Loretta Napoleoni. Il contagio. Rizzoli



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Transcript:

Loretta Napoleoni Il contagio Rizzoli

Proprietà letteraria riservata 2011 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-61858-5 Progetto grafico di Elena Giavaldi per Mucca Design www.rizzoli.eu

Trama RIPRENDIAMOCI la politica, l economia, un lavoro, una vita dignitosa: è questo il grido che si leva unanime dalle sponde del Mediterraneo. Monta la consapevolezza che la crisi che oggi minaccia di annientarci viene da lontano, erede di una lunga serie di catastrofi dall Argentina alla bolla dei mercati asiatici ai crack statunitensi ormai troppo numerose per essere casuali. È ora di ammetterlo: è l alleanza tra una politica sempre più corrotta e una finanza sempre più avida che ha sequestrato la nostra democrazia e ci sta portando alla rovina. Mentre istituzioni di controllo come la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale intervengono a peggiorare la situazione. Dalla primavera araba, che ha abbattuto i regimi dittatoriali della Tunisia e dell Egitto, arriva una nuova ventata di protesta e di impegno. La rivoluzione sta dilagando in Europa, nella Spagna degli Indignados, in Grecia, in Italia con la mobilitazione referendaria, il popolo Viola, il movimento Se non ora quando?. La parola d ordine è: Basta! I protagonisti sono soprattutto i giovani, quelli a cui la politica ha riservato precariato, disoccupazione e lo spettro di una nuova povertà. Sul Mediterraneo, fa notare Napoleoni, si affacciano Paesi molto simili fra loro: economie avariate, oligarchie corrotte, disoccupazione e mancanza di servizi sociali, un sistema che regolarmente sceglie di garantire i privilegi di pochi a scapito della maggioranza. E come sulla sponda sud, anche su quella nord è il momento di riprenderci la democrazia, sostituendo istituzioni ormai agonizzanti con una post politica 2.0 trasparente e partecipativa. Il futuro ricomincia da noi.

L autore LORETTA NAPOLEONI vive da trent anni tra Londra e gli Stati Uniti occupandosi di terrorismo ed economia. È consulente del think tank Fundaciones Ideas e fa parte del Comitato Scientifico di OXFAM ITALIA. Insegna economia alla Judge Business School di Cambridge. I suoi libri sono stati tradotti in 18 lingue.

A Martina, che ho visto crescere, che non mi ha ascoltato ed è tornata da Sydney, che è lo stereotipo della precaria universitaria, che con immenso coraggio ci ha regalato una famiglia meravigliosa dove la P non sta per Precaria ma Per sempre.

Nota dell Autrice Questo libro è andato in stampa all ultimo momento perché i fatti eccezionali dell estate 2011 ci hanno impedito di porre la parola fine prima del termine del mese di agosto. Confesso che quando è iniziata la stesura, né la mia editor né io pensavamo di dover rincorrere quasi quotidianamente la storia. Eppure è proprio quello che è successo a causa del dilagare del contagio sociale ed economico. Da una parte l insoddisfazione della società civile si è concretizzata in manifestazioni di protesta e dall altra la crisi del debito sovrano si è trasformata in un evento negativo epocale per le economie occidentali. Soltanto a fine luglio, però, ho avuto la netta sensazione che la frattura tra politica e società civile fosse così profonda da produrre nel giro di poche settimane avvenimenti fino ad allora impensabili: le tendopoli israeliane, le scene di violenza in Gran Bretagna, l altalena degli indici di Borsa, i crolli finanziari di agosto e il voto di sfiducia dei mercati nei confronti dei politici occidentali. Un evento, in particolare, mi ha convinto che il malessere del modello occidentale è ormai una pandemia: il muro di incomprensione tra la classe politica spagnola e gli Indignados. Una carenza dello Stato moderno che, a mio parere, è emblematica del perché il nostro modello non funziona più. Subito dopo l accordo europeo del 21 luglio, che molti pensavano avrebbe calmato i mercati e concesso ai politici la pausa estiva, sono andata in Spagna per una riunione con alcuni uomini di governo. Ho colto l occasione per incontrare i fondatori di Democracia real YA!, uno dei gruppi che hanno dato vita al movimento degli Indignados spagnoli e con il quale sono stata in contatto per alcuni mesi mentre scrivevo questo saggio. Volevo tentare l impossibile: trovare un terreno comune su cui governo e Indignados potessero instaurare un dialogo. Naturalmente ho fallito. I politici non riescono a vedere in questo movimento spontaneo un interlocutore. Anche se i sondaggi rivelano che l 80 per cento della popolazione spagnola lo appoggia. Gli Indignados la pensano allo stesso modo e si rifiutano di dialogare con individui che non rappresentano più la popolazione ma le élite che finanziano le loro campagne elettorali. Ecco perché per loro un partito vale l altro. Tanto profonda è dunque la spaccatura tra politica e società civile. Una frattura che emerge anche dagli scontri e dalle violenze in Gran Bretagna, dalla manovra italiana di Ferragosto che colpisce sempre quella fetta del ceto medio ormai prossima alla povertà e dalla violenza con cui i mercati finanziari puniscono tutti i tentativi dei politici di rassicurarli sulla crescita economica. Si ha l impressione che in Europa esistano due nazioni quella dei pochi privilegiati e quella degli esclusi e che i mercati si stiano ribellando contro questa discriminazione perché hanno capito che è la radice del rallentamento della crescita e della crisi del debito sovrano. L incomunicabilità spagnola mi amareggia profondamente perché il governo di Zapatero è stato uno dei fari più luminosi che ci hanno permesso di uscire dagli anni bui della politica della paura di Bush e Blair. Ed è paradossale che la rivolta della società civile europea inizi in questo Paese e non in Italia, dove una classe politica corrotta e incompetente sta portando il Paese verso la rovina economica.

Trascorrere due giorni a Madrid facendo la spola tra la piazza e i palazzi del governo è stato come viaggiare tra due mondi, le due nazioni di cui sopra: gli Indignados sono all aria aperta, indossano abiti colorati e comunicano con tutto ciò che hanno a disposizione: dalle parole che viaggiano su Twitter alle immagini che si accalcano su YouTube, dalle sculture ai manifesti in bella mostra nelle piazze trasformate nel loro spazio politico. Sono giovani e ironici, ma determinati, non credono nella gerarchia e si riuniscono anche per decidere a che ora si riuniranno. Facile, dunque, capire lo scetticismo di chi da sempre milita in un partito o di chi ha partecipato al 68 o al 77; qui a Puerta del Sol tutto è molto fluido, non ci sono capi, segretari, scrivani che prendono appunti, non si urla, non ci si scontra, non si presentano «mozioni» o «documenti», si discute senza sosta e si cerca di arrivare a decisioni e progetti concreti. Chi sono questi giovani? Che tipo di minaccia o forza rappresentano rispettivamente per la classe politica europea e per la società civile? Nessuno in fondo lo sa, perché fanno parte di un fenomeno nuovo, della modernità politica del nuovo millennio. Ma una cosa è certa: il vento del futuro non soffia dalle sedi della super-burocratica Unione europea, ma dalle assemblee in piazza filmate in streaming con gli iphone. Pochi ci credono, al punto che molti politici definiscono questo come un fenomeno folkloristico. E infatti a Puerta del Sol, quando il 27 luglio 2011 inizia la marcia verso Bruxelles l ennesima iniziativa contro la politica economica della Ue, sembra di veder sfilare l armata Brancaleone. È però sempre bene diffidare dalle apparenze. Si intuisce che questa iniziativa non è una crociata di pazzi né un esercito manipolato da qualche potere occulto, ma una sfida reale contro un modello vecchio e obsoleto, che non funziona più. Le armi potentissime gli Indignati ce le hanno in tasca: gli smartphone. A Madrid i politici li incontro nelle sale rinfrescate dall aria condizionata. Sono tutti in abito scuro e sui loro volti leggo una profonda preoccupazione. Che succede? Alcuni sono reduci dalla maratona del salvataggio greco, un tour de force che li ha messi a dura prova; altri sono contrariati dalle decisioni imposte loro dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca centrale europea riguardo ai tagli alla spesa pubblica. Temono che la crisi e la rivolta degli Indignados restituisca il potere alla destra nelle elezioni politiche anticipate di novembre. E hanno ragione. Intuiscono che il modello neoliberista non funziona, sono anni che ne sono al corrente, ma non sanno proprio come riformarlo e sono troppo poco umili da dare ascolto alle voci che arrivano dalla strada, alcune delle quali pure dicono cose sensate. Cercano aiuto invece nelle istituzioni tradizionali dalla Ue ai Nobel per l economia che promettono gli eurobond, ma nessuna di queste voci è sufficientemente rivoluzionaria o coraggiosa per tentare una strada del tutto diversa. Il neoliberismo ha contaminato anche il socialismo. Bisogna ricominciare da zero. Peccato, perché in Spagna quest estate c era veramente la possibilità di buttare tutto per aria e di lavorare a un alternativa concreta alle politiche tradizionali di Bruxelles. Sia gli Indignados che il governo, infatti, vogliono il bene del Paese, un economia che cresca e che faccia piazza pulita delle ineguaglianze verificatesi negli ultimi vent anni. Un sentimento che ormai tutti i politici occidentali condividono adesso che i consensi sono svaniti, persino Berlusconi di fronte alla disintegrazione del suo governo e del suo partito sarebbe disposto a tornare a quella distribuzione «socialista» del reddito che tanto ha criticato. Ma mentre gli Indignados sono disposti a rischiare perché non hanno nulla da perdere, i politici temono di

perdere il salvagente europeo. Anche riconoscendo i limiti imposti dall Unione europea e ammettendo di condurre una battaglia sul piano finanziario, i politici non se la sentono di seguire l esempio dell Islanda che, come vedremo in questo libro, ha rimesso decisioni importanti al volere popolare attraverso due referendum e ha voltato le spalle al capitalismo occidentale. Se neppure il governo spagnolo, il più progressista d Europa, quello che ha maggiormente sfidato con le sue politiche prima fra tutte il ritiro delle truppe dall Iraq ai tempi di Bush una visione conservatrice, è in grado di costruire un dialogo con la società civile in rivolta, allora è difficile sperare che qualcun altro ci riuscirà. Men che meno quello italiano. In assenza di un punto di contatto concreto la «primavera araba» sarà con molta probabilità il preludio dell autunno caldo europeo, e di un lungo inverno di crisi e crolli economici. Solo allora la voce della strada, quella che si è alzata dalle piazze spagnole e che da lì è arrivata fino in Israele e, ahimè, ha infuocato la Gran Bretagna, farà breccia nei parlamenti europei e piazza pulita di tutti i farabutti che vi hanno fatto parte. E non sarà tardi per dare inizio al futuro!

Il contagio Prologo Un virus micidiale aleggia sul Mediterraneo. Dal Nordafrica viaggia verso l Europa, apparentemente inarrestabile. A maggior rischio è la parte più giovane della società civile, ma anche i meno giovani possono infettarsi. È la peste democratica. La pandemia rivoluzionaria minaccia persino l America, il cuore dell Impero occidentale globalizzato. È lo spauracchio di tutti, ma proprio tutti i politici del mondo: il contagio. Per questo virus infatti non esistono anticorpi né antibiotici, è un infezione atipica, nuova, frutto della confluenza di due epidemie: la crisi del debito sovrano e quella di istituzioni politiche ormai fuori tempo e fuori uso. La prima fiacca la ricchezza, ovvero il sistema immunitario dei Paesi, la seconda ne attacca gli organi di governo. Se non contrastato, il contagio potrebbe distruggere a Nord gli agonizzanti sistemi democratici europei con la stessa forza e determinazione con la quale a Sud fa strage delle dittature arabe. La domanda è: sarebbe un male?

1 L epidemia democratica I primi germi del contagio sono vecchi di dieci anni esatti. L epidemia inizia infatti dalla bancarotta dell Argentina nel 2001. Le conseguenze politiche di quel crack si allargano a macchia d olio nell America Latina, dando vita a governi nuovi, che entrano in rotta di collisione con le élite dell Impero occidentale, considerate responsabili per l apocalisse economica di più di una nazione. Nasce così un movimento politico che difende i diritti del popolo contro le oligarchie del denaro locali e occidentali, con capofila come il brasiliano Lula e il boliviano Evo Morales. Sulle ali della finanziarizzazione dell economia, negli anni Duemila, il contagio attraversa l Atlantico. Lo rinfocolano crisi periodiche, come l impennata dei prezzi delle derrate alimentari del 2007 e 2011, e politiche discriminatorie quali la criminalizzazione dell emigrazione. Alla fine del 2010 l epidemia approda nel Mediterraneo, e infetta tutte le nazioni che vi si affacciano. Ci siamo accorti che il malcontento giovanile è il primo sintomo del contagio nella primavera del 2011, assistendo alle manifestazioni di piazza prima nelle città del Nordafrica e del Medioriente, poi in quelle europee. Ma i giovani, che protestano contro la disoccupazione e la mancanza di prospettive, sono solo la cassa di risonanza della società civile impoverita e umiliata da governi fraudolenti e ipocriti, esclusa dalla gestione dello Stato. E questo è vero a sud come a nord del Mare Nostrum. Così in Grecia, Portogallo, Spagna, Francia, Italia scendono in piazza accanto ai figli anche padri, madri e nonni. Il popolo, insomma. «Rivogliamo la nostra dignità» urla la folla araba; «Indignatevi» scandisce quella europea. «Giustizia sociale per tutti» gridano i giovani in Israele. Per tutti, la disoccupazione e il carovita sono solo la punta dell iceberg. Persino la crisi dell euro, per quanto importante, fa solo da cornice alla protesta che investe ciò che effettivamente strangola l economia: il malgoverno. È ormai evidente che Stati solo in apparenza democratici presentano in realtà tutti i sintomi di un Impero in rapido disfacimento, dove le oligarchie del denaro e del potere politico si accaniscono per difendere i propri privilegi e somigliano più a baroni medioevali che a governanti democratici. Il malgoverno, endemico in tutto il bacino mediterraneo, ha trasformato questa distesa d acqua da barriera anti-contagio in portatore del virus, oltre che in un cimitero marino per i disperati che dal Nordafrica la attraversano alla volta dell Europa. Così se in Egitto, Libia, Siria, Tunisia, Yemen e Bahrain ci si solleva contro i dittatori un tempo «amici dell Occidente», in Europa si protesta contro le democrazie oligarchiche. E lo si fa in tutti i modi possibili: in Italia le elezioni amministrative e i referendum di maggio e giugno 2011 diventano un plebiscito popolare contro Berlusconi, la sua dissennata gestione del Paese e la classe dirigente che lo guida, mentre in Spagna gli Indignados cancellano dal loro vocabolario la parola «politica», ormai intrisa di negatività, e rifiutano di andare alle urne. Nelle piazze la protesta prende forma e voce: in Grecia la folla mette in scena manifestazioni di disgusto davanti al Parlamento che vota l austerità e poi si scontra con le forze

dell ordine; in Portogallo si scandiscono slogan contro le responsabilità della classe al potere nella rovina economica del Paese; a Parigi in Place de la Bastille si manifesta contro il «regime» di Sarkozy. E finalmente a fine luglio inizia la marcia degli Indignati verso Bruxelles. Poi ad agosto avvengono i saccheggi in Inghilterra e il mondo osserva sbigottito le strade della città che tra meno di un anno ospiterà i giochi olimpici bruciare come delle torce. Sono prove di rivoluzione di una società civile globale che comincia a prendere coscienza della realtà politica e che, con qualsiasi strumento a portata di mano, vuole riprendersi lo Stato. Dopo la società postindustriale siamo dunque alle porte di quella postimperiale e il bacino del Mediterraneo è in procinto di infilare la chiave nella toppa della nuova era. Ma mentre nel Nordafrica si chiede l avvento della democrazia per sostituire i regimi dittatoriali che hanno governato le province dell Impero, con il beneplacito dell Occidente, in Europa si chiede un rinnovamento delle istituzioni democratiche, diventate strumenti di potere nelle mani di una nuova oligarchia. Obiettivi diversi ma motivazioni identiche, dunque. Se però il Mediterraneo ci racconta una storia che già conosciamo, molto simile a quella scritta dieci anni fa dal popolo argentino in bancarotta e dai suoi vicini sudamericani, il racconto della ribellione degli esclusi, i moderni schiavi, i servi della gleba della globalizzazione; la contestazione europea è infinitamente più grave e le conseguenze possono essere assai più pericolose delle rivolte tunisine, di quelle egiziane e perfino della caduta del regime di Gheddafi in Libia o di Assad in Siria e, naturalmente, della bancarotta argentina. Sotto processo nelle piazze d Europa non c è una dittatura brutale ma la tanto amata democrazia, che a guardarla bene è oramai una maschera in brandelli. Per questo si farà di tutto per evitare il contagio. Per ora, siamo solo agli inizi. La mobilitazione non mira a sbarazzarsi di un sistema di governo che rimane pur sempre, per dirla con Churchill, «il peggiore possibile, a parte tutti gli altri», ma a cacciare chi lo ha gestito fino a ora. E non è un caso se i nuovi metodi di contestazione ci riportano alle origini, all interazione del cittadino con tutti gli altri. Gli studenti che a Roma occupano Piazzale Aldo Moro parlano della vecchia agorà, da dove tutto ha avuto inizio. In Plaza de Cataluña, a Barcellona, si usa l assemblea permanente per «fare Stato», perché quello esistente non funziona più. È chiaro: il modello non può essere quello della democrazia partecipativa diretta, siamo troppi. Ma al momento questo è l unico strumento che la società civile conosce e che ha a disposizione per scavalcare la classe politica senza imbracciare il fucile, e per ricordare al mondo che lo Stato e il popolo non sono due entità separate. In Israele la risposta del governo è la seguente: aprire un dialogo attraverso una commissione in cui accanto ai rappresentanti di tutti i partiti e dei poteri forti dello Stato ci siano i giovani Indignati. Negli ultimi vent anni, senza che ce ne accorgessimo, le élite della globalizzazione hanno sequestrato la democrazia che oggi, ahimè, rappresenta loro e non noi. È giunta l ora di riprendersi ciò che è nostro, grida la folla nelle piazze europee. E da Paese a Paese le richieste sono sempre le stesse: abolizione della finanziarizzazione dell economia; cambio totale delle classe dirigente; abolizione dei privilegi della casta politica; accountability, trasparenza delle azioni, ovvero chi ha rubato, chi ha corrotto deve finire sotto processo; incompatibilità di tutte le cariche pubbliche con condanne giudiziarie e così via. Soprattutto:

abbandono del modello neoliberista che ha facilitato il colpo di Stato e rientro degli esclusi nella politica. Richieste sempre presentate pacificamente. Utopistico? Se qualcuno nell autunno del 2010 ci avesse detto che le capitali arabe sarebbero insorte contro i propri regimi e che lo avrebbero fatto in modo pacifico, cosa avremmo replicato? L ennesima atipicità di questa epidemia è infatti la non violenza. Come vedremo più avanti, in Europa l unica eccezione è l Inghilterra dove la politica di austerità di David Cameron ha esacerbato le tensioni razziali miste a grandi diseguaglianze sociali che da almeno vent anni caratterizzano questo Paese. Ma anche qui le immagini di distruzione hanno mobilitato la società civile che è uscita in strada con scopa e paletta per ripulire i propri quartieri. La narrativa è dunque la stessa: riprendiamoci i nostri spazi di vita societaria. Abbiamo assistito allibiti ai saccheggi nelle città inglesi, alle cariche della polizia, delle forze antisommossa, delle milizie private arabe contro folle che al contrario cercavano il dialogo con chi si scagliava contro di loro. Ma non siamo più in Ungheria nel 1956, non siamo a Praga nel 1968, neppure a Piazza Tiananmen nel 1989 dove si poteva pensare di cancellare la memoria storica con un colpo di spugna. Ci troviamo invece nel villaggio globale dove, grazie alla tecnologia, tutti sanno tutto di tutti. I social media ci hanno anche permesso di seguire in tempo reale gli scontri in Siria e l avanzata dei ribelli libici fino a Tripoli, conquistata nella notte del 21 agosto 2011. La rivoluzione, infatti, viaggia sulle ali del web e in particolare dei social network. In pochi mesi sono nati migliaia di blog e di siti da cui poter seguire in tempo reale le proteste dei singoli e le manifestazioni di piazza. Su Twitter, un tamtam virtuale potentissimo, le notizie rimbalzano da un angolo all altro del Mediterraneo. Una ragnatela di telecomunicazioni unisce i greci ai siriani, gli egiziani ai portoghesi, gli italiani ai libici. Nell ambiente virtuale, come in un brodo di coltura batterico, l infezione cresce e il contagio dilaga. Tutto ciò avviene sullo sfondo del tracollo finanziario ed economico del capitalismo occidentale. Gli Stati Uniti perdono la AAA, i mercati crollano, il franco svizzero e l oro diventano i beni rifugio più gettonati, l Italia è costretta a una manovra fiscale di Ferragosto che taglia altri 45 miliardi dal bilancio, la Francia è sotto attacco e rischia di essere declassata come l America. Ma è la crisi dell euro, la cui violenza non è fisica, ma economica e psicologica a diffondere il contagio. La disintegrazione della moneta unica terrorizza gli europei, che temono un peggioramento della recessione e la fine del sogno d integrazione di un continente la cui storia è scritta nel sangue sparso dai cittadini. Particolarmente impaurito è chi vive sulle sponde del Mediterraneo perché vede nell euro il jolly dello sviluppo economico e della modernizzazione, una formula magica che gli permetterà di raggiungere i livelli di prosperità del Nord Europa. Peccato si tratti solo di un mito che alla fine degli anni Novanta i politici hanno venduto a questi Paesi per motivarli ad accettare gli immensi sacrifici necessari per entrare nella moneta unica. L ingresso nell euro ha ingrassato le élite. Se oggi questo mito sta crollando, e se non c è bisogno di usare la violenza, è perché il web ci ha regalato gli strumenti per aggirare propaganda politica e repressione. I social network stanno smascherando tutte le menzogne e i filmati che internet trasmette in tempo reale sono una potentissima arma di opinione. La rivoluzione è quasi sempre pacifica perché,

per la prima volta nella storia, le immagini sono più efficaci delle armi convenzionali. I politici lo sanno bene, e anche per questo temono il contagio. Morta e sepolta è inoltre l ideologia, finita nella discarica della storia insieme alla Guerra Fredda e agli accordi di Bretton Woods. I vecchi schemi e le vecchie parole d ordine non interessano più a nessuno. Polarizzazione è diventato un termine obsoleto. Bin Laden e Bush, comunismo e capitalismo, sono dicotomie che appartengono ai libri di storia, a un mondo ormai andato in frantumi. Anche il Fondo monetario si è dovuto adattare; per la prima volta si dice disposto a prestare denaro all Egitto senza anacronistiche condizioni fiscali. Solo che gli egiziani ringraziano e dicono che per ora preferiscono fare da soli. E se gli Indignati avranno la meglio, l équipe di medici che deve salvare l Europa dall infezione del debito asporterà chirurgicamente anche il Fmi. Per ora però non è così, anzi, alla fine di luglio 2011, i leader europei che approvano il pacchetto di salvataggio della Grecia ci regalano una nuova istituzione: il Fondo monetario europeo, prima noto come l European Financial Stability Facility. Un comitato d emergenza per i Paesi deficitari, che con un abracadabra politico diventa l ennesimo organo comunitario. Non dimentichiamo che sotto accusa nelle piazze europee c è anche il mercato capriccioso, prepotente e arrogante, che fino a poco tempo fa faceva il bello e il cattivo tempo lungo tutto il bacino del Mediterraneo e ben oltre. Costretto ad assorbire una parte delle perdite greche, a fine luglio si lecca le ferite; ad agosto precipita nel panico, svende di tutto di più dal debito sovrano ai titoli azionari delle grosse imprese e si prepara per la prossima offensiva che arriverà in autunno. Ma la società civile sta soffiando con forza sopra tutti i castelli di carta su cui poggia il potere delle oligarchie, e starà all erta. Non è un caso che persino vecchi cavalli di battaglia dei nostri politici, come il nazionalismo e il razzismo, siano ormai azzoppati. In Italia, dopo una campagna elettorale basata quasi esclusivamente sulla paura, alle elezioni amministrative del 2011 la Lega Nord di Umberto Bossi ha perso punti percentuali in tutta la Pianura Padana, e circa dieci in Veneto; persino il comune di Milano, roccaforte della destra, è stato espugnato dall avvocato Giuliano Pisapia. Una vittoria risultato soprattutto di un voto di protesta contro la cattiva gestione precedente, una vittoria possibile grazie a preferenze provenienti da destra quanto da sinistra. Un voto, dunque, trasversale, perché oggi nel bacino del Mediterraneo tutto lo è, anche e soprattutto i destini dei giovani. Quel flusso di clandestini che da anni si riversa sulle coste nord del Mediterraneo, ma che ormai si è trasformato in uno tsunami umano, non è un esercito nemico come cercano di farci credere i governi, ma una fetta della società civile alla quale anche noi apparteniamo. Insieme alle nostre famiglie i migranti sono vittime di sistemi politici ed economici ingiusti e agonizzanti. Scappano da regimi brutali, da economie asfittiche, anche dagli effetti dei cambiamenti climatici e dai disastri naturali causati dall eccessivo sfruttamento delle risorse. L Europa che sognano è quella che vedono sui televisori di casa, un continente-reality, un mondo finto dove regna la democrazia. Nessuno immagina che una volta raggiunte le nostre coste possa attenderli un calvario peggiore di quello che, rischiando a ogni passo la vita, si sono lasciati alle spalle. Eppure è proprio così. Le democrazie europee non sono in grado di accoglierli, vogliono scacciarli o sfruttarli. Il motivo? Non possono più garantire il benessere neppure ai loro cittadini.

Infatti anche i coetanei europei migrano. Fuggono dal precariato e dall eterna sovvenzione familiare, da una società bloccata in caste e incapace di progresso, scappano dalla corruzione e dal cinismo di chi regge i loro destini. Dai cervelli in fuga fino ai semplici diplomati, negli ultimi vent anni sono emigrati nove milioni di italiani. E poi ci sono i milioni di greci, spagnoli, portoghesi, tutti alla ricerca di un esistenza decorosa che non riescono ad avere in patria. Tutte le nuove generazioni mediterranee condividono un destino privo di speranze, da esclusi. Dato che il sistema di produzione occidentale non può assorbirli nello stesso modo e con le stesse garanzie che ha offerto ai genitori, i giovani esistono nel mercato esclusivamente come consumatori o come manodopera da sfruttare, e cioè come precari. Un destino agghiacciante, dove la famiglia ricopre un ruolo assistenziale, fa da ammortizzatore sociale di una categoria a cui lo Stato non offre nessuna protezione e sicurezza. Dall affitto al meccanico, dall asilo nido per i figli fino al dentista, la famiglia integra compensi letteralmente da fame. Il giorno in cui finiranno i nostri risparmi, quando noi genitori europei non ci saremo più e scompariranno stipendi e pensioni, che differenza ci sarà tra gli emigrati africani e i nostri figli? In comune questi ragazzi hanno anche la lingua, quella veloce delle nuove comunicazioni, il Web 2.0, un idioma incomprensibile ai politici. Condividono uno spazio sociale immenso, sono nati e cresciuti nel villaggio globale virtuale. Linguaggio e territorio, gli elementi chiave del vecchio nazionalismo che fino a dieci anni fa macchiava di sangue il continente, oggi sono diventati anch essi trasversali. Ed ecco perché i localismi che ancora appaiono strumentalizzati nei discorsi dei governanti ci sembrano comizi in una lingua morta. Sono connazionali i giovani che dormono a Puerta del Sol a Madrid, quelli che hanno fatto la rivoluzione al Cairo, quelli che sfidano le pallottole del regime a Damasco e che manifestano a Piazzale Aldo Moro e al Partenone. Nella società postimperiale del Mediterraneo il pericolo del contagio è alto perché il Dna sociale delle sue popolazioni è simile. Prepariamoci quindi per la più grande epidemia moderna che, come la peste di Londra, si fermerà solo quando il fuoco avrà ingoiato tutta la città per far posto a una nuova, più pulita, più vivibile. Così dalle ceneri della vecchia democrazia potrebbe nascerne una migliore, quella del futuro.

2 La rivolta contro la democrazia A metà febbraio 2011 l «Economist» esce con una copertina celebrativa della rivoluzione araba: un pugno chiuso tratto da un immagine raffigurante la folla in piazza, con la scritta The awakening, rinascita. Nonostante prenda tutti in contropiede, la sollevazione popolare araba attira l attenzione dei media tradizionali occidentali. Perché allora, appena pochi mesi dopo, la rivolta dei giovani europei comparirà solo saltuariamente su teleschermi e giornali? Eppure prende forma proprio nel cortile di casa nostra. Possibile che i media considerino il fenomeno degli Indignados spagnoli, i primi contagiati dalla pandemia rivoluzionaria, e dei loro fratelli negli altri Paesi che per comodità chiameremo «Indignati», soltanto un episodio folkloristico e non politico, un evento che non ha futuro né la forza di alterare lo status quo? L idea che a nord del Mediterraneo scoppi una rivoluzione simile a quella che si è scatenata a sud, che gli italiani scaccino Berlusconi da Palazzo Chigi come gli egiziani hanno fatto con Mubarak, sembra a tutti assurda. Così pure nessuno crede che gli Indignados possano costringere Zapatero a rifiutare le condizioni imposte dal Fondo monetario per risanare le finanze del Paese; o che Papandreou dichiari che le future generazioni greche non pagheranno i debiti contratti con le banche internazionali nonostante i ripetuti tentativi di salvataggio europeo; o che il Portogallo decida di abbandonare l euro. Eppure è questo che all inizio dell estate 2011 chiede la folla che si accalca nelle piazze. Ancora più incredibile è la prospettiva che il contagio economico spinga i mercati a voltare le spalle anche alla Spagna e all Italia, rispettivamente la quarta e terza economia europea, giudicate entrambe «troppo grandi» per essere salvate. Eppure a metà luglio sono entrambe vittime di un primo attacco speculativo. L idea che queste nazioni vadano in bancarotta distruggendo l euro è simile a un tabù ancestrale ed ecco spiegato il motivo per cui nessuno si azzarda a formulare un piano B, d emergenza, da applicare nell eventualità di un default per ridurne l impatto negativo che questo avrebbe sulla popolazione. Queste cose in Europa non succedono, ci viene ripetuto, siamo vaccinati contro le rivoluzioni perché viviamo in democrazia, siamo anche vaccinati contro l apocalisse finanziaria subita dall Argentina e dall Islanda perché facciamo parte dell Unione europea e abbiamo l euro. Ma è proprio così? Chi per informarsi usa anche il web non crede a queste rassicurazioni perché ha accesso a una realtà completamente diversa. Assemblee permanenti in piazza e nei quartieri, comitati e gruppi di pressione e di studio improvvisati nei giardini comunali, teleconferenze tra una piazza e l altra, scambi di video su Twitter, manifestazioni popolari. Che significa? Che non solo la contestazione viaggia sulle ali del Web 2.0, ma dà anche prova di sapersi strutturare fuori dallo spazio cibernetico per controbattere, passo dopo passo, alle politiche e strategie proposte dai vari governi e dalle istituzioni internazionali. Non mancano, infatti, le politiche «alternative» e le critiche costruttive.

All inizio di giugno, ad esempio, il tamtam di Twitter denuncia il Patto dell euro. E lo fa poco dopo l annuncio ufficiale della riunione dei ministri dell Economia che lo devono approvare a fine giugno. Quest accordo, si legge nei comunicati che circolano vorticosamente nei dibattiti online, delega al Fondo monetario, alla Banca centrale europea e alla Banca mondiale la gestione delle finanze dei Paesi deficitari, in altre parole mette in mano loro il destino di intere nazioni. Ecco l ennesima manovra per salvaguardare gli interessi dei giganti finanziari a discapito della popolazione. Il movimento degli Indignati propone un alternativa concreta alle politiche proposte dall Ue, ovvero far pagare il debito a chi si è arricchito grazie alle bolle finanziarie e all illusione del benessere. Che le banche tedesche e francesi si accollino la responsabilità di aver prestato soldi a Paesi che non potevano ripagarli, che si introduca una tassa patrimoniale da abbattere come una scure sui beni dei ricchi, sul reddito da capitale e sulle transazioni finanziarie. Ecco cosa si legge nel manifesto degli Indignati. Ottimi suggerimenti che però i politici non prendono nemmeno in considerazione. In Italia, ad esempio, il ministro dell Economia e delle Finanze Giulio Tremonti vara l ennesima manovra per azzerare il deficit di bilancio entro il 2014 e si guarda bene dal colpire quel 10 per cento della popolazione italiana che detiene il 45 per cento del patrimonio nazionale. Come nel Medioevo a pagare non è l élite al potere ma il popolo, anche se ormai non gli è rimasto molto in tasca. Egualmente Papandreou non prova neppure a recuperare i miliardi degli evasori, i ricchi armatori che hanno uffici in tutto il mondo. A metà luglio, quando non si è ancora raggiunto un accordo sul debito greco, dopo che Moody s ha dichiarato quello del Portogallo junk, spazzatura, i mercati sembrano dare ragione agli Indignati e prendono di mira l Italia. Il piano di Tremonti che vuole calmarli è solo un palliativo, non funzionerà come non ha funzionato il Patto dell euro, morto a meno di un mese dalla nascita. A che serve una manovra da 80 miliardi di euro che non intaccherà minimamente il debito pubblico, pari al 120 per cento del Pil, cioè 1800 miliardi di euro, più del debito complessivo di tutti i Paesi Pigs, e cioè Portogallo, Irlanda, Grecia, e Spagna? Questa la domanda che nelle dealing room del mondo la gente si pone quando ad agosto riparte l attacco dei mercati contro l Italia. Perché sorprenderci? Già a metà luglio il tasso d interesse al quale i mercati erano disposti ad acquistare le obbligazioni del Tesoro italiano era aumentato di un punto percentuale facendo lievitare il debito pubblico di 35 miliardi. E voilà, metà dei soldi prodotti dalla manovra di Tremonti sono svaniti nel debito futuro. Non è forse giunta l ora di prendere in considerazione i consigli della piazza? Tanto per cominciare, tagliando le pensioni e gli stipendi dei parlamentari, come ha già fatto la Gran Bretagna? Anche se questi tagli non risolvono i problemi del debito sovrano almeno servirebbero a riallacciare una parvenza di patto di solidarietà tra governati e governanti. E dato che i mercati sono scettici verso un Italia completamente disamorata del suo governo, sarebbe un grosso passo avanti. L austerità deve iniziare dai politici, che siano d esempio a chi li ha eletti e li paga. Come si sperperano i nostri soldi Guarda caso è proprio in Italia, il Paese con il terzo debito pubblico più alto al mondo, che ci imbattiamo negli stipendi e nelle pensioni dei politici più alti d Europa. Uno studio del «Wall Street Journal» mostra che un parlamentare italiano nel 2010 guadagnava 11.704

euro al mese contro i 7957 dei colleghi del Parlamento europeo, 7668 dei tedeschi, 7100 dei francesi e 6350 degli inglesi. Il doppio del suo collega inglese e più dei colleghi americani. Nel mondo occidentale, i nostri politici sono anche quelli che ricevono maggiori benefici aggiuntivi tra i quali la residenza romana, aerei e treni e parrucchiere gratis, tutto a spese del contribuente. Alla fine del mese, inclusi gli extra quali ad esempio il costo dei portaborse, intascano altri 8783 euro, che porta il totale a quasi 20.000 euro al mese. Un precario non li guadagna in un anno. Dato che la gestione degli extra è a totale discrezione del parlamentare, non esiste alcun controllo per verificare se sono spesi nell interesse della collettività. Una proposta da parte della deputata radicale Rita Bernardini per rendere obbligatori i rendiconti ha trovato solo 80 deputati a favore. Né la maggioranza né l opposizione, dai capigruppo ai leader, vi hanno aderito. I parlamentari hanno anche accesso a un sistema sanitario «deluxe» rispetto a chi li vota, che va dalle cure dentistiche ai massaggi shiatsu e alle terme, mentre uno dei provvedimenti d immediata attuazione della manovra Tremonti inserisce, per noi comuni cittadini, il ticket di 10 euro per le visite specialistiche nella sanità pubblica. Nel 2010 la spesa per gli extra dei deputati è stata di 10,1 milioni di euro. E poi ci sono i pasti a Montecitorio sovvenzionati dal contribuente per un costo di 5,5 milioni di euro, e la tessera di un country club in riva al Tevere. Dulcis in fundo, gli uffici fuori Montecitorio, sempre a spese nostre, nel 2010 ci sono costati 45 milioni di euro. Anche quando non è più in servizio, pagare un politico italiano costa più che mantenere una Ferrari. Si ha diritto alla pensione dopo appena cinque anni di mandato con un assegno mensile «base» di 2486 euro, l importo varia da un minimo del 20 per cento a un massimo del 60 per cento dell indennità parlamentare, a seconda degli anni in carica. Il collega tedesco ne percepisce 961, e quello francese appena 780. E così, tra parlamentari attivi e in pensione, nel 2010 il costo complessivo della Camera dei deputati italiana è stato di un miliardo di euro mentre quello del Senato di 600 milioni. Da uno studio di Tito Boeri, pubblicato sul «Wall Street Journal» a luglio 2011, risulta che dal 1948 a oggi i salari dei nostri deputati sono cresciuti in media ogni anno del 9,8 per cento contro il 3 per cento di quelli degli operai. Il triplo. E c è la crisi! Non a Montecitorio. La società civile è stanca e provata da una recessione che non accenna a finire ma soprattutto è stufa di una classe politica inetta che la deruba da decenni. Perfino nella stoica Gran Bretagna, lontana mille miglia dal Mediterraneo, il popolo è sceso in piazza per dire basta. In primavera i giovani per protestare contro l aumento delle tasse universitarie; a fine giugno è stata la volta dello sciopero generale degli statali contro l aumento dell età pensionabile e la riduzione delle pensioni. Si è trattato del primo grande sciopero in venticinque anni, vi hanno aderito tutti i sindacati e la stragrande maggioranza dei lavoratori. Poi ad agosto è scoppiata la rivolta nelle strade. È ormai chiaro che la responsabilità del disastro economico che si è abbattuto sul Vecchio Continente non è circoscritta alle banche e alle società finanziarie. Il malgoverno ha permesso abusi e lasciati impuniti reati come l evasione fiscale, che hanno contribuito all impoverimento dello Stato. Quasi 300 miliardi di euro il valore totale dell evasione e dell economia sommersa in Italia, queste le stime ufficiali per il 2010 ma le cifre reali sono ben più elevate. Basterebbe tassare pesantemente questa ricchezza per azzerare il deficit di

bilancio e portare simultaneamente il debito pubblico sotto il tetto del 100 per cento del Pil. Ma non succede. Perché? L Italia, con una delle più alte percentuali di evasori al mondo, ben illustra le difficoltà e le contraddizioni delle politiche fiscali europee: Tremonti vara lo scudo fiscale e «perdona» il reato di evasione ma poi lascia che la maggior parte dei fondi «ripuliti» rimanga all estero, non condiziona lo scudo al rimpatrio a lungo termine. Così, con pochi, semplici clic, i soldi degli evasori sono entrati sporchi e subito dopo sono usciti puliti. Solo una piccolissima percentuale dei beni cosiddetti «scudati» è rimasta in patria. Allora a cosa è servita quest operazione? Se lo domandano in molti in Europa e nel resto del mondo. Nel frattempo, per mascherare questo gigantesco fiasco a favore dei truffatori, in Italia si aumentano le aliquote su chi paga le tasse, ormai le più alte in Europa. Al netto dell evasione fiscale, e quindi sul gettito complessivo delle entrate del fisco, la pressione fiscale in Italia è del 53 per cento. È giusto tutto questo? Gli Indignati italiani e i cugini mediterranei hanno già una risposta sicura. Se i Piigs fossero imprese e i loro parlamenti un consiglio di amministrazione, i soci li avrebbero già buttati fuori tutti. E invece, come in un perverso gioco della sedia, al governo si alternano le stesse facce e si perseguono le stesse politiche. Prendiamo, ad esempio, la spesa per la difesa. Da anni la super deficitaria Grecia spende più del 2,5 per cento del Pil per armarsi contro nemici immaginari. Perché nessuno ha pensato a ridurre questa voce di bilancio? Un discorso a parte va poi fatto per le fondazioni. Perché si moltiplicano, a nome di politici più o meno in carica, istituzioni che non risolvono certamente i mali economici del continente? Negli ultimi anni abbiamo assistito al proliferare di think tank, termine altisonante sotto cui si nascondono le solite lobby delle oligarchie del denaro, spesso finanziate dalle grandi multinazionali come la Monsanto americana. Da dove arrivano però i soldi per gestirle? Dallo Stato, naturalmente; uno Stato che non è affatto meno presente nell economia rispetto al passato, ai tempi del Welfare State. Piuttosto la sua partecipazione ha scopi diversi. Oggi i nostri soldi vengono letteralmente sperperati attraverso un complesso sistema di appalti che distribuisce il denaro pubblico a società di comodo gestite da amici, familiari e compari delle élite politiche. In Italia e in Spagna la lista degli scandali immobiliari di questo tipo è lunghissima e ci vorrebbe un enciclopedia per elencarla tutta. Il movimento israeliano 14 Luglio denuncia la medesima speculazione e lo fa dando vita a una serie di tendopoli nelle piazze di Tel Aviv. Il suo slogan è «Case accessibili a tutti». Lo Stato ormai appalta anche le mansioni degli impiegati ministeriali, altra categoria di lavoratori garantiti dove abbondano gli sfaccendati. E questa pratica è diffusa non solo in Italia e in Spagna, ma anche in Grecia e Portogallo. Ce lo spiega Elena, una precaria italiana. «Sono laureata a pieni voti e ho un master in Comunicazione. Lavoro da quattro anni per il ministero dell Agricoltura, mi occupo di relazioni esterne e promozione dell immagine, però non sono una ministeriale ma una precaria. Sono impiegata a tempo determinato da una cooperativa alla quale il ministero subappalta una serie di lavori che i ministeriali ormai non svolgono più. Si tratta naturalmente di un escamotage per servirsi dei precari e deviare una parte della spesa pubblica verso aziende private che sono vicine alla classe politica.

«Se avessi un contratto a tempo determinato con il ministero dopo un certo periodo di tempo scatterebbe automaticamente l assunzione a tempo indeterminato, lo dice la legge. Appaltando i lavori a imprese esterne si aggira la norma. I miei contratti cambiano spesso proprio per questo motivo, sebbene da quattro anni faccia lo stesso lavoro nel medesimo ufficio, già sono stata assunta da due società diverse e ho firmato quattro contratti di lavoro distinti, anche per la durata di solo sei mesi, i cosiddetti contratti co.co.pro.» E come si sperperano i soldi dell Unione europea Ma siamo proprio sicuri che tutti questi appalti ministeriali facciano risparmiare soldi allo Stato, come ci viene detto? Nulla di più falso! L analisi dell avanzo primario, la differenza tra entrate e spese dello Stato al netto dell interesse sul debito, ce lo conferma. Da quando il precariato «statale» è stato ufficialmente introdotto, e cioè da una decina d anni, non si è verificato un aumento considerevole dell avanzo, anzi dalla fine del 2008 fino al primo trimestre del 2011, quando sono arrivati i primi tagli, le spese hanno superato le entrate. In più, durante questo periodo, l economia italiana non è cresciuta. Dove sono finiti i soldi spesi? Nelle tasche delle élite, dalle società immobiliari a quelle degli appalti pubblici, i parassiti della democrazia. In Grecia, altra nazione dove il precariato è stato istituzionalizzato da almeno un decennio, la situazione è persino peggiore. Il settore pubblico è il primo datore di lavoro del Paese e da più di un anno non ha i soldi per continuare a esserlo. L avanzo primario greco è infatti un grosso disavanzo, ciò significa che le entrate non coprono le spese anche al netto del pagamento degli interessi sul debito. Soluzione: il Paese s indebita con le banche, finché, naturalmente, i mercati decidono di chiudere la Borsa, come è successo nel 2010. A quel punto, come sappiamo, è dovuta intervenire Bruxelles. Prima con un prestito di 110 miliardi di euro e poi con un secondo a fine luglio del 2011, ribattezzato il Piano Marshall europeo, pari a 109 miliardi di euro al quale vanno aggiunti altri 50 miliardi in debiti posticipati da parte del settore privato. Secondo Bruxelles questo dovrebbe bastare a far riprendere economicamente una nazione a crescita negativa da almeno cinque anni, una nazione il cui gettito fiscale non è sufficiente a coprire tutta la spesa pubblica e che ha un debito pari al 142 per cento del Pil. E perché no? Nel secolo di Harry Potter tutto è possibile! Per salvare la Grecia, ci viene poi detto, si è prodotto un incantesimo che non verrà più ripetuto. Che significa? Che se domani il Portogallo o l Irlanda si troveranno nella stessa situazione verranno lasciati affondare? Difficile crederlo. La manovra di salvataggio, infatti, vuole solo rassicurare i mercati ed evitare il contagio, quindi se questo si ripresenterà in Portogallo o in Irlanda, e se si vuole mantenere l euro, dovremo salvare in extremis anche queste nazioni. Ma è poi vero che di salvataggio si tratta? Tutti i Paesi dell Europa mediterranea sono deficitari non solo perché hanno sperperato i soldi degli altri, ma soprattutto perché le loro economie non crescono. E ahimè, questo in parte è dovuto anche all euro, la moneta che condividono con l efficientissima Germania. Ma di questo parleremo più avanti, perché prima bisogna analizzare le componenti del Piano Marshall europeo per dimostrare che serve solo a rincuorare il mercato obbligazionario e non a rimettere in moto l economia greca. Non salva proprio nessuno. Dei 109 miliardi stanziati, la Grecia ne riceverà solo 34. Gli altri 75 serviranno a convincere chi ha in portafoglio il debito greco, e cioè le banche, a rinegoziarlo volontariamente. Quindi questi soldi finiranno nei loro forzieri, non in quelli della Banca