Sardegna tra due lingue

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1 Michelangelo Pira Sardegna tra due lingue 12. Una letteratura alla macchia Il faticoso viaggio della scrittura dal simbolo stilizzato al pittogramma e all'ideogramma fino all'alfabeto fonetico si fermò in Sardegna al primo stadio, cioè alle figurine dei tappeti, delle coperte, degli arazzi, delle cassapanche, delle zucche e delle conocchie: alberi, buoi, carri, balli in tondo, sempre sul punto di diventare alfabeto - come ha scritto Giuseppe Dessì - ma mai approdate alla scrittura, neppure a quella ideografica che ancora oggi viene usata da grandi popoli, presso i quali il filosofo e il poeta sono anche dei calligrafi. Invano dunque gli studiosi della paletnologia sarda cercherebbero le tracce della scrittura degli abitanti dei nuraghi. Secondo l'ipotesi più suggestiva recentemente proposta all'attenzione del professor Lilliu da un quotidiano isolano, i primitivi abitanti dell'isola distinsero le tombe dei capi con una grande lettera A (alfa) all'ingresso. Il significato della protome bovina stilizzata, corrispondente all'alef sarebbe stato non religioso, come finora si era creduto, ma laico, e avrebbe indicato il primo, il capo, come ancora la lettera alfa indica la nascita sulle croci. Insomma i sardi, nella migliore delle ipotesi, non andarono oltre la prima lettera dell'alfabeto. Non c'è da stupirsene se si considera che su biabà, l'alfabeto, ancora agli inizi del nostro secolo era ignorato dalla maggior parte della popolazione dell'isola. Non per nulla ancora oggi l'analfabeta sardo, quando vede qualcuno scrivere molto in fretta o con bella grafia, esprime un'ammirazione sproporzionata: «Se sapessi scrivere cosi sarei a Roma o a Londra». Ma già questo atteggiamento rivela una presa di coscienza dell'importanza che ha l'istruzione nel mondo moderno. Questa coscienza non vi fu mai nei secoli passati; e non è difficile intuirne le ragioni. Quando gli invasori, per le loro esigenze di comunicazione a distanza e impersonale, portarono nell'isola l'alfabeto, i sardi

2 vivevano in villaggi-universo nei quali l'esigenza della scrittura non aveva ragione di porsi. La scrittura è figlia e madre dell'implosione urbana, della città, che vive in quanto ricorda e in quanto trasmette i suoi messaggi nel tempo e nello spazio. Nel villaggio invece la comunicazione avviene attraverso incontri diretti, personali; non esistono cose importanti da dire a persone sconosciute e lontane. Nel villaggio bastava la memoria dell'uomo a ricostruire un passato che non poteva essere stato diverso dal presente; ne si sapeva immaginare un futuro diverso dal passato. Per altro, la vita eterna non si cercava sulla terra, nella storia, perché la concezione dell'aldilà prometteva incontri e sodalizi definitivi, appunto eterni. La storia aveva dimensioni individuali o familiari tutt'al più paesane. In questa situazione, come non si dava una storiografia, così non si dava una letteratura scritta. Questo, ovviamente, non significa che nel passato siano mancati in Sardegna gli uomini di lettere. Ci sono stati. E non sono mancati i tentativi di dare una sistemazione storica alle loro opere scritte in lingua latina italiana, spagnola e talvolta anche sarda. Ma qui non ci vogliamo occupare di questa forma di letteratura, generalmente integrata in funzione subalterna con le egemonie esterne via via conosciute dall'isola (23). Qui vogliamo occuparci di un'altra forma espressiva, che chiameremo letteratura impropriamente, anche perché rispetto a quella degli uomini di lettere era, per così dire, «alla macchia». Rispondeva infatti alle esigenze di uomini che vivevano «alla macchia», anche se non sempre erano banditi, alle esigenze di piccoli centri abitati che erano nel loro complesso tagliati fuori dall'evoluzione storica. Parliamo di letteratura alla macchia, come, riprendendo un lontano saggio di Antonio Pigliaru, ci è accaduto di parlare di scuola, alla macchia. La lingua del villaggio sardo era insieme comunicativa ed espressiva, per usare la terminologia degli strutturalisti o, per dirla col vecchio Giambattista Vico, era poetica come in genere la lingua dei popoli primitivi. La chiave del parlare espressivo era la rima, che come abbiamo già visto veniva cercata persino nel corso dei bisticci tra vicine. Alla rima si faceva ricorso frequente anche nell'educazione dei figli per richiamarli efficacemente al rispetto delle norme rustiche. L'uomo nasceva tra

3 le rime di chi gli augurava una vita felice e moriva rimpianto dalle rime delle attitadoras. I tentativi di istituire una prosa parlata ci furono, e se ne trova traccia nelle favole che si raccontavano intorno al focolare o nelle notti in cui si confezionava il pane: contos de cochile o de cochinzu, da non confondere coi cuentos, che erano i pettegolezzi. I personaggi dei contos erano generalmente sor mortos, gli spiriti, che si incontravano spesso coi vivi, in un mondo animistico come quello sardo. Il momento culminante di questi contos spesso era rappresentato in versi. Un giovane viandante viene ucciso e sotterrato. La terra che lo ricopre genera canne. Da una di esse in pastorello ricava il suo zufolo, che mormora: Sonami sona pastoreddu sona tue mi sonas e non mi nomenas ca m'anti mortu in sa ia 'e Solenas po unu bellu frori chi portau. «Suonami, suona / pastorello suona / tu mi suoni e non mi nomini, / che mi hanno ucciso sulla strada di Soleminis / per un bel fiore che avevo». Uomini pii venivano rapiti dagli spiriti e da questi condotti in luoghi strani dove assistevano ad eventi profetici inenarrabili: per esempio omicidi che in seguito venivano effettivamente consumati. L'incontro veniva descritto in questo modo: un uomo solo che torna al suo campo nel cuore della notte; all'improvviso viene circondato dagli spiriti che ballano su dillu e lo invitano a prendervi parte. L'uomo chiede di sapere se ha a che fare chin bios o chin mortos («con vivi o con morti»). I fantasmi (pupas) si qualificano come animas de su purgatorio, o de s'inferru. A questo punto l'uomo può declinare l'invito con queste parole: Ballate ballate vois ca sos ballos sun sol vostros cando den'esser so nostros amus a ballare nois.

4 «Ballate, ballate voi, / che i balli sono i vostri; / quando saranno i nostri, / balleremo noi». Gli spiriti del bene in seguito a questo rifiuto si allontanano coi loro canti e coi loro balli. Ma gli spiriti del male procedono al rapimento. L'uomo viene restituito dopo qualche giorno alla sua attività e non deve raccontare ad anima viva quello che ha visto: omicidio rapina o ascusogliu, tesoro nascosto che fosse. Intorno a questi temi i racconti erano infiniti. Tra i contos de cochinzu avevano ampio spazio quelli che narravano storie di maghias o fattùras riferite a persone che con parole (verbos) magiche, riuscivano a tenere lontane le cavallette dalle colture, gli uccelli dalle api, ma anche a colpire (corfare) nemici, che da quel momento erano male-fadados, malfatati. L'epilessia si curava con pratiche scongiuratone che culminavano nello sgozzamento di una gallina nera; quando ancora il sangue di questa gocciolava si pronunciavano queste parole incomprensibili: «Adonau, arabenas, eloim, ierablen, ioda, dalzaphios, abras, balaim, amen». Ai morti di mala morte si dedicava una novena speciale detta de sas animas degoliadas che culminava nel grido: «Tres impiccaus, tres annegaus, tresi mortus male» («tre impiccati, tre annegati, tre morti ammazzati»). Con i contos de mortos le donne terrorizzavano i ragazzi sostenendo lunghe polemiche coi maschi adulti sulla esistenza degli spiriti. Ma i maschi dicevano che non bisognava avere paura dei morti, bensì dei vivi. Quando si crede di aver visto uno spirito si deve andare a vedere meglio, perché alla fine c'è sempre un uomo vivo, sotto il lenzuolo. Sor mortos non torrana nen pro bene nen pro male («i morti non tornano né per bene né per male»). Un filone della prosa rustica racconta la strumentalizzazione delle storie di spiriti da parte di vivi che avevano magagne da nascondere. La camera mortuaria di un paese che non dico fu a lungo visitata nottetempo dagli spiriti che vi macellavano bestiame rubato. La cosa durò fino ad una mattina in cui un cane indiscreto usci dal cimitero con un osso che il suo padrone portò in caserma. Altra storia: un teschio, una conca 'e mortu, si muoveva

5 liberamente in chiesa e a nulla serviva l'acqua santa e la lettura del libro. Fino a quando un omine che a sor mortos non bi crediata l'at afferratu. E inzevina ite nn'a bessitu? - Un'anima mala? - Maccu, no: unu soriche. «Fino a quando un uomo che agli spiriti non ci credeva, l'ha preso. E indovina che cosa ne è uscito? - Un'anima cattiva. - No, matto: un topo». La forma dei contos non divenne mai definitiva, perché istituire una prosa letteraria, quando manca la scrittura, è impresa disperata. Il capitolo più cospicuo e di più facile documentazione della letteratura rustica resta quello della poesia, che accompagnava l'uomo in tutte le circostanze, dalla nascita alla morte. Purtroppo però anche nei confronti della poesia, che con la lingua costituisce il più importante retaggio dell'esperienza culturale dei padri, i sardi di oggi, che sanno leggere e scrivere e perciò si dicono moderni, hanno assunto un atteggiamento provinciale, rifiutandola senza beneficio d'inventario. Non ce ne preoccuperemmo se questo patrimonio fosse stato già raccolto e potesse essere trasmesso all'attenzione dei figli. Il guaio è che si tratta di un'eredità che proprio in questi anni si viene rapidamente disperdendo. È come se i sardi non avessero ancora imparato a trasmettere i loro messaggi a distanza, come se, in parole molto povere, non avessero ancora imparato a scrivere. Solo la facoltà di lettere dall'università di Cagliari, ma soprattutto il titolare della cattedra di linguistica sarda, Antonio Sanna, e qualche privato fanno quello che possono per evitare questa sciagura. Ma lo sforzo generoso e la passione di pochi non bastano ad arrestare il viaggio dei mille rivoli della poesia sarda verso il mare dell'oblio. Occorre ben altro: uno sbarramento alla foce, un istituto che raccolga, con criteri inclusivi, villaggio per villaggio, possibilmente vicinato per vicinato, tutte le voci accumulate attraverso i secoli dalla memoria di un popolo che non sapeva scrivere. Soltanto quando questo lavoro sarà stato fatto avremo una cultura sarda moderna e democratica. E soltanto allora scopriremo tutta la varietà, la ricchezza e la forza della poesia rustica. Ci scopriremo certamente diversi e forse migliori di quel che ci

6 hanno fatto credere di essere stati e perciò di essere. Apriremo il libro delle ninne nanne e ne troveremo altre cento come questa: Dami sa manu bellitta bellitta, dami sa manu e torramil'a dare: unu estire t'apo a regalare, unu estire 'e seda biatta. «Dammi la mano, bellina bellina, / dammi la mano e dammela di nuovo: / un vestito devo regalarti / un vestito di seta blu». Apriremo il libro della poesia religiosa e leggeremo le centinaia di grobes, gosos o gòcius dedicati ai santi paesani, come questo scritto da Battista Madeddu di Ardauli, sul finire del XVIII secolo: Sos chelos azis serradu pro non nos dare alimentu, sas abbas azis detentu, sos trigos azis siccadu. Deus chi tantu nos amas, pitzinos istas bidende chi sun de famen morzende in bratzos de sas mamas. «Avete chiuso i cieli / per non darci alimento, / avete ritenuto le acque, / avete inaridito i campi di grano. / Dio che tanto ci ami / bambini stai vedendo / che stanno di fame morendo / nelle braccia delle madri». Potremo conoscere le gioie e le pene d'amore dei padri attraverso migliaia di canzoni erotiche composte nei campi a mummucu e poi cantate a voce spiegata nelle serenate e nei balli tondi: Bella che a Maria Caderina non bind'ada in sa idda 'e Nuoro gíghet sos pilos che canneddos d'oro ei sal laras che pett'arantzina. «Bella come Maria Caterina / non ce n'è nella villa di Nuoro: / ha i capelli a boccoli d'oro / e le labbra di polpa d'arancia».

7 Un libro a parte avranno le poesie dal carcere come questa di Bartulu Serra: Rundine bella impressa no sias, frimmadi chi mi das tantos adios, s'andas a Tissi, traessa sas vias e mi saludas sos cumpagnos mios; é inue intendes lagrimas a rios, frimmadi, incue bi sun sorres mias, chi semper sun piangbende a pil'isortu, però presente non ana su mortu. «Rondine bella non aver fretta, / fermati che mi dai tanti addii, / se vai a Tissi, attraversa le strade / e mi saluti i miei compagni; / e dove senti lacrime a fiumi, / fermati, lì ci sono le mie sorelle / che sempre piangono coi capelli sciolti, / ma non hanno il morto presente». Filoni aurei della poesia sarda sono quelli della satira sociale e di costume, perché praticamente non accadeva niente che uscisse in qualche modo dalle rigide norme rustiche senza provocare una canzone che rendesse il fatto memorabile. Il poeta in questi casi assumeva la funzione del cronista moderno raccogliendo in versi i giudizi dell'opinione pubblica da lui ascoltata attentamente. Chi dopo aver fatto la bella vita andava in rovina poteva sentirsi dire: Innantís fisi a lepores e puddas a cantu nde potias accudire, ei como ser vennitu a cupire finas su serione 'e sa cbipudda. «Prima mangiavi solo lepri e galline / quante facevi in tempo; / ed ora sei venuto a desiderare / anche il germoglio della cipolla». Abbiamo lasciato per ultimo il libro dei canti funebri, che ci svelerà come siano remote nel tempo e nello spazio le regioni alle quali si sono alimentate le nostre radici. Il lamento funebre infatti va dalla Spagna all'india, dal XX secolo ai primordi della

8 storia umana, da Garcia Lorca all'atharva-veda, all'iliade, ai threni e agli epicedi greci. Condannate da Platone e da san Crisostomo, scomunicate da concili e sinodi, le prefiche (le computatrici del Dugento, le reputatrici della Sicilia, le attitadoras della Sardegna) erano ancora operanti in tutte le regioni d'italia, compresa la Lombardia, nel 1700, quando il poeta senese Pietro Nelli scriveva: «il pianto oggi si vende a contanti, e con l'aco e con la rocca la femminuccia a pianger morti apprende». Il lamento funebre resiste ancora oggi in Sardegna col nome di attittu, in Corsica dove si chiama vòcero, e in Sicilia, dove Salvatore Quasimodo udiva «donne urlare ai morti cantando carezze nuziali». S'attittu canta le virtù, la forza, il, coraggio, la bontà e la bellezza dell'estinto. E se questi ha avuto una morte violenta si invoca la vendetta, «attizza» (di qui deriverebbe la parola) l'odio dei superstiti verso il nemico. Il morto vi e raffigurato come un baluardo (bettàdu es su casteddu: «e caduto il castello»), un gigante (ruttu es su tsigante), e cme un piatto di verdi olive (prattu verduliànu). Lo si esorta a risorgere perché senza di lui la notte scende sulla sua casa, il grano che egli aveva seminato ora ha paura di crescere, le serpi fanno il nido davanti alla porta; all'alba la volpe scanna gli agnelli e a mezzodì il falco piomba sui pulcini. Cosi incomincia il lutto, su corrúttu, che le donne porteranno per tutto il resto della vita, rifiutando ogni conforto (s'accunórtu) alla loro disaùra (sciagura) vissuta come una tragedia. In Gallura il morto diventa la poca 'ita, colui che ha avuto poca vita; nel centro diventa su biàtu, il beato. Così ogni famiglia aveva i suoi lari e il suo poema epico.

9 NOTE (23) Per una migliore conoscenza del rapporto tra letteratura popolare e letteratura semicolta in Sardegna si rimanda ai saggi pubblicati da A. M. Cirese su «Studi Sardi».

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