DRAMMA SOCIALE E DRAMMA ESTETICO ANALISI ANTROPOLOGICA DEL TEATRO DELL OPPRESSO

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A.D. MDLXII UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SASSARI FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN SCIENZE ETNO-ANTROPOLOGICHE, AMBIENTALI ED ARCHIVISTICO-LIBRARIE DRAMMA SOCIALE E DRAMMA ESTETICO ANALISI ANTROPOLOGICA DEL TEATRO DELL OPPRESSO Relatore: PROF. FRANCO LAI Correlatrice: PROF.SSA LUCIA CARDONE Tesi di Laurea di: NOEMI USAI ANNO ACCADEMICO 2010/2011

Indice Introduzione 2 Capitolo 1. Equilibrio della struttura sociale: il paradigma del conflitto 1.1. Premessa 1.2. Rito e Teatro: paradigmi dell'azione sociale in Victor Turner 1.3. La performance culturale in antropologia 1.4. Victor Turner e Richard Schechner: l'antropologia si incontra con il teatro 1.5. L'etnografia si fa entodrammaturgia 6 9 20 24 31 Capitolo 2. Il Teatro dell'oppresso e il suo personaggio: Augusto Boal 2.1. Premessa 2.2. La storia di Augusto Boal 2.3. La poetica di Boal 2.4. Il teatro: uno spazio estetico 2.5. Dispositivi estetico-antropologici del Teatro dell'oppresso 2.5.1. L'essere umano: persona, personalità e personaggio 2.5.2. La maschera sociale 2.5.3. Il corpo: un dispositivo che parla 37 40 54 62 66 67 69 70 Capitolo 3. L' utilizzo del Teatro dell'oppresso come strumento di elaborazione antropologica 3.1. Premessa 3.2. Il TdO: un teatro popolare 3.3. Principi e obiettivi del Teatro dell'oppresso 74 76 77

3.4. Le tecniche del Metodo TdO 3.4.1. La figura del Jolly 3.4.2. Il Teatro Invisibile 3.4.3. L'arsenale dei giochi-esercizi 3.4.4. Il Teatro Immagine 3.4.5. Il Teatro Forum 3.4.6. L'arcobaleno del Desiderio 3.4.7. Il Flic dans la tête e la prima persona plurale 3.4.8. Il Teatro Legislativo: il desiderio si trasforma in legge 81 82 83 86 88 91 94 97 102 Capitolo 4. Esempi pratici di Teatro dell'oppresso in India e in Italia 4.1. Premessa 4.2. India: Jana Sanskriti 4.2.1. L'incontro con Jana Sanskriti 4.3. Italia: Gruppo Krila 4.3.1. La mia esperienza nel Gruppo Krila:il laboratorio di primo livello 106 107 111 117 120 Conclusioni 126 L'albero Cajou del Teatro dell'oppresso 129 Bibliografia 130

Introduzione Il Teatro mi è sempre interessato in tutte le sue forme: come spettatrice, come attrice ed ora come tesista e studiosa. Oltre dieci anni fa, a conclusione del percorso accademico in Beni Culturali con indirizzo Archeologico, avevo scelto come oggetto di ricerca e studio del mio elaborato finale il Teatro Romano e la sua struttura architettonica. Ora, a distanza di anni, mi sono ritrovata, per pura coincidenza o forse no, a sviluppare una tesi di laurea che ha come oggetto di ricerca ancora il Teatro. Questa volta però il mio punto di vista si è spostato da fuori l'edificio a dentro la scena. Ma la forma teatrale di cui è oggetto questo lavoro di ricerca non ha niente a che fare con il Teatro che siamo soliti frequentare, quello convenzionale in cui c'è un palco su cui recitano gli attori, un sipario (generalmente rosso) che divide la scena dalla sala dove un pubblico divertito o annoiato assiste. Il teatro che ho voluto analizzare è il Teatro dell'oppresso: un Metodo teatrale fatto di tecniche ed esercizi che hanno lo scopo di esprimere la teatralità che ogni essere umano ha dentro di sé. Infatti, secondo il suo fondatore, il brasiliano Augusto Boal, il teatro o la teatralità è la capacità che ogni uomo ha di osservarsi in azione, in attività (A. Boal, 1994, p.21). Più semplicemente: l'essere umano è teatro. Proprio partendo da tale assunto, il mio desiderio è stato di cercare di fare un'analisi dando una visione antropologica di questo genere teatrale informale, il cui fine è 2

quello di capire, riflettere e trasformare i valori della società attraverso un'azione politico-sociale forte, in cui l'individuo è invitato ad entrare in scena e diventarne il protagonista, apportando il proprio punto di vista e desiderio di trasformazione. A questo punto forse viene spontaneo chiedersi: perché dell'oppresso? La risposta è in sé è molto semplice e bisogna ricercarla nel contesto sociale brasiliano degli anni '50 del secolo scorso in cui ha preso forma, ma anche in quelli in cui si è sviluppato e trasformato, in Europa intorno agli anni '80: il Teatro dell'oppresso lavora sui conflitti e sulle oppressioni sia sociali che personali, e vede questi come una risorsa per il cambiamento e per il confronto tra gli individui al fine di trovare soluzioni in maniera collettiva. Le alternative ad una trasformazione positiva del conflitto possono essere agite attraverso l'azione teatrale da parte del pubblico che, riconoscendo il conflitto e l'oppressione nella drammatizzazione estetica, ha la possibilità di apportare un cambiamento: lo spettatore si fa spett-attore, non assiste più passivamente alla scena che gli viene presentata (come accade appunto nel teatro convenzionale), ma può agire, contrapporsi agli attori, entrare in scena e contribuire ad elaborare il conflitto che viene messo in scena. Egli diventa attore, cioè colui che agisce. Ma ciò che succede sulla scena è solo una prova per poi agire e trasformare la propria vita quotidiana, insieme agli altri in una dimensione sociale. A quanto pare non esiste nel contesto italiano uno studio in chiave antropologica sul Teatro dell'oppresso. I testi a cui inizialmente mi sono approcciata davano una lettura critica prettamente pedagogica al Metodo oppure si focalizzavano su un'analisi della vita di Boal e 3

dell'evoluzione che egli ha apportato al Metodo. Tutti elementi comunque molto importanti per affrontare l'argomento di ricerca. Le premesse epistemologiche si sono basate quindi su una ricerca e un' analisi del concetto di conflitto sociale e alle conseguenti forme risolutive studiate in antropologia. Per questo, con il primo capitolo, ho cercato di delineare il concetto di funzionamento e coesione di una struttura sociale secondo il pensiero struttural-funzionalista, passando poi all'analisi del concetto di conflitto espresso dalla Scuola di Manchester, secondo cui l'equilibrio di una struttura sociale non è dovuto all'interconnessione dei fenomeni che riguardano una società, ma dal rapporto conflittuale che si crea tra tali fenomeni. Il conflitto viene quindi visto come elemento integrante nell'organizzazione di una società. Secondo l'antropologo Victor Turner il conflitto è generatore di dramma sociale, in altre parole il conflitto genera una crisi della struttura, che dà occasione di trasformazione attraverso la pratica del rito. La forma rituale quindi viene vista come performance. Il capitolo prosegue con il concetto di performance, e l'aspetto esperienziale a cui essa è legata, teorizzati sia negli studi antropologici contemporanei sia in quelli teatrali, focalizzandomi soprattutto sull'analisi turneriana del teatro come momento di compensazione del dramma sociale durante il quale si apre la via alla sperimentazione e generazione di alternative al dramma, e si assiste quindi ad una esteticizzazione del dramma. Nel secondo capitolo si descrive la storia e l'evoluzione del Teatro dell'oppresso e del suo Metodo cercando di analizzare i dispositivi antropologici che lo caratterizzano, e individuando gli elementi di 4

contatto con il concetto di dramma sociale di Turner. Nel terzo capitolo si sono affrontati nel dettaglio le tecniche che compongono il Metodo come strumenti di elaborazione antropologica. Infine, nel quarto e ultimo capitolo ho riportato due esempi concreti di applicazione del Metodo da me rilevati in India nel Centro di Teatro dell'oppresso Jana Sanskriti del West Bengala; e in Italia nel Gruppo Krila di Bologna. In questo capitolo ho cercato di mettere in evidenza la versatilità di tale Metodo come strumento di trasformazione dei conflitti e di liberazione dalle oppressioni sociali e personali, in contesti socialmente e culturalmente differenti. Questa tesi si propone di analizzare in senso antropologico una metodologia teatrale non formale ai più sconosciuta, che vuole essere uno strumento di linguaggio, un mezzo di conoscenza e di ricerca di cambiamento sociale attraverso la presa di coscienza delle condizioni e dei meccanismi di oppressione che ancora oggi caratterizzano la nostra realtà. Per fare questo il Teatro dell'oppresso utilizza la teatralità umana come dispositivo per analizzare i conflitti, e sviluppare una riflessione sull'individuo e la struttura cominicativorelazionale che mette in atto. 5

Capitolo 1 Equilibrio della struttura sociale: il paradigma del conflitto L'ARTE è il dimostrato desiderio e volontà di risolvere un conflitto, sia esso spirituale, religioso, politico, personale, sociale o culturale mediante l'azione. Alastair MacLennanV 1.1 Premessa A partire dagli inizi del XX secolo, l'antropologia di tradizione britannica si vede impegnata nell'analisi dei sistemi sociali umani e del loro funzionamento secondo principi riguardanti la funzione, la struttura e il processo sociale. Tali concetti, individuati dapprima da Durkheim 1, e successivamente rielaborati da Radcliffe-Brown 2, divengono i temi fondanti per uno 1 2 Emile Durkheim (1858-1917), sociologo francese, fu esponente della Scuola sociologica francese. Esercitò una grande influenza sul funzionalismo strutturale britannico. Le sue tesi vertono sul concetto di solidarietà, che assume il carattere di solidarietà meccanica, fondata sulla coscienza collettiva nelle società primitive, e di solidarietà organica nelle società moderne. Il corrispettivo metodologico del collettivismo durkheimiano è rappresentato dall'anti-riduzionismo psicologico e dalla convinzione che l'oggetto delle scienze sociali non possa essere rappresentato dai comportamenti individuali, ma dai fatti sociali e dalle rappresentazioni collettive. Alfred Reginal Radcliffe-Brown (1881-1955), fu professore a Oxford dal 1937 al 1946. Diede vita al cosiddetto funzionalismo strutturale trasportando nel contesto dell'antropologia 6

studio rivolto ai fenomeni sociali e al riconoscimento delle leggi che regolano i meccanismi sociali interni, i quali portano al funzionamento e alla conservazione della vita sociale. Infatti, secondo la concezione struttural-funzionalista, i sistemi sociali in condizioni di equilibrio si mantengono stabili per un lungo periodo, durante il quale gli individui vivono in condizione di coesione e solidarietà. Come Radcliffe-Brown afferma: La continuità della vita sociale si mantiene per il processo della vita sociale, il quale è costituito dalle attività e dalle interazioni dei singoli individui e dai gruppi organizzati in cui essi sono riuniti. La vita sociale della comunità si può definire il funzionamento della struttura sociale. [ ] Il concetto di funzione implica perciò la nozione di struttura costituita da una serie di rapporti tra i singoli elementi [ ] (A.R. Radcliffe-Brown, 1967, pp.10-11). Si potrebbe pensare che la concezione struttural-funzionalista neghi a priori l'esistenza della dimensione conflittuale, anche se sicuramente non la considera un aspetto essenziale della condizione umana. Infatti, l'armonia con cui ogni elemento deve contribuire in maniera funzionale all'equilibrio e alla coesione della struttura sociale, inglese la lettura del sociale di Emile Durkheim. L'oggetto principale dell'antropologia era per Radcliffe-Brown lo studio della realtà sociale. L'antropologia sociale era secondo Radcliffe- Brown un ramo delle scienze naturali. Il metodo dell'antropologia sociale era di tipo induttivo e consisteva innanzitutto nell'identificazione dei meccanismi che operavano all'interno delle società e ne consentivano il funzionamento; poi nella comparazione di tali meccanismi; ed infine, se possibile, nella loro generalizzazione in legge. Tale metodo orientava il ricercatore verso una raccolta esaustiva dei dati e verso la loro sistematica collocazione in un tutto che, attraverso la messa in evidenza delle loro relazioni, diventava significativo. "The social Organization of Australian Tribes" (pubblicato sulla rivista Oceania tra il 1930 e il 1931) è considerato il manifesto del metodo induttivo applicato da Radcliffe-Brown. Sulla base di questo modello d'indagine, Radcliffe-Brown operò una distinzione tra Etnologia e Antropologia. 7

allontana la possibilità della nascita di conflitti che altrimenti sarebbero difficili da risolvere. Il conflitto viene visto quindi come un elemento che implica la non-trasformazione e la società considerata come struttura omeostatica e sempre in equilibrio. Con la Scuola di Manchester 3 si assiste ad un cambiamento radicale di visione rispetto alla concezione struttural-funzionalista; infatti, si preferisce una linea di pensiero che conduca alla elaborazione di una prospettiva processuale della vita sociale. La ricerca portata avanti dagli antropologi della Scuola di Manchester si concentra sull'individuo e sull'azione sociale, per cui si elabora un metodo di analisi dinamica dei casi, che porta al riconoscimento di situazioni conflittuali. A difesa del conflitto come forma di organizzazione e conservazione della struttura sociale, e ruolo centrale nel processo di produzione dell'equilibrio, si schiera Max Gluckman 4, che sposta il suo interesse antropologico sull'africa coloniale sia rispetto agli aspetti tradizionali sia ai conflitti che caratterizzavano queste società. Gluckman al principio ricerca gli elementi funzionali alla coesione e all'equilibrio interno alle realtà sociali, ma il cambio di rotta avviene proprio riguardo al concetto di organicità delle società. Infatti, a differenza della scuola struttural-funzionalista, l'equilibrio non dipendeva 3 4 Scuola di Manchester è il Dipartimento di Antropologia sociale dell'omonima Università. Fondato da Max Gluckman alla fine degli anni Quaranta. Viene considerato l'indirizzo di ricerca che, nell'ambito dell'antropologia sociale britannica, segna una rielaborazione del paradigma funzionalista. Max Gluckman (1911-1975), antropologo britannico, condusse ricerche sul campo in Sudafrica (Zulu) e nell'attuale Zambia (Barotse). Dal 1941 al 1947 diresse il Rhodes-Livingstone Institute, dove coordinò le attività di ricerca di numerosi studiosi, tra cui Victor Turner; dal 1947 al 1948 insegnò a Oxford per poi passare, dal 1949 al 1971, all'università di Manchester, dove fu professore di Antropologia sociale e capo dell'omonimo dipartimento (Scuola di Manchester): sotto la sua guida una generazione di antropologi fece delle nozioni di processo e di conflitto il caposaldo teorico delle proprie indagini. 8

dall'interconnessione tra i fenomeni sociali, bensì da un'alternanza di fratture e riaggiustamenti del rapporto conflittuale tra tali fenomeni, che è implicita in ogni processo sociale. Con il suo lavoro Gluckman si concentra quindi sulla continuità e ripetitività dei sistemi politicisociali in relazione al conflitto sociale, piccolo o grande che sia, come parte integrante dell'organizzazione di una società. Il ciclo perpetuo scandito da periodi di instabilità alternati da altrettanti periodi di equilibrio caratterizza una società dinamica e soggetta al cambiamento culturale. Il conflitto è quindi riconosciuto come elemento sano e funzionale al mantenimento di una struttura sociale e alla sua riaffermazione (V. Turner, 1993, p.17). 1.2 Rito e Teatro: paradigmi dell'azione sociale in Victor Turner Secondo la teoria portata avanti dagli antropologi della Scuola di Manchester, per conservare la struttura sociale i gruppi umani utilizzano, tra i principali strumenti sociali riconducibili alla sfera magica e religiosa, la soluzione rituale. Victor Turner si inserisce in questo discorso grazie allo studio portato avanti come direttore di un campo di ricerca presso la tribù Ndembu tra il 1950 e il 1954. Anche Turner si oppone quindi alla concezione struttural-funzionalista proponendo una lettura dinamica della società vista come processo e caratterizzata dai conflitti espressi, che egli riconosce come drammi sociali. 9

Sotto l'ala protettrice di Max Gluckman, Turner porta avanti un'analisi comparata tra le caratteristiche principali proprie di alcuni villaggi definendo così una forma della struttura, senza tralasciare però il processo di ogni singolo villaggio. Da questo lavoro di ricerca, Turner realizza il suo primo scritto Schism and Continuity in African Society (1957), in cui analizza il conflitto (sociale e culturale), e il suo relativo processo, come punto focale dello studio dei processi di trasformazione sociale. Infatti il conflitto esprime un disagio, che comporta un bisogno di cambiamento attuabile attraverso una reazione che può portare in due direzioni: il mutamento radicale o il rafforzamento dello status precedente. Il conflitto viene riconosciuto da Turner come dramma sociale, ossia come luogo in cui si dà origine alla trasformazione. Come lo stesso Turner afferma [ ] un dramma sociale si manifesta innanzitutto come rottura di una norma, come infrazione di una regola della morale, della legge, del costume o dell'etichetta in qualche circostanza pubblica. Questa rottura può essere deliberatamente, addirittura calcolatamente premeditata da una persona o da una fazione che vuole mettere in questione o sfidare l'autorità costituita o può emergere da un fondo di sentimenti appassionati. Una volta apparsa, può difficilmente essere cancellata. In ogni caso, essa produce una crisi crescente, una frattura o svolta importante nelle relazioni fra i membri di un campo sociale, in cui la pace apparente si tramuta in aperto conflitto e gli antagonismi latenti si fanno visibili. Si prende partito, si creano fazioni, e a meno che il conflitto non possa essere rapidamente confinato in una zona limitata dell'interazione sociale, 10

la rottura ha la tendenza ad espandersi e a diffondersi fino a coincidere con qualche divisione fondamentale nel più vasto insieme delle relazioni sociali rilevanti, cui appartengono le fazioni in confitto (V. Turner, 1986, p. 131). Partendo dal presupposto che il conflitto è considerato endemico, cioè intrinsecamente esistente all'interno di una società, questo ha luogo quando nell'ambito della vita quotidiana si creano delle crisi, dei drammi sociali appunto, come conseguenza di una violazione delle tradizionali norme del vivere quotidiano, oppure quando, in una società complessa, si ricerca una struttura socio-culturale alternativa, un' anti-struttura, in opposizione a quella già consolidata. In entrambi in casi, i drammi sociali rivelano i livelli sottocutanei della struttura sociale, in quanto ogni sistema sociale, sia esso semplice o complesso, è composto gerarchicamente da differenti categorie, caste, status, ruoli, che proprio per la loro diversità, vengono necessariamente esplicitate sotto forma di opposizioni classificatorie. Il dramma sociale porta alla luce tali opposizioni classificatorie della vita sociale stessa, ha la capacità di renderle vive e trasformarle da semplici opposizioni in conflitti. La risoluzione di questi necessita un approccio critico verso una rielaborazione della rottura, sfociata in crisi, attraverso un meccanismo di compensazione atto ad aggiustare le crepe del tessuto sociale. Secondo Turner il dramma sociale si sviluppa seguendo uno schema fisso, in cui si prevedono quattro momenti (V. Turner, 1986, p.33): 1. conflitto; 11

2. cronicizzazione del conflitto che, se non risolto, può divenire una crisi; 3. compensazione, vissuta come momento di auto-riflessione sulla crisi, in cui si attiva, da parte dei componenti del gruppo, un processo di analisi delle cause che hanno portato alla crisi e delle dinamiche processuali che la caratterizzano, con lo scopo di cercare una potenziale soluzione; 4. conclusione del dramma, che prevede sostanzialmente due soluzioni, o la riconciliazione delle parti o una presa di coscienza delle loro differenze. La seconda opzione porterebbe all'allontanamento di una delle due parti dal gruppo originario. Turner studia lo svolgimento di tale struttura partendo dall'analisi di alcune considerazioni portate avanti dall'antropologo Van Gennep 5 nel suo scritto Les Rites de Passage. La ricerca di Van Gennep vede i riti di passaggio caratterizzati da una struttura costante, osservabile in ciascun rituale, che segnano il momento del mutamento da uno status sociale ad un altro. Tale cambiamento è scandito dal succedersi di tre fasi: separazione, limen e aggregazione. La fase intermedia, quella liminale, è una fase di transizione in cui l'individuo si trova in mezzo tra due posizioni sociali ben definite (la vecchia che lascia e la nuova che lo attende), 5 A. Van Gennep, (1873-1957), etnologo e studioso di folklore, fu fra i primi sostenitori della ricerca sul terreno, lavorò prevalentemente in Savoia, inaugurando in Francia gli studi sul folklore e interessandosi, in generale, dei temi etnologici del tempo: totemismo, tabù, forme primitive di religione, rapporti fra mito e rito. Elaborò il modello concettuale tripartito dei riti di passaggio dall'osservazione di situazioni che implicano un cambiamento di status (nascita, iniziazione, matrimonio, morte), il quale viene vissuto da un contesto sociale più ampio rispetto a quello dei diretti interessati. In molte culture ogni cambiamento di status viene accompagnato da un rituale attraverso il quale vi è il riconoscimento da parte della collettività della mutata condizione sociale. 12

attraversa una zona di ambiguità, una sorta di limbo sociale, molto differente dalle altre due estremamente strutturate. L'interesse di Turner si focalizza soprattutto sulla fase liminale (dal latino limen=soglia), momento in cui, secondo l'antropologo inglese, si manifesta la crisi. Infatti, traslando lo schema concettuale di Van Gennep, egli dimostra che il passaggio da una struttura ad un'altra non è caratterizzato da un continuum, ma da un cambio radicale che comporta una trasformazione delle strutture simboliche e sociali precedenti e l'inserimento di un nuovo apparato di valori, che comportano ad eventi sovversivi e ludici (o giocosi). Infatti, come egli stesso afferma Io sono del parere che l'essenza della liminalità, la liminalità par exellence, consista nella scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o ludica dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra (V. Turner, 1986, pp. 61-63). In questa zona di confine, si potrebbe quindi assistere alla nascita di nuovi modelli e paradigmi attraverso la scomposizione e la rigenerazione di un nuovo contesto culturale, in cui la creatività culturale inscena la sua danza al congiuntivo. Con il modo verbale al congiuntivo, usata da Turner, s'intende la possibilità, il desiderio di trasformazione caratterizzante della fase liminale. Tale visione deriva dallo studio comparato delle fasi liminali nei riti delle diverse culture, in cui si assiste, in quell'area culturale libera e creativa, all'introduzione di nuovi elementi socioculturali e nuove 13

regole all'interno di certi schemi convenzionali. L'occasione del cambiamento, dell'opportunità di creare nuovi modelli e paradigmi viene stimolata nel momento da lui definito della compensazione, in cui la società ha la possibilità di auto-osservarsi e valutare un preciso comportamento sociale, attraverso la partecipazione di tutta la collettività. La forma espressiva utilizzata dall'individuo per trasformare e appianare il dramma sociale è, secondo Turner, il rituale. Visto come metafora del conflitto stesso, il rituale ha la funzione di mediare nel passaggio dalla vecchia struttura ad una forma strutturale caratterizzata da un nuovo dispositivo simbolico, passando attraverso l'anti-struttura (la liminalità). Come anti-struttura s'intende quindi quel momento di sospensione durante il quale l'individuo ha la possibilità di rielaborare e modificare il proprio apparato simbolico con l'introduzione di nuovi valori ed elementi sociali e culturali, che non siano solo di valore individuale, ma possano essere condivisi da tutto l'insieme degli individui coinvolti. Si crea quella che Turner definisce communitas, quel modo in cui le persone guardano, comprendono e agiscono l'una nei confronti dell'altra, l'essere l' uno con l'altro, un fluire dall' Io al Tu (V. Turner, 1986, p. 89). Nella communitas la persona non perde la propria individualità ma ha la possibilità di condividere la sua esperienza individuale in maniera olistica grazie al rapporto che si crea tra gli individui nel processo di comprensione e condivisione del significato simbolico. L'individuazione del valore semantico dei simboli è fondamentale per capire la realtà concreta, questi si fanno custodi della memoria sociale 14

e della tradizione. Turner definisce i simboli come sistemi socioculturali coinvolti nelle trasformazioni delle relazioni sociali, questi acquisiscono e perdono di significato nel corso del tempo e la vita collettiva prende forma nella complessa dinamica simbolica. Analizzando i dati sul rituale raccolti fra la popolazione africana Ndembu, Turner mette in luce il valore sostanzialmente sociale dei simboli rituali, evidenziandone la dimensione politico-sociale espressa dal rituale stesso. Così chiarisce lo stesso Turner [...]Sono arrivato a considerare le esecuzioni del rituale come fasi distinte del processo sociale grazie alle quali i gruppi riuscivano a trovare un aggiustamento alle modificazioni interne ( sia che essi fossero determinati da dissensi personali o di fazioni e conflitti fra norme, sia che derivassero da innovazioni tecniche o organizzative) e un adattamento all'ambiente esterno (tanto socioculturale quanto fisico-biologico). Da questo punto di vista il simbolo rituale diventa un fattore di azione sociale, una forza positiva in un campo di attività. I simboli inoltre svolgono un ruolo cruciale nelle situazioni di mutamento delle società: il simbolo viene associato agli interessi, agli intenti, ai fini, alle aspirazioni e agli ideali umani, individuali o collettivi, indipendentemente che questi siano esplicitamente formulati o che si debba inferirli dall'osservazione del comportamento. Per queste ragioni, la struttura e le proprietà di un simbolo rituale diventano quelli di un'entità dinamica, almeno nell'ambito del contesto di azione che gli è proprio (V. Turner, 1992, p. 44). Il simbolo dà vita all'azione che porta al cambiamento e alla soluzione 15

dei potenziali drammi sociali interni alla collettività; ma è anche linguaggio del corpo come strumento di comunicazione che aiuta alla comprensione e partecipazione al processo sociale di una struttura definita. Infatti, il linguaggio simbolico non si riduce solo all'azione riflettente della situazione sociale, ma ne esprime la sua funzione creativa ed espressiva. In questo modo il rituale è considerato da Turner performance, in cui affonda le proprie origini nel dramma sociale. Durante la performance si possono osservare comportamenti ripetitivi, gravidi di significato simbolico, attraverso i quali si rivivono e si rielaborano in maniera creativa quegli elementi significativi per l'esistenza dell'individuo, della sua cultura e della sua società. Come egli stesso sostiene [ ] mi piace considerare il rituale soprattutto come performance, rappresentazione, e non come insieme di regole o rubriche (V. Turner, 1986, p. 145). La caratteristica di Turner è quella di mettere in evidenza prima di tutto l'individuo in quanto tale, la sua azione sociale ma anche la sua capacità riflessiva. In virtù di questo, egli prende in esame il concetto di esperienza vissuta (in tedesco:erlebnis, letteralmente ciò che si è vissuto fino in fondo ) espressa dal filosofo Wilhelm Dilthey. 6 6 Wilhelm Dilthey (1833-1911), filosofo neokantiano, è tra i principali rappresentanti dello storicismo tedesco contemporaneo. La sua vastissima produzione comprende studi sul problema della conoscenza storica e della ricerca scientifica, saggi di psicologia, etica, estetica, pedagogia, filosofia della politica e critica letteraria. Professore universitario (Basilea 1866, Kiel 1868, Breslavia 1871, Berlino 1882), si pone contro la corrente positivista, dedica i suoi studi all'autonomia delle scienze dello spirito da quelle della natura. Influenza la scuola antropologica di Boas e i più recenti indirizzi statunitensi di Antropologia Interpretativa. Per 16

Secondo Dilthey, un'esperienza vissuta non è mai portata al completamento se non viene espressa, cioè finché l'esperienza soggettiva non viene comunicata mediante il corpo, il linguaggio o altre forme espressive, rendendola accessibile agli altri e condivisa in maniera simpatetica. L'esperienza completa, tramite la performance, prevede quindi sia un vivere attraverso una sequenza di eventi, sia un pensare all'indietro, ma anche un volere o desiderare in avanti, come atto creativo di retrospezione, di introspezione e di cambiamento. Pertanto la performance culturale, sia essa il rito, la cerimonia, il teatro o la poesia, è rielaborazione dell'esperienza con la funzione attiva di trasformazione sociale. Ciò che non può essere espresso nella vita quotidiana perché chiuso nelle convenzioni e regole sociali, viene portato alla luce attraverso una traslazione dal contesto performativo a quello sociale dell'esperienza della vita stessa. Per capire meglio, Turner spiega il concetto di esperienza studiando il significato etimologico del termine: risale alla radice indoeuropea - per-, tentare, azzardare, rischiare, da cui deriverebbe il termine greco peira, esperianza. Quindi dal fare, tentare per esperienza si giunge al termine performance, che egli stesso ci chiarisce in questo modo Il termine performance deriva dall'antico francese parfournir che letteralmente significa fornire completamente o esaurientemente. Il termine inglese To perform significa quindi produrre qualcosa, Dilthey l'interpretazione e la comprensione (Vertehen) assumono come proprio oggetto di studio l'analisi di mondi di significati condivisi e costituiscono la base descrittiva delle scienze umane. 17

portare a compimento qualcosa, o eseguire un dramma, un ordine o un progetto. Ma secondo me nel corso della esecuzione si può generare qualcosa di nuovo. La performance trasforma se stessa.[ ] le regole possono incorniciarla, ma il flusso dell'azione e dell'interazione entro questa cornice può portare a intuizioni senza precedenti e anche generare simboli e significati nuovi, incorporabili in performance successive. E' possibile che cornici tradizionali vadano sostituite: nuove bottiglie per il vino nuovo (V. Turner, 1986, p.145). L'individuo nel contesto sociale gioca il ruolo dell'attore che mette in scena la sua performance cercando di suscitare le impressioni altrui. La performance è uno strumento con il quale un gruppo cerca di comprendersi e quindi di agire su se stesso attraverso una autoriflessione e un' ossevazione di sé; parafrasando Clifford Geertz 7, la performance si può quindi considerare come un metacommento sociale nel quale gli individui rappresentano se stessi attraverso se stessi. A questo proposito Turner cita un passo da uno studio dell'antropologa Barbara Myerhoff 8 sulla funzione riflessiva delle performance 7 8 Clifford Geertz (1926-2006) Antropologo statunitense, allievo di Parsons e di Kluckhohn, dopo aver insegnato all'università della California (Berkeley) e all'università di Chicago, ha occupato la cattedra di Scienze sociali all'institute for Advenced Studies di Princeton. Geertz occupa un posto di rilievo nell'antropologia contemporanea, avendo stimolato l'emergenza dell'antropologia Interpretativa come insieme di riflessioni sui principali concetti e obiettivi dell'etnografia. La principale caratteristica delle revisioni geertziane delle discipline sociali consiste nella riscoperta della dimensione ermeneutica, dando risalto alla comprensione, all'interpretazione e al carattere costruttivo della conoscenza. Da un lato egli sostiene che le espressioni e le azioni umane contengono una componente significativa, riconosciuta dal soggetto che produce e vive, grazie a un certo sistema di valori e e di significati. Dall'altro ritiene che le scienze interpretative siano costituite da modelli attraverso i quali esse costruiscono i loro referenti. Nella prospettiva interpretativa di Geertz la testualizzazione diventa il centro della ricerca etnografica e rivela la particolare natura intermediaria e autoriflessiva della scrittura antropologica intesa come vero e proprio genere letterario. Barbara Myerhoff, (1935-1985), antropologa, regista e fondatrice del Visual Anthropology 18