Firenze, in via Romana spunta un tesoro sotto il garage
Dallo scavo di una rimessa riemerge la fornace delle ceramiche del maestro Tugio di Giunta (Firenze, Bottega di Giunta di Tugio - Fine XIV primi decenni XV secolo). Fu attiva fino al 1460 e riforniva Santa Maria Nuova. Una formella potrebbe anche aver ispirato il lavoro di Luca Della Robbia Scavavano per fare un garage, hanno trovato la fornace di Tugio di Giunta: una scoperta archeologica dal valore straordinario per la ceramica gigliata. Migliaia i pezzi emersi dalle viscere di via Romana, a pochi decine di metri dalla porta: brocche, scodelle, vasi, addirittura una formella che potrebbe essere alle origini delle ceramiche dei Della Robbia. È probabile che proprio qui siano nate le famose terracotte invetriate, in questa officina medioevale/rinascimentale con tanto di camere di cottura e buche di smaltimento affiorata casualmente nel cuore della città. Un sito capace di custodire un secolo di storia della maiolica fiorentina, raccontato dai reperti che la terra ha protetto per 600 anni, e che gli archeologi della Soprintendenza diretti da Carlotta Cianferoni ci stanno oggi restituendo. Il cantiere Si tratta del cantiere di produzione delle ceramiche di Tugio di Giunta, artigiano e imprenditore della fine del 300, titolare di famose commesse fra cui quelle dell Ospedale di Santa Maria Nuova. I suoi pregiati orcioli sono oggi esposti nei musei più prestigiosi del pianeta, dal British di Londra al Louvre di Parigi, dal Paul Getty di Los Angeles al Melbourne, in Australia. Ne abbiamo uno anche al Bargello. «Siamo certi che si tratti proprio della bottega di Tugio spiega Valeria d Aquino, l archeologa responsabile dello scavo non solo perché i documenti d archivio identificano chiaramente la bottega nella strada maestra Romana, nel popolo di San Pier Gattolino, ma anche perché nello scavo abbiamo rinvenuto molti frammenti con il marchio di fabbrica, la firma utilizzata da Tugio e dai discendenti: un asterisco a sei punte, posto alla base delle anse di boccali e orcioli». Il periodo storico I frammenti ricostruiscono l attività dell officina lungo un arco di tempo che va dall ultimo quarto del 300 alla metà del 400: si tratta di un vero e proprio tesoro, recuperato nelle diverse buche in cui il ceramista e i suoi operai gettavano uno sopra l altro i pezzi delle infornate difettose. E non solo. «Nella camera di combustione crollata, abbiamo trovato anche il materiale relativo all ultima infornata prima dell abbandono continua d Aquino il che ci dà un idea abbastanza precisa della data di chiusura dell attività, intorno al 1460». Quello affiorato in via Romana è dunque un vero compendio di storia della maiolica fiorentina, di cui fino ad oggi esistevano solo ritrovamenti sporadici: oggi invece il contesto è completo, e carico di informazioni. Per prima cosa, è possibile ricostruire le vicende della bottega, a partire dal capostipite Tugio, arrivato a Firenze nella seconda metà del Trecento. In questo periodo grazie al fervore economico sprigionato dalla fine della grande peste del 1348 cinque ceramisti si trasferiscono a Firenze, due da Montelupo, tre da Bacchereto. Fra questi ultimi è Tugio di Giunta destinato a lasciare un segno in città, soprattutto grazie al figlio Giunta (di Tugio), il vero businessman della casata, capace di far volare le commesse.
È lui a stringere accordi commerciali con varie istituzioni, il suo nome compare spesso come fornitore di ceramiche smaltate per la nuova spezieria dell Ospedale di Santa Maria Nuova. Siamo nel 1430, la Storia corre: l uomo dipinto da Masaccio o scolpito da Donatello è ormai maturo, è tempo di sperimentazioni rinascimentali, i gusti evolvono, le tecniche si perfezionano. Grazie a Giunta, la bottega si lancia in nuove esperienze produttive, il blu cobalto appare accanto ai colori più arcaici, il bruno e il verde rame. Giunta lavora alacremente, fornisce vasi farmaceutici, catini, brocche a centinaia. Le cose cambiano quando alla guida dell officina passa la terza generazione: nessuno dei figli o nipoti riesce ad acquisire la stessa manualità, a conquistare la tecnica necessaria a continuare la produzione. La fornace viene dismessa e poi abbandonata oggi lo sappiamo verso il 1460. Perché è importante Ma la scoperta di via Romana è fondamentale anche per altri aspetti: grazie ai numerosi attrezzi ritrovati, ai distanziatori, ai fili di ferro per il distacco dei vasi dal tornio etc., ci fornisce preziose informazioni sull evoluzione di strumenti e tecniche di lavoro. I reperti raccontano inoltre il cruciale passaggio dalla fase produttiva arcaica a quella «di lusso»: dalle maioliche verdi e brune divenute ormai comuni a quelle più ricercate e costose «a zaffera», dove il blu cobalto compare accanto agli antichi colori. E dove la neonata tecnica della «zaffera a rilievo» in cui il blu tende a sporgere rispetto alla superficie sembra destinata ad un futuro radioso. «Fra gli scarti racconta Giovanni Roncaglia, della Soprintendenza Archeologica abbiamo individuato una targa devozionale in terracotta con un Cristo sorretto da un angelo identico a quello che Luca Della Robbia realizza nel 1440 per Santa Maria Nuova. Non posso fare a meno di chiedermi fino a che punto il lavoro di Luca, capostipite dei Della Robbia, possa essere stato influenzato, se non addirittura ispirato da quello di Giunta». Certo il soggetto è lo stesso, e così il periodo di produzione. Ed è forse più verosimile che il grande Luca se ne andasse in giro fra una bottega artigiana e l altra cercando ispirazione o materiali, piuttosto che il contrario. Intanto, in attesa delle analisi di laboratorio sul pezzo scoperto, l ipotesi che la «zaffera a rilievo» di Giunta sia la progenitrice delle celebri robbiane, non fa che accrescere lo stupore per una scoperta di per sé già straordinaria. La novella del Boccaccio «Fra i pezzi recuperati continua Roncaglia c è anche un reperto in cui si riconoscono chiaramente tutti gli elementi di una novella del Boccaccio, quella di Lisabetta da Messina; si vede una testa mozzata in un vaso, su cui cresce una pianta di basilico». Altro che repertorio iconografico «primitivo» con foglie stilizzate e figure zoomorfe: i frammenti di via Romana sembrano alludere ad una bottega ben integrata nel contesto culturale fiorentino, in cui l orciaiolo inurbato dal contado, è in grado di riprodurre le storie che tengono banco nei salotti della città, e la letteratura si fa arte visiva su manufatti pregiati. Ancora una volta, segnale di un momento magico per la Repubblica di Firenze, dove un rinnovato fervore artistico e culturale quello dei grandi cantieri pubblici come delle commesse private viene nutrito dai profitti finanziari di un ceto borghese sempre più fiorente. Tutto questo emerge dal Rinascimento di via Romana e si deposita sul nostro oggi. Ma ora cosa succederà al cantiere? La fase di scavo conclusa, le buche ricoperte, è iniziata la ricerca dei finanziamenti che permettano la pulitura e il restauro del tesoro, e perché no magari anche una mostra. Quanto agli scavi, almeno parte della fornace potrebbe essere lasciata a vista all interno di un condominio che voleva un garage nel cortile, e si è invece ritrovato una bottega medioevale in casa. Un ipotesi mai del tutto escludibile quando si maneggia quel millefoglie glassato del sottosuolo fiorentino.
TOSCANA Firenze, Montelupo, Cafaggiolo La maiolica medievale verde-bruna fu prodotta un po ovunque in Toscana ma, con la fine del Trecento e l affermarsi delle nuove tipologie decorative legate alle fasi tardo gotica e rinascimentale, la produzione di maiolica fine e decorata sembra concentrarsi in alcuni luoghi ben precisi. Firenze, innanzitutto, diventò un centro di attrazione per numerosi ceramisti del contado che vi si trasferirono: Tugio di Giunta veniva da Bacchereto, Bartolo di Piero da Serravalle Pistoiese, Domenico di Cecco da Montelupo.
Gran parte di quella che il Ballardini chiamò Zaffera in rilievo, databile alla prima metà del Quattrocento, fu probabilmente qui prodotta. Si tratta di oggetti di uso farmaceutico, conviviale o da parata, nei quali si riflette il gusto per gli ornati ricchi e sontuosi, araldici, animali e vegetali, che si sviluppano sinuosamente riempiendo quasi ogni spazio in una sorta di horror vacui. Non lontano dal capoluogo, nell arco del quattrocento assume però sempre più importanza Montelupo, un piccolo centro che ben presto diviene il più grosso produttore di ceramica della regione. Eppure la quasi totalità della produzione montelupina, ad eccezione dei piatti secenteschi figurati, è rimasta completamente ignorata fino alla scoperta del Pozzo dei lavatoi, avvenuta a partire dal 1973. Furono a quel tempo rimossi alcuni pubblici lavatoi nella zona più antica del paese, e si trovò che erano stati costruiti su un pozzo riempito con materiale di scarico in gran parte proveniente dalle fornaci rinascimentali del luogo. Da allora il pozzo ha restituito una enorme quantità di materiale, che ha fornito una documentazione completa delle tipologie montelupine e che, restaurato ed esposto, costituisce il nucleo principale del locale Museo della ceramica. Gradualmente Montelupo divenne la fornace di Firenze, come Deruta lo fu per Perugia. Le sue officine vivevano del capitale fiorentino. Lo dimostra il contratto stipulato nel 1490 da Francesco Antinori di Firenze, col quale questo ricco e nobile mercante vincolava per tre anni la produzione di ventitre vasai montelupini, impegnandosi ad acquistarla in blocco a prezzi concordati. Dopo l assedio imperiale del 1530 non risulta che a Firenze ci fossero più fornaci, segno che si tendeva ad allontanarle dal centro principale e a concentrarle in città satelliti, per i rischi di incendio e la vicinanza alle materie prime. A Montelupo la concentrazione dovette essere decisamente notevole. La produzione si sviluppò con continuità fin dalle opere tardo medievali decorate in verde e bruno. Il secolo XV segnò, come in tutta l Italia centro-settentrionale, l acquisizione dei motivi decorativi tardo-gotici, con una spiccata componente islamica. Gli orci e i boccali con foglie di quercia blu a rilievo sono generalmente attribuiti a Firenze, ma reperti di scavo assai simili sono stati trovati anche a Montelupo. La vicinanza col porto di Pisa, entrato a far parte del dominio fiorentino a seguito della guerra del 1405-06, e il flusso commerciale dalla Spagna favorirono poi, nel corso del secolo, l imitazione delle tipologie ispano-moresche, nelle versioni arabescate blu e bianche con qualche tocco di giallo freddo, e in quelle monocrome giallo-arancio che imitano il tono del lustro. Verso la fine del secolo vi si affiancano le foglie accartocciate, la palmetta persiana e l occhio di penna di pavone in particolari versioni appiattite e geometrizzate che perdurano per tutto il Cinquecento. Si tratta di una produzione assai vasta, per la quasi totalità destinata all esportazione, qualitativamente di medio livello, per uso da tavola e farmaceutico. Vi ricorrono emblemi monastici e stemmi nobiliari, che indicano forse una committenza elevata ma che spesso, come nel caso delle armi medicee, costituiscono un generico omaggio alle famiglie dominanti. Esempio di colore rosso bolo armeno A partire dalla fine del 400 i colori consueti della maiolica si arricchiscono di un tono intenso di rosso simile al bolo armeno che diviene uno degli elementi caratteristici della produzione del luogo.
Nel corso del secolo XVI le officine montelupine esauriscono la fase più creativa: le forme si standardizzano, gli ornati si irrigidiscono. La produzione continua ad essere però quantitativamente abbondante, e alle tipologie già elaborate alla fine del secolo precedente si aggiungono quelle a ovali, ovali e rombi, reticolo puntinato, nastri spezzati, blu graffito, intrecci di vario genere. Assai comune diviene anche il motivo alla porcellana, le cui fogliette blu su fondo bianco imitano le porcellane orientali. Soprattutto nelle forme chiuse, alla base dell ansa, è talvolta tracciata la sigla di bottega. A proposito di una delle più comuni, generalmente letta come Lo, si è giunti con una certa probabilità all identificazione. Si tratterebbe della bottega di Lorenzo di Piero di Lorenzo, menzionato in un contratto del 1518 nel quale Clarice Strozzi dei Medici gli paga una serie di vasi per la sua villa Le Selve, e in alcuni pagamenti dal 1516 al 1522 da parte del monastero di San Donato in Polverosa. L aver trovato la sigla su alcuni esemplari con lo stemma Medici Strozzi e con la lettera D attraversata dal pastorale parrebbe confermare l identificazione della bottega. La seconda metà del Cinquecento non sembra per Montelupo un periodo felice, caratterizzata com è dalla continua riproposizione del consueto repertorio, e da un sostanziale impoverimento dello smalto e dei pigmenti. Si avvertono precise influenze di altri centri, di cui i vasai montelupini subivano dolorosamente la concorrenza. Da Faenza, ad esempio, allora all apice del suo sviluppo, derivano tipologie vicine ai Bianchi e suddivisioni a quartieri spesso usate nell ornato chiamato a paesi. Anche il fogliame, di influenza ligure e veneziana, occupa grande spazio nella maiolica montelupina tardo-cinquecentesca e secentesca, mentre la raffaellesca (o grottesca su fondo bianco) denota un tentativo di aggiornamento sui modelli urbinati e durantini. Alla fine del secolo XVI e agli inizi del successivo divengono numerose le committenze pubbliche, con le quali si cercava di tutelare un artigianato ormai in serie difficoltà. Fra esse spiccano le fiasche con le armi congiunte di Ferdinando I e Cristina di Lorena (1589-1602), poi di Cosimo II Medici e Maria Maddalena d Austria, eseguite probabilmente fra il 1610 e il 1621; i vasi per il completamento della farmacia di Santa Maria Novella di Firenze (circa 1520-30), e il pavimento in maiolica della Sala della Stufa in Palazzo Pitti. La caratteristica produzione dei cosiddetti arlecchini o bravacci, piatti da esposizione con grandi figure caricaturali su fondo giallo, conclude questa lunga tradizione. Cafaggiolo, manifattura che ebbe origine dal trasferimento nel castello mediceo, alla fine del Quattrocento, dei vasai montelupini Piero e Stefano di Filippo, i cui discendenti furono chiamati Fattorini. Essi continuarono le tipologie di Montelupo, e contrassegnarono la produzione con il monogramma S. P.
Siena Numerosi sono invece gli esemplari di Siena, dove, dopo una fase medievale particolarmente ricca, la produzione di maiolica continua sui modelli tardo-gotici. Verso la metà del secolo XV sono attivi i Mazzaburroni, nella cui bottega furono eseguiti i pavimenti Docci in San Francesco (1475 circa) e Bichi in Sant Agostino (1488). Il ricco fogliame gotico, gli stemmi e gli emblemi mostrano una tecnica sapiente e una qualità decorativa di alto livello. Il nuovo secolo segna per i maiolicari senesi, come ovunque, l abbandono graduale del repertorio gotico in favore di quello rinascimentale. A Siena il processo è favorito dalla presenza, nel 1502, del Pinturicchio. Le grottesche che trionfano sulla maiolica hanno indubbie parentele con quelle da lui dipinte nella libreria Piccolomini nel Duomo. Al 1504 risale il pavimento dell Oratorio di Santa Caterina, al 1507 quello a triangoli col crescente dei Piccolomini destinato proprio alla famosa libreria, al 1509 quello a grottesche proveniente dal Palazzo del Magnifico Pandolfo Petrucci, al 1513 circa quello della cappella Piccolomini in San Francesco. Appartengono a questo periodo numerosi albarelli il cui ornato si stende a fascia attorno al corpo, entro cui si avvolge il cartiglio col nome del medicamento. Essi sono decorati con grottesche minute su fondo arancione, blu scuro o nero, entro le quali spiccano bucrani, testine angeliche, cornucopie, perle, girali e delfini. Accanto all influenza del Pinturicchio si avverte quella della maiolica faentina, mediata forse dalla presenza di Maestro Benedetto da Faenza, stabilito a Siena a partire dal 1503.
Menzionato nella documentazione d archivio, Benedetto ha lasciato la sua firma su un unico piatto, quello con San Girolamo penitente del Victoria and Albert, dipinto in monocromia azzurra su fondo bianco, e con un giro di fogliette alla porcellana tutt attorno alla tesa, stilizzate in maniera particolare. Tuttavia, poiché in quel periodo a Faenza erano piuttosto comuni gli ornati a grottesche minute su fondo blu o arancione in stilizzazioni che ricordano da vicino quelle degli albarelli senesi, si è ritenuto che anche questo influsso possa essere spiegato dalla presenza del vasaio faentino. Alcuni oggetti, soprattutto forme aperte, si prestano a incertezze attributive fra i due centri, poiché in tutto simili a frammenti di scavo da Faenza, ma dotati di un fondo giallo-ocraceo ritenuto in genere tipico della produzione senese degli inizi del secolo. E questa la fase più vitale della maiolica di Siena, la cui qualità può essere paragonata non solo a quella faentina, ma al contemporaneo Petal-back derutese, con il quale pure viene talvolta confusa. In seguito la produzione diviene ripetitiva, e replica sempre più stancamente gli ornati alla porcellana, con esiti di scarso interesse. Bibliografia TourismA http://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/arte_e_cultura/17_ottobre_10/firenze-via-romanaspunta-9c2544de-ad98-11e7-9e6d-a83b89ae5387.shtml https://www.maiolicaitaliana.com/storia/toscana-firenze-montelupo-cafaggiolo-siena/