esce persino dallo strato di nuvole formate dal caldo tropicale alle pendici dei vulcani. Un piccolo bivio mal segnalato porta alla cima del Manua Kea dopo una ripidissima salita in un paesaggio lunare. Ci si trova in mezzo all Oceano Pacifico a 4209 metri di altezza, con un freddo alpino. Si vede in lontananza il vulcano gemello, l isola di Maui e le pendici che scendono fino al mare. E uno dei posti migliori del mondo per vedere le stelle e molti telescopi e osservatori astronomici puntano il cielo. Mentre il sole scende in un bagno rosso all orizzonte, in cielo i puntini luminosi delle stelle si accendono proiettandoci verso lo spazio infinito di queste isole incantevoli del Pacifico. Articolo pubblicato su BdM - Mountain Bike World / ottobre 1995