Anarchismo nel cristianesimo? La voce di Karl Barth



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Anarchismo nel cristianesimo? La voce di Karl Barth di Enrico Cerasi I. Mi domando quanto a fondo incida il caso nostra vita. Pirandello chiamava sé stesso «figlio del Caos» [1], e la consapevolezza di quanto profondamente degl'avvenimenti casuali possano trasformare un'intera esistenza appare in film di successo come Match point di Woody Allen (2005), o ancor piú radicalmente in Toto l'héro di Jaco van Dormael (1991). Ma io pensavo a cose piú piccole, come a un libro che inaspettatamente ci capiti sotto gl'occhi in libreria. Pensavo in particolare al libro di Jacques Ellul, Anarchie et Christianisme, la cui lettura mi ha costretto a riformulare alcune idee che avevo in mente. La tesi di Ellul anarchico di fede politica, evangelico-riformato di fede religiosa non manca di chiarezza: la religione ebraico-cristiana ha una forte vena anti-conformista e contestatrice di ogni potere stabilito, che nelle Scritture ebraiche si esprime ad esempio nella refrattarietà di Samuele a ungere un re d'israele, nel movimento profetico e nella pessimistica saggezza Ecclesiaste; nel Nuovo Testamento, nel comportamento di Gesú di fronte al potere (un comportamento che esprime «ironia, disprezzo, non cooperazione e, talvolta, accusa» [2]), nell'aperta contestazione del Veggente, nella chiamata al nonconformismo di Paolo. I cristiani delle prime generazioni quelli che Celso chiamava «nemici del genere umano» - rimasero fedeli a questo anarchismo ante-litteram, sottraendosi al servizio militare e in generale disinteressandosi dell'impegno politico. Tutto, o quasi, cambiò con la famosa e in gran parte mitica conversione di Costantino; già il Sinodo di Arles del 314, convocato dallo stesso imperatore (non ancora battezzato, come amava precisare John H. Yoder!), revocherà quasi tutto, scomunicando i soldati che rifiutino il servizio militare o si ribellino ai superiori. Leggendo queste pagine, certamente provocatorie, mi sono tornate alla mente alcune affermazioni del filosofo dello Zarathustra: La buona novella è che non esistono piú contrasti; il regno dei cieli appartiene ai fanciulli [ ] Una tale fede non si sdegna, non rimprovera, non contrasta: non porta la spada. L'annunciatore di questa buona novella? Un santo anarchico, negatore della nozione stessa di colpa e castigo. «Si potrebbe, usando quest'espressione con una certa tolleranza, chiamare Gesú uno spirito libero» [3]. 31

Non raramente queste parole hanno senz'altro involontariamente contribuito ad avvalorare il progetto di cristianizzare il discepolo del dio Dioniso, o almeno di avvicinarlo alla liberale religione di Gesú, nell'ennesima crociata contro il dogmatismo paolino [4]. Il santo anarchico, il quasi-spirito-libero contro l'esponente del risentimento ebraico, della spietata «logica dell'odio» [5]? In summa: deus, qualem Paulus creavit, dei negatio [6]. Non ho mai creduto alla bontà di un tale esercizio. Mi pare che si dovrebbe prendere piú sul serio il pathos anti-cristiano che pervade gran parte dell'opera di Nietzsche, e in particolare quella degli ultimi anni della sua vita. Quanto alla definizione di Gesú quale «santo anarchico», sappiamo bene che la parola «anarchico» non suonava sempre come un complimento alle orecchie del filosofo. Nella Volontà di potenza, ad esempio, il carattere anarchico-eversivo dei primi cristiani è usato come un argomento contro il cristianesimo. «Il cristianesimo primitivo è abolizione dello Stato: vieta il giuramento, il servizio militare, i tribunali, l'autodifesa e la difesa della comunità» [7]. - Il Nuovo Testamento va letto come sintomo di una mentalità corrotta! Si dirà che Nietzsche aveva poca attitudine alla coerenza, e certamente nessuna per la sistematicità: è questo l'argomento consueto di chi vuole liberarsi delle sue pagine (magari per stigmatizzare subito dopo l'eccessiva sistematicità di Hegel). Eppure nella sua mente baluginarono pensieri folgoranti, intuizioni esatte e feconde, che chiedono di essere accolte - non in un sistema, tanto meno nietzschano aggettivo quanto mai improbabile, come credo si sappia. Comunque sia, vorrei tornare alla questione dell'anarchismo del cristianesimo, sia pure in un modo diverso da quello seguito da Ellul. Per circoscrivere i termini del problema, farò riferimento al pensiero di Karl Barth, un teologo riformato che Ellul considera tra i maggiori del secolo scorso (ma io mi spingerei piú oltre), che egli stesso stima ma che ritiene irrimediabilmente compromesso con il potere statale. Forse c'è del vero in questo giudizio, ma occorre esaminare la cosa con piú attenzione. Occorre partire almeno dagl'anni della sua rottura con la teologia liberale seguita alla crisi del '14, quando Barth andò spasimosamente alla ricerca d'ogni possibile aiuto per liberarsi della cultura appresa in Germania da Harnack, Hermann ecc.; una cultura fiduciosa nel progresso, nella ragionevolezza, nel senso storico, nella morale e di molte altre cose, tutte perfettamente armonizzabili, naturalmente, con un cristianesimo moderno, non dogmatico e liberale; una cutura che ai suoi occhi aveva fatto completa bancarotta aderendo del tutto acriticamente (nonostante il tanto vantato metodo storico-critico) alla politica imperialista della Germania. Cosí s'imbatté, oltre che in Dostoevskij e in Kierkegaard e in altri ancora, anche in Nietzsche e nel suo amico Overbeck, nei quali cercò possibilità di pensiero alternative al dogma storicistico. 32

Non è il caso, in questa la sede, di tornare sull'influenza di Nietzsche in Barth [8]. In ogni caso ne venne un imprevedibile ed esplosivo commento alla lettera ai Romani, che scandalizzò gran parte dei suoi ex maestri non solo per la disinvolta mancanza di strumenti storico-critici (che Barth, in quanto teologo formato a Berlino e a Marburgo, doveva conoscere), ma anche per la confusione di scienza e pulpito che, come Max Weber aveva chiarito nella celebre conferenza del '17 e come ripeterà von Harnack in un pubblico scambio epistolare con l'ex studente, sembrava pericolosamente foriera di nuovi entusiasmi che avrebbero ottenuto l'unico risultato di compromettere la teologia accademica. Piú precisamente, al monito perentorio di Weber secondo cui «il profeta e il demagogo non si addicono alla cattedra universitaria» fa eco la vibrante accusa di von Harnack a Barth: Lei tramuta la cattedra teologica in pulpito (e vuole rendere partecipi le facoltà profane di ciò che significa teologia ); io Le predico, sul fondamento del corso di tutta la storia dellachiesa, che questa impresa non porta alla costruzione, ma alla distruzione [9]. Ma siamo corsi troppo avanti, già al '23! Torniamo agl'anni che seguirono la crisi del '14, quando - incurante della ben diversa tendenza del mondo accademico (al quale, per altro, fino ad allora non apparteneva) - Barth si chinò sul testo paolino, chiedendo all'apostolo di parlare al suo tempo, facendo risuonare ancora una volta la Parola che Dio ha promesso di rivolgere al mondo. E il suo era un tempo scosso dall'immensa tragedia della Prima Guerra Mondiale - «la fine di tutte le vie», come la descrisse all'amico Thurneysen; o almeno della teologia liberale di Harnack e compagni, e della Seconda Internazionale. Barth, prima della Guerra, aveva creduto a entrambe, nella convinzione che socialismo e cristianesimo liberale, in ultima istanza, fossero conciliabili [10]. Che cosa avesse da dire Dio a un mondo segnato dalla fine della cultura borghese e attraversato da impetuosi tentativi rivoluzionari, Barth lo scrive tra l'altro nel commento al capito tredicesimo dell'epistola. Capitolo quanto mai indigesto per chi non schieri con il potere stabilito, giacché, scrive l'apostolo non vi è autorità se non da Dio: e le autorità che esistono sono stabilite da Dio. Perciò chi resiste all'autorità si oppone all'ordine di Dio; quelli che vi si oppongono si attireranno addosso una condanna (Rom. 13, 1 ss.). 33

In altre parole, lo Stato, con tutto il suo carico di violenza e oppressione, di esercito e di magistratura, di burocrazia e d'imposizioni fiscali, sembra voluto e legittimato dal Dio di Paolo (e di Barth). È davvero cosí? Gran parte della teologia occidentale, compresa quella protestante, ne è convinta; per Barth invece «Lo Stato di potenza attuale è diametralmente opposto alle intenzioni divine: è in sé cattivo» [11]. È un idolo che assomiglia molto da vicino alla bestia descritta in Apocalisse 13. E non c'è alternativa: «Lo Stato-di- diritto non è migliorabile» [12]. Piú radicalmente: «Se il male [ ] ha il potere sulla terra, allora ogni potere comunque esso si chiami che non sia emerso da una nuova unificazione dell'uomo con Dio (Matteo 7, 29) potrà essere solo cattivo» [13]. Che fare, allora? Separarsi dallo Stato, ovvero dall'intera sfera della politica, come fecero parte delle chiese anabattiste storiche e come ripete oggi Ellul? La cosa potrebbe sembrare plausibile. «Come cristiani voi non avete nulla a che fare con lo Stato fondato sul potere. Come cristiani non gli appartenete affatto» [14]. «Ogni politica, in quanto lotta per il potere, in quanto arte diabolica per ottenere la maggioranza, è fondamentalmente sporca» [15], per cui «tutta la politica in sé, in quanto cristiani, non vi riguarda» [16]. Lo Stato dei cristiani è nei cieli (Fil. 3, 20): conviene «abbandonare l'intero ambito di ciò che è penultimo al processo di dissoluzione» [17]. Si aggiunga che tutto questo non significa rinuncia alla rivoluzione. Per meglio dire, si tratta di puntare lo sguardo a una «rivoluzione assoluta a partire da Dio» [18]. Barth non chiede di acquistare il biglietto per qualche zona desertica dove contemplare in pace il «totalmente Altro» ma di agire politicamente all'interno di questo Stato, di questa società, che pure è l'esito dell'ira di Dio, della Sua mano sinistra, della Sua opera aliena. Abbiamo parlato di ira di Dio contro i peccatori. Ma i cristiani credono nel perdono dei peccati e quindi anche dei «peccati politici». Il vangelo secondo Barth è suona cosí: I vostri peccati, anche i vostri peccati politici, vi sono rimessi [ ] nonostante il male che in tutti i casi dovete da loro attendervi, nonostante il male in cui in tutti i casi vi coinvolgeranno [19]. Il fatto è che i cristiani agiscono per un'altra politica, che - se si ha fede nel Dio di grazia è assolutamente piú radicale di ogni troppo umana rivoluzione. Ciò genera una politica paradossalmente impolitica che Barth non esita a qualificare (siamo nel 1919!...) come «piú che leninismo»: «È qualcosa di piú del leninismo» perché «non entra [come i 34

marxisti rivoluzionari] in concorrenza con lo Stato, lo nega [20]». Nega quel «dio mortale» che, almeno da Hobbes in poi, ha agitato le notti (e i giorni) dell'europa smascherando il carattere idolatrico del velo che copre l'evidente ossimoro dell'espressione. Ciò che è mortale non può essere divino! A ben vedere, quindi, c'è un programma politico da attuare: «Dovete affamare religiosamente lo Stato, dovete negargli il pathos, la serietà e l'importanza del divino» [21], ricordando che «il mondo è mondo», ovvero che la sfera dell'umano è totalmente altra da quella di Dio [22]. Solo allora sarà possibile, e doveroso, prendere parte alla vita politica di uno Stato in disfacimento - «pagare all'etica il suo tributo», entrare negli ordinamenti di questo mondo [23], collocandosi tuttavia all'«estrema sinistra» per via di una spiccata «predilezione per le cose basse» [24]. I cristiani non entrano nell'agone politico per imporre la «forma politica» di una Chiesa, né quella cattolico-romana prediletta dal giovane Schmitt [25] né quella ginevrina; piuttosto, si deve agire come socialdemocratici (non come religioso-sociali o socialisti cristiani) nella società guardando come cristiani alla rivoluzione veniente di Dio: Ma proprio perché non assumiamo nessun rapporto positivo con lo Stato, proprio perché esso [ ] è per noi la struttura problematica di un mondo in disfacimento, proprio per questo noi possiamo non prendere talmente sul serio tutto ciò che di notevole esso esige anche da noi da doverci impegolare in una polemica al riguardo con esso. Lo combattiamo alle fondamenta, in maniera radicale e paghiamo le tasse, diamo a Cesare quel che è di Cesare, entriamo nei partiti, compiamo le funzioni che, per dovere, ci toccano all'interno del quadro, non ancora spezzato, nel politico (e, purtroppo, anche del politico-ecclesiale). Riconosciamo che lo Stato, nella sua sfera, ha il diritto di pretenderlo ed è questo il fine cui miriamo allora esso non avrà neanche questo diritto, poiché allora esso non esisterà piú. [ ] Iniziative da cittadini dello Stato e obbedienza da cittadini dello Stato, ma nessuna commistione di trono e altare, nessun patriottismo cristiano, nessuna intenzione di crociata democratica. Sciopero e sciopero generale e lotta per le strade, se cosí non può non essere, ma nessuna giustificazione religiosa di ciò! [26] II. Barth non fu soddisfatto della sua opera, che pure inaspettatamente e non senza conflitti interiori - gli aprí la strada d'una quarantennale carriera universitaria. Tornò a chinarsi sul testo paolino e nel '21 diede alle stampe la seconda edizione dell'opera, completamente diversa dalla precedente (non ne era rimasta pietra su pietra, dichiara l'autore nella prefazione). In un testo che ha fatto pensare a una Kierkegaard renassaince (il 35

rapporto tra Dio e l'uomo è metaforizzato da una retta tangente il cerchio: un attimo, un evento reale, sí, ma completamente inafferrabile, se non per fede soltanto), anche il commento al capito tredicesimo risulta trasformato. Barth risiede in Germania; sono gli anni della Repubblica di Weimar, che egli difende dagli attacchi da destra e da sinistra [27]. Cosí non parla piú di «piú che leninismo», come non trovano spazio appelli allo sciopero generale. Quanto alla rivoluzione, se ne parla solo per negarne la legittimità; forse non la legittimità politica, ma certamente quella teologica. Il comunista, l'uomo rivoluzionario, il leninista, ha torto proprio perché in fondo ha ragione: ragione di fronte agli uomini, ai borghesi, ai reazionari con il loro Stato, ma torto davanti a Dio, giacché troppo grande è il rischio di confondere umano e divino, di dimenticare che il posto dell'altissimo è già occupato, che qualsiasi rivoluzione umana sarà sempre troppo umana. In summa, il rivoluzionario è un nuovo Prometeo - non accetta di stare nella crisi permanente di tempo ed eternità, di sostare in quel luogo paradossale l'attimo in cui nella crisi dell'umano traluce negativamente l'evento di Dio. Il Römerbrief è un libro affascinante, anche se non di facile decifrazione. Almeno un punto, però, è chiaro: il diverso atteggiamento riguardo allo Stato, che ora sembra venir legittimato dalla radicale delegittimazione di ogni pathos rivoluzionario. «Noi diciamo: Non rivoluzione! Con questo abbiamo già detto implicitamente anche: Non-legittimità. Ma abbiamo le nostre ragioni per non dirlo esplicitamente» [28]. Poiché ogni rivoluzione non è che hybris, l'hybris furiosa della negazione dell'esistente (si ricordi la definizione marxiana del comunismo «movimento reale che nega lo stato di cose presenti»), essa non è che tentativo di auto-giustificazione di fronte a Dio. Il rivoluzionario si è sbagliato: egli aveva in mente quella rivoluzione, che è la possibilità impossibile, la remissione dei peccati, la resurrezione dei morti. Questa è la risposta all'oltraggio contenuto nell'ordine esistente come tale. Gesú è il vincitore! [29] L'unica azione è negativa la «non-attività» riguardo allo Stato [30]. Sembra seguirne tralasciando le pagine sull'agape, la «grande possibilità positiva» - una fin troppo luterana (soprattutto per un calvinista) apologia dello status quo, un severo monito al rivoluzionario a «non agire» per la rivoluzione. È pur vero che lo status quo negl'anni '20 in Germania era la Repubblica di Weimar, non il nazional-socialismo del quale Adorno scorgerà l'ombra negl'incubi della sua infanzia. È 36

vero inoltre che, come nella prima edizione dell'opera, Barth si rivolge con tanta inistenza al rivoluzionario perché questi, ex parte hominis, sembra avere la ragione politica dalla sua parte. Perché proprio all'uomo rivoluzionario? [ ] Rispondo: perché è poco verosimile che sul terreno dell'epistola ai Romani si diventi un uomo reazionario. [ ] Si può perfino dire che il titanismo rivoluzionario, appunto perché nella sua origine si avvicina tanto maggiormente alla verità, è tanto piú pericoloso e empio che quello reazionario [31]. In ogni caso, pagine come queste hanno spinto Ernst Bloch a vedere nella teologia barthiana l'apologia dello status quo. Barth, questo «strano amico-nemico dell'uomo», un «reazionario assoluto [che] considera ogni attività umana (Stato e Chiesa compresi) alla stregua di semplici cose create, collocandole nella sfera piú bassa in rapporto all'attività divina» [32]! Non del tutto diversa è la testimonianza di Karl Löwith, che ricorda come negli anni '20 in Germania moltin avessero scorto nelle pagine del Römerbrief una negazione della civiltà analoga a quella del Tramonto dell'occidente di Spengler [33]. III. È cosí? Barth, per la verità, rabbrividiva al pensiero di venir paragonato a Spengler e a essere onesti come Bloch sapeva bene - non fu mai un reazionario [34]. In particolare non lo fu nel corso degli anni '30 e '40, quando si oppose con energia e coraggio al nazismo, rifiutando di prestare giuramento a Hitler e una volta licenziato dalla cattedra di Bonn ed espulso dalla Germania lavorando per la Bekenntnis Kirche, ovvero quella parte della chiesa protestante tedesca fortemente impegnata non solo nella denuncia dei Cristiano-Tedeschi (un movimento ecclesiale dell'estrema destra, che vedeva in Hitler un sorta di nuovo Ciro inviato da Dio per risollevare il popolo tedesco) ma piú in generale del compromesso auspicato (e realizzato) da tutte le chiese con lo Stato nazista [35]. Alla base dell'azione politica di Barth in questi anni vi era la convinzione che lo Stato nazista fosse una demoniaca perversione dello Stato. In una lettera al pastore riformato Hromadka di Praga, Barth con grave scandalo di molti arriverà a scrivere che «ogni soldato ceco che combatterà [contro l'esercito nazista] e soffrirà, lo farà anche per noi [ ] e per la Chiesa di Gesú Cristo» [36]. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale mise egli stesso in pratica quest'esortazione, arruolandosi volontario - lui, un uomo ormai 37

cinquantenne - nell'esercito svizzero, pronto a difendere il proprio Paese dall'eventuale aggressione tedesca. (Ciò nonostante il governo e le autorità svizzere desiderose di mantenere in ogni modo buoni rapporti con la Germania - non gradirono affatto i servigi di Barth, il quale, a partire dal '42, fu attentamente sorvegliato: il suo telefono fu messo sotto controllo, e a lui fu impedito di esprimersi in pubblico [37]). Non si trattava solo della difesa della democrazia. La lotta contro lo Stato nazionalsocialista gli sembrava la volontà di Dio per il suo tempo, alla quale ogni cristiano doveva obbedire. In altre parole, il nazismo non era solo un avversario politico; era un'eresia religiosa, contro la quale la Chiesa doveva prendere posizione! L'opposizione al nazismo era per Barth uno status confessionis, non una semplice questione politica [38]. Fare di una questione politica uno status confessionis è una decisione impegnativa, che comporta alcune conseguenze teologiche piuttosto serie, che vennero discusse anche da parte di teologi per altri versi vicini a Barth, come ad esempio Eberhad Jüngel. Dal punto di vista storico, tuttavia, non è difficile tradurre la teologia barthiana dagli anni '20 in poi nei termini dell'ideologia social-democratica; né sembra mancare di coerenza con le vicende storiche che vanno dalla Repubblica di Weimar alla Seconda Guerra Mondiale, che videro la parte principale del movimento operaio schierarsi con le forze democratiche anti-fasciste. E anche quando, negli anni che seguirono la Gurra, si rifiuterà di unirsi al coro anti-sovietico, esponendosi all'ira funesta di chi, come Emil Brunner, orami si atteggiava ad alfiere della libertà occidentale quale estremo argine della civiltà eretto contro il totalitarismo comunista, Barth non mise mai in discussione della legittimità dello Stato democratico. Anzi, in alcuni saggi degli anni '40 ne rivendicò con decisione la legittimità teologica. IV. Ha quindi ragione Ellul a vedere in Barth un nuovo alfiere dello Stato e quindi un dubbio compagno di strada per gl'anarchici cristiani? [39] Probabilmente sí; eppure anche in questi anni, e forse proprio in questi, vi è in lui un radicalismo teologico nel quale sembra inscritto un sovvertimento profondo della politica, compresa quella democratica. Tale sovvertimento è implicito nelle pagine di Christengemeinde und Bürgergemeinde, pubblicate nel 1946, ma è avvalorato dall'intera struttura della teologia barthiana. Solo un cenno al saggio del '46, per non ripetere ciò che ho analizzato con maggior cura altrove [40]. La tesi esplicita dello scritto è che vi sia un rapporto positivo tra la comunità ecclesiale (significativamente si parla di Christengemeinde e non di Kirche, richiamando con questa scelta terminologica una certa tradizione del protestantesimo 38

settario [41]) e la società, la comunità civile. Barth la motiva riportando entrambe all'unico fondamento, ovvero a Gesù Cristo - centro onnipresente di tutta la sua teologia. In questo senso si parla di «fondamento cristologico dello Stato». L'immagine usata credo una consapevole retractatio della metafora della retta tangente il cerchio dei tempi del Römerbrief descrive le comunità in questione come due cerchi concentrici: la comunità civile all'esterno, quella ecclesiale all'interno, con Cristo al centro di enrambe. Barth dà un fondamento biblico alla sua tesi, giacché secondo il Nuovo Testamento Cristo, il vincitore del conflitto con il Nulla [42], è ormai il Sovrano del cosmo intero; a Lui è stato sottomesso ogni potere in cielo e in terra. Se questa è la testimonianza della Scrittura, non c'è il minimo dubbio che tra i poteri sottomessi al Cristo vi sia anche quello statale. Quest'ultimo, sia pure in modo peculiare, deve dunque riflettere la supremazia cosmica di Cristo. Dal momento che la comunità civile costituisce il cerchio esterno in cui si inscrive la comunità cristiana con il mistero della fede che essa confessa e che proclama; dal momento che entrambe possiedono lo stesso centro, ne risulta che la prima, differente per il principio che la fonda e per il compito che le pertiene, si troverà necessariamente in una relazione di analogia con la verità e la realtà della seconda; analogia in questo senso: che la città è capace di riflettere indirettamente, come in uno specchio, la verità e la realtà del regno di Dio che la chiesa annuncia [43]. Piú nel dettaglio, senza essere né etico né cristiano lo Stato deve far proprie le conseguenze fondamentali della fede in Cristo. Ne seguono alcune conseguenze; ad esempio che se Dio è divenuto uomo, questi dev'essere la misura di tutte le cose ovvero la politica deve porre l'uomo come fine e non come mezzo, escludendo sia la divinizzazione dello Stato sia quella delle merci. Nei capp. 16-26 troviamo alcune ulteriori conseguenze che discendono dalla vittoria pasquale dell'agnello: libertà, giustizia sociale, divisione dei poteri ecc. È bensí vero che queste cose ricordano da vicino una concezione del diritto naturale à la Rousseau, eppure derivano da tutt'altra origine ovvero dalla fede nella signoria cosmica del Risorto. Una signoria riconosciuta per fede dalla Chiesa, ma in qualche modo presente anche nella comunità civile, la quale se Cristo è veramente risorto non può non essere capace di analogia. Barth scrive queste pagine nel 1946, in un'europa travolta dalle macerie nient'affatto metaforiche - della Guerra. Non può dunque non sapere, infatti sa benissimo che lo Stato può declinarsi anche nel senso di Apocalisse 13, ovvero di uno Stato demoniaco, del 39

tutto incapace di analogia. Per questo la Chiesa è, letteralmente, corresponsabile della politica. Senza fondare partiti, deve rivolgersi allo Stato rammentandogli i suoi compiti, risultanti dalla sua vera essenza, che è quella di appartenere alla Signoria di Cristo. Resta da chiedersi se la Chiesa possa far questo se possa rivolgersi allo Stato, se abbia con questo una lingua in comune che renda possibile la comunicazione. La tesi che ho cercato di argomentare nel saggio citato è che lo Stato non è capace di intendere la parola della Chiesa. Agli occhi dello Stato (ovvero di un'istituzione che non sa e non può saper nulla della signoria di Cristo), la Chiesa è un'associazione religiosa, nel migliore dei casi riconducibile alle famose «radici cristiane» dell'europa. È lo stesso Barth a riconoscerlo nel mondo piú chiaro: In sé, la comunità civile è spiritualmente cieca e ignorante. Essa non ha né fede, né amore, né speranza. Non possiede alcuna confessione di fede. Non ha alcun messaggio da proporre. In essa non si prega e non vi sono fratelli né sorelle. Come Pilato, essa non può che chiedere: Che cos'è la verità? Nell'istante in cui rispondesse a questa domanda, essa per definizione avrebbe cessato d'essere tale. La tolleranza è la sua suprema saggezza sul piano religioso - religione è infatti l'unica parola che conosce per designare l'ambito della Chiesa [44]. Nel Römerbrief la fede in Cristo è vista come la piú radicale crisi della religione; nella Kirchliche Dogmatik si parla invece di aufhebung. Comunque si voglia valutare la critica barthiana della religione [45], resta il fatto che la Christengemeinde non è un'associazione religiosa ma la comunità degl'uomini e donne che riconoscano la signoria cosmica di Cristo e che conformino il loro agire in conseguenza. In altre parole, lo Stato anche quello democratico non può che fraintendere l'essenza della Chiesa. Anche ammesso che quest'ultima intenda bene lo Stato, tra i due non vi sarà comunque una vera relazione. Non vi è reciprocità, e quindi nemmeno un linguaggio in comune: e che relazione può esservi mai senza linguaggio? Come può la Chiesa rivolgersi allo Stato, se questo non può comprendere le sue parole se i due parlano linguaggi completamente diversi? Insomma, a me pare che pur cercando di pensare il rapporto tra Chiesa e Stato, ovvero tra fede e politica in una maniera non asintotica, Christengemeinde und Bürgergemeinde finisca per ribadire un'alterità di agostiniana memoria. 40

V. Non credo che questo scacco, se è lecito esprimersi cosí, sia un caso ma che riveli un'istanza profonda della teologia barthiana, che io leggo come una vertiginosa meditazione sull'evento della grazia di Dio in Cristo [46]. Sarebbe lungo parlarne; ma forse posso far capire ciò che penso riferendomi a un unico scritto, a mio avviso molto bello e significativo. Alludo all'introduzione alla teologia evangelica, frutto dell'ultimo seminario tenuto da Barth a Basilea immediatamente dopo il suo discusso pensionamento. Già nelle pagine introduttive leggiamo che la teologia evangelica è una «gaia scienza», ovvero è la grata risposta all'euangélion, alla Parola di grazia che Dio ha rivolto all'uomo. Questa Parola che sancisce un'eterna alleanza - è divenuta carne una volta per sempre in Gesú Cristo, compimento della storia di Israele; è stata riferita (nonostante lo scetticismo storico-critico degli esegeti moderni) dai «testimoni primari», ovvero dai Profeti e dagli Apostoli; e attualmente risuona nella congregatio fidelium, che è davvero communio sanctorum, secondo la confessione del Credo apostolico, non per una qualche caratteristica istituzionale (ad esempio la continuità apostolica) ma per la promessa divina che la Parola espressa una volta per sempre in una storia particolare la storia che va dall'elezione di Israele all'avvento di Gesú Cristo - risuoni ancora tra coloro che si riuniscono nel Suo nome. La Parola, abbiamo detto, risuona nella Christengemeinde, intesa come congregatio fidelium. Ma risuona davvero? Possiamo esserne certi? Lo scetticismo rinascimentale, l'illuminismo settecentesco, lo storicismo moderno, non hanno scalfito in nulla questa luminosa certezza? È possibile continuare a parlare dei Profeti e degli Apostoli quali «testimoni primari» della rivelazione (e dei libri biblici come i loro scritti)? La risposta di Barth è solo apparentemente dogmatica. La disinvoltura con cui si è scrollato di dosso il cripto-scetticismo della cultura moderna ha deluso molti, che in varî modi lo hanno tacciato, appunto, di dogmatismo; in realtà, se si sottrae la sfida del mondo, lo fa per riproporla, forse ancor piú vertoginosamente, all'interno della Christengemeinde. Si noti: la questione della verità non si pone alla comunità dall'esterno come spesso lei stessa si è lasciata suggerire nell'epoca moderna cioè in nome e sull'autorità di una qualche norma di verità avente carattere generale o di cui si asserisca una verità generale; al contrario, essa le è posta dall'interno, o meglio dall'alto, dalla Parola che fonda la comunità stessa e la sua fede. Tale questione pertanto non suona cosí: È vero che esiste un Dio? è vero che ha stretto alleanza con l'uomo? Israele è realmente il suo popolo eletto? Gesú Cristo è effettivamente morto per i nostri peccati ed è stato effettivamente resuscitato 41

dai morti per la nostra giustificazione, è effettivamente il Signore? Cosí si interrogano gli stolti nel loro cuore: gli stolti che chiaramente noi tutti siamo sempre di nuovo, continuamente. La questione della verità suona cosí: La comunità comprende rettamente, cioè nella sua purezza e con la lealtà che essa esige, la Parola pronunciata in e con tutto l'evento suddetto come la verità, la medita a fondo, la esprime verbalmente con concetti chiari? [47] Non sarebbe inutile insistere sul radicale stravolgimento della teologia e della filosofia moderne, ossessionate dall'esigenza apologetica di giustificare agl'occhi del mondo (ovvero in primo luogo ai propri occhi) la possibilità della rivelazione cristiana: piuttosto che chiedersi «come spiegarlo a mio figlio», ovvero di provare il proprio accordo non con le strutture di pausibilità che la cultura dominante di volta in volta dà per incontrovertibili, la Chiesa deve chiedersi quale rapporto abbia con quella verità che al tempo stesso la fonda e la interroga continuamente. A quali condizioni si dà quest'accordo? Che cosa rende la teologia fedele alla Parola? Che cosa ne fa davvero nel senso precisato - una gaia scienza? La domanda è urgente perché la teologia di Barth non dispone di alcuna scorciatoia: inutile appellarsi alla tradizione anch'essa può sbagliare; inutile richiamarsi a una corretta esegesi, giacché essa è corretta nella misura in cui trova nelle parole umane degli scrittori biblici la Parola di Dio cui esse a ben guardare rimandano. Tuttavia, come accade nel Sofista, anche qui si ha l'impressione che lo stesso problema non faccia che rimbalzare da un piano all'altro, senza trovare mai una risposta conclusiva. Giacché, com'è possibile ben guardare attraverso le parole umane? Quale garanzia abbiamo che la teologia sia gaia scienza? Barth scrive pagine molto belle sull'esistenza teologica, segnata dallo stupore (nel senso del socratico thaumázein), dal coinvolgimento, dall'impegno e last but not least dalla fede, conditio sine qua non della gaia scienza teologica. Ma non può omettere i «rischi» che deve affrontare colui che dedichi la propria vita a questa specialissima scienza. La solitudine, innanzitutto. «Segui il tuo corso, e lascia dir le genti», scrisse il grande fiorentino; da parte sua, Barth parla di «theologia ektypa viatorum» [48], con tutto il carico di nostalgia e di solitudine, appunto, che caratterizza questa condizione. E poi il dubbio; non tanto il dubbio scettico proveniente dal mondo quanto come si è detto il dubbio dato dal non essere ancora in patria. Dimenticando di citare un suo vecchio amore, Barth scrive che al dubbio si oppone non la certezza ma la disperazione: 42

Non deve disperare perché il dubbio ha sí un suo spazio l'eone presente entro il quale nessuno, e quindi neppure il teologo, può sfuggire al dubbio stesso, ma questo spazio è limitato, e al di là di esso il teologo può sempre spingersi con la preghiera: Venga il tuo Regno! ; in questo spazio, pur senza vincere il dubbio, può sempre opporgli resistenza come quella donna ugonotta rinchiusa nella torre di Costanza può almeno tracciare sul vetro della finestra: Resistez! Sostenere e sopportare! [49]. Paragondando il teologo evangelico, alle prese con solitudine e dubbio, alle donne ugonotte rinchiuse nella torre di Costanza, forse ha detto qualcosa che potrebbe interessare il nostro tema. In ogni caso, solitudine e dubbio «non costituiscono i rischi peggiori e piú gravi cui è esposta la teologia» [50]: vi è una prova ancora peggiore che l'aspetta. La prova alla quale la teologia si trova esposta è semplicemente l'evento con cui Dio si ritira da quest'opera intrapresa e avviata da uomini, naconde il proprio volto dinanzi a questa loro attività e si volge lontano da essa. L'evento con cui Dio rifiuta con tutte le consequenze che ne derivano la pretesa e l'azione del proprio Spirito Santo a una tale attività (a chi del resto dovrebbe esserne debitore?). Non è detto che si tratti per forza dell'opera di una cattiva teologia: può anche trattarsi dell'opera di una buona, anzi della migliore teologia che possa darsi dal punto di vista umano. In rapporto alla tradizione dalla quale deriva o al rinnovamento nel quale si trova impegnata, può trattarsi di un'eccellente teologia conservatrice nel miglior senso del termine e al tempo stesso prograssista, vale a dire adeguata ai tempi. Forse non sarà priva né di fondamento biblico ed esegetico, né di profondità e perizia sistematica, né di presa sull'oggi e di incidenza sulla prassi. [ ] La comunità ne risulterà edificata ed il mondo stesso non se ne disinteresserà. Insomma: qui una luce brillerà e sembrerà irradiarsi dalla Chiesa e sarà salutata con gratitudine. [ ] È possibile che le cose vadano cosí, ma tutto ciò a che serve? Tutto è in ordine, ma anche nel peggioredei disordini. Il mulino gira, ma a vuoto. Tutte le vele sono spiegate, ma non c'è vento che le gonfi e spinga la nave [51]. Non so con certezza che cosa intendesse il filosofo parlando di Gesú come santo anarchico; mi domando invece se alla luce di questo brano non si potrebbe qualificare come allo stesso modo Gesú Cristo, il λόγος fattosi carne. La Parola che è l'oggetto e il fondamento della teologia come della Chiesa è un evento libero, radicalmente imprevedibile, irriducibile a qualsiasi sistema, anche al migliore. È il disordine essenziale che mina alle 43

radici qualsiasi ordine umano; è il principio anarchico che nessun nomos può espellere; è il dono irriducibile a qualsivoglia sistema di scambio [52]. Certo, Barth parlerà anche di speranza, di preghiera, di studio e di altre cose ancora, forse perché il principio anarchico della grazia non sia la sua ultima parola. Eppure, in un certo senso, questa è davvero la sua prima e ultima parola: la troviamo nel Römerbrief, nell'imprevedibile e mai coordinabile dialettica di crisi e resurrezione; la ritroviamo quarantanni dopo nella quarta parte della Kirchliche Dogmatik, in una forma apparentemente piú distesa e serena, piú narrativa, nella descrizione del doppio movimento presente in Gesú Cristo, il Figlio di Dio che va in terra straniera e il Figlio dell'uomo che ritorna al Padre. Insomma, nella sua teologia è iscritto un principio paradossale, anarchico, che deriva da quella libertà (della grazia) che Hegel non ha mai voluto accettare una grazia che si sottrae a ogni tentativo umano di possederla piegandola ai propri fini (siano pure, ex parte hominis, dei fini eccellenti, pii e progressisti al tempo stesso). È questa la parole qui nel senso saussuriano del termine che la langue della politica non può intendere. La lingua della politica, almeno di quella moderna inaugurata da Hobbes - come ci ha insegnato Esposito,- è quella dell'ordine; la parola della teologia è una domanda, un dubbio davvero radicale nei confronti di qualsiasi ordine, anche e soprattutto di quello che si richiami alle radici cristiane dell'europa. Nella Questione ebraica Marx sostiene che lo Stato laico auspicato da Bauer è paradossalmente ancor piú cristiano di quello confessionale, giacché nel principio giuridico dell'identità astratta dei cittadini davanti alla legge si realizza l'ideologica astrattezza dell'uguaglianza cristiana davanti a Dio [53]. Nonostante l'osservazione sia indubbiamente acuta, si potrebbe rispondere che la differenza tra Stato laico e confessionale in verità non sussiste - non per le ragioni addotte da Marx ma per l'eccellente motivo che, almeno dal punto di vista che emerge in queste pagine,il cristianesimo non può avere Stato. Non lo può avere forse non per le ragioni cui pensava Nietzsche nel brano citato piú sopra ma perché la Parola che deve testimoniare e alla quale deve «obbedire in vita e in morte» (Sinodo di Barmen, I tesi [54]), letteralmente non sopporta alcun ordine, tantomeno quello impostole dallo Stato. VI. Usando la clausola restrittiva volevo dire che il carattere anarchico del cristianesimo - in quanto fede nella grazia indebita di Dio in Gesú Cristo - sembra la conseguenza inevitabile della teologia barthiana. Resta da chiedersi se non sia possibile generalizzare il risultato raggiunto. Un incoraggiamento a rispondere positivamente, come sappiamo, 44

verrebbe da Nietzsche, per il quale nella fede cristiana vi è una rivolta contro la sottomissione dello spirito: il suo presupposto è che la sottomissione dello spirito faccia indicibilmente male [ ]. Gli uomini moderni, con la loro ottusità per ogni nomenclatura cristiana, non avvertono piú l'orrore superlativo che si annidava per il gusto antico nel paradosso del Dio in croce. Finora non c'è stato mai e in nessun luogo una tale arditezza nel sovvertire, mai qualcosa di ugualmente terribile, interrogativo e problematico come questa formula. Essa prometteva il rovesciamento di tutti i valori antichi [55]. Lasciamo stare che lo stesso filosofo, negli ultimi biglietti della follia, sembrerà far proprio questo paradosso sovvertitore (lui stesso si era nel frattempo consacrato alla trasvalutazione di tutti i valori) firmandosi come «Dioniso il crocefisso». Mi chiedo invece se il filosofo abbia colto qualcosa di vero descrivendo il kerygma paolino del Cristo crocefisso come un principio anarchico, distruttore di ogni ordine stabilito. Qui non si tratta dell'indubbia diffidenza, se non aperta ostilità dei cristiani verso Stato romano prima della svolta costantiniana [56]: per quanto interessante e significativa, una tale diffidenza potrebbe appartenere solo alla storia; si tratta di cogliere, se c'è, l'essenza anarchica, indisponibile a qualsiasi legge, del kérygma cristiano! È una domanda impegnativa, alla quale posso facilmente sottrarmi appellandomi, come ormai è consueto, alla non idoneità della sede e soprattutto alla poche pagine rimastemi per rispondere. Tuttavia ho la sensazione che, se non nel cristianesimo tout court, almeno in quello paolino vi sia inscritto un principio di sovvertimento dell'ordine stabilito. Barth, lo abbiamo visto, inizia a formulare la sua teologia muovendo proprio dalla riscoperta del kerygma paolino. E per quanto nella Kierchliche Dogmatik non vi sia quasi testo biblico in cui non ritrovi la testimonianza della Parola di Dio, indubbiamente l'apostolo rimarrà sempre il suo grande punto di riferimento [57]. Sarebbe interessante rileggere in questa prospettiva i grandi commentari ai Romani e alle altre maggiori lettere di Paolo prodotti nella storia della teologia cristiana. Penso che ci troveremmo di fronte alla doppia istanza diversamente modulata a seconda dei casi - di conciliare l'anarchismo della grazia con un'istanza d'ordine, di volta in volta concepito in senso ontologico, politico, ecclesiale ecc. Questo, almeno, è quanto Gaetano Lettieri ha trovato nella teologia Agostino, dalla svolta avvenuta nelle Confessioni fino agl'ultimi scritti. Una teologia che drammatizza il peccato d'origine come sconvolgimento dell'ordine creato: 45

Giudaismo, platonismo, pelagianesimo convergono nell'essere cognitio Dei e desiderium Dei, comprensione e amore di una perfezione metafisica e morale, che ordina il mondo. [ ] La natura giudaica, platonica, pelagiana, è quindi una natura ontologicamente continua, non radicalmente scissa dal peccato, soltanto relativamente alienata. Per Agostino, al contrario, la cognitio metafisica della natura rivela un ordine ontologico che, in realtà, è sconvolto da un disordine, che contraddice enigmaticamente, annientandolo, l'essere derivato [58]. Ne segue che il ristabilimento dell'ordine è legato al paradossale e anarchico intervento di Dio in un cosmo intrinsecamente dis-ordinato. La teologia [ ] trascende qualsiasi theologia naturalis, qualsiasi cristiana ontoteologia, o meglio la toglie, la assume per superarla. [ ] La teologia è quindi una metafisica paradossalmente convertita alla rivelazione della libertà di Dio, fondata sullo scandalo storico di un Dio incarnato e presente nella stessa libertà contingente dell'uomo. [ ] Nello Spiritus, che opera la confessione del dono della vita attraverso la croce di Dio, si è quindi capaci di credere nel nuovo, anarchico ordine di Dio, nascosto al di sotto del disordine e della contraddittorietà dell'ordine ontologico [59]. Nonostante il paolinismo non incontri sempre il favore dei cristiani già i predicatori Cristiano-Tedeschi tuonarono contro la teologia dialettica, «da Paolo a Barth», e ancora oggi capita di leggere qualcosa di simile -, mi pare difficile espellere l'apostolo delle genti e i suoi piú radicali e conseguenti interpreti dalla congregatio fidelium. Indubbiamente nel paolimismo radicale vi è inscritto un pessimismo antropologico, o ancor peggio una concezione tragica dell'essere umano, della sua radicale impotenza e incapacità di salvarsi con le sue sole forze, che non sembra incoraggiare lo sforzo morale. Si dirà che un tale pessimismo confligge con il bisogno dei tempi, indubbiamente attraversati da una crisi etico-politica di vastissime dimensioni [60]. Del resto, se vogliamo parlare in questi termini, va ricordato che Barth non stette propriamente con le mani in mano e forse non è difficile indovinare la vera preoccupazione dei Cristiano-Tedeschi: quelle simpatiche creature a dir poco entusiaste dell'avvento del Fürer annusarono nella teologia dialettica non tanto il repellente odor giudaico (lo stesso Barth, rievocando la figura di Bonhoeffer, ammetterà di aver 46

sottovalutato negl'anni '30 la centralità della questione ebraica) quanto l'affermazione di un principio che nessun sistema può ingabbiare, d'una grazia donata indipendentemente da ogni legge, da qualsivoglia sistema, e a maggior ragione da un sistema come quello suggestivamente descritto da Neumann con la metafora biblica del Behemoth (Gb 40, 15-24) [61]. Oggi spero di non sbagliarmi - non vi sono piú Cristiano-tedeschi in giro, e il nazionalsocialismo, almeno per ora, non sembra realmente un pericolo. Ciò non significa che la questione del rapporto tra la fede nella grazia indebitamente donata in Cristo Stato sia archiviata. Leggendo, anche con simpatia, il libro di Ellul, si ha tuttavia l'impressione di una forzatura. Ellul assomiglia a un bambino che disperatamente voglia mettere d'accordo mamma e papà, sforzandosi di por fine alle loro interminabili liti. L'errore, a mio avviso, consiste nel considerare il cristianeismo come un fenomeno storico: la storia di Israele in quanto popolo tra gli altri, la storia di Gesú di Nazareth, un pacifista anarchico ante litteram ingiustamente messo a morte eccetera. Se è cosí, se è la storia a determinare l'ordine del discorso, temo che si finirà a una separazione giudiziale. Anarchismo e cristianesimo continueranno a vivere esistenze separate, se non conflittuali. Ma lo Stato, e forse in modo particolare lo Stato nell'epoca del tardo-capitalismo, si fonda su un principio di reciprocità dello scambio, di simmetria della prestazione, di specularità tra dare e avere: insomma, sulla dogmatizzazione del denaro quale equivalente generale, che rende per principio confrontabile ogni prestazione umana [62]. Nella misura in cui il cristianesimo ha qualcosa a che fare con la fede in un dono assoluto, radicalmente indebito, strutturalmente asimmetrico e mai ricambiabile, vi è in esso un principio anarchico in grado di sovvertire alla radice il principio dell'equivalenza generale delle prestazioni umane, o almeno un'imbarazzante domanda che dovrebbe inquietare i sonni di coloro cui sta sommamente a cuore la conservazione a ogni costo dell'ordine esistente. NOTE: 1. L. Pirandello, Frammento d'autobiorafia, in Opere di Luigi Pirandello, vol. 6 Saggi, poesie, scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Mondadori, Milano, 1977 4, p. 1281. 2. J. Ellul, Anarchie et Christianisme, Atelier de Création Libertaire, Lyon, 1988, trad. it. Anarchia e cristianesimo, Elèuthera, Milano, 2010, p. 95. 3. F. Nietzsche, Der Antichrist. Fluch auf das Christentum, trad. it. L'Anticristo. Maledizione del cristianesimo, dalle Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, tomo III, a cura di Colli-Montinari, trad. it. di F. Masini, Adelphi, Milano, 1977 2, pp. 41.43. 47

4. Cfr. K. Jaspers, Nietzsche e il Cristianesimo, trad. it. di. M. Dello Preite, Ecumenica, Bari, 1978. Cfr. anche la presentazione di Giorgio Penzo a F. Nietzsche, L'Anticristo, a cura di G. Penzo e U. Penzo- Kirsch, Mursia, Milano, 1982. Che Nietzsche non veda in Gesú un anarchico in senso contestatore politico è la tesi di Francesco barba: cfr. F. Barba, Nietzsche e l'apostolo Paolo, in C. Scilironi, san Paolo e la filosofia del Novecento, Cleup, Padova, 2004, pp. 50 ss. 5. Nietzsche, L'Anticristo, ed. a cura di Colli-Montinari, cit., pp. 54 ss. 6. Ibid. p. 66. 7. F. Nietzsche, Der Wille zur Macht. Versuch Einer Umwertung Aller Werte, trad. it. p. 122 (aforisma scritto tra il novembre 1887 e il marzo 1888). M. Montinari sostiene che l'attacco al socialismo mal conosciuto da Nietzsche era la conseguenza del suo attacco al cristianeismo, che era il suo bersaglio principale. Ma si noti che l'anarchismo di Gesú viene esteso al cristianesimo primitivo. In questo senso non si può dire, con l'anticristo, che vi fu un solo cristiano, e il suo vangelo morí sulla croce (F. Nietsche, L'Anticristo, cit., p. 50). 8. Cfr. C. Scilironi, Barth interprete di Nietzsche, in Nichilismo, sacro e mistero, Cleup, Padova, 2002. 9. M. Weber, Wissenschaft als Berus, trad. it. La scienza come professione. La politica come professione, Einaudi, Torino, 2004,p. 30. A. von Harnack-K. Barth, Wissenschaftlihe Theologie oder Offenbarung Gottes. Ein Briefwechsel zwischen Karl Barth und Adolf von Harnack, «Christliche Welt», 37, 1923, trad. it. in Le origini della teologia dialettica, a cura di J. Moltmann, Queriniana, Brescia, 1976, p. 384. 10. Cfr. A. Gallas, Il giovane Barth. Tra teologia e polica, a cura di G.L. Potestà e M. Rizzi, Vita e Pensiero, Milano, 2004, 11. K. Barth, Stato, in R. Esposito (ed), Oltre la politica. Antologia del pensiero impolitico, Bruno Mondadori, Milano, 1996, p. 30. (Esposito riproduce parte della prima edizione del Römerbrief, Berna, 1919). 12. Ivi p. 32. 13. Ivi p. 30. 14. Ivi p. 31. 15. Ivi. p. 30. 16. Ivi p. 33. 17. Ibidem. 18. Ibidem. 19. Ivi p. 38. 48

20. Ivi p. 34. Per una lettura impolitica di Barth (notevolmente diversa da quella proposta in queste pagine), cfr. R. Esposito, Nove pensieri sulla politica, il Mulino, Bologna 1993, pp. 137-157. 21. K. Barth, Stato, cit., p. 45. 22. Cfr. A. Gallas, op. cit., pp. 158 ss. 23. K. Barth, Stato, cit., p. 46. 24. A. Gallas, op. cit., p. 166. 25. C. Schmitt, Römischer Katholizismus und politische Form, Jakob Hegner, Hellerau, 1923, trad. it. Cattolicesmo romano e forma politica, a cura di C. Galli, Milano, 1986. 26. K. Barth, Stato, cit., pp. 48-49. 27. Cfr. W. Kreck, La teologia e la politica in S. Rostagno (ed), Karl Barth, in Barth contemporaneo, Claudiana, Torino, 1990, pp. 216 s. 28. K. Barth, L'Epistola ai Romani, a cura di G. Miegge, Feltrinelli, Milano,, p. 458. 29. Ivi p. 461. 30. Ivi p. 458. 31. Ibidm. 32. E. Bloch, Atheismus in Christentum. Zur Religion des Exodus und des Reichts, Frankfurt am Main, 1968, trad. it. Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano, 1990, p. 80. 33. All'infuori del libro di Spengler, una sola opera ebbe un'importanza analoga, anche se un effetto più limitato: la Lettera ai Romani di Karl Barth. Anche quest'opera viveva della negazione del progresso traendo profitti teologici dalla decadenza della civiltà. Lo scetticismo verso tutte le soluzioni umane, che la guerra aveva alimentato, portò Barth dal socialismo cristiano alla sua teologia radicale, la quale nega appunto alla radice qualsiasi evoluzione del cristianesimo. Questi due scritti di Spengler e Barth furono le opere che più ci stimolarono in questo periodo segnato dalla fine della prima guerra mondiale (K. Löwith, Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933, Stuttgard, 1986, trad. it La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, trad. it. di E. Grillo, Il Saggiatore, Milano, 1988, p. 48. 34. Cfr. D. Cornu, Barth et la politique, Labor et Fides, Genève, 1968. 35. Cfr. S. Bologna, La Chiesa Confessante sotto il nazismo. 1933-1936, Milano, 1967. 36. Cit. in Cornu, cit., p. 83. 37. Cfr. E. Busch, Karl Barth e il governo svizzero, «Protestantesimo», vol. 54:4 1999, pp. 338-356. 38. Cfr. Kreck, op. cit., pp. 226 ss. 49

39. Cfr. Ellul, Anarchismo e cristianesimo, cit., p. 25. 40. Cfr. E. Cerasi, La libertà dei cristiani. Sulla teologia politica di Karl Barth, in Pólemos. Rivista semestrale di diritto, politica e cultura 2/2007pp. 53-72. 41. La tesi di una sostanziale prossimità tra la teologia matura di Barth e la tradizione della free-church è sostenuta da Yoder. Cfr. John H. Yoder, Karl Barth and the Problem of the War, Eugene (OR), Cascade Books, 2002. Ho discusso le tesi di Yoder su Barth in E. Cerasi, Verso una comunità confessante... 42. Cfr. K. Barth, Die Kierchliche Dogmatik, III/3, Zürich, 1950, 50, trad. it. Dio e il Niente, a cura di R. Celada Ballanti, Morcelliana, Brescia, 2000. 43. K. Barth, Christengemeinde und Bürgergemeinde, in Theologische Studien, 20, 1946, p. 23. 44. Ivi p. 5. 45. Cfr. C. Scilironi, Possibilità e fondamento della fede, Il Messaggero, Padova, 1988. 46. Cfr. E. Cerasi, Il paradosso della Grazia. La teo-antropologia di Karl Barth, prefazione di G. Lettieri, Città Nuova, Roma, 2006. 47. K. Barth, Introduzione alla teologia evangelica, (citare), p. 89. 48. Ivi p. 155. 49. Ivi p. 171. 50. Ivi p. 173. 51. Ivi pp. 174-75. 52. Sull'irriducibilità del dono al sistema di scambio, cfr. A. Tagliapietra, Il dono del filosofo. Sul gesto originario della filosofia, Einaudi, Torino, 2009. 53. Cfr. K. Marx, Scritti politici giovanili, a cura di L. Firpo, Einaudi, Torino, 1975, pp. 355-393. 54. Per il testo della Dichiarazione di Barmen, cfr. Tra la croce e la svastica, cit., p. 82. 55. F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse, citare, trad. it. a cura di S. Giametta, Rizzoli, Milano, 2004 5, pp. 94-95. 56. Valutazione piú sfumata e precisa di quella di Ellul, cfr. E. Noffke, Cristo contro Cesare. Come gli ebrei e i cristiani del I secolo risposero alla sfida dell'imperialismo romano, Claudiana, Torino, 2006. 57. Cfr. E. Cerasi, L'enigma del fiorire. Barth interprete di san Paolo, in C. Scilironi (ed), San Paolo e la filosofia del Novecento, Ceup, Milano, 2004. 50