ART.81 C.P.: L UNICO DISEGNO CRIMINOSO

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1 ART.81 C.P.: L UNICO DISEGNO CRIMINOSO La guerra in Serbia è finita. I suoi costi umani sono ancora imprecisati, ma già nei primi giorni del conflitto il Corriere della sera poteva scrivere che erano stati colpiti " 14 ospedali, 150 edifici scolastici, 7 musei e monumenti " e che i bombardamenti avevano causato "almeno 500 morti, feriti, mezzo milione di disoccupati" (M. NAVA, Serbia spezzata, distrutti ponti e strade, Corriere della sera 18 aprile 1999). Si è detto che questa è stata la prima guerra condotta dalla Nato dalla data infausta della sua costituzione. E falso. L Alleanza atlantica di guerre in Europa ne ha fatte altre. Le ha definite "conflitti a bassa intensità", come in definitiva è stato anche quello contro la Serbia. Li ha condotti, questi conflitti, in maniera diversa, impiegando i reparti invisibili di un armata segreta la cui esistenza viene ancora oggi negata sebbene molte siano le tracce che ha lasciato nel corso delle sue operazioni sui campi di battaglia europei, dalla Francia alla Grecia, al Portogallo, al Belgio, all Italia. Anche i costi umani della guerra italiana sono ancora oggi imprecisati. Ma i suoi momenti salienti, i più tragici e più clamorosi, sono ormai fissati in maniera indelebile nella memoria e nella storia: -12 dicembre Milano, 16 morti e 87 feriti. -17 maggio Milano, 4 morti e 46 feriti maggio Brescia, 8 morti e 94 feriti. - 4 agosto Italicus, 12 morti e 105 feriti. - 2 agosto Bologna, 85 morti e 200 feriti. Cinque stragi con un bilancio di 125 morti e 532 feriti. Il disegno criminoso perseguito in Europa dagli Stati uniti e dalla Alleanza atlantica non può essere iscritto negli atti giudiziari di un Tribunale europeo che non esiste e, forse, non esisterà mai. In assenza di un giudice che possa vantare competenza sull Europa, il processo alla Nato può farsi solo sul piano politico e storico. Esiste, è vero, il Tribunale internazionale per i crimini di guerra ma funziona solo per gli sconfitti e i deboli. Gli stragisti italiani fanno parte dei vincenti e dei forti, sono appendice del potere nazionale ed atlantico, appartengono all occulta armata del terrore oggi dormiente ma sempre protetta dalle forze politiche e dalla magistratura italiana. Se la realtà che viviamo impedisce il processo giudiziario alla Nato, non lo vieta agli stragisti italiani. All interno dei nostri confini nazionali esiste ancora la possibilità di procedere al giudizio sullo stragismo atlantico e dei suoi protagonisti. Non un processo storico e politico ma penale, anche se saranno in molti gli imputati di rango elevato ad essere prosciolti per sopravvenuta morte del reo. Alcuni, però, sono ancora in vita. Ed insieme a loro c è la faccia operativa, quella che ha agito sul terreno, studiato gli obiettivi, organizzato l azione, collocato gli ordigni. Qualche mandante, alcuni fra organizzatori ed esecutori materiali potrebbero ancora rispondere di quanto hanno fatto, perché esistono i presupposti per giudicarli tutti insieme, in una sola aula di tribunale. Non sarà possibile farlo per tutti i loro crimini ma per alcuni, fra i più gravi, sì: piazza Fontana, via Fatebenefratelli, Brescia. Per ora. Non è mai stato difficile delimitare l area stragista. E mancata la volontà politica e giudiziaria. La magistratura italiana è noto- ha il senso dello Stato non quello della giustizia e, di conseguenza, tranne lodevoli casi individuali è riuscita fino ad oggi nell intento di coprire le responsabilità e di pervenire all assoluzione di personaggi come Giorgio Freda e Giovanni Ventura in modo da chiudere il capitolo sulla strage di piazza Fontana, e non solo. Vi era, difatti, la consapevolezza, basata sulla lettura degli atti, che la strage della Banca dell agricoltura era scaturita da esigenze politiche ad altissimo livello, interno ed internazionale, tale da impedire perfino che ne fossero condannati alcuni fra gli organizzatori e gli esecutori materiali. E, difatti, li hanno assolti sia pure, bontà loro, con la formula del dubbio. Dirà il sostituto procuratore della repubblica Luigi Rocco Fiasconaro ai componenti della Commissione parlamentare d inchiesta presieduta da Gerardo Bianco, il 14 aprile 1987: "Vorrei dire con tutta franchezza che il caso della strage di piazza Fontana non è mai stato un caso giudiziario, ma sembra sia stato esclusivamente un caso politico e come tale è stato trattato" (LUIGI ROCCO FIASCONARO, Audizione dinanzi alla Commissione parlamentare, 14 aprile 1987). E, sul tentativo di trasferire le indagini da Milano a Roma,

2 il magistrato ribadisce: " lì era stata una decisione puramente politica che l istruttoria dovesse essere svolta a Roma" (ibidem). Non è il solo. Anche il sostituto procuratore della repubblica di Catanzaro, Mariano Lombardi, nel corso della sua audizione dinanzi alla stessa Commissione parlamentare d inchiesta, afferma: " E chiaro, quindi, che la strage veniva da più lontano, che la strage aveva una diversa matrice politica, che la strage aveva una spiegazione innanzitutto politica" (MARIANO LOMBARDI, Audizione dinanzi alla Commissione parlamentare, 14 aprile 1987). E questa consapevolezza che spiega come da parte giudiziaria non si sia mai voluto procedere a circoscrivere, sul piano politico e geografico, l area stragista. E non si voglia farlo nemmeno oggi. Per chi ha prevalente il senso della giustizia su quello dello Stato, non ha stipendi e carriere da difendere, piccole ambizioni da soddisfare, non è difficile procedere a fare un analisi comparativa sui principali fatti di strage in Italia dalla quale, come si vedrà, emerge chiaramente quale sia stata l area stragista che ha così sanguinosamente operato nel Paese. -30 settembre 1967: a Trento, il brigadiere di P.S. Filippo Foti e l agente Edoardo Martini prelevano su segnalazione di una passeggera, una valigia lasciata sul treno Alpen Express, diretto da Monaco di Baviera a Roma, che esplode mentre cercano di aprirla, uccidendoli sul colpo. -25 aprile 1969: a Milano, vengono compiuti simultaneamente due attentati alla Stazione ferroviaria e alla Fiera campionaria, che provocano 21 feriti. -8/9 agosto 1969: vengono compiuti attentati su 8 convogli ferroviari, che provocano 10 feriti. -4 ottobre 1969: a Trieste viene compiuto un attentato dinamitardo contro la Scuola slovena, che fallisce per un difetto tecnico. In caso contrario, sarebbe stata una strage. -12 dicembre 1969: a Milano e a Roma vengono compiuti attentati contro la Banca dell agricoltura e la Banca commerciale, nella prima; contro l Altare della patria e la Banca nazionale del lavoro, nella seconda. Oltre ai morti e ai feriti all interno della Banca dell agricoltura a Milano, si contano 15 feriti a Roma, mentre fallisce per un difetto tecnico l attentato alla Banca commerciale di Milano. -20 agosto 1970: a Verona viene deposta una valigia contenente un ordigno, su una veranda passeggeri della stazione ferroviaria. Notata da un sottufficiale di polizia e portata in un luogo isolato, esploderà un ora più tardi. Con nota del 17 febbraio 1976 inviata al giudice istruttore di Bologna Vito Zincani, il ministero degli Interni ne parlerà come di "uno dei più impressionanti attentati del periodo successivo alla strage di piazza Fontana perché il luogo prescelto era l espressione di una volontà criminale tendente ad un eccidio indiscriminato". -22 ottobre 1972: vengono compiuti attentati contro convogli ferroviari diretti a Reggio Calabria per il trasporto degli operai e dei sindacalisti che devono partecipare ad una manifestazione antifascista. A Latina, un ordigno provoca 5 feriti. -7 aprile 1973: viene arrestato, sul treno Torino - Roma, il militante del gruppo La Fenice di Milano, Nico Azzi, rimasto ferito dall esplosione di un detonatore che sarebbe dovuto esplodere sul convoglio in corsa. -20 maggio 1979: a Roma viene collocata in piazza Indipendenza, dove è prevista un adunata di alpini in congedo, una vettura Fiat 500 contenente 99 candelotti di esplosivo. L ordigno non esplode per un difetto tecnico. -30 luglio 1980: nella notte, alle ore 01,55, viene fatta esplodere una vettura imbottita con 14 chilogrammi di esplosivo, dinanzi a Palazzo Marino, sede del Comune, in coincidenza con la conclusione del Consiglio comunale. Nove stragi che hanno fallito il loro sanguinoso obiettivo per cause fortuite. Altri 2 morti e 51 feriti da aggiungere alla lista degli italiani che lo stragismo atlantico ha colpito in nome dei suoi interessi, avversi come sempre a quelli della Nazione. Dove si sono verificati i 13 episodi di strage che stiamo esaminando? -Trento (30 settembre 1967), obiettivo: un convoglio ferroviario. -Milano (25 aprile 1969), obiettivo: la Stazione ferroviaria e la Fiera campionaria. -Varie (8-9 agosto 1969), obiettivo: convogli ferroviari. -Trieste (4 ottobre 1969), obiettivo: una scuola. -Milano-Roma (12 dicembre 1969), obiettivo: banche e l Altare della patria. -Verona (20 agosto 1970), obiettivo: stazione ferroviaria. -Varie (22 ottobre 1972), obiettivo: convogli ferroviari.

3 -Liguria (7 aprile 1973), obiettivo: convoglio ferroviario. -Milano (17 maggio 1973), obiettivo: il ministro degli Interni Mariano Rumor. -Brescia (28 maggio 1974), obiettivo: partecipanti a un comizio sindacale. -Emilia (4 agosto 1974), obiettivo: un convoglio ferroviario. -Roma (20 maggio 1979), obiettivo: i partecipanti ad un adunata di alpini in congedo. -Milano (30 luglio 1980), obiettivo: il pubblico e i partecipanti alla seduta del Consiglio comunale. -Bologna (2 agosto 1980), obiettivo: stazione ferroviaria. La semplice osservazione della collocazione geografica degli attentati avrebbe già dovuto suggerire, almeno a partire dal 1973 quando erano ormai 10 le stragi riuscite o mancate, che i gruppi operativi dovevano essere almeno due: uno ubicato nell Italia del nord (Lombardia e/o Veneto), l altro a Roma. Non è una ipotesi formulata a posteriori perché sarebbe stato sufficiente come gli episodi più gravi si erano verificati a Trento (uno), a Milano (tre), a Trieste (due), a Roma (due), a Verona (uno), in Liguria (uno). A questo dato si aggiungeva, poi, quello determinante dei luoghi di origine degli indiziati e dei gruppi politici di appartenenza. Per l attentato di Trento (Alpen Express) era indiziato Giorgio Freda; per gli attentati di Milano (Stazione ferroviaria e Fiera campionaria) Giorgio Freda e Giovanni Ventura; per quelli di Milano- Roma (12 dicembre 1969), ancora Giorgio Freda e Giovanni Ventura, stavolta insieme a Pietro Valpreda e a Michele Merlino, esponente di Avanguardia nazionale a Roma; per gli attentati ai treni del 22 ottobre 1972, sospettati erano i militanti di Avanguardia nazionale, a Roma e Reggio Calabria; per la tentata strage del 7 aprile 1973, imputati erano 4 militanti del Movimento sociale italiano di Milano (Nico Azzi, Francesco De Min, Mauro Marzorati, Giancarlo Rognoni); per la strage dinanzi alla Questura di Milano, l imputato era il veneto Gianfranco Bertoli. Cinque, in totale, le città italiane sulle quali concentrare la propria attenzione: Padova, Milano, Roma, Mestre-Venezia, Trieste. Due i gruppi politici: il Movimento sociale italiano, nel quale erano confluiti gli ordinovisti fedeli a Pino Rauti, ed Avanguardia nazionale. Le stragi successive hanno introdotto il solo elemento nuovo dell attivazione di un gruppo operativo in Toscana, per il resto il quadro è rimasto immutato: Brescia (28 maggio 1974), Roma (20 maggio 1979), Milano (30 luglio 1980), Bologna (e agosto 1980). La tecnica era sempre identica, la ricerca del massacro indiscriminato altrettanto, cambiavano i nomi di alcuni degli indiziati ma non i gruppi politici di appartenenza e la loro contiguità con gli apparati dello Stato. Per la strage di piazza della Loggia si ipotizzò subito l azione congiunta di elementi locali e di altri venuti da Milano; per il massacro fallito di Roma, vengono indiziati di reato Sergio Calore e Valerio Fioravanti, fra gli altri; per Palazzo Marino a Milano, gli indiziati saranno Gilberto Cavallini, Egidio Giuliani, Pompei, Benito Allatta; per l eccidio di Bologna, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti; per l Italicus, imputato il gruppo di Mario Tuti, di estrazione ordinovista. I luoghi di origine sono ora: Milano, Roma, Brescia, Arezzo. I gruppi politici: Ordine nuovo, Avanguardia nazionale, Movimento sociale italiano. I gruppi spontaneisti sono, difatti, un invenzione a posteriori di una stampa asservita alle esigenze difensive del Sismi e del Sisde. Con l inserimento di Brescia ed Arezzo, salgono a 7 in totale le città italiane sulle quali concentrare le indagini per un lasso di tempo che va dal 1967 al 1980: Milano, Roma, Padova, Mestre-Venezia, Trieste e, appunto, Brescia ed Arezzo. I gruppi politici sono sempre gli stessi: Movimento sociale italiano, Ordine nuovo, Avanguardia nazionale. Ma torniamo al Milano appariva, già allora, come la capitale dello stragismo. Non solo vi si erano verificati gli attentati del 25 aprile 1969, del 12 dicembre 1969, del 17 maggio 1973 e vi era il legittimo sospetto che a Milano era stato collocato almeno uno degli ordigni esplosi sui convogli ferroviari l 8-9 agosto 1969, ma per la prima volta era stato identificato con assoluta certezza un nucleo stragista smascherato da uno dei suoi stessi componenti, Nico Azzi. Era un fatto di eccezionale rilevanza per quanti indagavano sullo stragismo italiano, l individuazione certa di un gruppo che si prestava a far saltare convogli ferroviari e che applicava le tecniche della strategia della tensione, cercando di addossare la responsabilità della strage ad un gruppo di estrema sinistra, in questo caso Lotta continua. Avrebbero dovuto rappresentare, la delazione di Nico Azzi e l incriminazione di Giancarlo Rognoni, il punto di partenza per indagini serie e coordinate. Il capo del filo che poteva srotolare la sanguinosa matassa dello stragismo atlantico e di Stato, i magistrati italiani lo hanno avuto in mano a partire dal 7 aprile 1973, con certezza probatoria, a Milano.

4 Cosa ne hanno fatto? Nulla. Eppure chi fossero Giancarlo Rognoni ed i suoi amici era un fatto notorio. Lui e gli altri erano componenti a tutti gli effetti del Movimento sociale italiano milanese i cui dirigenti locali erano Frank Maria Servello, Ignazio La Russa, Giorgio Pisanò, Franco Petronio, per citare i più noti. I militanti de La Fenice, di essere i pretoriani del partito di Giorgio Almirante e Pino Rauti lo avevano scritto, ribadito, affermato, gridato dalle pagine del loro giornaletto dal titolo omonimo, specie nel corso della campagna elettorale del maggio 1972 quando si erano prodigati per procurare voti al Msi-Destra nazionale. Giancarlo Rognoni aveva protestato con veemenza dopo l arresto di Pino Rauti, avvenuto il 4 marzo Undici giorni più tardi, sul suo periodico aveva scritto: "Si monta un altra criminale iniziativa, si tenta in tutti i modi di colpire il Msi, il partito cioè che si accinge a diventare uno dei più importanti, se non il più importante, partito italiano. Uno dei componenti del suo esecutivo nazionale, la più alta assise del partito, viene arrestato. L arrestato è Pino Rauti, uno dei nomi più prestigiosi della Destra nazionale ". I rapporti non erano, come si vede, dissimulati. Pino Rauti era stato arrestato nell ambito dell inchiesta sulla strage di piazza Fontana perché chiamato in causa da Marco Pozzan. La cellula stragista di Milano era pubblicamente devota al componente dell esecutivo nazionale del Movimento sociale italiano e deputato Pino Rauti, il quale era coimputato con la cellula stragista di Padova accusata di aver commesso una strage e attentati vari a Milano. Nessuno ci fece caso. Strano. Ancor più singolare il fatto che nessuno si accorse delle similitudini che collegavano l azione stragista del gruppo milanese capeggiato da Giancarlo Rognoni con quella compiuta dal gruppo padovano, allora ritenuto unico e solo responsabile della strage di piazza Fontana. Cambiava, è vero, l obiettivo: un treno passeggeri al posto delle banche, ma per il resto lo schema era identico. Nel dicembre del 1969, la strage di piazza Fontana (e quelle fallite, a Milano e a Roma) non era ritenuta da sola sufficiente ad innescare quel processo di difesa dello Stato che doveva sfociare nella proclamazione dello stato di emergenza. Per giungere a questo risultato, ai morti delle stragi del 12 dicembre 1969 si dovevano sommare quelli che ci sarebbero stati nelle strade di Roma nel corso della manifestazione organizzata dal Movimento sociale italiano per domenica 14 dicembre, destinata a degenerare in gravissimi incidenti. Nel 1973, la strage sul treno Torino-Roma del 7 aprile non avrebbe avuto alcun seguito se ai morti da essa provocati non si fossero aggiunti quelli lasciati sulle strade di Milano nel corso della manifestazione organizzata dal Movimento sociale italiano per il 12 aprile, destinata come è stato- a degenerare in violenze di ogni genere. L unica differenza visibile fra i due piani appare nella cura con la quale gli stragisti dell aprile 1973 cercano di attribuire alla sinistra il massacro sul treno Torino-Roma e i morti sulle strade di Milano, a voler rimediare un dettaglio trascurato nel dicembre Nico Azzi, prima di innescare l ordigno, passeggia nei corridoi del treno tenendo fra le mani il quotidiano Lotta continua. Il 13 aprile 1973, il giorno successivo agli incidenti di Milano e alla morte dell agente di P.S. Antonio Marino, il Secolo d Italia, organo di stampa del Movimento sociale italiano, tenta di attribuire il fatale lancio delle bombe a mano a militanti del Partito comunista infiltrati fra i giovani nazionali, tanto da scrivere che sul luogo degli incidenti era stata ritrovata la tessera di un iscritto al Pci. Per il resto, il piano stragista dell aprile 1973 è la mera reiterazione di quello attuato nel dicembre Se il piano del 1973 era l esatta fotocopia di quello di quattro anni prima, se il teatro principale della tragica rappresentazione era sempre Milano, le menti organizzative non potevano essere che le stesse che avevano curato la preparazione degli attentati stragisti del 12 dicembre E alcune di esse dovevano necessariamente vivere ed operare a Milano. Il giudice istruttore Gerardo D Ambrosio ed il sostituto procuratore Emilio Alessandrini non lo compresero. Il collegamento fra la strage mancata sul treno Torino-Roma del 7 aprile e gli incidenti del 12 aprile, lo stabilì con estrema chiarezza proprio Nico Azzi il 26 aprile 1973, quando confessò di essere stato proprio lui a procurare le bombe a mano che poi vennero impiegate in piazza quel tragico giorno (AA.VV., Venti anni di violenza politica, Ricerca Isodarco Roma 1992, vol.i, p.325). Era la prova di un piano preordinato che includeva due eventi: il massacro sul treno ed i morti sulle strade. Anche in questo caso nessuno parve accorgersene. Molteplici sono i motivi di questa disattenzione. Il primo risiede certamente nella scelta, tutta politica, di circoscrivere gli eventi di strage a cellule nere in combutta con servizi deviati (ma l ipotesi restò, per anni, valida solo per la strage di piazza Fontana) che agivano svincolati da ogni aggancio con forze politiche rappresentate in Parlamento. Il rifiuto, rimasto costante nel tempo e in vigore ancora oggi, dei magistrati

5 italiani di indagare sui rapporti fra i dirigenti nazionali e periferici del Msi e i componenti delle presunte cellule nere e stragiste ha rappresentato la maggiore causa ostativa all accertamento della verità sulla violenza di destra o neofascista, se si preferisce- e sul fenomeno stragista in Italia. Per limitarci alla sola Milano, vediamo che sono state disattese dalla magistratura tutte le denunce, anche circostanziate e provenienti dall interno dello stesso ambiente missino, contro i dirigenti del partito. Dopo aver archiviato la denuncia pubblica di un attivista missino, Giovanni Ferrorelli, che aveva accusato i vertici milanesi del Msi di utilizzare i giovani per compiere atti di violenza, salvo scaricarli se individuati od arrestati, la magistratura milanese non diede credito nemmeno alle accuse lanciate (anche se poi parzialmente ritrattate) da Vittorio Loi e Maurizio Murelli che indicarono nei dirigenti missini gli organizzatori degli incidenti del 12 aprile Ci fu, è vero, un indagine che si concluse con il rinvio a giudizio, fra gli altri, di Frank Maria Servello e Franco Petronio, entrambi parlamentari, a carico dei quali venne richiesta l autorizzazione a procedere il 22 giugno 1974 (ivi, p. 401), ma furono sufficienti poche udienze per mandare assolti i due, il 26 gennaio 1978, con formula ampia "per non aver commesso il fatto" (ivi, p.675). Di disconosce poi l esito (che sia stato favorevole è ampiamente scontato) di un altro processo che ha visto alla sbarra Frank Maria Servello, vicesegretario nazionale e segretario amministrativo del Msi, insieme all immancabile Franco Petronio per "tentata ricostituzione del P.N.F." per il quale vengono rinviati a giudizio l 8 marzo 1976 unitamente ad altri 44 imputati, fra i quali spicca il nome di Giancarlo Rognoni (ivi, p.514). Nelle nebbie del Palazzo di giustizia di Milano si è perso anche questo processo. Più coraggioso dei magistrati italiani, il giornalista Carlo Casalegno, l 11 novembre 1973, su La Stampa di Torino, si rivolgerà a Paolo Emilio Taviani per dirgli: "Lei sa meglio di noi, signor ministro degli Interni, che non saranno gli squadristi neri a rovesciare la Repubblica, ma che la violenza impunita logora la fiducia dello Stato e che il teppismo neofascista è il braccio armato di un partito e rientra in una più vasta e pericolosa strategia della tensione ". E, a dire il vero, il ruolo di incitamento alla violenza, gli esponenti del Msi lo hanno sempre svolto impunemente alla luce del sole. Il 25 maggio 1969, il non compianto Pino Romualdi scriveva sul periodico L Assalto: "Crediamo nell olio di ricino e nel santo manganello. Crediamo nella guerra civile. Poiché prima che il comunismo arrivi al potere è chiaro che si troveranno mezzo milione di uomini capaci di procurarsi le armi e di usarle. Nessuno deve dimenticarlo: oggi, mutati i tempi, l olio di ricino e il santo manganello non basterebbero più". E, sul tema dello scontro armato, torna anche un fedelissimo di Giorgio Almirante, il vicesegretario nazionale del Msi Tullio Abelli che, nel maggio del 1973, sul periodico Il Dardo, scrive: "Il fascismo sta veramente per risorgere, per legittima difesa. Noi non vogliamo la guerra civile. Ma non temiamo, per noi, la guerra civile". Certo, passando dalla teoria alla pratica, dall incitamento alla traduzione in atti concreti della violenza, la presenza dei dirigenti del Msi sfuma, si dissimula, si occulta ma senza riuscire a scomparire del tutto. Così, proprio sul conto di Tullio Abelli, Luigi Cavallo potrà scrivere, il 16 luglio 1970, ai dirigenti della Fiat: " In base ad accordi presi con l onorevole Tullio Abelli, a partire dal prossimo settembre nei periodi di forte tensione attueremo distribuzioni attivistiche congiunte alle porte calde della Mirafiori Attivismo d urto. Abbiamo organizzato finora 4 squadrette. La prima, costituita tramite Abelli, è composta da 4 milanesi, altre due squadrette, costituite tramite il principe Borghese sono costituite da piemontesi. Abbiamo fornito loro targhe false, parrucche da capelloni e tubi di gomma ". Nessuno indagherà mai. Mentre una chiamata di correità sull organizzazione del campeggio paramilitare di Passo Penne in Trentino Alto Adige, iniziato il 1 luglio 1971, viene da un dirigente giovanile del Msi, Francesco Petracca, espulso dal partito secondo una collaudatissima tecnica quando il fatto finì sui giornali e agli atti della magistratura. Così, l inviperito Francesco Petracca, il 15 aprile 1972, sul periodico Forza nuova accusa Franco Franchi "che lacrime agli occhi giura di essere straziato per la nostra decadenza dal partito ma che, come i fatti dimostrano, non si poteva fare diversamente; e sussurra che alcune foto compromettenti (per noi) acquisite a prezzo salato, spudorato bugiardo! Ben diversa scrive ancora l attivista missino- la dignità dell onorevole Mitolo che, tirato ingiustamente in causa, nega di aver finanziato il campeggio ma conferma che la federazione ne era a conoscenza".

6 Sono i vertici del Msi ad organizzare la manifestazione del 14 dicembre, dal cui tragico esito il Consiglio dei ministri presieduto da Mariano Rumor avrebbe dovuto trarre spunto per la proclamazione dello stato di emergenza; sono loro a candidare Pino Rauti al Parlamento e a farlo eleggere deputato il 7 maggio 1972; loro a guidare la campagna innocentista a favore di Giorgio Freda e Giovanni Ventura; loro a fornire l assistenza legale; loro ad avere dato copertura al più enigmatico dei protagonisti dell operazione che dal 18 aprile 1969 si concluderà il 12 dicembre 1969 nel modo tragico che tutti conosciamo, Guido Giannettini. L agente Zeta del Servizio informazioni difesa (Sid) nasce come politico, giornalista e, infine, spione nell ambito del partito di Arturo Michelini e Giorgio Almirante. La sua collaborazione con il Sid viene opportunamente occultata dalla sua qualifica di giornalista missino, militante di un partito anticomunista ma anche, e soprattutto, di opposizione al regime. Appare degno di rilievo che i magistrati milanesi che hanno indagato sul suo conto, hanno accentuato la sua qualifica di agente del Sid ed hanno, viceversa, trascurato completamente la sua militanza nel Movimento sociale. Eppure, Guido Giannettini e Pino Rauti non si sono incontrati nelle anticamere degli uffici dello Stato maggiore della Difesa per mera casualità ma in virtù di una comune, asserita ideologia fascista che li aveva condotti a militare nel Msi. Ed insieme a loro, a servire gli interessi dello Stato italiano, c era Eggardo Beltrametti, ex componente del Comitato centrale del Msi e amico di famiglia di Massimiliano Fachini, consigliere comunale del Msi a Padova. Adriano Romualdi, figlio del più noto Pino, vicesegretario nazionale del Msi era in ottimi rapporti con Giovanni Ventura e Giorgio Freda; Giorgio Almirante incontra Stefano Delle Chiaie, ricercato per "falsa testimonianza" nell ambito dell inchiesta sulla strage del 12 dicembre 1969, a Roma ancora nel E non c è ragione fronte a quanto stiamo esponendo in sintesi, per considerare una coincidenza l intervista concessa dal segretario nazionale del Msi al settimanale tedesco Der Spiegel, il 10 dicembre 1969, quando affermò che, a suo parere, la lotta al comunismo giustificava il ricorso ad ogni mezzo e che era giunto il momento di non fare ulteriori distinzioni fra misure politiche e militari per risolvere una volta per tutte la situazione in Italia. Due giorni più tardi si conteranno i morti della Banca dell agricoltura a Milano. Se l ostinato rifiuto dei magistrati italiani di indagare sul conto dei dirigenti, soprattutto ai massimi livelli, del Movimento sociale italiano ha determinato il naufragio parziale, e spesso totale, delle inchieste sulle stragi italiane nel capitolo relativo agli ispiratori, ai mandanti ed agli organizzatori, un secondo motivo, altrettanto determinante proviene dalla frammentazione dei procedimenti penali, che ha ottenuto l effetto di disperdere le indagini in mille rivoli, ognuno indipendente dall altro, così da impedire la ricomposizione, al di là della volontà dei singoli magistrati, del quadro unitario nel quale si è sviluppata l azione stragista. Nel 1973, ad esempio, sulla strage di piazza Fontana indagava il giudice istruttore Gerardo D Ambrosio; su quella compiuta da Gianfranco Bertoli, sempre a Milano, il giudice istruttore Antonio Lombardi; altro, probabilmente, sugli incidenti del 12 aprile 1973 e la morte dell agente di P.S. Antonio Marino; sulla mancata strage del 7 aprile 1973, di cui erano responsabili i milanesi Giancarlo Rognoni ed altri componenti del gruppo missino La Fenice, indagavano invece i giudici di Genova, competenti per territorio; a svolgere le indagini sulla cosiddetta Rosa dei venti era il giudice istruttore di Padova, Giovanni Tamburino; la magistratura romana, infine, indagava (si fa per dire) sul "golpe Borghese". Il risultato di questa dispersione delle inchieste è noto. Le indagini sul conto degli stragisti de La Fenice vennero circoscritte alla mancata strage del 7 aprile 1973, senza procedere oltre. Interessava provare le responsabilità individuali nel fatto-reato, sulla base della confessione-delazione di Nico Azzi, non illuminare il contesto nel quale Giancarlo Rognoni aveva agito. Ai magistrati di Genova non interessavano il passato, la collocazione politica ed i collegamenti dei componenti de La Fenice che riescono così ad apparire per lunghi anni nelle vesti di stragisti sorti dall ombra e ripiombati, a processo concluso, nella medesima indecifrabile oscurità. La cellula stragista di Milano, sulla quale indagavano i magistrati di Genova, rimase così nettamente separata da quella di Padova, sulla quale stavano indagando i giudici di Milano. Isolato dalle due cellule, nonostante gli indizi trovati dal giudice istruttore Antonio Lombardi, rimase anche lo stragista veneto Gianfranco Bertoli anche se, già all epoca, erano emersi elementi che collegavano costui a personaggi operanti in Veneto, Liguria e Roma, tutti inseriti negli ambienti golpisti sui quali stava conducendo indagini il giudice istruttore di Padova Giovanni Tamburino. Il rifiuto di comprendere l unitarietà del fenomeno stragista e la frammentazione delle inchieste con la derivante mancanza di indagini per trovare i collegamenti, orizzontali e verticali, fra tutti coloro che, come Giorgio Almirante, ritenevano che il comunismo andava combattuto con ogni mezzo hanno prodotto come esito il ritardo di almeno venti anni nel ricostruire i contatti fra le cellule stragiste.

7 "Tali continui contatti può scrivere giustamente il giudice istruttore di Milano Guido Salvini mai messi a fuoco prima delle recenti indagini, erano stati con ogni probabilità la base politico-operativa che aveva reso possibile l appoggio logistico sul territorio milanese fra gli attentati del 1969" (GUIDO SALVINI, Ordinanza istruttoria 3 febbraio 1998, p.164). Il riferimento del magistrato è qui centrato sulle azioni stragiste del 1969 (25 aprile-12 dicembre) a Milano, ma quanto scrive può essere esteso a tutti i fatti di strage e anche al di fuori di Milano. Restando, per ora, a Milano vediamo come la scelta di non considerare Giancarlo Rognoni ed i suoi complici alla pari della cellula stragista di Padova, solo perché il Fato generoso ha fatto esplodere nelle mani di Nico Azzi il detonatore che era destinato ad innescare l ordigno del massacro di decine e decine di innocenti passeggeri del treno Torino-Roma, ha condizionato in maniera pesantissima, e forse determinante, il mancato accertamento della verità sugli organizzatori e sugli esecutori materiali della strage di piazza Fontana. Non è stata una evidente e smaccata sottovalutazione dei soggetti interessati a proteggere Giancarlo Rognoni ed i suoi amici da ulteriori e più serie indagini. C è stato, come sempre in questi casi, altro, certamente più inquietante Un elemento indiziario a conforto di questa nostra affermazione ci proviene proprio da Milano, dall insieme di quanto accadde a Pietro Battiston, componente de La Fenice e complice di Giancarlo Rognoni. "Pietro Battiston, componente storico del gruppo La Fenice e uomo di fiducia, al pari di Nico Azzi, di Giancarlo Rognoni scrive ancora il giudice istruttore di Milano Guido Salvini si era reso latitante quando il 14 dicembre 1973, in un autovettura custodita all interno del garage Sanremo di via Zecca vecchia a Milano di proprietà del padre Pio e in cui egli stesso lavorava, era stato rinvenuto un piccolo arsenale di armi ed esplosivo fra cui una saponetta di tritolo di 500 grammi del tutto identica a quella usata da Nico Azzi nell aprile 1973, per commettere il fallito attentato sul treno Torino-Roma" (ivi, p.72). Pietro Battiston non figura tra i condannati per la mancata strage del 7 aprile 1973; non compare nemmeno fra gli imputati, gli indiziati di reato, almeno per la semplice ragione che non è stato nemmeno condannato per detenzione di armi e di esplosivo. Per quanto stupefacente possa sembrare, Pietro Battiston è stato prosciolto per "insufficienza di prove" avendo i giudici accettato la peregrina tesi difensiva che armi ed esplosivo erano stati collocati all interno di una vettura parcheggiata all interno del garage di proprietà del padre da avversari politici che, in questo modo, intendevano provocarne l arresto. E doveroso da parte nostra scartare con decisione la possibilità di un errore giudiziario, magari dovuto ad incompetenza professionale, perché si trattava di valutare i comportamenti di un individuo, ritrovato in possesso di armi e di esplosivo, inserito nel gruppo La Fenice di cui ben 4 componenti, nel dicembre del 1973, erano da otto mesi imputati per una mancata strage. E doveroso viceversa, da parte nostra, ricordare a questo punto i collegamenti che, alla pari delle altre cellule stragiste, quella de La Fenice aveva con apparati dello Stato. "Infine Francesco Zaffoni (altro componente de La Fenice, nda) scrive il giudice istruttore Guido Salvini ha confermato i rapporti di contiguità, alla fine degli anni 60, fra l area di estrema destra milanese e i comandi della Divisione carabinieri Pastrengo, ricordando di essersi più volte recato presso la caserma di via Lamarmora insieme a Giancarlo Esposti, Pietro Battiston e altri camerati e che in tali occasioni i militari di guardia, evidentemente preavvisati, non effettuavano alcun controllo, consentendo così, in particolare ad Esposti che gestiva personalmente i contatti di entrare e di parlare tranquillamente con alcuni ufficiali" (ivi, p.60). Non è azzardato ipotizzare che in qualche colloquio informale, qualche ufficiale dei carabinieri non abbia trovato il modo di esprimere un giudizio benevolo sul conto di Pietro Battiston, "giovane nazionale" impegnato nella lotta ai comunisti, notoriamente cinici e capaci di tutto, e che il suo interlocutore giudiziario abbia recepito nel modo dovuto e nel senso desiderato la raccomandazione. Se la nostra ipotesi pecca, è per ingenuità non per altro. Nemmeno oggi, nonostante i passi in avanti fatti in questi ultimi anni, la magistratura ha voluto chiarire il ruolo di Pino Rauti nei rapporti fra i gruppi di destra e gli apparati segreti dello Stato. Il Movimento sociale italiano, si sa, insieme ai suoi dirigenti di spicco, primo fra tutti Giorgio Almirante, è stato sempre dipendente dal ministero degli Interni e questa realtà ormai è oggetto di ricerche storiche più che giudiziarie. Diversa la situazione di Pino Rauti. Sul suo conto la magistratura avrebbe dovuto e ancora dovrebbe- investigare sui suoi rapporti con i vertici delle Forze armate italiane negli anni Sessanta e con il servizio segreto militare. Il sostituto procuratore della repubblica di Milano, Emilio Alessandrini, volle

8 sfumare il tono della sua requisitoria sul punto specifico, scrivendo testualmente: "Sorgeva a questo punto il problema se anche Rauti sia stato in quel torno di tempo reclutato dal Sid. Allo stato, si può con certezza affermare che in quel periodo di tempo (estate-autunno 1966) Rauti era un elemento contattato dall allora capo del Sid ammiraglio Eugenio Henke". Troppo poco, praticamente nulla Altre avrebbero dovuto essere le domande poste ai responsabili militari e dei servizi di sicurezza che hanno avuto in cura il capo di Ordine nuovo. Chi lo fece assumere a Il Tempo di Roma, diretto da Renato Angiolillo? Quali erano i suoi rapporti con Lando Dell Amico? Chi lo presentò al generale Giuseppe Aloja? Chi garantì che il suo nazismo era di facciata? Chi e quando concesse a Pino Rauti il passi necessario per frequentare la sede dello Stato maggiore dell Esercito e della Difesa? Sulla base delle informazioni fornite da quale ente Pino Rauti acquisì tanta smaccata fiducia da parte del generale Aloja da partecipare in prima persona alla guerra dei generali prendendo posizione contro il generale Giovanni De Lorenzo? Come mai la comunità ebraica italiana, pur potentissima anche all interno dell estrema destra, non ha mai ritenuto opportuno indicare in Pino Rauti un nazista ed un antisemita? In quale operazione rientrava la nascita di Ordine nuovo, favorita addirittura dallo stesso Arturo Michelini, contestuale alla definitiva ristrutturazione delle Stay behind? Perché nella scheda di adesione di Ordine nuovo si chiedeva, ad esempio, se l aspirante avesse il porto d armi, se avesse svolto il servizio di leva, in quali reparti, se detenesse armi (ovviamente regolarmente denunciate) etc.? E perché nessuno ha mai voluto richiedere, per acquisirla agli atti di un inchiesta giudiziaria, una copia delle schede di adesione ad Ordine nuovo? E stato mai concesso, ed eventualmente quando e da chi, il Nos a Pino Rauti? Pagine e pagine di domande si potrebbero formulare per poi sottoporle a Pino Rauti, ma anche a Giulio Maceratini oggi capogruppo parlamentare di Alleanza nazionale, e ad altri dirigenti di primo piano di Ordine nuovo. Domande pertinenti al ruolo ricoperto nella strategia complessiva della destra italiana, la stessa che ha incluso le stragi come momenti di lotta per fermare il comunismo con ogni mezzo. Interrogativi che potrebbero chiarire, in modo inequivoco e definitivamente, la strategia anticomunista ed atlantica nella quale la destra italiana ha ricoperto un ruolo tanto fondamentale quanto sanguinoso. I servizi segreti italiani, militare e civile, hanno sempre protetto la verità sulla strategia alla quale hanno partecipato. Per restare alla strage di piazza Fontana è sufficiente ricordare quanto ha dichiarato il sostituto procuratore della repubblica, Luigi Rocco Fiasconaro: "I funzionari del Sid che noi abbiamo sentito hanno mentito regolarmente ad ogni audizione che è stata fatta; non hanno mai detto mezza verità " (LUIGI ROCCO FIASCONARO, Audizione cit.). E lo stesso magistrato incalza: "La polizia non ha mai cercato i responsabili degli attentati dell 8 agosto, perché nessun ufficio di polizia si è mai messo in contatto con un altro ufficio di polizia per vedere quali erano i collegamenti tra questi otto attentati" (ibidem). Il riferimento è agli attentati ai treni dell 8-9 agosto 1969 compiuti, fra gli altri, da Freda e complici nell ambito dell operazione che sarebbe successivamente sfociata nella strage della Banca dell agricoltura. Queste, però, sono dichiarazioni rese in seduta dinanzi ad una Commissione parlamentare d inchiesta. Non le troveremo mai scritte in un ordinanza istruttoria o in una sentenza. La magistratura crede, deve credere agli uomini che rappresentano lo Stato. E quando sa che mentono, finge egualmente di credergli. Il sostituto procuratore della repubblica di Catanzaro, Mariano Lombardi, ha provato, con sincerità di accenti, a spiegare la situazione nella quale è venuto a trovarsi quando dovette indagare sulla strage di piazza Fontana scontrandosi con le reticenze e le menzogne degli uomini dei servizi segreti e degli apparati dello Stato. "Chi è condizionato culturalmente da un determinato fatto dice ai componenti della Commissione parlamentare d inchiesta- (dall educazione ricevuta o dall ossequio verso determinate cose) prima di cominciare a credere che il funzionario di polizia possa avere non sbagliato perché tutti sbagliamo- ma tradito volontariamente il suo compito (ed ammesso che arrivi a crederlo) deve vedere le prove, deve vedere le prove di san Tommaso" (MARIANO LOMBARDI, Audizione cit). Le ha evidentemente trovate, "le prove di san Tommaso", il pubblico ministero Mariano Lombardi se, nel prosieguo della sua audizione afferma con decisione che nelle indagini sulla strage di piazza Fontana "la prova generica viene adulterata dall Ufficio affari riservati (mi riferisco alle bombe e alle borse); gli imputati vengono fatti scappare dal Sid. I capi dei due uffici si odiavano cordialmente: apparentemente, apparentemente" (ivi). Se gli uomini degli apparati di Stato proteggono le cellule stragiste, la magistratura copre le responsabilità dei primi affidando poi alle interviste giornalistiche i lamenti per essere stata ostacolata nell accertamento

9 della verità da coloro che, per dovere istituzionale, avrebbero dovuto coadiuvarla. L esempio ci viene ancora dall inchiesta sulla strage di piazza Fontana, condotta dai magistrati Gerardo D Ambrosio ed Emilio Alessandrini. Quando i due giudici milanesi si trovano dinanzi all evidenza delle prove a carico dei funzionari dell Ufficio Affari riservati e della polizia sui depistaggi compiuti per proteggere la cellula nera padovana, assumono due posizioni diverse: il sostituto procuratore Emilio Alessandrini si dichiara contrario ad una loro incriminazione; il giudice istruttore Gerardo D Ambrosio decide invece di procedere a loro carico, naturalmente a piede libero e senza nemmeno richiedere la sospensione dell incarico. Il 18 marzo 1974, arriva il giorno del giudizio. Il giudice istruttore Gerardo D Ambrosio si pronuncia a carico degli imputati eccellenti. Sul conto di Elvio Catenacci, già direttore della Divisione Affari riservati, e di Antonino Allegra, commissario capo, dirigente dell Ufficio politico della Questura di Milano, scrive: "E pacifico che i pubblici ufficiali commisero i fatti loro addebitati nei capi di imputazione" ma, prosegue, "ritenuto che le omissioni, da una parte non furono rilevanti, e dall altra non avvennero con la piena coscienza dell illiceità del fatto, stima questo giudice istruttore doversi pronunciare la sentenza di non doversi procedere". Sul conto di Allegra, aggiunge che ha agito "con imperizia e negligenza" e ne dispone il proscioglimento "per intervenuta amnistia". Per rendersi conto della gravità insita nella scelta di salvare i funzionari di polizia, compiuta da Gerardo D Ambrosio è giusto ricordare che, fra le altre cose, i funzionari di polizia avevano tenuto nascoste le prove, acquisite già il 13 dicembre 1969, che le borse utilizzate per gli attentati di Milano erano state acquistate a Padova il 10 dicembre, due giorni prima della strage di piazza Fontana. Questo elemento probatorio, da solo, avrebbe potuto far fallire il castello accusatorio iniziale nei confronti del gruppo romano, in particolare di Valpreda, che era accusato di aver portato materialmente nella Banca dell agricoltura proprio una di quelle borse. In ogni caso, avrebbe subito evidenziato la pista padovana che già Guido Lorenzon stava indicando, e per questo era stato indiziato di calunnia nei confronti di Giovanni Ventura. Anticipare alla fine di dicembre del 1969 l identificazione di Giorgio Freda e Giovanni Ventura come correi nella strage avrebbe potuto imprimere una svolta nelle indagini. Questo non avvenne perché, con piena cognizione e totale consapevolezza dei loro comportamenti, i funzionari della polizia italiana preposti alle indagini decisero di tacere quanto sapevano per garantire a Giorgio Freda ed ai suoi complici la possibilità di difendersi. L imputazione a loro carico avrebbe dovuto essere una sola: favoreggiamento personale aggravato. Invece, come abbiamo visto, vennero trattati come degli sprovveduti, dei sempliciotti, degli incapaci. Ma tutti rimasero al loro posto e hanno continuato a fare carriera fino all età del congedo. A riprova che quello seguito da Gerardo D Ambrosio è un metodo in uso presso tutti gli uffici giudiziari italiani, c è l esempio del commissario capo di P.S. Saverio Molino, già capo dell Ufficio politico della Questura di Padova, che avrebbe dovuto essere perseguito, anch egli, dai magistrati milanesi e, invece, incappò solo nell inchiesta sulla Rosa dei venti iniziata a Padova e conclusa con un nulla di fatto a Roma. La formula con la quale il sostituto procuratore della repubblica di Roma, Claudio Vitalone, proscioglie il commissario di P.S. Saverio Molino è identica a quella utilizzata da Gerardo D Ambrosio, differenziandosi solo per la forma: "Nessun elemento di prova scrive Vitalone- consente di qualificare in termini di volontà colpevole un elemento psicologico connotato da negligenza e scarso intuito professionale". La via verso la verità sul fenomeno delle stragi si sbarra anche così, soprattutto così. Difatti, la scelta dei giudici milanesi di salvaguardare i funzionari della Divisione Affari riservati condizionano anche il giudizio dei loro colleghi di Catanzaro che si affidano alle informazioni passate loro dalla squadra capeggiata da Umberto Federico D Amato. Questo uno dei risultati: "I rapporti di Rauti con Serac scrive il sostituto procuratore della repubblica Mariano Lombardi furono evidenziati dalla Divisione Affari riservati, esclusa ogni compromissione sul piano operativo; che si esaurirono quasi due anni prima degli attentati del 12 dicembre 1969". Dovranno passare venti anni, prima di giungere alla verità sul ruolo di Yves Guerin Serac ed i suoi complici italiani. Grazie, dr. Gerardo D Ambrosio. Abbiamo parlato, fino a questo momento, rivolti al passato. E il momento di dire che, nonostante le apparenze, il presente non è diverso e migliore di questo passato sul quale ci siamo soffermati. E, la nostra, un affermazione controcorrente che ha però fondamento in un analisi degli avvenimenti relativi alle inchieste sulle stragi atlantiche succedutisi in questi ultimissimi anni ed in corso di svolgimento. Non vogliamo, per senso di giustizia ed amore di verità, negare che sono stati fatti dei progressi verso la verità, riscontrabili nelle indagini compiute dai giudici istruttori di Milano Guido Salvini ed Antonio Lombardi. Altri

10 ne sono stati fatti, alla luce dei nomi degli indiziati di reato, anche dalla magistratura bresciana che indaga sulla strage di piazza della Loggia del 28 maggio Ma non basta. La visuale dalla quale noi osserviamo gli eventi ci suggerisce che, ad istruttorie concluse, inizia ora, in vista dei dibattimenti pubblici, una battaglia senza esclusione di colpi per vanificare del tutto quanto è stato scoperto ed ancora è in via di accertamento. Non staremo a riepilogare in questa sede la lotta che è stata condotta dal sostituto procuratore veneziano, Felice Casson, e dai suoi colleghi della Procura della repubblica di Milano, Grazia Pradella e Ferdinando Pomarici, contro il giudice istruttore Guido Salvini ed il capitano dei R.O.S. Massimo Giraudo. Abbiamo ritenuto sintomatico e coerente con l operato del sostituto procuratore Casson nel corso dell inchiesta sull attentato di Peteano di Sagrado, che egli si sia attivato su un esposto presentato dall ispettore triveneto di Ordine nuovo, Carlo Maria Maggi, contro il giudice Salvini ed il capitano Giraudo, accusandoli di aver gestito con metodi illeciti, in concorso con il direttore del Sismi, il collaboratore di giustizia Martino Siciliano. In altra sede ed in altro momento parleremo della collaborazione fra il Casson e il generale Ninetto Lugaresi, direttore del Sismi, fino all aprile 1984, dal primo incautamente affermata nel corso di un intervista ma di cui invano abbiamo cercato i riscontri nei documenti processuali, ricordando certe strane traduzioni ed altri avvenimenti all interno, soprattutto, del carcere di Spoleto che portano chiaramente, sebbene implicitamente, la firma del servizio segreto militare e, nel caso dei trasferimenti, anche l autorizzazione del giudice Casson. Non vogliamo nemmeno soffermarci, in queste pagine, sulla blindatura dell appartamento privato del Casson, eseguita dal servizio segreto civile con i fondi riservati, accompagnata dall installazione di due linee telefoniche anch esse riservate per conversazioni che non necessariamente devono riguardare sempre e soltanto le indagini che costui compie. Né vogliamo polemizzare con il procuratore aggiunto di Milano, Ferdinando Pomarici, che non ha mai svolto un solo atto nell inchiesta di piazza Fontana, giustificandosi a posteriori con il suo convincimento che gli atti processuali dovevano essere trasferiti a Catanzaro. E stato smentito dalla Cassazione, ma l hanno promosso e gli hanno dato la delega delle indagini sul terrorismo Qui ci interessa denunciare la situazione abnorme che si è determinata nel Tribunale di Milano e di cui tutti fingono, come al solito, di non accorgersene. Ci riferiamo alla mancata unificazione dei processi relativi alla strage di piazza Fontana e alla strage di via Fatebenefratelli del 17 maggio Abbiamo sottolineato, nelle pagine precedenti, come uno dei motivi per i quali non si è mai raggiunta una verità, oltre un certo livello, sul fenomeno stragista è dato dalla frammentazione, negli anni Settanta, delle inchieste sulle stragi e su avvenimenti collegati. Oggi, almeno a livello di magistratura inquirente, a Milano e a Brescia, certamente, si è compresa l unitarietà dell azione stragista e si sono individuati nei limiti del possibile le sue articolazioni, così che la chiave di lettura ha reso più agevole il raggiungimento di mete che, venti anni fa, apparivano talmente lontane da essere a priori escluse. Se, però, passiamo alla magistratura giudicante abbiamo notevoli perplessità che, a prescindere dalla onestà individuale e dalla capacità professionale, i giudici di diverse Corti di assise possano cogliere, nel lasso di tempo in cui si svolge il dibattimento, la complessità di un fenomeno che ad occhi superficiali potrebbe ancora oggi apparire come frammentario e diviso. La strage come frutto dell iniziativa di singoli appartenenti a piccoli gruppi, alle famigerate cellule nere in combutta con ufficiali infedeli e servizi deviati. E un pericolo che teniamo presente, soprattutto perché nulla ci autorizza a confidare nella capacità di comprensione della materia che è politica e storica prima ancora che processuale da parte di giudici che, di solito, ignorano le prime due per dedicarsi esclusivamente alla terza contrastati da agguerritissimi collegi difensivi che, insieme agli imputati, difendono gli interessi di quanti non compaiono sul banco degli imputati, a loro fianco, ma temono giustamente di doverci finire a loro volta. E non sono, ovviamente, tutti facenti parte di cellule nere, ma rappresentanti di forze politiche e di apparati segreti nazionali ed internazionali. Lo Stato non si fa processare nelle aule dei suoi tribunali, i partiti politici nemmeno, tantomeno gli Stati uniti e la Nato. Le avvisaglie e le premesse perché i processi ormai fissati a breve e media scadenza finiscano con un nulla di fatto ci sono tutte. La prima, la più insidiosa e a nostro avviso la più scandalosa è la mancata unificazione dei due processi per strage che, già da sola, sottolinea come non si voglia riconoscere l esistenza di un unico disegno criminoso che dal 18 aprile 1969 (data della riunione operativa, tenuta a Padova, in cui si decise la campagna di attentati successiva) si protrae nel tempo, passando per Milano (12 dicembre 1969), ancora Milano (17 maggio 1973)= e giungendo fino a Brescia (28 maggio 1974) e, a nostro avviso, in Toscana (4 agosto 1974) e a Bologna (2 agosto 1980).

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