Sardegna tra due lingue. 7. Matrimonio di destino

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1 Michelangelo Pira Sardegna tra due lingue 7. Matrimonio di destino Quando erano maturi per il matrimonio i giovani sardi si chiamavano vachiànos, bayànos o bagadìus. Il matrimonio, normalmente, cadeva tra i 25 e i 35 anni per i maschi, tra i 18 e i 30 per le femmine. Superati i tempi massimi, la bayanìa (il celibato) si induriva, invecchiava, diventando tosta o vetusta. Una condizione, questa, piuttosto malinconica in un ambiente che nel matrimonio realizzava, o poneva le premesse per realizzare i suoi ideali più elevati. Oggi le ragazze della piccola e media borghesia tendono a nascondere la loro aspirazione al matrimonio e a dare ai loro rapporti con coetanei altra giustificazione e altri fini. Ma non era così nell'ambiente rustico, che condannava ogni forma di confidenza tra bayanos e bayanas che non fosse legittimata dalla prospettiva matrimoniale. Solo l'artigiano poteva intrattenere pubblicamente le bayanas senza scandalo perché era viddarésu come loro; al giovane rusticu invece questa possibilità era oggettivamente negata: le bayanas doveva limitarsi a guardarle in paese e a sognarle in ovile. Inoltre, il viddarésu spesso sapeva suonare uno strumento, chitèrra o sonètte (organetto) o launèdda che fosse. «Eo bi leo gustu a cantar'a chiterra / ue bi a' bayanas» (A me piace cantare con la chitarra / dove vi ha ragazze da marito) cantava l'artigiano. Oppure: «Comaredda Viola, comaredda Viola, / cantu bos dechede in tuyu sa randa: / si bos abboyo sola / sa comaria ponimus a banda» (Comarella Viola, comarella Viola / come vi sta bene il pizzo al collo: / se vi incontro sola / mettiamo da parte il comaraggio). Le proposte del pastore, come le sue serenate, sono invece o eccessivamente timide o eccessivamente esplicite. E in ogni modo sia al viddarésu sia al rusticu la risposta della ragazza è sempre la stessa: «Da ghi so affidada e so isposa / ti do su 'asu e carc'áttera cosa» (Quando mi avrai sposato / ti do il bacio e qualche altra cosa).

2 La bayania celebrava i suoi fasti negli incontri collettivi delle grandi feste per i santi rustici o per il patrono del paese. Addobbate come regine e cariche d'oro come madonne, bayanas o bagadias per tre o quattro volte all'anno muovevano ai santuari chiedendo una sola grazia, quella di trovare marito: maritu chèrio (voglio marito). Fare tre volte il giro del santuario o tirare tre volte il manto della santa si credeva fossero gesti efficaci. I giovani arrivavano col cappotto de furesi de sa menzus 'ena (di orbace fino: forese era in Toscana il filato rustico di lana) e con la berritt a frocu, tirati a lucido e strigliati come i loro cavalli, tutti fuori serie. Il ballo tondo, anche a tres spizzas (a tre cerchi concentrici) durava quattro o cinque giorni. Bayanos e bayanas si tenevano per mano e saltavano in un polverone maestoso fino a quando non si erano «trebbiati», fino a quando cioè non si erano fattos a pazza (fatti a paglia) come si dice nel Logudoro. Erano finalmente consentiti i dialoghi audaci e l'accorto dosaggio delle strette di mano. Più in là non si poteva andare. Per potersi abbracciare si dovette attendere su ballu tzivile, che fu dapprima avversato perché ritenuto troppo spinto e poi, forse proprio per la stessa ragione, accolto con entusiasmo. Era un ballo venuto dal mare e man mano che appariva nelle feste dei villaggi dell'interno suscitava lo scandalo e cambiava nome prendendo quello del paese vicino che l'aveva già adottato e che perciò stesso sembrava aver toccato il fondo della sua ignominia. La società rustica non si è mai, né prima né dopo, scandalizzata tanto quanto per la polca e per il tango, che sulle prime, solo a nominarli, c'era da bruciarsi la reputazione. A Síurgus la bayania aveva una sua festa in esclusiva: sa fest'e bagadius, che durava otto giorni, dal secondo martedì di ottobre fino al terzo lunedi. La domenica aveva luogo la processione dedicata a Nostra Signora. Intervenivano is obrèris bagadius, che non potevano essere più di quattro, e tutta la popolazione. Si portava in processione una pesante croce rivestita di pane lavorato a coccois, che, benedetto, veniva dopo la festa spartito fra tutte le famiglie del paese. La parte laica della festa aveva inizio il martedì notte con la confezione del pane, infornato il mercoledì e il giovedì mattina in casa del primo obriere. Quest'ultimo doveva avere una lolla vastissima per accogliervi i

3 balli de is bagadius, che si svolgevano negli intervalli della lavorazione del pane. Il giovedì mattina ís obreris, con i loro amici, andavano in montagna a portare in paese sa bacca 'e is bagadius, accolta all'ingresso del villaggio dalle bagadias che la infioravano e le mettevano al collo sa campanedda tenuta da un artistico collare. La vacca veniva condotta in corteo, aperto dal suonatore di launeddas, nella prazza del primo obriere e qui restava fino al sabato, quando veniva immolata per il grande pranzo della domenica, al quale era invitato un rappresentante di ogni famiglia. Il venerdì era giorno di riposo: i balli riprendevano il sabato e proseguivano fino al lunedì notte, giorno dell'ultimo pranzo al quale prendevano parte gli obrieri che avevano organizzato la festa e quelli che avevano ricevuto l'incarico per l'anno successivo. Gli intervalli del ballo erano dedicati a s'andimironnài, cioè ai muttetus, d'amore o giocosi, nella improvvisazione dei quali si alternavano un uomo e una donna, quasi regolarmente. Durante l'ultima guerra questa festa, che aveva origini remote, è stata abbandonata e non più ripetuta in seguito. Le grandi feste popolari del villaggio e di campagna erano le occasioni più favorevoli, dunque, per i primi approcci. «Ballende in s'annuntziada / su coro ar furadu a mie / e nde ghiro dae inie / che pessona regirada» («Ai balli dell'annunziata / il cuore hai rubato a me; / e ritorno di lì / come uno che ha perso il senno»). Chi non aveva trovato la sua colomba o il suo uomo doveva attendere il rimescolamento di carte della festa successiva. Tuttavia la strada che conduceva al matrimonio non era esattamente quella delle feste. La saggezza dei proverbi avvertiva anzi i maschi a non scegliere nen caddu in mayu nen femina in festa, perché come a maggio ogni ronzino è buon cavallo cosi nelle feste tutte le donne sono amabili. Né femina in festa né omine in ballu, ammoniva un altro proverbio. La scelta della moglie (sa 'emina per eccellenza, o pupidda) veniva operata, più che dall'interessato, dal nucleo familiare nel suo complesso, e soprattutto dae sor mannos, dagli anziani. Inoltre le possibilità di scelta erano così ristrette da configurare più che il matrimonio d'interesse, come comunemente si crede, il matrimonio di destino (10). (Quello d'amore, che appunto poteva nascere

4 dagli incontri delle feste, abbiamo visto che era sconsigliato). Nella scelta della sposa ci si doveva allontanare il meno possibile da casa. Perciò non erano infrequenti i matrimoni tra consanguinei. Coyua e cómpora in bidda e totu e possibilmente in bixinau. Matrimonio e acquisti dovevano farsi nel paese e possibilmente nel vicinato, secondo un proverbio, evidentemente ancor più severo di quello italiano che raccomandava moglie e buoi dei paesi tuoi. La scelta veniva studiata per mesi e mesi dai genitori dei nubendi, spesso a loro insaputa. Ogni aspetto veniva valutato e analizzato con puntiglio scientifico. Si doveva far luce piena, solare su tutto. Nen femina nen tela a lughe de candela consigliava la tradizione (non prendere né donna né tela a luce di candela), che non voleva sorprese e che sospendeva il giudizio su un uomo fino a quando non si era mangiato impare unu saccu 'e sale (insieme un sacco di sale). Decine e decine di proverbi stabilivano lo schema al quale doveva corrispondere la donna o l'uomo cui legarsi per tutta la vita. Ne indichiamo qualcuno, prendendolo da quelli raccolti dallo Spano che doveva essere un antifemminista: sa femina es che-i sa mela: fora bella e intro punta; sa femina est su retaulu / de sa morte e de s'inferru / pro chi tenet in s'internu / sas trassas de su diaulu; inue penetrat sa femina, mancu su diaulu; tres cosas sun reversas in su mundu, s'alveghe, s'ainu ei sa femina; niente prus pestiferu 'e sa femina; s'attu e sa femina gighent sette fiados (11) A chi nonostante questi avvertimenti voleva ugualmente sposarsi e affrontare le pene dell'inferno si davano informazioni più analitiche: femina risulana o er macca o er vana; femina mustatzuda femina mala (il contrario cioè di donna baffuta donna piaciuta); femina tabaccosa femina vitziosa; femina lanza corriata; femina chi non fedat mai bene meledat; femina modosa, leitana; sa femina arrogante abbirgonzat su maridu; bardadi de femina chi ha boghe de omine e de omine chi ha boghe de femina; femina iscoeddada femina malefadada (12). Tuttavia anche il Canonico doveva registrare un «belle o brutte si sposano tutte»: ne sapadu sentza sole nè femína sentza amore (né sabato senza sole, né,donna senza amore). I giudizi sull'uomo scaturivano dal confronto con proverbi come questi: s'omine vonu 'aeddat in cara; s'omíne solu non er vonu a niunu; omine saviu non chircat fattos anzenos; omine dormidore

5 pagu cuidadosu; omine chizi basciu traitore; omine longu omine locu; omine giogadore omine pedídore e via di seguito (13). Comunque s'omine non si misurat a prammos (14). Il giudizio restava sospeso per tutta la vita, in definitiva. In divinu e in umanu (15) / si a bínti non est galanu / si a trinta non hat scienzia / si a baranta non hat prudentzia / a cbimbanta non est devotu / s'omine est perdidu in totu. Ma l'analisi non si esauriva nella valutazione del futuro coniuge, si estendeva al parentado (s'erèu) e persino alla distanza dei terreni eventualmente spettanti alla sposa da quelli spettanti allo sposo. Quando i genitori del bayanu si erano orientati proponevano la scelta all'interessato, al quale la ragazza veniva presentata nella sua luce migliore: de familia onorada, forte, sana, faínèra, seria, bene arreyonata e 'a carchi cosa puru (16). Seguivano i primi sondaggi presso la controparte, con molte perifrasi s'intende, lasciandosi alle spalle vasti spazi di ritirata, prima di ricevere un rifiuto esplicito, una corcoriya o corcoriga, cioè una zucca umiliante. E del resto anche la famiglia della ragazza prescelta aveva interesse ad evitare che l'eventuale rifiuto diventasse di pubblico dominio e si trasformasse così in una dichiarazione di guerra. Il giovanotto ormai incoraggiato dai suoi familiari ritornava dalla campagna con una maggiore frequenza e incominciava s'arròda o su rotéu, il corteggiamento, a distanze difficili. Ma l'iniziativa veniva presa soprattutto dalle sorelle e dalla madre del bagadíu che non perdevano occasione per avvicinare la ragazza, attirarla in casa e studiarla. Tutto secondo schemi così precisi, dettagliati e collaudati dalla tradizione da non lasciare alcun dubbio sul significato di ogni parola e di ogni gesto. Intanto anche nella famiglia della ragazza il pretendente veniva studiato e soppesato. Gli eventuali difetti venivano valutati e perdonati nella misura in cui si riconoscevano i propri. Insomma si tendeva ad una situazione di equilibrio. Quando si metteva in moto la commedia ufficiale della domanda di matrimonio (sa pregunta, pregonta o pertinementu) il lieto fine era già scontato. Il compito di avanzare la richiesta veniva affidato a persona riservata e amica di entrambe le famiglie (su gantzàyu o paralimpiu, paraninfo) che andava e veniva da una casa all'altra con proposte e controproposte relative ai fondamenti

6 economici del matrimonio. Quando l'opera del ganzayu era finita, la stessa persona si trasformava in una specie di notaio, attraverso il quale la comunità controllava l'avvenimento e ne era informata. Seguiva cioè la cerimonia de sa promissa, o íntrada o accabbu 'e sa goyua, cioè il fidanzamento attraverso l'incontro ufficiale delle due famiglie interessate. La sera del sabato, alle prime tenebre, il pretendente accompagnato dal padre o da chi per lui e dal paralimpiu bussava a casa della bagadia per chiedere s'intrada (l'ingresso). Chi n'è ssa genti?, doveva chiedere il padre della ragazza senza aprire. - Istrangius, in circa de una malloredda chi s'è mancada, rispondeva il paraninfo. - Non d'eu biu nosu. Innoi non cín d'adi, si rispondeva dall'interno. - Ma s'anti nau chi ddanti bia passai accant'ennoi, insisteva il paralimpiu. - No, no è verus. Nosu non d'eu biu. - E castíd'a bortas. Si fazad'intrai ch'è fendu tempu malu e no podeus atturai in sa strada. - E brintinti puru, ma non c'esti nudda (17). Il padre della malloredda così apriva la porta. Seguivano i convenevoli anch'essi a soggetto e ci si riuniva nella stanza buona o nella lolla. La bagadia prescelta intanto era stata allontanata. Agli ospiti venivano proposte ad una ad una le sorelle. - Custa est sa mallora? - Nossi. Gi s'assímbillat, ma non è cussa ch'ammancada a nosu. - rispondeva via via il paralimpiu, fino a quando compariva quella giusta. - Sa malloredda cb'ammancad'a nosu custa esti. - E già chi è custa ddeus a custodiri beni, ca xireus ch'è de bos atrus (18), prometteva a questo punto il padre della ragazza, che da quel momento era sposa, o promissa. Seguiva un invito e la consegna de su donu o arrigalu. Il giorno successivo, domenica, i fidanzati accompagnati da un rappresentante delle rispettive famiglie facevano sa prim'essirà a cresia, cioè andavano insieme a messa. Avere una fidanzata da occare a missa mazzore, da esibire

7 alla messa cantata era l'aspirazione più alta di ogni bayanu. Il fidanzamento nella società arcaica sarda era anche più indissolubile del matrimonio nella società moderna. Una volta data la parola si doveva arrivare alle nozze qualunque cosa succedesse. L'uomo doveva portare la casa, la donna il corredo, dalla cassa sarda all'asinello con la macina. Se i coniugi erano di paesi diversi le cerimonie nuziali erano rese più suggestive dalla cavalcata dei familiari dello sposo che al ritorno currianta sa gannuga: a due chilometri dal paese aveva luogo una piccola galoppata per regalare il pane degli sposi alla prima persona che si incontrava. Nel percorso dalla chiesa alla loro casa gli sposi erano fatti oggetto del lancio di grano e di piatti dalle finestre. Cosi la comunità augurava loro una vita prospera. Poi, a notte, gli amici cantavano sotto le loro finestre. Cal'est s'ora in sa vida sa pius bella durche e melodiosa a sos amados? si aunin sos coros separados in una vida incognita e novella e si faghen'appare sentinella pro cantu de Deus sun lassados e si colan de amore faeddados una vida de beneditzione e dae cussa nobile unione naschidi e creschede una Iparentella. Cussa est s'ora in sa vida sa pius bella. «Qual è nella vita il giorno più bello, / dolce e armonioso agli amati? / Si uniscono i cuori divisi / in una vita ignota e nuova / e si custodiscono a vicenda, / per il tempo che Dio li lascia. / Trascorrono in parole d'amore / una vita santa. / E da quella nobile unione / nasce e cresce un nuovo parentado. / Nella vita, questa è l'ora più bella. In quell'ora felice gli sposi accettavano e insieme sfidavano il loro destino.

8 NOTE (10) Nei dialetti dell'interno il destino sta ai matrimoni (ma non soltanto a questi) come la struttura sta agli eventi, come la langue sta alla parole. L'eventualità di un certo matrimonio può non per caso essere prevista con vent'anni d'anticipo, perché appunto l'acquisizione della parentela è un evento agito dalla struttura, parlato dalla tangue. La villa (la voce pubblica del paese) spesso non soltanto prevede gli accoppiamenti ma li suggerisce e determina. (11) La donna è come la mela: bella fuori, bacata dentro. La donna è il ritaglio / della morte e dell'inferno / perché cela nell'interno / le astuzie del demonio. Dove penetra la donna, neanche il demonio. Tre cose sono storte al mondo. la pecora, l'asino e la donna. Niente più pestifero della donna. Il gatto e la donna hanno sette anime. Il canonico Spano, che le confessava, probabilmente sapeva quel che diceva delle donne. Eppure il sospetto che egli abbia visto la realtà attraverso una lente deformante è più che giustificato. (12) Donna ridanciana o è matta o è vana. Donna baffuta: donna cattiva. Donna tabaccosa donna viziosa. Donna magra coriacea. Donna che non figlia, mai pensa al bene. Donna manierata, noiosa e pigra. La donna arrogante umilia il marito. Tienti lontano da femmina che ha voce di maschio e da maschio che ha voce di femmina. Donna trascurata donna sventurata. (13) L'uomo che si rispetti parla in faccia. L'uomo solo non è buono per nessuno. L'uomo savio non cerca fatti altrui. Uomo dormiglione: poco puntuale. Uomo con sopracciglia basse, traditore. Homo longus, insipiens. Uomo dedito al gioco: finisce all'elemosina. (14) L'uomo non si misura a palmi. (15) In (ordine) divino e in umano / se a venti (anni) non è galante / se a trenta non ha scienza / se a quaranta non ha prudenza / se a cinquanta non è devoto / l'uomo è perduto del

9 tutto. (16) Di famiglia onorata, forte, sana, instancabile, seria, ragionevole e possiede anche qualche bene. (17) Chi è la gente? - Ospiti che cercano una vitella mancante. - Non ne abbiamo visto noi. Qui non ce n è. - Ma ci hanno detto di averla vista passare qui vicino. - No, non è vero. Noi non ne abbiamo visto. - E guardi. Può darsi Ci faccia entrare, che fa brutto tempo e non possiamo restare all aperto. - Entrino pure ma non c è nulla. (18) - È questa la vitella? - No. (Le) somiglia, ma non è quella che manca a noi. - La vitella che manca a noi è questa. - E quando è questa, avremo a custodirla bene, perché sappiamo che è vostra.

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