Un pasto di Pietro Un episodio di vita al Nido: due punti di vista
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- Gianluigi Antonucci
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1 Un pasto di Pietro Un episodio di vita al Nido: due punti di vista Il punto di vista dell educatrice Pietro ha 20 mesi, già da 6 frequenta il Nido e il momento del pasto è vissuto con molta tensione: l arrivo del carrello gli provoca sempre un pianto disperato e il suo pianto, in quel momento mi innervosisce poiché agita anche gli altri bambini. Non termina mai il pasto, a volte continuando a piangere, a volte smettendo. La mamma è ansiosa e la prima domanda che ci pone è: Ha mangiato? Mille strategie sono state adottate a finché mangi un boccone in più: portare in tavola più tardi il pane e l acqua (se comincia a bere non mangia più), questo a scapito anche degli altri bambini che devono adattarsi ai ritmi di Pietro; gli si porge la sua copertina (oggetto transizionale, con finzioni affettive), lo si mette sulla seggiolina di legno (più stabile), si decide che sia sempre e solo una di noi ad occuparsi di lui durante il pasto. Non otteniamo risultati, niente di positivo. Mi siedo al tavolo con un gruppo di bambini, davanti a me c è Piretro. Io canto, tutto è tranquillo, arriva il carrello. Pietro piange. Faccio finta di non curarmene, metto i piatti davanti ad ogni bambino e mi siedo. Pietro allontana il piatto, si succhia il dito. C è silenzio. Ora gli altri bambini cominciano serenamente a mangiare. Non curante avvicino il piatto a Pietro, lui non se ne accorge, lo tiene un po lì, poi mi guarda, vede il piatto, lo allontana un altra volta, glielo riavvicino. Torna a innervosirsi, ricomincia a piangere. Dico: Il piatto lo tieni lì; puoi anche non mangiare, ma tieni il piatto. Pietro scaraventa con forza il piatto per terra. Prendo un altro piatto con altra carne, glielo rimetto davanti e lo guardo rabbuiata. Pietro prova ad allontanare il piatto, ma teme una mia reazione e si ferma. Piange, gli altri bambini lo guardano, non mangiano più, anche se ripeto loro di non
2 curarsi di Pietro e di continuare a mangiare; nessuno più mangia perciò dico a Pietro di smettere di piangere o di alzarsi da tavola. Non fa né una cosa né l altra. Lo porto nella stanza accanto e gli dico che tornerà in aula quando avrà smesso di piangere. Pietro continua a piangere, io gli ripeto con tono più incisivo quello che gli ho appena detto. Pietro torna a tavola più calmo. Nei piatti dei compagni c è già la minestra, gliela do mischiandola ad un po di carne. Non l avessi mai fatto! Appena l assaggia sputa tutto, non vuole nemmeno la minestra e piange. Cambio il piatto, gli faccio vedere che metto solo la minestra, appena gliela porgo Pietro vi versa dentro il bicchiere dell acqua. Sono al limite, ricambio il piatto, vorrei che assaggiasse almeno la minestra, ma lui la sputa. Pietro piange, io fingo di piangere. Susanna mi dice: Fai come Pietro? Rimango allibita dico a Pietro di alzarsi e di andare a giocare. Il punto di vista di Pietro (secondo l educatrice) Io mangio le cose che mi piacciono, con la mamma in genere la cosa mi riesce: lei sbraita, ma se urlo e mi dispero alla fine ottengo ciò che voglio. Tutto è andato bene fino a qualche mese fa quando la mamma mi ha portato in un posto dove poi ho capito che avrei dovuto rimanere per tutta la giornata. La cosa mi andava bene, mi piace giocare e poi hanno anche lì la mia copertina e dei lettini come il mio, dove posso dormire se mi viene sonno e io dormo molto. Purtroppo però lì devo anche mangiare. A me non va bene stare allo loro regole, lì hanno delle seggioline basse e a me piace il mio seggiolone sul quale poi sto poco, perché non sopporto di stare a lungo seduto. Lì invece vorrebbero che mangiassi seduto e senza poter scegliere la pappa. Io lì (ho imparato che il posto si chiama Nido) non ci voglio andare e tanto meno voglio mangiare la roba che mi rifilano. E se con la mamma i miei urli ottengono buoni risultati, io ci provo anche al Nido. Oggi però la dada ha una strana Faccia, guarda gli altri e mi ignora. Ci penso
3 io: prendo il piatto e glielo rispedisco, lei me lo rimanda. Allora non ha capito niente e poi perché non mi guarda? Io glielo ridò, finalmente si gira, però mi dice: Il piatto lo tieni lì, puoi anche non mangiare ma lo tieni. Non so cosa farmene del piatto che manda un odore di pappa. Ci penso io, e il piatto è a terra in mille pezzi (Ridammelo, ora, se sei capace!) Me ne ridà uno pieno. Ma quanti piatti hanno al Nido? Allora piango, urlo e strepito: vediamo. Ma guarda un po cosa ha pensato, mi porta nella stanza accanto, ma io non voglio proprio starci e urlo più forte. Ecco che la dada arriva. Allora ha capito! Dalla faccia non si direbbe, mi conviene prendere fiato così torno a tavola e mi faccio una succhiata di dito con la mia copertina accanto. Che profumino! Ma è minestra! Questa si che mi piace! Lo dico alla dada così forse mi sorride e infatti mi da un bel piatto colmo di pappa. Ma quale pappa? Questa fa la furba, qui dentro c è della carne, è inconfondibile, questo sapore! La sputo deciso, lei si rassegna e mi mette solo la minestra. Troppo tardi, carina, te la faccio in brodo e te la mangi tu. Forse ho esagerato, la dada è arrabbiatissima, cosa fa? Piange come faccio io? Mi vuoi prendere in giro? Adesso cosa faccio? Sento una voce: è Susanna che le dice: Fai come Pietro? Probabilmente è una frase magica perché la dada si rivolge a me e mi dice che è finita e che posso andare a giocare. Oggi è finita, e domani? Meglio non pensarci (Angiolini 1995). La considerazione sulla diversità della rappresentazione dell esperienza con cui un adulto o un bambino se la lasciano alle spalle, messa in campo attraverso l espediente della scrittura e discussa in un gruppo omogeneo di operatrici, affina le capacità di leggere le situazioni, permette di mettere in parole qualcosa di quello che immaginiamo, aiuta a scegliere comportamenti appropriati e a confrontare le intenzioni con i fatti. Qui mi fa introdurre due brevi riflessioni sul tempo nella relazione fra educatrice e bambino.
4 La prima riguarda la consapevolezza della differenza di percezione del tempo fra noi e i bambini, la seconda, che ne segue, riguarda il rapporto fra l azione educativa e i suoi risultati. Il nostro modo di stare nelle situazioni è spesso caratterizzato (condizionato?) dal pensiero del dopo : sto camminando e penso a quando sarò arrivata, sto offrendo dei materiali a un gruppo di bambini e penso a quando dovrò o dovremo riordinare, sono in bagno con i bambini che si lavano le mani e penso a quando saremo a tavola... I bambini stanno in situazione in un modo diverso, sono nelle situazioni aderendo al presente, all attività in corso senza riserve. E in questa aderenza possono coltivare qualcosa di importante per la propria crescita: la capacità di autoregolarsi. Ogni intervento educativo ha due ambiti di effetto: uno riguarda gli apprendimenti che chi riceve l intervento acquisisce o dovrebbe acquisire rispetto al significato che un determinato fenomeno ha nella cultura in cui vive e, conseguentemente, rispetto alle pratiche e ai comportamenti che ci si aspetta da lui/lei come adeguati, congruenti... Il secondo riguarda la conoscenza di sé rispetto al fenomeno. Allo stesso modo un intervento di cura soddisfa un bisogno di chi lo riceve e alimenta la capacità del soggetto di farlo a sua volta. Pensiamo a un bambino piccolo, durante il pasto: impara qualcosa che ha a che fare con abilità strumentali, culturali, relazionali e impara a conoscere se stesso rispetto al cibo: i propri gusti rispetto a qualità, quantità, temperatura, ritmo e a regolare queste variabili. La capacità di regolarsi ha bisogno della partecipazione interna ed attiva del soggetto, per esistere: coinvolge quello che il soggetto già sa di sé e quello che ancora non sa, ma è presente e aspetta di essere messo in forma, di passare, cioè, è dalla condizione di pulsione a quella di comportamento sociale. E un movimento che inizia per le vie del corpo e anima poi quelle degli stati d animo, delle emozioni, della mente. Si realizza in un intreccio inestricabile fra maturazione e ambiente di cui un educatrice
5 deve preoccuparsi, ma che può controllare solo accompagnando un processo, non verificando una risposta puntuale. Uscire dall accompagnamento vuol dire bruciare le tappe, rendere ancora meno sicura la costruzione. Un educatore o una educatrice agisce oggi per costruire effetti e risultati di cui solo una piccola parte può controllare con strumenti di misurazione: la socializzazione, l autonomia sono atteggiamenti, competenze e abilità che i suoi interlocutori costruiscono grazie ai suoi interventi, ma non necessariamente come risposta immediata a questi. Come quello del lavoro, anche tempo dei risultati, per gli educatori, non è tempo lineare, ma complesso.
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