Quând cánta i pabi. Quando cantano i pabbi



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Quând cánta i pabi Quando cantano i pabbi Nota Ul pabi è il rospo bufo bufo o bufo vulgaris, cioè il rospo comune o pabbio. Quând cánta i pabi, ciuè quând cánta quíj che cánta mai, stàcch ateent e fèrmess un mumeent, varda che cambia l teemp, èl va a pioeuf o l tira veent, opuur süceed un quèjcòss de noeuf e va via ánca la gaína a fà l oeuf; peu ánca capità un quèj fatu straurdinari, cumè pissà foeura de l urinàri o fòrzi èl tempésta e l te rüína tüta la fésta e buna grazzia se rüa minga ánca una quèj desgrazzia! Quando cantano i pabbi, cioè quando cantano quelli che non cantano mai, stai attento e fermati un momento, guarda che cambia il tempo, s avvicina la pioggia o tira vento, oppure succede qualcosa di nuovo e anche la gallina va altrove a fare l uovo; può anche capitare qualche fatto straordinario, come pisciar fuori dall orinale o forse tempesta e ti rovina completamente la festa e buona grazia se non sopraggiunge anche qualche disgrazia! In natüra ul pabi - un nòm un poo uriginâl, che al dì d incoeu èl se troeuva poeu gnànca soeul giurnâl - l è n sciàtt nurmâl, nieent de particulâr, voeun de quìj che urmài se incúntra pròpi de râr, perchè se vüsa poeu tajà deent di praa, cumè hèm sèmper faa, o nà soeu e gió a pee biótt per i sentee, cunt ul sguàzz che te risána i pee. Ma quând la sira la règna l freschìn e l teemp l è püssee ümedìn, i pabi se tiren areent e vègnen fin chì in de l urtìn per dàss un basìn. Il natura il pabbio un nome un po originale, che oggigiorno non si trova più neanche sul giornale è un rospo comune, normale, niente di particolare, uno di quelli che ormai si incontrano molto raramente, perché non si usa più attraversare i prati, come abbiamo sempre fatto, o camminare su e giù a piedi nudi per i sentieri, con la rugiada che ti risana i piedi. Ma quando la sera arreca il freschino e il clima si fa più umido, i pabbi si raccolgono e giungono fin qui nell orticello per scambiarsi un bacino. Tèl chì un pabi, un sciàtt, tèl chì ch èl s è fermaa pròpi in mèzz ai mé sciavàtt e a l impruîs me pâr de vèss usservaa de chi duu ugiúni fìss che sberlüsìss: l è gràss, gròss, stramoeusc, imbranaa e broeutt mè l pecaa, che a tì, amò prìm de vedèll, te s è gemò sturciaa i büdèj e te see sgulaa via mè n üsèll! Prubabilmeent l è na fèmina, püssee gróssa del mas c e mì je lassi a stà, perché voeuri minga vèss urtigaa, ma soratoeutt perchè hin prezziûs, datu che mángien toeutt i bestiulìtt velenûs. -1-

Eccolo qui un pabbio, un rospo, eccolo qui che s è fermato proprio fre le mie ciabatte e all improvviso mi sembra di essere osservato da quei due occhioni fissi che luccicano: è grasso, grosso, goffo, imbranato e brutto come il peccato, che a te, ancor prima di vederlo, si sono già attorcigliate le budella e sei volato via come un uccello! Probabilmente si tratta di una femmina, più grossa del maschio e io li lascio in pace perché non voglio essere urticato, ma soprattutto perchè sono preziosi, visto che si cibano di tutti gli insettini velenosi. E i nuvèj, sciatìtt o sciatèj, hin püssee bèj di soeu prucreadûr e l è fòrzi per quèll che na voeulta a n bagaìn viscul e piscenìn, ghe diséven: Ma che bèll sciatelìn e s èl piangeva o poor sciatìn ; se invéci l eva un poo püssee grandèll e paciarutèll, sbrütàven cunt un: Ma varda che bèll sciatèll e a un bèll paciucùn ghe diséven: Ma va che bèll sciatùn. Ma l mûnd urmài l ha faa i soeu müdazziùn e adèss se peu poeu fà sti parangùn! Ma i novelli, rospini o rospetti, sono più graziosi dei loro procreatori ed è forse per questo che un tempo, di fronte ad un bambino vispo e piccolino, si esclamava: Ma che bel rospettino e se piangeva o povero rospino ; se invece era un po più grandicello e paffutello, si esordiva con un: Ma guarda che bel rospetto ed a un bel pacioccone si diceva: Ma guarda che bel rospone. Ma il mondo ormai ha subito le sue trasformazioni ed ora non si possono più fare questi paragoni! Comunque atenziùn a minga scunfûnd i sciàtèj cunt i bagagèj, che cántaven tüta nòcc cumè matèj, là in del laghètt che se furmàva sótt ai rivèj del Landrián, dopu un bèll tempurâl, che sudisfàva toeutt i paisán, che scudéva l ingúrda sêt del furmentùn e l purtàva via chèll grán sufegùn. Comunque attenzione a non confondere i rospetti con i ranocchietti, che cantavano tutta la notte come pazzerelli, là nel laghetto che si formava sotto le balze del Landriano, dopo un buon temporale, che appagava tutti i contadini, che saziava l ingorda sete del granoturco e allontanava quella grande afa. La lüna, silenziúsa padrúna del ceel e de la vall, la s è lavada la facia cun l aqua del tempurâl e adèss la trà là un ugiàda, ciàra e sudisfàda, invêr la gesèta de Valavèrta, che la pâr bandunàda e peu la carézza de matt i cópp stracch e la ghe dà n basìn a la campanéla, che ghe piasería vècch una suréla. Püssee in là, la sbigna curiúsa travêrs ul finestroeu d un mazzètt de cà vìcc, la inlümína una stánza e un zoeff de cavìj (cavèj) bìsc e peu cuntènta la tira drìzz. La luna, silenziosa padrona del cielo e della valle, si è lavata la faccia con l acqua del temporale e ora butta un occhiata, limpida e soddisfatta, verso la chiesetta di Valaperta, che sembra abbandonata e poi accarezza fortemente i coppi stanchi e dà un bacino alla campanella, a cui piacerebbe avere una sorella. Più in là sbircia curiosa attraverso la finestrella d un mucchietto di case vecchie, illumina una stanza ed un ciuffo di capelli ricci e poi contenta tira dritto. -2-

I pabi, sán mè i nûs, de tânt in tânt fán sentì la sua vûs, che la sgrafígna cumè se fudèssen chì apûs, però cánten de râr. Quând cánta i pabi, hin lûnch i dì cumè la nòcc, dunca l è primavera e lûr se deséden (dessíen) de la grán durmída invernâl, menu mâl, e turnen indree in de la fópa o in del laghètt induè hin nassuu, per fecundà de bèll noeuf una bèla muntunàda de oeuf. Se bràscien cunteent e cánten de goeust, dì e nòcc, cumè se giügàssen ai bòcc; se sgunfien mè i balùn e ti e sèntet depertoeutt i cantùn, perchè è s ciupaa la rivolüzziùn! I pabbi, sani come noci, di tanto in tanto fanno udire la loro voce, che graffia come se fossero qui accanto, però cantano raramente. Quando cantano i pabbi, sono lunghi i giorni quanto la notte, quindi è primavera e loro si risvegliano dal grande sonno invernale, meno male, e ritornano nel fosso o nello stagno dove sono nati, per fecondare nuovamente un bel mucchio di uova. Si abbracciano contenti e cantano con gusto, giorno e notte, come se giocassero alle bocce, si gonfiano come palloni e li senti in tutti gli angoli, perchè è scoppiata la rivoluzione. Che cánta però hin dumè i mas c che adèss, pugiaa sura n sàss, voeuren fà vedè de vèss i prìm de la clàss e sgunfien la pèll perché inscì l è püssee bèll. Fenii la stagiùn de la passiùn e de la grán cunfüsiùn, tiren ul fiaa e riprènden a vîf a l ümed, ma in dispârt, ognavoeun per sò cuunt: chi in d un buus o in d un fussètt, chi in d un praa o in d un buschètt, chì in d un fupùn o a l umbría d un murùn. E per noeum ma che bèll divertimeent adèss, adree al rugiùn de Marèss, a giugà cunt i còzz, cuzzùn o cuzzòtt, negher e grassutèj, che noden (noen) de pârt de la rógia, in di fupèj. Che canta però sono solo i maschi che adesso, appoggiati sopra un sasso, vogliono dimostrare di essere i primi della classe e gonfiano la pelle perché così è più bello. Terminata la stagione della passione e della gran cunfusione, riprendono fiato e tornano a vivere all umido, ma in disparte, ognuno per conto suo: chi in un buco o in un fossetto, chi in un prato o in un boschetto, chi nello stagno o all ombra d un gelso. E per noi ma che bel divertimento ora, lungo la roggia di Maresso, a giocare con i girini, neri e grassottelli, che nuotano a lato del torrente, nei fossetti. Ma per rüà a la sustánza del discûrs, la diss l antíga vûs che, cunt ul nòm de pabi, vegnéven ciamaa toeutt i persónn un poo svirgulaa; toeutt i matòcch, che fán i mestee un tánt al tòcch; quèll un poo inluchii che cunt ul martèll èl se pésta sèmper i dii; toeutt quìj pütòst diplumàtich (sé, no, ma, però) e un poo scümelaa, che parlen sèmper in còsa per fa bèla figüra cun la moròsa ; quèll che tì t hee gnemò de dervì la buca e luu l ha gemò sbrutaa in d un: no, ciuè, perchè, te spieghi e l ghe dà adree per sees mees, a luu la lapa e a tì i spees. Ma per arrivare alla sostanza del discorso, recita l antica voce che, con il nome di pabbi, venivano chiamate tutte le persone un po strampalate; tutti i mattacchioni, che eseguono i lavori alla bell e meglio; la persona un po rimbambita -3-

che col martello si pesta sempre le dita; tutti quelli piuttosto diplomatici (sì, no, ma, però) e un po schizzinosi, che parlano sempre in còsa per far bella figura con la moròsa ; quello che tu non hai ancora aperto bocca e lui è già sbottato in un: no, cioè, perché, ti spiego e prosegue per sei mesi, a lui la parlantina e a te le spese. Quèll che, cumpágn de la gata lecàrda, ghe piâs dumè la mustàrda; toeutt quíj che sta sèmper per cuunt sò, cumè in d una stanza ul cumò; lûr che te varden de sbièss cumè se tì te füdèsset una statua de gèss; la geent che fà di stresúrdin o di stravedè, che l è mèj minga savè; quíj che, in ògni casu, gh han sèmper de fà divêrs e mugnen cun toeutt i soeu vêrs; e peu quèll ch èl te fa decrinà e s èl fà frècc èl va in gîr cun la maiéta o la camísa e se l fà coold cunt ul paltò e la valísa. Quello a cui, come la gatta leccarda, piace solo la mostarda; tutti quelli che stanno sempre per conto loro, (lo so), come in una stanza il comò; loro che ti guardano di sbieco (come un fesso), come se tu fossi una statua di gesso; la gente che fa cose fuori dall ordinario e dall abituale, di cui è meglio non conoscere il rituale; quelli che, in ogni caso, agiscono sempre diversamente e civettano con tutte le loro moine; e poi quello che ti consuma, ti logora e se fa freddo va in giro con la maglietta o la camicia e se fa caldo con il paltò e la valigia! Ècu, quând cánta voeun de quìst chì minga matriculaa, te disi che l è gráma, cînch e trii vòtt mariána! Ma foo di esèmpi! Ecco, quando canta uno di questi poco assestati, ti dico che la situazione è grama, cinque e tre otto marianna (nel gioco delle carte)! Ma faccio degli esempi! Un mè cüsìn, inscì mai stunaa, un bèll dì èl s è metuu adree a cantà, ma ch êl mai che l ghe l ha faa fà, datu che l eva mai cipaa?!... Un estate al mare, voglia di remare (bis). L eva un bèll poo de ann, poor diàul, che l nava poeu al mâr e forzi èl mundàva gió amâr, ma intánta varda che estaa che l m ha regalaa e un aütoeun feu del cumoeun! Un sfracèll d aqua, un infinitaa, cumè de tánti ann ul ceel l eva mai poeu gulzaa, se nun dumè ai teemp de Nuè! Un mio cugino, quanto mai stonato, un bel giorno si è messo a cantare, ma chi mai gliel ha fatto fare, visto che non aveva mai aperto bocca?!... Un estate al mare, voglia di remare (bis). Era un bel po di anni, poveretto, che non andava più al mare e forse trangugiava amaro, ma intanto guarda che estate che ci ha regalato e un autunno fuori dal comune! Un immensità d acqua, un infinità, come da molti anni il cielo non aveva mai più osato, se non solamente ai tempi di Noè! A la sciura Ginuèfa, un strigòzz d una dòna, che in vita sua l eva mai lavaa un pezzoeu e gnànca n lenzoeu, a l impruîs gh è vegnuu n sfrîs e l ha faa un oeuf feu del cavagnoeu! L haá pensaa de fà la bügàda: l ha metuu a meuj un muntùn de págn in del segiùn, j ha lassaa maserà bèn bèn cun scèndra, lisíva e saùn, l ha tiraa indree i mánich, la ligaa l scussaa e intânt -4-

che la cantava, cun la spazzeta la fregava. Per un dì intreech la gh ha daa adree e peu l ha destenduu i págn nìtt netìsc soeu la lóbia a sügà, ma prìm ch èl vegnéva sira, un brevàsc, fin in mèzz a la cûrt èl ghi ha spregaa e un quèjvoeugn èl l ha gnànca poeu truaa. Alla signora Genoveffa, una donna trasandata, che in vita sua non aveva mai lavato uno straccio e nemmeno un lenzuolo, all improvviso è passato un guizzo per la testa ed ha fatto un uovo fuori dalla cesta! Ha pensato di fare il bucato: ha messo in ammollo un mucchio di panni nel mastello, li ha lasciati a bagno per bene con cenere, lisciva e sapone, si è rimboccata le maniche, si è legata il grembiule e mentre cantava, con la spazzola sfregava. Per un giorno intero ha proseguito e poi ha steso i panni pulitissimi sulla balconata ad asciugare, ma prima che scendesse la sera, un forte vento di temporale, fino in mezzo alla corte glieli ha trascinati e qualcuno non l ha neanche più ritrovato. E a la sciúra Teresa, che cumè toeutt i spregàsc la s è spusàda in de l ánn besàsc, ghe piaséva i stratàj e i cróst del furmàj. Quând gh eva l sû, la se saràva deent in cà e quând èl piuvéva, la vegnéva foeura e la curéva in mèzz al stall cumè un asen o n cavàll. E la predicava cunt i brasc avêrt: in de la vita, prìm fiadàre e segûnd vedére. Intânt ch èl piuvéva la fiadàva afôrt e la vardàva all ari tüta maseràda e la vusàva cunt i mánn valzaa: ciapèmela mè la vègn e se capíva che la parlàva de l aqua püssee che de la vita, datu che l eva sènz umbréla e finalmeent èl la brancàva sua suréla, intânt che la vusàva amò: quèll che se fa minga de pulàstra, èl se fa de gaína e la se riferiva ai fadîch, ai vìtt, ma ánca al sò òm e al matrimòni. E alla signora Teresa, che come tutti i fregacci si è sposata nell anno bisestile, piacevano i fondi e gli avanzi dei salumi e le croste del formaggio. Quando c era il sole, si chiudeva in casa e quando pioveva, usciva e correva in mezzo allo stallo come un asino o un cavallo. E predicava a braccia aperte: nella vita, primo respirare e secondo vedere. Mentre pioveva respirava forte e guardava per aria completamente inzuppata e gridava a mani levate: prendiamola come viene e si capiva che parlava della pioggia più che della vita, visto che era senza ombrello e finalmente l acchiappava la sorella, mentre ancora gridava: quello che non si fa da pollastra, da giovincella, si fa da gallina, da maritata e si riferiva alle fatiche, ai sacrifici, ma anche ai piaceri del matrimonio. A Giuánn del cassòtt, ch èl mangiava i galètt e l diséva ch even biscòtt, ghe piaséva tegnì ligaa i crüschìtt, vòtt, e i amîs, che man man che descuréven, güzzaven i barbîs e in quattr e quatr òtt, chissà perchè, vegnéva foeura un gran rabelòtt. Parlàven del poeu e del mènu, de la rava e de la fava, ma peu la situazziùn la se sgarbiàva, perché toeucc faven (faséven) varì la sua resùn e a ognavoeun ghe paréva giüsta la sua upiniùn. Segûnd la geent, invidiúsa per nieent, Giuánn èl gh eva un poo del liscùn, del lifròcch e ánca del sgalabròcch, perchè s èl prüsmava ul laurà, ghe birlàva (burlàva) adòss la slója, la pecúndria o la févera burtulàscia (bartulàscia), che dumè cunt ul -5-

mánich de la scua la se descàscia. A la fìn de la féra desbüsciunàven un bèll fiaschètt de pincianèll e n bevéven un bicerètt per oeun, perchè, cum èl diséva San Péder, ul vìn bùn l è quèll négher! A Giovanni del cascinotto, che mangiava le gallette e diceva che erano biscotti, piaceva tenure uniti i coscritti, otto, e gli amici, che man mano che discorrevano, aguzzavano i baffi e in quattro e quattr otto, chissà perchè, succedeva una gran baraonda. Parlavano del più e del meno, della rava e della fava, ma poi la situazione si ingarbugliava, perchè tutti sostenevano le loro convinzioni e ad ognuno sembrava giusta la propria opinione. Secondo la gente, invidiosa per un niente, Giovanni era un po lazzarone, fannullone e grossolano (letteralmente rompitore di rami ), perchè se fiutava il sopraggiungere del lavoro, gli piombava addosso la malavoglia, la malinconia o la febbre tontolaccia (la febbre del finto tonto, del furbastro), che solo col manico della scopa si scaccia. Alla fin della fiera stappavano un bel fiasco di nostranello e ne bevevano un bicchieretto ciascuno, perchè, come affermava San Pietro, il vino buono è quello nero! Mì pudería nà innânz amò un pezzètt prima de desmètt, ma pènsi, o cara la mia geent, che per cumbinazziùn ve sarà vegnuu in meent tánti situazziùn e alúra, intânt che sgóla (vóla) lingeer i veust penseer, mi ve salüdi e me sluntáni in punta de pee soeu e gió per i mè sentee. Potrei proseguire ancora un momento prima di smettere, ma penso, cara la mia gente, che per combinazione vi saranno tornati alla mente tanti avvenimenti e allora, mentre volano leggeri i vostri pensieri, io vi saluto e mi allontano in punta di piedi lungo i miei sentieri. 25 gennaio 2015 Angelo Galbusera -6-