FREDERICK FORSYTH, IL FANTASMA DI MANHATTAN. TITOLO DELL'OPERA ORIGINALE: THE PHANTOM OF MANHATTAN. Traduzione di Stefano Bortolussi.

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1 FREDERICK FORSYTH, IL FANTASMA DI MANHATTAN. TITOLO DELL'OPERA ORIGINALE: THE PHANTOM OF MANHATTAN. Traduzione di Stefano Bortolussi. COPYRIGHT FREDERICK FORSYTH COPYRIGHT 1999 ARNOLDO MONDADORI EDITORE S.P.A., MILANO. I EDIZIONE OTTOBRE PREFAZIONE. Quella che è ormai diventata la leggenda del fantasma dell'opera nacque nell'anno 1910 dalla mente di un autore francese oggi quasi completamente dimenticato. Come Bram Stoker con Dracula, Mary Shelley con Frankenstein e Victor Hugo con Quasimodo, il gobbo di Notre-Dame, Gaston Leroux si era imbattuto in una confusa leggenda e vi aveva scorto il seme di una vera storia tragica. Da lì era partito per ordire la sua trama. Ma le similitudini non vanno oltre. I tre romanzi citati divennero immediatamente successi di pubblico e le storie che raccontano sono a tutt'oggi note a ogni lettore, a ogni spettatore cinematografico e a milioni di altre persone. Attorno a Dracula e a Frankenstein sono state costruite industrie vere e proprie, che hanno prodotto decine se non centinaia di ristampe e versioni su pellicola. Leroux, ahimè, non era certo Victor Hugo. Quando comparve, nel 1911, il suo sottile volumetto causò una breve eco in Francia e riuscì persino a essere pubblicato a puntate sui giornali, ma scomparve presto nell'oblio. Fu soltanto un caso, undici anni più tardi e cinque prima della morte dell'autore, a riportare la sua storia in primo piano e farle imboccare la strada dell'immortalità. Il caso prese la forma di un piccolo e gioviale ebreo tedesco di nome Cari Laemmle, il quale era emigrato in America da ragazzo e nel 1922 era arrivato alla presidenza della Universal Pictures di Hollywood. In quell'anno, Laemmle andò in vacanza a Parigi. Leroux nel frattempo aveva cominciato a bazzicare la ben più modesta industria cinematografica francese, e fu proprio grazie a questo collegamento che i due si conobbero. Nel corso di una conversazione per altri versi superficiale, il produttore americano confessò a Leroux di essere rimasto impressionato dalla vastità dell'opera di Parigi, che rimane a tutt'oggi il più grande teatro lirico del mondo. Leroux rispose regalandogli una copia del suo già allora trascurato libro del Il presidente della Universal Pictures lo lesse in una sola notte. Il caso volle che in quel momento Cari Laemmle avesse in mente tanto un'opportunità quanto un problema. L'opportunità era la recente scoperta di uno strano attore di nome Lon Chaney, il quale possedeva un volto così mobile da saper assumere qualsiasi forma ed espressione. Come veicolo per Chaney, la Universal si era impegnata a realizzare la prima versione cinematografica di Notre-Dame de Paris di Hugo, a quei tempi già un classico. Chaney avrebbe interpretato il deforme e orrendo Quasimodo. Il set era già in via di costruzione a Hollywood, un'enorme replica in legno e gesso della Parigi medioevale con Notre-Dame in primo piano. Il problema di Laemmle era il successivo progetto da offrire a Chaney prima che questi gli venisse sottratto da uno studio rivale. All'alba di quel giorno, il produttore credette di averlo trovato: dopo il ruolo del gobbo, Chaney avrebbe interpretato quello dell'altrettanto sfigurato e repellente, ma profondamente tragico, fantasma dell'opera (di Parigi).

2 Come tutti i buoni uomini di spettacolo, Laemmle sapeva che uno dei modi per attirare il pubblico nei cinema era spaventarlo a morte. Il fantasma, si disse, dovrebbe riuscirci; e aveva ragione. Acquistò i diritti, tornò a Hollywood e ordinò la costruzione di un altro set, che riproducesse l'opéra di Parigi. Poiché avrebbe dovuto reggere un cast di centinaia di persone, la replica dell'opera fu il primo set a impiegare travi di acciaio conficcate nel cemento. Per questa ragione non è stato mai smantellato; si trova ancora oggi nel Teatro 28 degli Universal Studios, e nel corso degli anni è stato riutilizzato in numerose occasioni. A tempo debito, Lon Chaney interpretò prima IL gobbo di Notre-Dame, quindi IL fantasma dell'opera. Ebbero entrambi un enorme successo, e lo consegnarono all'immortalità per quel genere di ruolo. Ma fu il fantasma a terrorizzare il pubblico, al punto che le signore strillavano e svenivano e nei foyer dei cinematografi, con una magistrale mossa pubblicitaria, i sali venivano distribuiti gratuitamente. Fu la pellicola, più che il dimenticato libro di Leroux, a colpire l'immaginazione del grande pubblico e a far nascere la leggenda del fantasma. Due anni dopo la sua prima, la Warner Bros. produsse Il cantante di jazz, il primo film sonoro, mettendo fine all'era del muto. Da allora furono numerose le riproposizioni della storia del fantasma dell'opera, ma nella maggioranza dei casi la vicenda era talmente alterata da essere a malapena riconoscibile, e il loro impatto fu scarso. Nel 1943 la Universal produsse un remake con Claude Rains nel ruolo del fantasma, e nel 1962 la Hammer Films di Londra, specializzata in film dell'orrore, ci riprovò con Herbert Lom nel ruolo del protagonista. Una versione televisiva del 1983 con Maximilian Shell seguì quella rock del 1974, firmata da Brian De Palma. Finché, nel 1984, un giovane regista britannico mise in scena uno spettacolo vivace ma alquanto bizzarro in un piccolo teatro di East London: una versione musicale. Fra coloro che lesserò le recensioni e andarono a vederlo vi era Andrew Lloyd Webber. Senza saperlo, la vecchia storia di Monsieur Leroux aveva appena raggiunto un'altra svolta decisiva nella sua carriera. Al momento, in realtà, Lloyd Webber stava lavorando a qualcosa di diverso - quel "qualcosa" che sarebbe poi diventato Aspects of Loue. Ma continuò a pensare alla storia del fantasma, e nove mesi dopo, in una libreria dell'usato di New York, trovò per caso una traduzione inglese del romanzo originale di Leroux. Come molte altre percezioni di profonda acutezza, col senno di poi il giudizio di Lloyd Webber sembra semplice; in realtà era destinato a mutare il modo di porsi del mondo intero nei confronti di questa bistrattata leggenda. Egli capì che alla base non si trattava affatto di una vicenda orrorifica, ne di un racconto basato sull'odio e sulla crudeltà, bensì della storia profondamente tragica di un amore ossessivo ma non corrisposto fra un personaggio disperatamente sfigurato, che si è imposto l'esilio dal resto del mondo, e una giovane e bella cantante lirica che finisce per preferire un attraente corteggiatore aristocratico. E così, Andrew Lloyd Webber riprese la vicenda originaria, eliminò le inutili illogicità e crudeltà inserite da Leroux e distillò la vera essenza della tragedia. Su queste fondamenta costruì quello che, nel corso dei dodici anni dalla sera della prima, si è rivelato il musical più popolare e di successo di tutti i tempi. Oltre dieci milioni di persone hanno visto Il fantasma dell'opera, e se al mondo esiste una percezione globale di questa vicenda, oggi deriva quasi interamente dalla versione di Lloyd Webber. Ma per capire il vero significato della storia del Fantasma vale la pena di dedicare qualche istante all'esame di tre ingredienti originali dai quali essa è nata. Uno di essi è per forza di cose la stessa Opera di Parigi, un edificio ancora oggi così stupefacente che il fantasma non

3 sarebbe potuto esistere in nessun altro teatro al mondo. Il secondo elemento è lo stesso Leroux, e il terzo è quell'esile volumetto da lui scritto nel L'Opera di Parigi è stata concepita, come molte altre grandi imprese umane, per caso. Una sera del gennaio 1858 Napoleone III, imperatore di Francia, si recò con l'imperatrice al teatro d'opera, a quei tempi situato in un vecchio edificio che si affacciava su una stretta stradina, Rue le Peletier. Soltanto dieci anni erano trascorsi da quando un'ondata rivoluzionaria aveva travolto l'europa; i tempi erano ancora inquieti, e un antimonarchico italiano di nome Felice Orsini scelse proprio quella sera per lanciare tre bombe contro la carrozza reale. Esplosero tutte e tre, causando più di centocinquanta fra morti e feriti. L'imperatore e l'imperatrice, protetti dalla pesante carrozza, ne emersero scossi ma incolumi, e pretesero persino di assistere all'opera. Ma Napoleone III era tutt'altro che divertito, e decise che Parigi avrebbe dovuto avere un nuovo teatro lirico dotato, fra le altre cose, di un ingresso riservato alle persone importanti come lui, un accesso protetto e ragionevolmente a prova di bomba. Il prefetto di Parigi era il barone Haussmann, geniale urbanista e creatore di gran parte della moderna Parigi. Haussmann indisse una gara fra i più importanti architetti francesi. Furono in centosettanta a presentare i loro progetti, ma l'appalto venne affidato a un'immaginosa stella nascente dell'avanguardia, Charles Garnier. Il suo progetto era veramente imponente e sarebbe costato un'enorme fortuna. Venne scelta la posizione (il luogo in cui l'opéra si erge a tutt'oggi) e i lavori cominciarono nel Nel giro di poche settimane si presentò un grave problema. I primi scavi avevano portato alla luce un corso d'acqua sotterraneo che attraversava l'area. Con la stessa rapidità con cui venivano scavate, le fosse si riempivano d'acqua. In un'era più attenta al risparmio il progetto sarebbe forse stato trasferito su un terreno più adatto, ma Haussmann voleva il suo teatro lirico in quel punto e non altrove. Garnier fece installare otto gigantesche pompe idrovore, che per mesi lavorarono giorno e notte allo scopo di prosciugare il terreno inzuppato. Quindi fece erigere due enormi pareti stagne da cassone attorno al lotto e riempì di bitume lo spazio vuoto per bloccare le infiltrazioni d'acqua nell'area di lavoro. E fu su queste massicce fondamenta che costruì il suo colosso. Ebbe successo, ma fino a un certo punto. L'acqua venne tenuta a bada fino alla conclusione di quel livello, ma poi andò a formare un lago nascosto nello strato più profondo dei sotterranei. Ancora oggi, i visitatori possono scendere fino al punto più basso (è necessario uno speciale permesso) e intravedere il lago fra le grate. Ogni due anni ne viene abbassato il livello per consentire agli ingegneri di perlustrare lo specchio d'acqua a bordo dei loro barchini e ispezionare le fondamenta. Il gigante di Garnier venne innalzato piano su piano fino a tornare a livello del suolo e proseguire la sua marcia verso l'alto. Nel 1870 i lavori vennero interrotti dall'ennesima rivoluzione che travolse la Francia, provocata dalla breve ma brutale guerra franco-prussiana. Napoleone III fu deposto e morì in esilio. Venne dichiarata una nuova repubblica, ma l'esercito prussiano era ormai alle porte di Parigi. La capitale francese era ridotta alla fame. I ricchi si cibavano degli elefanti e delle giraffe dello zoo, mentre i poveri cucinavano cani, gatti e ratti in fricassea. La Francia avrebbe finito per arrendersi, ma prima che i prussiani se ne andassero, la classe lavoratrice della città, infuriata per ciò che aveva dovuto sopportare, insorse. I ribelli chiamarono il loro regime la Comune e si definirono comunardi, forti di centomila uomini e cannoni sparsi per tutta la città. Mentre però gli esponenti del governo si davano alla fuga, l'esercito regolare formò una giunta militare e represse la rivolta.

4 Nel corso della sua esistenza, la Comune aveva usato il guscio dell'edificio di Garnier, con il suo labirinto di cantine e depositi, come nascondiglio per le armi, la polvere da sparo... e i prigionieri. In quei profondi sotterranei ebbero luogo orribili torture ed esecuzioni, tanto che ancora a distanza di anni si continuò a riportare alla luce gli scheletri delle vittime. A tutt'oggi, quei luoghi provocano i brividi. Fu proprio questo mondo sotterraneo, e l'idea che un eremita solitario e sfigurato potesse vivere nelle sue oscurità, ad affascinare Gaston Leroux quarant'anni dopo, alimentando la sua immaginazione. Nel 1872 la situazione si era ormai normalizzata, e Garnier si rimise al lavoro. Nel gennaio del 1875, a quasi diciassette anni esatti dalla sera in cui Orsini aveva lanciato le sue bombe, il teatro d'opera che era stato concepito come conseguenza del suo gesto venne finalmente inaugurato. L'edificio occupa quasi tre acri di spazio, poco più di metri quadrati. Dal più profondo dei sotterranei al pinnacolo del tetto è alto 17 piani, di cui soltanto 10 sopra il livello del suolo e ben 7 sottoterra. La capienza del teatro è sorprendentemente ridotta, con soltanto 2156 posti a sedere contro i 3500 della Scala di Milano e i 3700 del Met di New York. Ma il retroscena è vasto, con spazio in abbondanza per i camerini degli artisti, i laboratori, le mense, i guardaroba, e con magazzini in cui è possibile sistemare fondali di 15 metri di altezza e diverse tonnellate di peso senza bisogno di smantellarli, facilitandone così la reinstallazione. La ragione d'essere dell'opera di Parigi è sempre andata al di là della semplice rappresentazione lirica. Da ciò deriva la relativa piccolezza dell'auditorio, mentre gran parte dello spazio inutilizzato è occupato da atri, saloni, imponenti scalinate e aree destinate a offrire uno splendido scenario alle grandi occasioni ufficiali. Ha inoltre più di 2500 porte che alla fine dello spettacolo richiedono ai vigili del fuoco interni, per la verifica della chiusura, più di due ore di tempo. Ai tempi di Garnier il teatro occupava uno staff permanente di 1500 persone (contro le 1000 circa di oggi) ed era illuminato da 900 globi a gas, alimentati da 16 chilometri di tubature in rame. Nel corso del decennio successivo al 1880 è passato gradualmente all'energia elettrica. Fu questo edificio fortemente suggestivo a stimolare la vivida immaginazione di Gaston Leroux quando questi lo visitò nel 1910 e udì per la prima volta le voci secondo le quali anni prima vi era vissuto un fantasma, gli oggetti sparivano senza spiegazione, si erano verificati misteriosi incidenti e una vaga figura era stata vista sbucare dagli angoli più oscuri, sempre diretta verso le catacombe nelle quali nessuno osava seguirla. E fu a partire da queste ventennali dicerie che Leroux creò la sua storia. A quanto sembra, il vecchio Gaston era il tipo di uomo col quale sarebbe piacevole bere un bicchiere in un café parigino, se soltanto si potessero cancellare i novant'anni che ci separano da lui. Era massiccio, gioviale, schietto e allegro: un bon viveur e un ospite generoso, terribilmente eccentrico, con un pince-nez appollaiato sulla punta del naso a compensare la vista difettosa. Nacque nel 1868 e, sebbene provenisse dalla Normandia, in realtà era venuto al mondo durante un cambio di treno a Parigi, quando sua madre era stata colta alla sprovvista. Era un allievo promettente, ed essendo destinato, come tutti i bravi studenti della borghesia francese, alla carriera di avvocato, all'età di diciott'anni venne rimandato a Parigi a studiare giurisprudenza, una materia per la quale non aveva alcuna predilezione. A ventun anni si laureò, e lo stesso anno suo padre morì lasciandogli un milione di franchi, a quei tempi una fortuna considerevole. Papà era stato a malapena seppellito che il giovane Gaston cominciò a fare baldoria, e nel giro di sei mesi prosciugò l'intero gruzzolo.

5 Era il giornalismo, non le aule di tribunale, ad allettarlo, e così ottenne un impiego come inviato, prima all'"echo de Paris" e in seguito al "Matin". Nel frattempo scoprì l'amore per il teatro e si dedicò alla critica, ma fu la sua conoscenza della legge che lo rese una stella del giornalismo giudiziario, obbligandolo ad assistere a un gran numero di esecuzioni con la ghigliottina. Ciò lo fece diventare uno strenuo oppositore della pena capitale, posizione molto insolita per i tempi. Dimostrò ingegno e audacia nell'anticipare la concorrenza e ottenere difficili interviste con personaggi famosi. "Le Matin" lo premiò con un incarico di corrispondente estero senza fissa dimora. Erano i tempi in cui i lettori non sollevavano obiezioni nei confronti di un corrispondente dotato di fervida immaginazione, e non era affatto inaudito che un giornalista lontano da casa, nell'impossibilità di giungere ai fatti, li inventasse. C'è l'illustre esempio dell'inviato americano dei quotidiani Hearst che era giunto in treno nei Balcani per seguire una guerra civile. Sfortunatamente si era addormentato in viaggio e si era risvegliato soltanto nella capitale successiva, nella quale la situazione era tranquilla. Alquanto perplesso, e rammentandosi che si trovava lì per descrivere un conflitto, l'inviato si era detto che gli conveniva inventarselo e aveva diligentemente redatto una corrispondenza di guerra a forti tinte. Il mattino successivo il servizio era giunto all'attenzione dell'ambasciata americana del paese balcanico, che l'aveva debitamente fatto pervenire ai propri capi di governo. Mentre l'uomo di Hearst dormiva sonni tranquilli, il regime locale aveva mobilitato la milizia, i contadini, temendo un pogrom, si erano ribellati, e la guerra civile era puntualmente esplosa. Il giornalista si era risvegliato con un telegramma proveniente da New York nel quale ci si congratulava con lui per lo scoop. Era questo l'ethos in cui Gaston Leroux nuotava come un pesce in uno stagno. Ma a quei tempi i viaggi erano più duri e stancanti che al giorno d'oggi. Dopo dieci anni passati a caccia di notizie in Europa, in Russia, in Asia e in Africa, Leroux era diventato una celebrità, ma era anche esausto. Nel 1907, all'età di trentanove anni, decise di fermarsi e darsi al romanzo. Nulla di ciò che creò, in realtà, ammonta a più di ciò che oggi definiremmo un polpettone, ed è per questo, forse, che quasi nessuno dei suoi libri è facilmente disponibile. Firmò soprattutto thriller, per i quali inventò un suo detective; ma tale creazione non divenne mai il suo Sherlock Holmes, la sua icona personale. Ciò nonostante guadagnò bene, gustò ogni singolo istante della propria esistenza, sperperò gli anticipi non appena gli editori glieli versavano e sfornò sessantatré libri in vent'anni di carriera. Morì cinquantanovenne nel 1927, soltanto due anni dopo che la versione di Cari Laemmle del Fantasma dell'opera con Lon Chaney ebbe la sua prima e imboccò la strada che l'avrebbe fatta diventare un classico. Rileggendo il testo originale oggigiorno, ci si trova francamente in imbarazzo. L'idea di base c'è, ed è brillante, ma il modo in cui il povero Gaston la racconta è un gran pasticcio. Comincia con un'introduzione firmata in cui sostiene che ogni riga e parola di ciò che scrive è la verità. Una mossa, questa, molto pericolosa. Dichiarare apertamente che un'opera narrativa è la verità assoluta, e pertanto un fatto storico, significa consegnarsi in ostaggio alla fortuna e allo scetticismo del lettore, poiché da quel momento in avanti ogni singola affermazione appurabile deve essere assolutamente vera. Leroux contravviene a questa regola quasi in ogni pagina. Quel che l'autore può fare è cominciare il suo romanzo "a freddo", dando l'impressione di raccontare una storia vera ma senza dirlo apertamente, lasciando il lettore nel dubbio se ciò che sta leggendo sia effettivamente successo oppure no. Viene così creata quella miscela di realtà (fact) e invenzione (fiction) che oggi chiamiamo faction. Un trucco utile, quando si utilizza questo metodo, è inframmezzare la

6 finzione con interludi di realtà che il lettore può rammentare o verificare a piacimento. In questo modo, l'autore accresce le perplessità del lettore, senza rendersi colpevole di un'aperta menzogna. Ma c'è una regola aurea da rispettare: la verità di ogni cosa che dice deve essere o perfettamente dimostrabile oppure del tutto indimostrabile. Per esempio, un autore può scrivere: "All'alba del 1 settembre 1939, cinquanta divisioni dell'esercito hitleriano invasero la Polonia. Alla stessa ora, un uomo dall'aria affabile, con documenti perfettamente falsificati, giunse dalla Svizzera alla stazione centrale di Berlino e scomparve nella città appena desta." Il primo è un fatto storico, il secondo è qualcosa che non può essere provato o confutato. Con un pizzico di fortuna, il lettore crederà che siano veri entrambi e continuerà a leggere. Leroux, tuttavia, comincia dicendoci che ciò che ha in serbo per noi non è altro che la verità, e rafforza la sua affermazione rivendicando conversazioni con testimoni, letture di rapporti e diari recentemente scoperti (da lui stesso) e mai visti in precedenza. Ma subito dopo la sua narrazione si avventura in ogni sorta di direzione, imboccando vicoli ciechi e tornando sui propri passi, sfiorando una serie di misteri non chiariti, di affermazioni non dimostrate e di ridicole incongruenze finché il lettore non viene preso dal desiderio di fare ciò che ha fatto Andrew Lloyd Webber: prendere una grossa matita rossa e blu e sfrondare le ansimanti digressioni per riportare la storia a quello che in definitiva è: un racconto sbalorditivo ma credibile. Dopo aver trattato così severamente Monsieur Leroux, sarebbe giusto e corretto fare qualche esempio. All'inizio della sua narrazione, Leroux allude al fantasma chiamandolo Erik, senza però spiegarci come ne abbia saputo il nome. Il fantasma non amava certo fare conversazione, e non era avvezzo a presentarsi al primo venuto. Il caso vuole che Leroux avesse ragione, e possiamo soltanto dedurre che ne avesse saputo il nome da Madame Giry, sulla quale torneremo quanto prima. La cosa ancora più sconcertante è che Leroux racconta l'intera vicenda senza mai fornire una data precisa. Per un giornalista investigativo, come lui da a intendere di essere, è un'omissione molto strana. Ciò che più si avvicina a un indizio è una frase della sua stessa introduzione: "Gli eventi risalgono a non più di trent'anni or sono". Questa affermazione ha portato alcuni critici a sottrarre trent'anni al 1911, data di pubblicazione del libro, e a presumere che la storia si svolga nel Ma "non più di" potrebbe anche voler dire "molto meno", e numerosi piccoli indizi indicano che la vicenda è ambientata ben più tardi del 1881, più probabilmente attorno al Il più importante di questi indizi è l'episodio del completo spegnimento dell'impianto d'illuminazione dell'auditorio e del palcoscenico, incidente che durò soltanto pochi secondi. A sentire Leroux, il fantasma, offeso dal rifiuto di Christine, la donna che ama di una passione ossessiva, ha deciso di rapirla. Per ottenere il massimo effetto, ha scelto il momento in cui lei si trova al centro del palco, nel corso della rappresentazione del Faust. (Nel musical, Lloyd Webber l'ha trasformato nel Don Giovanni trionfante, un'opera lirica interamente composta dallo stesso fantasma.) Le luci si spengono all'improvviso, gettando il teatro nel buio più assoluto, e quando si riaccendono Christine è scomparsa. Ora, ciò non può essere fatto con 900 globi a gas. Certo, un misterioso sabotatore che sapesse come muoversi avrebbe potuto abbassare la leva principale, interrompendo il rifornimento di gas ai globi. Ma le lampade si sarebbero spente in sequenza, e soltanto dopo un gran crepitìo. Ancora peggio, poiché ai tempi la riaccensione automatica non era ancora nota, per riportare la luce sarebbe stato necessario il passaggio di un inserviente con un accenditoio. Proprio in questo consisteva l'umile professione del lampionaio. L'unico modo per provocare il buio assoluto abbassando una leva e ripristinare l'illuminazione nel

7 giro di un altro millisecondo è agire sul quadro comandi di un impianto elettrico. E ciò trasporta la data ad anni più recenti di quelli indicati da Leroux. L'autore sembra anche aver commesso un errore circa la posizione, l'aspetto e l'intelligenza di Madame Giry, errore che viene corretto nel musical di Lloyd Webber. Nel libro originale. Madame Giry viene presentata come una modesta donna delle pulizie. In realtà era la direttrice del coro e del corps de ballet, e nascondeva, dietro la rigida e severa facciata necessaria per tenere a freno un gruppo di ragazzine eccitabili, una natura coraggiosa e compassionevole. Bisogna perdonare Leroux per il suo errore, poiché faceva affidamento sulla memoria umana, quella dei suoi informatori, i quali stavano evidentemente descrivendo un'altra donna. Ma qualsiasi poliziotto o inviato giudiziario potrebbe confermare che i testimoni, anche i più onesti e i più retti, hanno sempre qualche difficoltà a mettersi d'accordo fra loro su ciò che hanno visto e a rammentarsi con precisione gli eventi del mese prima, per non parlare di fatti vecchi di diciott'anni. Un errore ben più vistoso è quello commesso da Monsieur Leroux nel descrivere il momento in cui il fantasma, in un altro accesso di stizza, fa crollare il lampadario sul pubblico provocando la morte di una donna. Il fatto che la vittima non sia altri che la sostituta di Madame Giry, l'appena licenziata amica del fantasma, è un delizioso tocco da romanziere. Ma Leroux prosegue scrivendo che il lampadario pesava chilogrammi, e cioè 200 tonnellate. Un peso simile farebbe crollare il lampadario ogni sera, e con esso una buona metà del soffitto. Il lampadario pesa in realtà 7 tonnellate; le pesava quando è stato fissato e le pesa ancora oggi. Ma il più bizzarro abbandono, da parte di Leroux, delle più elementari regole d'indagine e informazione è l'appropriazione del finale del libro da parte di un misterioso personaggio conosciuto soltanto come "il Persiano". Questo bizzarro ciarlatano viene nominato soltanto due volte nei primi due terzi della storia, e in entrambi i casi di sfuggita. Ciò nonostante, dopo il rapimento di Christine dal palcoscenico, Leroux gli cede il controllo della narrazione, permettendogli di riferire la storia dal suo punto di vista per l'ultimo terzo del libro. Ed è un racconto, il suo, tutt'altro che plausibile. Eppure Leroux non cerca mai di verificare le sue asserzioni. Nonostante il giovane visconte Raoul de Chagny sia stato con ogni evidenza testimone degli eventi narrati dal Persiano, Leroux sostiene di non averlo potuto rintracciare per verificare la storia. Ma certo che avrebbe potuto! Non sapremo mai perché il Persiano odiasse a tal punto il fantasma, ma quello in cui si produce è una vera e propria montagna di diffamazioni che conduce il poveretto dritto ai cancelli dell'inferno. Prima dell'intervento del Persiano, Leroux e la maggior parte dei suoi lettori potrebbero provare una certa umana pietà per il fantasma. E' un uomo mostruosamente sfigurato in una società che troppo spesso identifica la bruttezza con il peccato, ma non è colpa sua. E' evidente che trabocca di odio per la società, ma la sua vita di esule e reietto deve essere davvero agghiacciante. Fino all'avvento del Persiano, possiamo vedere Erik come la Bestia contrapposta alla Bella (rappresentata dalla cantante Christine), e non come un personaggio intrinsecamente malvagio. Il Persiano invece lo dipinge come un sadico folle, un assassino seriale che strangola le proprie vittime per il puro piacere di farlo, un aguzzino che si diletta a costruire camere di tortura e a spiare i poveracci che vi agonizzano, un uomo che per anni ha lavorato al servizio dell'altrettanto sadica imperatrice di Persia, creando per lei tormenti ancora più rivoltanti da infliggere ai suoi prigionieri. A sentire il Persiano, lui e il giovane aristocratico sono catturati mentre scendono nei sotterranei più profondi per cercare di liberare

8 Christine, vengono rinchiusi in una camera di tortura, rischiano di essere bruciati vivi ma alla fine riescono miracolosamente a fuggire, perdono i sensi e si risvegliano sani e salvi. Lo stesso accade a Christine. E' una storia davvero farsesca. Ciò malgrado, al termine del libro Leroux ammette di nutrire una certa pietà per il fantasma, sentimento del tutto impossibile se si crede alle parole del Persiano. Ma in tutti gli altri dettagli, l'autore sembra aver bevuto fino in fondo il guazzabuglio di menzogne del ciarlatano. Per nostra fortuna, la storia del Persiano rivela una crepa così evidente da consentirci di non credere a una parola di ciò che dice. Sostiene che prima di rifugiarsi nei sotterranei dell'opera, Erik avesse vissuto un'esistenza lunga e soddisfacente. A sentire il Persiano, quell'uomo grottescamente sfigurato aveva viaggiato in lungo e in largo nell'europa centrale e orientale, fino al cuore della Russia e al Golfo Persico, per poi tornare a Parigi e partecipare alla costruzione del teatro lirico di Garnier in qualità di direttore dei lavori. E' un'asserzione che non può avere il minimo fondamento. Se Erik avesse vissuto un'esistenza simile per così tanti anni, avrebbe certamente imparato ad accettare la propria deturpazione. Per svolgere un ruolo direttivo nella costruzione dell'opera avrebbe dovuto partecipare a riunioni, affrontare gli architetti, trattare con i subappaltatori e i muratori. Perché diavolo avrebbe quindi deciso, volendo rifuggire dal genere umano, di rifugiarsi sottoterra? Un uomo simile, con la sua astuzia e intelligenza, avrebbe raggranellato un bel gruzzoletto dall'impresa e si sarebbe ritirato nell'agio di una residenza di campagna circondata da mura, trascorrendo il resto della sua esistenza in un volontario isolamento, forse assistito da un domestico immune alla sua bruttezza. L'unica via sensata che possa percorrere uno studioso moderno, come Andrew Lloyd Webber ha già fatto con il suo musical, è quella di accantonare in blocco le asserzioni del Persiano, e soprattutto di non credere ne a lui ne a Leroux quando sostengono che il fantasma sia morto poco dopo gli eventi narrati. Il cammino più ragionevole da seguire è quello che riconduce agli elementi di base e a ciò che possiamo sapere o presumere sulla base della logica. Ed ecco i dati principali. Verso la fine del secolo scorso un infelice orribilmente sfigurato, rifuggendo dalla società da cui si sentiva odiato e disprezzato, si rifugia nel labirinto di sotterranei e depositi sotto l'opera di Parigi e qui si stabilisce. Non è un'idea così folle: si sa di prigionieri sopravvissuti per anni nelle segrete sotterranee. E per di più sette piani distribuiti su tre acri non sono esattamente una cella di isolamento. Già soltanto la parte sotterranea dell'opera (senza contare che quando l'edificio era vuoto il suo inquilino poteva vagare indisturbato ai livelli superiori) è una sorta di piccola città, in cui si trova tutto il necessario per la sopravvivenza. Nel corso degli anni comincia a propagarsi la diceria, presso i membri più impressionabili e creduloni del personale, che troppe cose svaniscano senza spiegazione e che una misteriosa figura sia occasionalmente sorpresa subito prima di scomparire nel buio. Anche in questo caso, non è un'ipotesi così campata in aria. Simili voci si diffondono spesso negli edifici più sinistri. Nell'anno 1893 accade qualcosa di strano che pone fine all'oscuro regno del fantasma. Seguendo da un palco chiuso l'opera che viene rappresentata sulla scena, come è solito fare, il fantasma vede una giovane e graziosa sostituta del soprano e se ne innamora perdutamente. Educato dagli anni trascorsi ad ascoltare le migliori voci d'europa, diviene il suo maestro di canto fino alla sera in cui la giovane, sostituendo la diva nel ruolo principale, lascia Parigi senza fiato grazie alla trasparenza e alla purezza della sua voce. Anche in questo caso, niente di impossibile: la comparsa improvvisa di una nuova stella

9 grazie alla rivelazione di uno sfavillante ma nascosto talento è la materia di cui sono fatte le leggende dello spettacolo, e gli esempi sono innumerevoli. Gli eventi precipitano verso la tragedia. Il fantasma ha sperato che Christine potesse ricambiare il suo amore; ma poiché la giovane donna s'innamora di un suo corteggiatore, l'aitante, giovane visconte Raoul de Chagny, il fantasma, portato all'esasperazione dalla rabbia e dalla gelosia, rapisce dal palcoscenico dell'opera la sua giovane amata nel bel mezzo di una rappresentazione e la conduce nel suo rifugio, al settimo e più profondo livello delle catacombe, sulla riva del lago sotterraneo. E lì fra i due accade qualcosa, anche se non sappiamo cosa. Quindi il giovane visconte, vincendo il terrore del buio e delle caverne, giunge in soccorso della fanciulla. Messa di fronte a una scelta, Christine opta per il suo Adone. Il fantasma potrebbe ucciderli entrambi, ma, mentre si fa avanti la folla inferocita proveniente dalla superficie, rischiarando l'oscurità con centinaia di torce fiammeggianti, risparmia i due innamorati e scompare nelle ultime ombre rimaste. Prima che se ne vada, tuttavia, Christine gli restituisce l'anello d'oro che Erik le ha dato come pegno del suo amore. E lui lascia un beffardo ricordo ai suoi persecutori: un carillon dentro una scimmiotta meccanica che suona una melodia intitolata Masquerade. Questa è la storia del musical di Lloyd Webber, ed è l'unica che abbia un senso. Il fantasma, ancora una volta ferito e respinto, si dilegua, e di lui non si sa più nulla. Ma ne siamo sicuri? 1. LA CONFESSIONE DI ANTOINETTE GIRY. Ospizio delle suore di carità dell'ordine di St-Vincent-de-Paul, Parigi Settembre C'è una crepa nell'intonaco del soffitto sopra la mia testa, e lì accanto un ragno sta tessendo la sua tela. Strano pensare che quel ragno mi sopravviverà, che sarà ancora qui quando io me ne sarò andata, fra poche ore. Buona fortuna, piccolo ragno, che tessi la tela per catturare una mosca con cui sfamare i tuoi piccoli. Come è potuto succedere? Che io, Antoinette Giry, all'età di cinquantotto anni giaccia supina in un ospizio per i poveri di Parigi gestito dalle pie sorelle, nell'attesa di incontrare il Creatore? Non credo di essere stata una persona particolarmente buona, non certo come queste suore che puliscono l'eterna sporcizia, vincolate dal loro giuramento di povertà, castità, umiltà e obbedienza. Io non sarei mai riuscita a rispettarlo. Loro hanno la fede, sapete. Io non sono mai stata in grado di nutrire quella fede. E' giunta l'ora di imparare? Probabilmente. Perché me ne sarò andata prima che la notte riempia quella piccola, alta finestrella al limitare del mio campo visivo. Mi trovo qui, credo, semplicemente perché sono rimasta senza denaro. Insomma, quasi. C'è un sacchetto sotto il mio cuscino di cui nessuno è a conoscenza. Ma quello ha uno scopo speciale. Quarant'anni fa ero una ballerina, snella, giovane e graziosa. Questo mi dicevano gli uomini che si presentavano all'ingresso degli artisti. Ed erano attraenti anche loro, con quei giovani corpi muscolosi, lindi, profumati, che sapevano dare e ricevere tanto piacere. E il più bello era Lucien. Le ballerine di fila lo chiamavano Lucien le Bel. Aveva un volto che poteva far battere il cuore di una ragazza come un tamburo. Una domenica di sole mi portò al Bois de Boulogne e mi chiese di sposarlo, inginocchiandosi come si conviene, e io accettai. Un anno dopo venne ucciso dai prussiani a Sedan. Da quel giorno non volli più

10 sentir parlare di matrimonio per lungo tempo, quasi cinque anni in cui mi dedicai solo al balletto. Ne avevo ventotto quando ebbe termine la mia carriera. Tanto per cominciare avevo conosciuto Jules, ci eravamo sposati e io ero incinta della piccola Meg. Ma a dirla tutta, stavo perdendo la mia linea flessuosa. Ballerina anziana del corps, impegnata in una quotidiana battaglia per restare magra e agile. Ma il direttore fu molto buono con me, un uomo gentile. La direttrice del corpo di ballo stava andando in pensione, e lui disse che io avevo l'esperienza giusta e che preferiva non cercare una candidata esterna. E così mi nominò Maitresse du corps de ballet. Cominciai a intraprendere il nuovo lavoro non appena ebbi dato alla luce Meg e l'ebbi affidata a una balia. Era il 1876, un anno dopo l'inaugurazione della nuova, magnifica Opera di Garnier. Finalmente ci eravamo lasciati dietro quell'angusta scatola da scarpe di Rue le Peletier, la guerra era finita, i danni alla mia amata Parigi riparati e la vita era bella. La belle époque, la chiamano adesso, ed era davvero belle. Non me la presi nemmeno quando Jules conobbe la sua grassona belga e scappò sulle Ardenne. Una liberazione. Se non altro avevo un lavoro, che era più di quanto fosse mai capitato a lui. Sufficiente a mantenere il mio piccolo appartamento, crescere Meg e seguire ogni sera le mie ragazze mentre deliziavano ogni sovrano d'europa. Mi chiedo cosa ne sia stato di Jules. Troppo tardi, ormai, per indagare. E Meg? Una ballerina di fila come sua madre -questo, se non altro, ho potuto fare per leifino a quella terribile caduta di dieci anni fa, che le ha bloccato per sempre il ginocchio sinistro. Ma anche in quel caso ha avuto fortuna, con un po' di aiuto da parte mia. Vestiarista e assistente personale della più grande diva d'europa, Christine de Chagny. Se non si tiene conto, come non ne tengo conto io, di quella zotica australiana della Melba. Chissà dov'è Meg in questo momento... Milano, Roma, forse Madrid. Ovunque la diva stia cantando. E pensare che un tempo gridavo alla viscontessa de Chagny di prestare attenzione e stare in riga! Ebbene, cosa ci faccio qui, in attesa di una morte prematura? Be', otto anni or sono sono andata in pensione, il giorno del mio cinquantesimo compleanno. Sono stati tutti molto gentili. I soliti luoghi comuni e una generosa gratifica per i miei ventidue anni come direttrice. Sufficiente a mantenersi. In più, qualche lezione privata per le maldestre figlie dei ricchi. Non molto ma abbastanza, e una piccola cifra messa da parte. Fino alla scorsa primavera. Fu allora che cominciarono i dolori, dapprima rari ma improvvisi, lancinanti e profondi, alla parte inferiore dello stomaco. Mi somministrarono il bismuto per l'indigestione e mi fecero pagare una piccola fortuna. Ancora non sapevo che in me albergava il granchio d'acciaio, che affondava le sue grandi chele nel mio corpo e così nutrendosi cresceva. L'ho saputo soltanto a luglio, e a quel punto era ormai troppo tardi. E così mi ritrovo qui distesa, e cerco di non gridare per il dolore, in attesa della prossima cucchiaiata della dea bianca, la polvere che proviene dai papaveri dell'est. Non manca molto, ormai, al sonno finale. Non ne ho più nemmeno paura. Forse Lui sarà misericordioso. Lo spero, ma di sicuro farà scomparire il dolore. Cerco di concentrarmi su qualcos'altro. Mi guardo indietro e ripenso a tutte le ragazze che ho addestrato, e alla mia giovane, graziosa Meg con il suo ginocchio rigido che attende di trovare il suo compagno... spero che incontri un brav'uomo. E naturalmente penso ai miei ragazzi, ai miei due adorati, tragici ragazzi. Penso soprattutto a loro. "Madame, è arrivato Monsieur l'abbé." "Grazie, sorella. Non ci vedo bene. Dov'è?" "Sono qui, figliola. Padre Sebastien. Al suo fianco. Sente la mia mano sul braccio?" "Sì, padre."

11 "Si deve riconciliare con Dio, ma fille. Sono pronto ad ascoltare la sua confessione." "E' giunta l'ora. Mi perdoni, padre, perché ho peccato." "Mi dica tutto, figliola. Non nasconda nulla." "Molti anni fa, nel 1882, ho fatto qualcosa che ha cambiato molte vite. Allora non sapevo cosa sarebbe successo. Agii d'impulso, e per ragioni che credevo buone. Avevo trentaquattro anni, ed ero la direttrice del corpo di ballo dell'opera di Parigi. Ero sposata, ma mio marito mi aveva abbandonata ed era fuggito con un'altra donna." "Li deve perdonare, figliola. Il perdono è una parte del pentimento." "Li perdono, padre. L'ho fatto ormai da tempo. Ma avevo una figlia, Meg, che a quei tempi aveva sei anni. C'era una fiera a Neuilly, e una domenica ce la portai. C'erano giostre e musica, macchine a vapore e scimmiette ammaestrate che raccoglievano centesimi per i suonatori di organetti di Barberia. Meg non aveva mai visto un parco divertimenti in vita sua. Ma c'era anche un'esposizione di scherzi di natura. Una schiera di tendoni i cui cartelli annunciavano l'uomo più forte del mondo, i nani acrobati, un individuo talmente coperto di tatuaggi che era impossibile distinguerne la pelle, un selvaggio di colore con un osso nel naso e denti appuntiti, una donna con la barba. "All'estremità della fila c'era una sorta di gabbia su ruote, con sbarre distanti una trentina di centimetri una dall'altra e uno strato di lurida paglia sul pavimento. Nonostante splendesse il sole la gabbia era buia, e così mi avvicinai per vedere cosa conteneva. Udii uno sferragliare di catene e vidi una sagoma che giaceva raggomitolata sulla paglia. In quel momento mi si avvicinò un uomo. "Era massiccio e corpulento, con un volto rubizzo e volgare. Reggeva un vassoio a tracolla, sul quale aveva posato grumi di sterco, raccolti dallo steccato a cui erano legati i pony, e pezzi di frutta marcia. "Ci provi, signora" disse. "Veda se riesce a colpire il mostro. Un centesimo a lancio." Quindi si voltò verso la gabbia e gridò: "Avanti, avvicinati o sai cosa ti aspetta". Le catene ripresero a sferragliare, e una creatura più animale che umana strisciò alla luce, avvicinandosi alle sbarre. "Capii che era un essere umano, anche se non lo sembrava affatto. Un uomo coperto di stracci, incrostato di sporcizia, intento a rosicchiare una vecchia mela. A quanto sembrava, era costretto a vivere di quello che la gente gli gettava addosso. Feci ed escrementi erano incollati al suo corpo scarno. I polsi e le caviglie erano incatenati, e l'acciaio aveva scavato la carne provocando ferite pullulanti di vermi. Ma furono il volto e la testa a far scoppiare in lacrime Meg. "Il cranio e la faccia erano orrendamente deformi, con pochi, radi ciuffi di luridi capelli. Un lato del viso era distorto come se molto tempo prima fosse stato colpito da un mostruoso martello, e la pelle era escoriata e informe come cera sciolta. Gli occhi erano infossati dentro orbite deformi e aggrinzite. Solo metà della bocca e una parte della mandibola erano scampate alla deformazione, e sembravano appartenere al volto di un normale essere umano. "Meg reggeva in mano una mela caramellata. Non so perché, ma in quel momento gliela presi, mi avvicinai alle sbarre e la offrii al mostro. L'uomo corpulento s'infuriò, gridando che lo stavo privando dei suoi mezzi di sostentamento. Lo ignorai e cacciai la mela caramellata nelle luride mani al di là delle sbarre. E guardai negli occhi quell'essere deforme. "Padre, trentacinque anni fa, quando il balletto venne sospeso durante la guerra franco-prussiana, io ero fra coloro che prestavano soccorso ai giovani feriti di ritorno dal fronte. Ho visto uomini agonizzanti, li ho sentiti gridare. Ma non ho mai visto un dolore come quello che scorsi in quegli occhi."

12 "Il dolore fa parte della condizione umana, figliola. Ciò che fece quel giorno con la mela caramellata non fu un peccato, ma un gesto di compassione. Devo conoscere i suoi peccati, se vuole che l'assolva." "Ebbene, quella notte tornai e lo rapii." "Cosa fece?" "Andai al vecchio teatro lirico ormai chiuso, presi un grosso tagliabulloni dal laboratorio del falegname e un ampio mantello con cappuccio dal guardaroba, pagai una carrozza e tornai a Neuilly. Il terreno che ospitava la fiera era deserto alla luce della luna. Gli artisti dormivano nei loro carrozzoni. Alcuni cagnacci cominciarono ad abbaiare, ma io li rabbonii con dei pezzi di carne. Trovai la gabbia, tolsi il chiavistello, aprii la porta e chiamai la creatura a mezza voce. "Era incatenato a un lato della gabbia. Gli liberai i polsi e le caviglie e lo incitai a uscire. Sembrava terrorizzato, ma quando mi vide alla luce della luna uscì strisciando dalla gabbia e balzò a terra. Lo coprii con il mantello, calai il cappuccio sulla sua orribile testa e lo condussi alla carrozza. Il conducente borbottò per il terribile odore, ma gli diedi un supplemento e lui ci riportò al mio appartamento dietro Rue le Peletier. Ho commesso un peccato, portandolo via?" "Di certo ha violato la legge, figliola. Apparteneva al proprietario del carrozzone, per quanto potesse essere brutale. Ma se intende un peccato al cospetto di Dio... non lo so. Penso di no." "C'è dell'altro, padre. Ha tempo?" "Sta per affrontare l'eternità, figliola. Credo proprio di poterle dedicare qualche minuto, ma non dimentichi che in questo luogo potrebbero esserci altre anime in punto di morte che hanno bisogno di me." "Lo tenni nascosto per un mese nel mio appartamento. Fece un bagno, il primo della sua vita, poi un secondo e molti altri ancora. Gli disinfettai le ferite aperte e le bendai, ed esse lentamente si rimarginarono. Gli diedi gli abiti di mio marito e lo nutrii, e lui riacquistò la salute. Per la prima volta nella sua vita dormiva in un vero letto con lenzuola. Avevo preso Meg in camera con me, e fu un bene perché la piccola ne era terrorizzata. Scoprii che anche lui restava impietrito dalla paura non appena sentiva qualcuno avvicinarsi alla sua porta, e andava a nascondersi nel sottoscala. Scoprii anche che sapeva parlare, in francese ma con accento alsaziano, e lentamente, nel corso di quel mese, mi feci raccontare la sua storia. "Si chiamava Erik Muhiheim, e oggi avrebbe circa quarant'anni. Era nato in Alsazia, che a quei tempi era francese ma che di lì a poco sarebbe stata annessa alla Germania. Era il figlio unico di una famiglia circense, che viveva in un carrozzone e vagava senza sosta di città in città. "Mi disse di aver scoperto fin dalla prima infanzia le circostanze della sua nascita. La levatrice aveva lanciato un grido nel vedere il piccolo neonato che era venuto al mondo, poiché già allora il suo volto era orribilmente sfigurato. Aveva consegnato il fagottino strillante alla madre ed era fuggita, sbraitando, la stupida, di aver dato alla luce il diavolo in persona. "E così era venuto al mondo il povero Erik, destinato fin dalla nascita a essere odiato e respinto da coloro che credono che la bruttezza sia la manifestazione visibile del peccato. "Suo padre era il carpentiere, l'ingegnere e il tuttofare del circo. Fu guardandolo lavorare che Erik cominciò a sviluppare il suo talento per qualsiasi cosa potesse essere costruita con mani e utensili. E fu dalle attrazioni minori che imparò le tecniche dell'illusionismo, con gli specchi, i trabocchetti e i passaggi segreti che più tardi avrebbero giocato un ruolo così importante nella sua vita a Parigi. "Ma suo padre era un bruto, un ubriacone che lo prendeva a cinghiate per le colpe più infime e spesso senza alcuna ragione, e sua madre un'inutile

13 donnetta che si limitava a starsene seduta in un angolo a lagnarsi. Erik trascorse gran parte della sua infanzia fra lacrime e sofferenze, cercando di evitare il carrozzone e dormendo sulla paglia con gli animali del circo, soprattutto i cavalli. Aveva sette anni, e dormiva nelle stalle, quando il tendone prese fuoco. "L'incendio distrusse il circo e ne causò il fallimento. Lo staff e gli artisti si dispersero per unirsi ad altre compagnie. Il padre di Erik, rimasto senza lavoro, si diede all'alcol che avrebbe finito per ucciderlo; sua madre fuggì nella vicina Strasburgo, dove trovò lavoro come serva. Caduto in miseria per il bere, il padre vendette Erik al proprietario di un carrozzone di mostri. Erik trascorse nove anni in quella gabbia, quotidianamente bersagliato dalla lordura e dagli escrementi per il crudele divertimento delle folle. Aveva sedici anni quando lo trovai." "Una storia pietosa, figliola, ma cos'ha a che fare con i suoi peccati mortali?" "Pazienza, padre. Mi ascolti e capirà, poiché nessuno al mondo ha mai udito la verità. Tenni Erik nel mio appartamento per un mese, ma la cosa non poteva andare avanti. C'erano i vicini, i visitatori. Una sera lo condussi sul mio luogo di lavoro, l'opera, e capii che Erik aveva trovato la sua nuova dimora. "Lì vide finalmente un rifugio, un luogo in cui nascondersi, in cui il mondo non l'avrebbe mai trovato. Sebbene avesse il terrore del fuoco, accese una torcia e scese nei sotterranei più profondi, dove il buio avrebbe celato il suo terribile volto. Con il legname e gli attrezzi della carpenteria si costruì la sua casa in riva al lago. La arredò con i mobili di scena e i tessuti del guardaroba. Nelle ore piccole, quando il teatro era deserto, razziava la mensa in cerca di cibo e perfino la dispensa dei direttori, piena di prelibatezze. E leggeva. "Si procurò una copia della chiave della biblioteca dell'opera e trascorse anni interi a farsi quell'istruzione che non aveva mai ricevuto; una notte dopo l'altra, a lume di candela, divorò i libri della biblioteca, che è enorme. Molti dei volumi, naturalmente, riguardavano la musica e la lirica. Giunse a conoscere ogni opera, ogni aria, ogni nota che fosse mai stata scritta. Grazie alle sue abilità manuali creò un labirinto di passaggi segreti noti soltanto a lui, e le passate esercitazioni con gli equilibristi gli consentirono di correre senza alcun timore lungo i ponti scorrevoli più alti e più stretti. Per undici anni visse laggiù, e laggiù divenne uomo. "Col tempo tuttavia, com'è naturale, cominciarono a girare le voci. Durante la notte scomparivano vivande, indumenti, candele, attrezzi. I membri più creduloni del personale iniziarono a parlare di un fantasma nei sotterranei, finché ogni minuscolo incidente - e dietro le quinte i pericoli abbondano - non finì per essere attribuito al misterioso fantasma. E così nacque e si sviluppò la leggenda." "Mon Dieu, ma ne ho sentito parlare. Dieci anni fa... no, devono essere di più... venni convocato per amministrare l'estrema unzione a un poveretto che era stato trovato impiccato. Qualcuno mi disse che era stato il fantasma." "Si chiamava Buquet, padre. Ma non fu Erik a ucciderlo. Joseph Buquet era soggetto a profonde depressioni, e di sicuro si tolse la vita. In un primo momento accolsi di buon grado le dicerie, poiché credevo che avrebbero aiutato il mio povero ragazzo - tale infatti lo consideravoa restare al sicuro nel suo piccolo regno nei sotterranei dell'opera, e forse sarebbe andata così, se non fosse giunto quell'orribile autunno del '93. Perché Erik fece qualcosa di profondamente insensato, padre. Si innamorò. "A quei tempi si chiamava Christine Daaé. Lei probabilmente la conosce come la viscontessa de Chagny." "Ma è impossibile. Non..."

14 "Sì, proprio lei. Allora era una delle mie ballerine di fila. Non era una gran danzatrice, ma aveva una voce pura, trasparente, anche se non addestrata. Erik aveva ascoltato, sera dopo sera, le voci più belle del mondo; aveva studiato i testi, e sapeva come prepararla. Quando egli ebbe concluso il suo lavoro, una sera lei sostituì la protagonista e il mattino dopo era diventata una stella. "Il mio povero, orrendo, reietto Erik credeva che lei potesse ricambiare il suo amore, ma naturalmente era impossibile. Perché lei aveva già il suo giovane innamorato. In preda alla disperazione, una sera Erik la rapì dal centro esatto del palcoscenico e nel bel mezzo della sua opera, il Don Giovanni trionfante." "Tutta Parigi era a conoscenza dello scandalo, persino un umile prete come me. Venne ucciso un uomo." "Sì, padre. Il tenore Piangi. Erik non intendeva ucciderlo, voleva soltanto azzittirlo. Ma l'italiano morì soffocato. E quella, naturalmente, fu la fine. Il caso volle che quella sera si trovasse fra il pubblico il commissario di polizia. Radunò cento gendarmi armati di torce e scese, seguito da una folla inferocita, fino al lago sotterraneo. "Trovarono le scale segrete, i passaggi e la casa sul lago, e rinvennero Christine sconvolta e in deliquio. Con lei vi era il suo corteggiatore, il giovane visconte de Chagny, il caro, dolce Raoul, che la portò via con sé, confortandola come soltanto un uomo sa fare, con braccia forti e dolci carezze. "Due mesi dopo, Christine scoprì di essere in stato interessante. Raoul la sposò, le diede il suo nome, il suo titolo e la fede matrimoniale al dito. Il figlio è nato nell'estate del '94, e Raoul e Christine l'hanno allevato insieme. E in questi ultimi tredici anni lei è diventata la più grande diva d'europa." "Ma Erik non venne più trovato, vero figliola? Nessuna traccia del fantasma, a quanto ricordo." "No, padre, non lo trovarono mai. Ma io sì. Desolata, quella sera rientrai nel mio minuscolo ufficio dietro il locale del corpo di ballo. E, quando scostai la tenda del mio guardaroba, lui era lì. Stringeva in mano la maschera che portava sempre, anche quando era solo, e se ne stava accovacciato nel buio come soleva fare anni prima, quando si nascondeva nel sottoscala del mio appartamento." "E naturalmente avvertì la polizia..." "No, padre, non lo feci. Era ancora il mio ragazzo, uno dei miei due ragazzi. Non potevo riconsegnarlo alla folla inferocita. E così presi un cappello da donna, un velo spesso e un ampio mantello... scendemmo fianco a fianco la scala del personale e uscimmo in strada, due donne che si dileguavano nella notte, uguali a centinaia d'altre. Nessuno se ne accorse. "Per tre mesi lo tenni nascosto nel mio appartamento, a poco meno di un chilometro di distanza, ma i manifesti con il suo volto erano ovunque. E sulla sua testa gravava una taglia. Doveva andarsene da Parigi, abbandonare la Francia." "L'ha aiutato a fuggire, figliola. Ha commesso un crimine e un peccato." "Vorrà dire che pagherò, padre. Manca poco, ormai. Quell'inverno era molto rigido e freddo. Prendere il treno era fuori questione. Noleggiai una diligenza, quattro cavalli e una carrozza chiusa, e lo accompagnai a Le Havre. Lo nascosi in una stamberga da quattro soldi e presi a perlustrare le banchine e i loro malfamati locali. Finalmente trovai il capitano di un piccolo mercantile in partenza per New York, un uomo pronto a farsi corrompere senza porre domande. E così, una notte di metà gennaio del 1894, ferma sul ciglio della banchina più lunga, osservai le luci di poppa del tramp steamer scomparire nel buio, dirette verso il Nuovo Mondo. Mi dica, padre, c'è qualcun altro in camera con noi? Non ci vedo, ma sento un'altra presenza." "Sì, è appena entrato un uomo."

15 "Sono Armand Dufour, Madame. Una novizia è venuta nel mio studio dicendo che c'era bisogno di me." "Lei è un notaio e riceve dichiarazioni giurate?" "Proprio così. Madame." "Monsieur Dufour, voglio che infili la mano sotto il mio guanciale. Lo farei io stessa, ma sono ormai troppo debole. Grazie. Che cosa ha trovato?" "Sembrerebbe una lettera in una busta di carta manila pregiata. E un sacchetto di pelle di camoscio." "Precisamente. Voglio che prenda penna e inchiostro e scriva sul lembo sigillato che questa lettera le è stata affidata oggi stesso e che non è stata aperta ne da lei ne da altri." "Figliola, la prego di affrettarsi. Non abbiamo ancora finito." "Pazienza, padre. So che mi resta poco tempo, ma dopo tanti anni di silenzio devo sforzarmi di portare tutto a compimento. Ha fatto, Monsieur le Notaire?" "Ho scritto quello che mi ha chiesto. Madame." "E sul davanti della busta?" "Vedo, tracciate in quella che sono certo sia la sua calligrafia, le seguenti parole: M. Erik Muhiheim, New York City." "E il sacchetto di pelle?" "Lo reggo in mano." "Lo apra, per favore." "Nom d'un chien! Napoleoni d'oro. Non ne vedevo da..." "Sono ancora validi?" "Certamente, e molto preziosi." "Voglio che lei li prenda insieme alla lettera, li porti a New York City e li consegni personalmente." "Personalmente? A New York? Ma Madame, non sono solito... non sono mai stato..." "La prego, Monsieur le Notaire. C'è abbastanza oro? Per cinque settimane di assenza dallo studio?" "Più che sufficiente, ma..." "Figliola, non può sapere se quell'uomo sia ancora vivo." "Oh, è sopravvissuto, padre. Sopravviverà sempre." "Ma non ho un indirizzo. Come farò a trovarlo?" "Si informi, Monsieur Dufour. Consulti i registri dell'ufficio immigrazione. Il suo nome è abbastanza raro. Sarà lì, da qualche parte. Un uomo che nasconde il proprio volto dietro una maschera." "E va bene. Madame. Ci proverò. Andrò laggiù e ci proverò. Ma non le garantisco il successo." "Grazie. Mi dica, padre, una delle sorelle mi ha forse somministrato un cucchiaio colmo di una soluzione di polvere bianca?" "Non nell'ora che ho trascorso con lei, ma fille. Perché?" "E' strano, il dolore è scomparso. Che dolce, magnifico sollievo. Non vedo nulla sui lati, ma scorgo una specie di passaggio e un arco. Fino a poco fa il mio corpo mi faceva soffrire, ma ora non più. Provavo un tale freddo, mentre adesso c'è calore ovunque." "Non esiti, Monsieur l'abbé. Ci sta lasciando." "La ringrazio, sorella. Credo di conoscere i miei compiti." "Mi sto avvicinando all'arco, c'è una luce alla fine. Una luce così soave. Oh, Lucien, sei lì? Sto arrivando, amore mio." "In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti..." "Presto, padre." "Ego te absolvo ab omnibus peccatis tuis." "Grazie, padre." 2.

16 IL CANTO DI ERIK MUHIHEIM, Superattico dell'e.m. Tower, Park Row, Manhattan Ottobre Ogni giorno, che sia estate o inverno, che piova o splenda il sole, mi alzo presto. Mi vesto e salgo dai miei alloggi su questa piccola terrazza quadrata, sul tetto del più alto grattacielo di New York. Da qui, a seconda del lato sul quale mi fermo, posso far vagare lo sguardo a ovest, al di là del fiume Hudson, verso gli spazi verdeggianti del New Jersey; oppure a nord, sulle zone centrali e settentrionali di questa incredibile isola, così piena di ricchezza e lerciume, sperperi e povertà, vizio e delitti; o ancora a sud, dove il mare aperto riconduce all'europa e all'amara strada che ho percorso; o infine a est, oltre il fiume, fino a Brooklyn e a quell'enclave di folli persa nella nebbia marina che si chiama Coney Island e che è la fonte originaria della mia ricchezza. E io, che ho passato sette anni nel terrore di un padre violento, nove come un animale incatenato in gabbia, undici da reietto nei sotterranei dell'opera di Parigi e tredici lottando per risalire dalle baracche di Gravesend Bay in cui si pulisce il pesce fino a questo luogo elevato, so che ormai possiedo una ricchezza e un potere che superano perfino i sogni di Creso. E così abbasso gli occhi su questa enorme città e penso: quanto ti odio e ti disprezzo, razza umana! Fu un viaggio lungo e difficile quello che mi condusse qui, nei primi giorni del L'Atlantico era in tempesta. Io giacevo sulla cuccetta in preda a una nausea mortale, con il passaggio pagato in anticipo dall'unica persona di buon cuore che abbia mai incontrato, e tolleravo gli insulti e i ghigni dei marinai, sapendo che avrebbero potuto gettarmi in mare senza battere ciglio e che cercare di rispondere, spinto soltanto dalla rabbia e dall'odio che provavo per tutti, non sarebbe servito a nulla. Per quattro settimane ondeggiammo e sbattemmo sull'oceano, finché, una gelida notte di fine gennaio, il mare si calmò e la nave gettò l'ancora nelle Road, dieci miglia a sud della punta meridionale dell'isola di Manhattan. Di ciò non sapevo nulla, se non che eravamo arrivati da qualche parte. Ma dalle frasi che i membri dell'equipaggio si scambiarono nel loro aspro accento bretone capii che all'alba avremmo risalito l'east River e avremmo attraccato per le ispezioni doganali. E mi resi conto che sarei stato scoperto un'altra volta: smascherato, umiliato, respinto e rimandato indietro in catene. In piena notte, mentre tutti dormivano, compresi gli ubriaconi del turno di guardia, afferrai un salvagente ammuffito in coperta e mi tuffai nel mare ghiacciato. Avevo visto delle luci brillare nel buio, ma non sapevo quanto fossero distanti. Cominciai a trascinarmi con le membra intirizzite in quella direzione, e un'ora dopo approdai su una spiaggia di ciottoli incrostati di brina. Non lo sapevo ancora, ma avevo compiuto i primi passi nel Nuovo Mondo sulla spiaggia di Gravesend Bay, a Coney Island. Le luci che avevo intravisto provenivano dagli sgocciolanti lumi a petrolio alle finestre di alcune miserabili baracche dietro la spiaggia, oltre la linea di marea, e quando mi avvicinai barcollando e sbirciai al di là dei luridi vetri vidi alcune file di uomini rannicchiati su se stessi e intenti a pulire il pesce. Oltre la schiera di catapecchie si apriva uno spiazzo, al centro del quale fiammeggiava un enorme falò. Una dozzina di derelitti era accovacciata attorno al fuoco e cercava di assorbirne il calore. Stordito dal freddo, sapevo che avrei dovuto avvicinarmi a quel tepore se non avessi voluto morire assiderato. Entrai nel cerchio illuminato dal fuoco, sentii l'ondata di calore e li guardai. Avevo la maschera infilata in tasca, e la mia terribile faccia era illuminata dalle fiamme. I derelitti si voltarono verso di me e mi fissarono.

17 Nella mia vita ho riso di rado. Non ne ho mai avuto il motivo. Ma quella notte, nel glaciale freddo che precedeva l'alba, nel profondo di me stesso scoppiai in una risata di puro sollievo. Quei miserabili mi avevano guardato... e non avevano battuto ciglio. Perché, in un modo o nell'altro, ognuno di loro era deforme. Per puro caso avevo incontrato l'accampamento notturno dei reietti di Gravesend Bay, coloro che possono guadagnare cifre da miseria soltanto sventrando e pulendo il pesce mentre i pescatori e la città dormono. E così mi concessero di asciugarmi e riscaldarmi al loro fuoco e mi chiesero da dove venissi, sebbene fosse ovvio che arrivavo dal mare. Leggendo i testi delle opere liriche in inglese avevo imparato qualche parola di questa lingua, e risposi che ero fuggito dalla Francia. Non faceva alcuna differenza, erano tutti in fuga da qualche parte, perseguitati dalla società fino a quell'ultima, desolata lingua di sabbia. Mi chiamarono Francese e lasciarono che mi unissi a loro, dormendo nelle baracche su cumuli di reti maleodoranti, lavorando tutta la notte per poche monete da dieci centesimi, nutrendomi di scarti, spesso infreddolito e affamato ma al sicuro dalla legge, dalle sue catene e dalle sue prigioni. Giunse la primavera, e io cominciai a scoprire cosa si celava al di là dell'intrico di ginestre che nascondeva il villaggio di pescatori dal resto di Coney Island. Capii che l'intera isola era priva di leggi, o meglio che ne aveva di proprie. Non faceva parte del comune di Brooklyn, che la fronteggiava al di là dello stretto, e fino a poco prima era stata governata da John McKane, un personaggio per metà uomo politico e per metà gangster che era stato arrestato da poco. Ma l'eredità di McKane continuava a sopravvivere in quella folle isola consacrata ai parchi dei divertimenti/ ai bordelli, al crimine, al vizio e al piacere. Quest'ultimo era lo scopo della borghesia newyorkese che vi si recava ogni fine settimana e se ne andava soltanto dopo aver speso una fortuna in stupide distrazioni offerte dai mezzani che avevano l'intelligenza di procurare quei piaceri. A differenza degli altri reietti, che avrebbero continuato a pulire il pesce per tutta la vita e con la loro ottusità non sarebbero mai riusciti ad affrancarsi da tale pratica, io sapevo che con l'intelligenza e l'ingegno avrei potuto lasciarmi dietro quelle catapecchie e fare fortuna grazie ai parchi dei divertimenti che già allora venivano pianificati ed eretti lungo l'isola. Ma come? Dapprima, con l'ausilio del buio, mi avventurai in città e rubai gli indumenti appropriati dalle corde per il bucato e dalle villette deserte in riva al mare. Quindi presi il legname dai cantieri e mi costruii una baracca migliore. Ma con il mio volto non mi potevo ancora aggirare di giorno in quella selvaggia, urlante società in cui ogni fine settimana i turisti venivano allegramente ripuliti dei loro averi. In quei giorni si unì a noi un nuovo arrivato, un ragazzo poco più che diciassettenne, di un decennio più giovane di me ma ben più vecchio dei suoi anni. A differenza di quasi tutti gli altri non era sfregiato ne deforme: aveva un volto bianco come l'osso e occhi neri e inespressivi. Veniva da Malta e aveva studiato presso i preti cattolici. Parlava un ottimo inglese, conosceva il greco e il latino e non possedeva l'ombra di uno scrupolo. Era giunto a Coney Island dopo che, mandato su tutte le furie dalle interminabili penitenze inflittegli dai suoi maestri, aveva afferrato un coltello da cucina e aveva colpito il suo precettore, uccidendolo sul colpo. Era fuggito da Malta fino alla Costa dei Barbari, vi aveva trascorso qualche tempo come ragazzo di piacere in una casa di sodomia e infine si era nascosto su una nave che per caso era diretta a New York. Ma aveva ancora una taglia sulla propria testa, e così aveva evitato i controlli dell'ufficio immigrazione a Ellis Island e si era lasciato trasportare dalla corrente fino a Gravesend Bay.

18 Io avevo bisogno di qualcuno che eseguisse i miei ordini alla luce del giorno, e lui aveva bisogno del mio ingegno e della mia abilità per affrancarsi da quel luogo. Divenne il mio subordinato e rappresentante in ogni situazione, e insieme siamo passati da quelle baracche sulla spiaggia a una ricchezza e un potere che si estende su mezza New York e procede ben oltre. Ancora oggi lo conosco soltanto come Darius. Ma se io gli sono stato maestro, anche lui lo è stato per me, facendomi abbandonare le mie vecchie e stupide credenze per convertirmi al culto del solo e unico dio, il Signore che non mi ha mai deluso. Il problema dei miei movimenti alla luce del giorno venne risolto con la massima semplicità. Nell'estate del '94, con i risparmi raggranellati grazie alla pulitura del pesce, mi feci creare da un artigiano una maschera di lattice che mi coprisse tutta la testa, lasciando fori per gli occhi e la bocca. La maschera di un pagliaccio, con un bulboso naso rosso e un gran sorriso sdentato. Con un'ampia giacca e pantaloni da clown potevo muovermi indisturbato tra la folla delle fiere. Le famiglie con bambini giungevano perfino a salutarmi e a sorridere. Il costume da pagliaccio fu il mio passaporto per il mondo diurno. Per due anni ci limitammo a fare soldi. I trucchi e le truffe erano così numerosi che non ricordo nemmeno quanti ne inventai. I più semplici erano spesso i migliori. Scoprii che ogni fine settimana i turisti spedivano cartoline da Coney Island, e molti di loro cercavano i francobolli. Io acquistavo le cartoline per un centesimo, vi stampigliavo sopra la scritta SPESE POSTALI PAGATE e le rivendevo per due. I turisti erano soddisfatti: non sapevano che l'affrancatura era gratuita. Ma io volevo di più, molto di più. Percepivo l'imminente esplosione dell'industria dell'intrattenimento di massa, che si sarebbe dimostrata redditizia quanto una licenza per stampare denaro in proprio. In quel primo anno e mezzo subii un solo rovescio, ma fu tremendo. Una sera, mentre tornavo verso le baracche con una borsa colma di dollari, venni sorpreso da una squadraccia di quattro briganti armati di bastoni e tirapugni di ottone. Se si fossero limitati a rubarmi il denaro sarebbe stato sgradevole, ma non avrei rischiato la vita. Invece mi strapparono la maschera da pagliaccio, videro il mio volto e mi massacrarono di botte. Rimasi disteso un mese sulla mia brandina prima di riprendere a camminare. Da quel giorno porto sempre con me una piccola Colt Derringer, poiché mentre giacevo nella mia baracca giurai che nessuno mi avrebbe più fatto del male senza pagarne le conseguenze. Entro quell'inverno mi giunse voce che un certo Paul Boyton aveva intenzione di aprire il primo parco dei divertimenti al coperto dell'isola. Ordinai a Darius di chiedergli un incontro, presentandosi come un ingegnere di genio appena arrivato dall'europa. Funzionò. Boyton gli commissionò una serie di sei attrazioni per il suo nuovo centro. Le progettai io, naturalmente, usando inganni, illusioni ottiche e perizia ingegneristica per creare sensazioni di paura e confusione nei turisti, che ne furono entusiasti. Boyton aprì il Sea Lion Park nel 1895, e le folle lo presero d'assalto. Boyton avrebbe voluto pagare Darius per le "sue" invenzioni, ma io lo fermai. Chiesi invece dieci centesimi per ogni dollaro che le sei attrazioni avrebbero incassato per un periodo di dieci anni. Boyton aveva investito tutto ciò che aveva nel suo parco divertimenti, ed era sommerso dai debiti. Nel giro di un mese le attrazioni, controllate da Darius, cominciarono a fruttarci cento dollari alla settimana. Ma ne sarebbero seguiti molti altri. Il successore di McKane, il politico della malavita, era un agitatore dai capelli rossi di nome George Tilyou. Anche lui voleva aprire un parco dei divertimenti e arricchirsi con il boom. Senza badare all'infuriato Boyton, che non poteva farci niente, progettai attrazioni ancora più ingegnose per il parco di Tilyou, sulla stessa base

19 economica: una concessione a percentuale. Steeplechase Park aprì nel 1897 e cominciò a farci guadagnare mille dollari al giorno. A quel punto avevo acquistato un piacevole bungalow più vicino a Manhattan Beach e là mi ero trasferito. I vicini erano pochi e si presentavano più che altro nei fine settimana, quando io circolavo liberamente, col mio costume da pagliaccio, fra i visitatori dei due parchi dei divertimenti. A Coney Island si tenevano di frequente tornei di pugilato, con pesanti scommesse da parte dei milionari di buona famiglia che arrivavano a bordo del nuovo treno sopraelevato con cui percorrevano il ponte di Brooklyn fino al Manhattan Beach Hotel. Io vi assistevo senza puntare, convinto che molti degli incontri fossero truccati. Il gioco d'azzardo era illegale a New York City, a Brooklyn e nel resto dello Stato di New York. Ma a Coney Island, estremo avamposto della frontiera del crimine, somme enormi passavano dalle mani degli scommettitori a quelle degli allibratori. Nel 1899, Jim Jeffries sfidò Bob Fitzsimmons per il titolo di campione del mondo dei pesi massimi: e l'incontro si tenne a Coney Island. L'intera fortuna accumulata da me e Darius ammontava a dollari, e io intendevo puntarla sullo sfidante, Jeffries, dato nettamente per sfavorito. Darius rischiò di perdere la testa dalla rabbia finché non gli illustrai la mia idea. Avevo notato che fra una ripresa e l'altra i pugili bevevano quasi sempre una lunga sorsata d'acqua da una bottiglia, e che non sempre la risputavano. Seguendo le mie istruzioni, Darius si spacciò per un giornalista sportivo e sostituì la bottiglia di Fitzsimmons con una che conteneva del sedativo. Jeffries lo mise al tappeto, e io incassai un milione di dollari. Più tardi, quello stesso anno, Jeffries difese il titolo contro Sailor Tom Sharkey, al Coney Island Athletic Club. Stesso trucco, stesso risultato. Povero Sharkey. Incassammo due milioni netti. Era giunto il momento di puntare in alto, tanto sull'isola quanto sul mercato, poiché da tempo ormai stavo studiando i segreti di un parco dei divertimenti ancora più folle e sregolato con cui far soldi: la Borsa di New York. Ma restava un ultimo colpo da effettuare a Coney Island. Due imbroglioni di nome Frederic Thompson e Skip Dundy volevano a tutti i costi aprire un terzo, più grande parco dei divertimenti. Il primo era un ingegnere alcolizzato, il secondo un finanziere balbuziente; così impellente era il loro bisogno di liquidi che si erano già indebitati con le banche per una cifra che superava i loro stessi patrimoni. Ordinai a Darius di creare una sigla di facciata, una società di prestito che li sbalordì offrendo un mutuo non garantito a interesse zero. Ciò che la E.M. Corporation chiedeva, invece, era il dieci per cento degli incassi del Luna Park per un decennio. Thompson e Dundy accettarono. Non avevano scelta: l'alternativa era la bancarotta con un parco dei divertimenti abbandonato a metà. Il Luna Park aprì i battenti il 2 maggio Alle nove del mattino, Thompson e Dundy erano sul lastrico. Al tramonto avevano saldato tutti i loro debiti - tranne quello con me. Entro i primi quattro mesi di attività, il Luna Park aveva incassato cinque milioni di dollari. Proseguì con una media di un milione al mese, che mantiene ancora oggi. A quel punto, io e Darius ci eravamo ormai trasferiti a Manhattan. Mi installai dapprima in un modesto edificio dalla facciata in pietra scura, trascorrendo a casa gran parte del tempo, poiché in città il costume da pagliaccio non sarebbe servito a nulla. Darius prese a frequentare la Borsa per conto mio, seguendo le mie istruzioni mentre io studiavo i resoconti delle società e i dividendi delle nuove emissioni azionarie. Divenne presto evidente che in questo meraviglioso paese ogni settore era in crescita esplosiva. Tutte le nuove idee e i nuovi progetti, se abilmente promossi, venivano immediatamente sottoscritti. L'economia cresceva a una velocità folle, spingendosi sempre più verso ovest. L'avvento di ogni nuova industria creava una domanda di materie

20 prime e innescava lo sviluppo dei trasporti navali e ferroviari per consegnare quei materiali e distribuire i prodotti finiti sui mercati. Nel corso degli anni in cui ero rimasto a Coney Island, milioni di immigrati provenienti da ogni paese si erano riversati all'est e all'ovest. La Lower East Side, quasi sotto al terrazzo da cui ora la osservo, era e rimane un vasto, ribollente calderone di razze e religioni che vivono una accanto all'altra nella povertà, nella violenza, nel vizio e nel crimine. Soltanto un chilometro e mezzo più in là, i ricchi hanno le loro ville, le carrozze e l'amata opera lirica. Nel 1903, dopo qualche contrattempo, avevo ormai penetrato le tortuosità del mercato azionario e avevo capito in che modo giganti come Pierpont Morgan avessero accumulato le loro fortune. Come loro investii nel carbone in West Virginia, nell'acciaio a Pittsburgh, nelle ferrovie per il Texas, nei trasporti marittimi da Savannah a Baltimora fino a Boston, nell'argento in New Mexico e nel mercato immobiliare a Manhattan. Ma divenni più abile e più implacabile di loro, grazie alla devota adorazione dell'unico vero dio al quale mi aveva condotto Darius: il dio dell'oro che non concede misericordia, carità, compassione o scrupolo. Non esiste vedova, bambino, poveraccio che non possa essere spremuto più a fondo per ricavarne qualche altro granello di quel prezioso metallo che riesce tanto gradito al mio Signore. Con l'oro giunge il potere, e col potere altro oro, in un glorioso ciclo che conduce alla conquista del mondo. In tutto e per tutto sono rimasto il padrone e superiore di Darius. In tutto, tranne che in un dettaglio. Mai al mondo è stato creato uomo più freddo e crudele di lui. Mai anima più morta ha calpestato la terra. In questo, Darius mi supera. Eppure possiede anch'egli una debolezza, una soltanto. Una certa notte, incuriosito dalle sue rare assenze, lo feci pedinare. Darius entrò in una tana nella comunità moresca e prese a fumare hascisc fino a sprofondare in una sorta di trance. Sembra che questa sia la sua unica pecca. All'inizio credevo che fra noi potesse crearsi un'amicizia, ma ormai da tempo ho imparato che Darius ha un solo e unico amico: la sua adorazione dell'oro lo consuma notte e giorno, ed egli mi resta fedele soltanto perché sono in grado di manovrarne infinite quantità. Nel 1903 avevo ormai accumulato una ricchezza sufficiente a intraprendere la costruzione del più alto grattacielo di New York, la E.M. Tower, su un lotto libero in Park Row. E' stato completato nel 1904, quaranta piani di acciaio, calcestruzzo, granito e cristallo. E la vera bellezza è che i trentasette piani sotto di me, dati in affitto, hanno ripagato l'intero investimento, il cui valore è raddoppiato. Ho conservato una suite per il personale della società, collegata ai mercati con telefoni e telescriventi, un piano superiore diviso a metà fra l'appartamento di Darius e la sala del consiglio, e a sovrastare il tutto il mio superattico, con la terrazza dalla quale posso dominare tutto ciò che vedo e avere la certezza di non essere osservato. E così dalla mia gabbia su ruote, dai miei tenebrosi sotterranei sono passato a un nido d'aquila nel cielo in cui posso aggirarmi senza maschera e nel quale gli unici a vedere il mio volto infernale sono i gabbiani di passaggio e il vento del sud. E da qui posso persino scorgere il tetto scintillante e finalmente completo della sola e unica debolezza che mi permetto, l'unico mio progetto che non è destinato all'accumulo di altro denaro bensì all'esazione della vendetta. In lontananza, sulla West Street, si erge la nuovissima Manhattan Opera House, il teatro rivale che getterà nella polvere lo snobistico Metropolitan. Al mio arrivo a Manhattan desideravo riprendere a seguire l'opera, ma naturalmente avevo bisogno di un palco riparato. Il comitato del Met, dominato dalla signora Astor e dai suoi compari dell'alta società, gli odiosi Quattrocento, mi chiese di presentarmi per un colloquio. Impossibile, naturalmente.

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