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(Ricostruita con l uso delle fonti) Classe 2^B

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Transcript:

Per cominciare Non sottovalutate mai i gatti. E neppure i chitarristi. I primi perché è vero, hanno proprio sette vite, non è solo un modo di dire. I secondi perché, a volte, possono essere un ancora di salvezza. E non sappiamo mai quando questo connubio può tornarci utile. Magari durante un viaggio. Magari mentre siamo morti. Per 12 minuti.

C è stato un giorno che sono morta. Per 12 minuti. Oddio, io non lo so se sono stati 12 minuti. Me l hanno detto. Io ero morta. Pare che ti cambi la vita quando sei morta. Eh, certo. Quanto meno non sei più viva. E io lo sono stata, non-viva, per 12 minuti. E non mi ricordo niente! Ma come, ho un occasione del genere così, a portata di mano, e non mi porto neppure, che so, un IPhone, un IPad, un cavolo di cellulare col quale registrare, fotografare, catturare una testimonianza insomma! Io, così organizzatacompulsivo- maniacale, muoio per 12 minuti e non immortalo l evento! E neppure quelli lì, da fuori, sì insomma, parenti e amici subito accorsi, neppure loro hanno ripreso nulla. Erano troppo affaccendati a soccorrermi, mi hanno detto. Che poi non sarebbe neppure stata la stessa cosa, a pensarci bene. Un conto è la testimonianza di chi vede tutto dal di fuori, tutt altro conto è starci dentro, vuoi mettere? Già da tempo mi leggevo tutto lo scibile umano e paranormale su argomenti tipo La vita oltre la morte, Risvegli,

Testimonianze di pre-morte, roba leggera insomma. Perché in fondo l argomento ha un suo fascino, specie nella mente di un adolescente in pieno tumulto ormonale quale ero io. Quando non sai ancora chi sei e chi vorresti essere, quando vorresti metterti in mostra e nasconderti allo stesso tempo, quando piangere e ridere nel medesimo istante è la cosa più naturale del mondo, sì, insomma, in quel periodo maledettamente bello della vita dove tutto e il suo contrario sono la stessa cosa e ti senti padrona del mondo. E anche della tua vita. Quindi anche della tua morte. E non ne hai alcuna paura. E allora vai in esplorazione. Cerchi costantemente il brivido. Sfidi l ignoto. Non esistono droghe artificiali migliori del brivido dell ignoto. Ti doperesti all infinito. Io non avevo mai neppure provato uno spinello. Ne avevo sentito l'odore, quello sì, nei bagni della scuola. Pungente e dolciastro. Forse lo sniffamento passivo era un po complice dei miei segreti voli pindarici, per questo ci andavo spesso, nei bagni della scuola. Mi venivano a bussare a un

certo punto: - Che ci sei caduta là dentro? Vuoi una bella nota o ti decidi a rientrare in classe? - Quando lessi il libro "La vita oltre la morte" capii che c'era qualcosa di impossibile davanti al mio senso di onnipotenza. Sì, perché, nonostante tutta la mia curiosità, proprio non ce la potevo fare a togliermi la vita per vedere cosa c'era nell'al di là. Il mio attaccamento alla vita mi teneva costantemente e tenacemente ancorata nell'al di qua, quindi mi rassegnai a immaginare tutto procrastinando l'esperienza reale a data da definire. Ma io sono una persona fortunata, in fondo. E certe cose capitano solo alle persone fortunate. Perché in genere si muore per sempre. Io sono morta solo per 12 minuti, e la mia fortuna finisce lì, perché, come ho già detto, non mi ricordo nulla. Ho deciso che proverò con l'ipnosi, perché questa domanda, questo "buco", stanno diventando un tarlo. E magari fosse solo per me! Pure tutti gli altri ci si mettono. Non potete capire le facce

deluse quando, al mio rientro dall'al di là nell'al di qua, alla fatidica domanda:"hai visto qualcosa?la luce?" Io ho risposto: "Nulla." Che poi l'ho dovuto specificare che non è che non avevo visto nulla, è che proprio non lo ricordavo. In questo modo tenevo sospeso quel filo sottile che separa i protagonisti della storia dai comprimari. Nel senso che l'argomento non era chiuso, non ancora. C'era ancora qualcosa da scoprire. Tener desta l'attenzione, questo era importante. Perché lo so che in quelle testoline vuote, per un momento, era balenata l'idea che io non fossi morta sul serio. Eh no! Questo non posso permetterlo. Sono anni ormai che mi guardate con la faccia a punto interrogativo, anni che vi trascinate dietro il dubbio se la mia sia stata una recita o verità. È giunta l'ora di sapere. E il bello sarà che io svelerò l arcano. Voi dovrete accontentarvi di un surrogato.

Un attimo o una vita prima. Martedì, 15 marzo ore 16,⁰⁰ Non comincio mai nulla di lunedì. È troppo scontato, troppo ordinato. Quello che comincio di lunedì sistematicamente lo interrompo il giorno dopo, di qualunque cosa si tratti. Di martedì invece mi dà come il senso dell ineluttabilità, un impegno preso in corso d opera e capitato lì nonostante la mia pianificazione settimanale, qualcosa giunto a scombinarmi i piani. Lo studio della dottoressa è al dodicesimo piano di un palazzo del centro. Mi tocca prendere l ascensore e spero solo che sia di quelli superveloci e supertecnologici. Macché. Il gabbiotto di un metro per un metro è di quelli con la porticina a griglia di metallo che te la devi tirare dietro per bene altrimenti il loculo non si muove, e ci sono pure i due sportellini tipo anta dell armadio, che se non li apri tutti e due non ci passi neppure dopo la dieta del digiuno. Dopo un tempo infinito, una salita tra pianerottoli ingombri di piante lussureggianti e portoni lucidi con

targhette ottonate, finalmente la cabina si ferma sussultando. Lo studio della dottoressa non è come me lo aspettavo. È accogliente. C è luce che viene dalle porte finestre alte, e musica di sottofondo. Chill out. La dottoressa non è italiana. È austriaca. Figlia di un banchiere carinzio e di una nobildonna stiriana aveva trascorso la sua gioventù nelle verdi vallate di Graz, circondata da boschi e colline. Tipo Heidi insomma. Pare che fosse un assidua frequentatrice dell autunno stiriano e che, prima di dedicarsi agli studi di psicologia e psicoterapia, abbia subìto i benefici influssi artistico -culturali di quel celebre festival annuale. Devono essere suoi tutti i dipinti appesi alle pareti della sala d aspetto. Lei comunque non somiglia a Heidi. È molto alta e molto magra e ha una voce molto suadente. Questa psicanalista mi piace. In pratica non mi interrompe mai. Mi ha fatto una domanda e io sono partita per la tangente. Ho fisicamente imboccato l'autostrada della mia vita in senso opposto e l'ho percorsa a tutta velocità, fino al giorno prima del lieto evento. Mi ha detto che

non posso considerarlo lieto però, perché morire è il peggiore dei distacchi. - Sì ma io sono tornata. - Ha detto che non conta. Non ho voluto polemizzare. Il lettino attaccato alla parete alla mia destra mi chiamava, invitante, e io non vedevo l'ora di sdraiarmici sopra. Col cavolo! Dopo cinquanta minuti trascorsi a raccontarle la mia vita, i rapporti con padre, madre, sorelle, uomini, figli, i vicini, i compagni di scuola, i professori, la bidella, insomma, tutta la pletora umana che ha accompagnato la mia esistenza, mi dice: - Bene! Ci vediamo tra una settimana e affronteremo ciò che è accaduto prima dell'evento. - Ma come... Una settimana? Ma se l'avessi saputo prima non avrei percorso tutta quella maledettissima autostrada. Che manca pure un bel pezzo ancora! Se l'avessi saputo sarei uscita prima, magari all'altezza del mio matrimonio, tanto lì il percorso è così accidentato che neppure con un fuoristrada si esce indenni. E il panorama non è dei migliori. Sette giorni. E non so neanche se mi ipnotizzerà alla prossima seduta.

Però devo ammetterlo. Questo excursus spaziotemporale a qualcosa è servito. Ho rivisto tutte insieme le facce che bene o male, per tanto o per poco, hanno segnato almeno un punto nel bersaglio invisibile del mio quotidiano percorso. Credevo di essere una freccia rossa, quel treno superveloce delle FS che non fa fermate, o quasi. Uno di quelli che sfrecciano via sul loro bel binario luccicante e nuovo di zecca. Uno di quelli che le storie ce le ha dentro, che non lascia a chi lo vede passare il tempo di costruirne di nuove e fantastiche. Un treno così non lo prendi al volo. O ci sali sopra alla stazione di partenza o l'hai perduto, per sempre. Invece no. Tutte quelle frecce conficcate nella mia bella carrozzeria dimostravano che io, tutt'al più, ero stata un rapido, che qualche fermata l'avevo fatta e che talvolta avevo pure rallentato. Altrimenti quella gente non sarebbe rimasta, non ne avrebbe avuto la possibilità. Che bel dilemma mi ritrovavo tra capo e collo. Io volevo solo recuperare un frammento perduto del mio passato. Un frammento importante. E ora

tutto questo ingombrante bagaglio dove dovevo metterlo? Non ho posto nel mio presente. I cassetti sono pieni. E gli armadi pure. Devo fare spazio. Ho bisogno di ordine. Di respirare. Ho davvero una montagna di vestiti. Alcuni risalgono a venti anni fa. Sono una di quelle persone che conserva tutto, sperando che prima o poi torni di moda. Il fatto che torni di moda però e irrilevante se non sono più di moda io. Mia figlia ogni tanto viene a "pescare" tra le mie cose. Dice che sono vintage autentico. Vintage. Vecchie. Andate. Passate. Oddio, diciamo retrò che altrimenti mi deprimo. No, meglio vintage, che è di moda. Quando trova qualcosa che le va bene, lei così minuta, mi rallegro. È come se una parte di me tornasse a vivere, una parte preziosa, perché in realtà non c'è più, è merce rara. - Questa non è una maglia stile anni 70. È un originale anni 70, e io c'ero. Io sono una sopravvissuta degli anni 70, e tu ora indossi qualcosa di introvabile, con i sogni e i desideri e gli odori e i ricordi che sono rimasti impigliati in ogni singola fibra. Abbine cura. È

come se indossassi me. - Mia figlia mi guarda come se fossi una pazza, fa spallucce e si porta via il bottino. Non la rivedrò mai più quella maglia. Però c'è ancora tanta roba nei miei armadi. L'ho già detto che mia figlia è minuta? Anche io lo ero, ma non come lei. Quindi tante cose non le stanno. Ho provato disperatamente a rientrare in quei vestiti. In certi casi ci sono pure riuscita, a costo di enormi sacrifici, diete massacranti, ore e ore di corse per i campi all'alba e palestra al tramonto. Ma se non faccio un po' di pulizia, quella vera, drastica, non ci sarà più spazio per il nuovo. E neppure per i ricordi. Quelli saranno confusi in tutto questo disordine, nascosti sotto montagne di pantaloni a zampa d'elefante e gonne inguinali, che tanto non metterò mai più. Sono passate. Come la mia taglia 40. Ho preso una confezione nuova di quei sacchi neri condominiali. Neri sì. Che se li uso colorati poi mi rendo conto che non è spazzatura e allora, un po' alla volta, tutto ritorna nell'armadio. Già successo. Coi sacchi neri non vedo il contenuto. Chiudo tutto coi laccetti e via, ai bidoni della Caritas, che

tutto riprenda vita in un'altra parte del mondo. Così mi illudo di essere anche onnipresente, in qualche modo. La mia macchina è piena. Meglio correre a depositare tutto prima di convincermi che questi sacchi sono troppi e forse è meglio lasciarne qualcuno a casa. Martedì, 22 marzo ore 16,⁰⁰ Ora che ho tutto questo spazio, con cosa lo riempio? Deve essere una compulsione questa, e una delle peggiori. La stessa che mi costringe, in un parcheggio vuoto o quasi, con tutto lo spazio a disposizione, ad andare ad allinearmi accanto a quelle due auto laggiù, proprio nel mezzo. La stessa che mi fa disegnare ghirigori intricatissimi negli angolini dei post it quando sono al telefono. Parto sempre da un triangolino. Poi sui lati ci disegno delle cupolette. E poi congiungo il perimetro con la base e via, cerchietti negli spazi vuoti, e altri quadratini, e cupole. Così, fino a esaurire il foglietto. -Lei è in cerca di sicurezza. ha sentenziato la psicanalista. E punto. Ma come. Io che sono così

forte, determinata, volitiva, sarei un insicura? Mi sta inquietando questa donna. E siamo solo alla seconda seduta. Sette ne dovremo fare, così ha detto. - E quando cominciamo con l'ipnosi?- Ha sollevato gli occhi da uno dei miei post it tutto pieno di disegnini - gliel'ho portato per farglielo vedere- e mi ha sorriso. - Ogni cosa a suo tempo.- Avevo trattenuto il fiato in attesa della sua risposta. Già mi pregustavo il relax su quel lettino occhieggiante. Mi vedevo con gli occhi a fissare un pendolino - secondo me la dottoressa era da pendolino, chissà perché - e a lasciarmi andare in una sorta di nebbia lattiginosa, come una nuvola di quelle che si vedono dall'aereo quando sei in quota, che vorresti tuffartici dentro sicura di non precipitare per quanto sembra compatta. Invece no. Qui si parla, ancora e ancora. O meglio, sono io che parlo. Lei tace e, alla fine, sentenzia (è in momenti come questo che esce fuori tutta la sua autorità austro-ungarica). Mi fa quasi paura adesso. E se sbaglio qualcosa? È rischioso con lei. Un suo giudizio basato sul presupposto errato di una mia parola potrebbe cambiarmi la vita per

sempre. Devo stare attenta a ciò che dico. Mi sto confidando troppo. Con-fidare. Ha a che fare con la fiducia. Solo che in questo caso non è reciproca. Nel senso che io devo averne in lei. Lei, nel migliore dei casi, pensa che io stia mentendo. Quindi deve interpretare dai miei segnali. - Vede tutti questi disegni chiusi? Sono un segnale della sua chiusura nei confronti degli altri. Lei si sta difendendo. Per questo dico che ha bisogno di sicurezza. Solo che la cerca nel posto sbagliato, cioè fuori da se stessa. - Non glieli porto più i miei post it.

A caccia di certezze. Senza bussola. Ci riflettevo sul senso delle mie compulsioni. Ero sicura che si trattasse di questo, non di insicurezza. Un po' come le manie innocue di mia madre. Lei al mattino, prima ancora di far pipì appena alzata, si lavava i denti. A volte se li spazzolava seduta sul water. Così risparmiava tempo. - E se viene qualcuno? Magari il dottore? Mica posso avere l'alito pesante, ti pare?- e giù a spazzolare. Ha sempre avuto la fissazione del medico in casa. La mattina presto. Perché secondo lei non ci si ammala di giorno. Solo di notte, quando siamo più indifesi nel sonno. E a volte, se al mattino ci svegliamo con la febbre, è perché nel sonno siamo cresciuti. Febbre di crescenza la chiama. Ma questa è un'altra storia. Io non ho mai aggiunto un centimetro alla mia statura, in effetti. Comunque lei dice che ci si ammala di notte e che quindi il medico può servire la mattina presto, per cui bisogna essere pronti a riceverlo con la vescica vuota e l'alito fresco. Mia madre è una maniaca

dell'igiene, quindi è innocua. Come le mie compulsioni. E questa è una certezza, non v'è dubbio. Primo punto a mio favore. Restavano quei ghirigori però. E il parcheggio dell'auto. E anche la spesa nel carrello, sì anche quella, allineata e accatastata secondo la forma e le dimensioni. Il mio carrello quando arrivava alla cassa pareva una scultura del miglior cubismo. Un peccato svuotarlo. Quando era cominciato tutto questo? Il carrello e il parcheggio sicuramente dopo i diciotto anni, se non altro perché prima di allora non avevo né patente né autonomia economica. I ghirigori probabilmente risalivano all'età scolare. All'epoca però li facevo sui quaderni a quadretti. E anche su quelli a righe. Ricordo la sfida del quaderno a righe di terza elementare. Una riga larga e una più sottile. Ma che perfidia. Serviva a rimpicciolire la grafia. Io che scrivevo talmente largo che con tre parole dovevo andare a capo, ero in profondo imbarazzo. Ogni volta che dovevo scrivere fissavo quel foglio per diversi minuti, per decidere le misure, un po' come prendere la

rincorsa e affrontare la sfida. Io e le righe diseguali. Tanti bambini hanno riportato traumi emotivi a vita per questo, ne sono certa. E sono diventati tutti medici, dalle grafie incomprensibili. Colpa delle righe della terza elementare. Io non sono diventata medico. Io risolvevo all'epoca con un diversivo. Per prendere coraggio mi allenavo facendo cornicette sul bordo superiore e inferiore del foglio. Sempre più complesse, man mano che prendevo confidenza con le misure. È lì che è cominciata la mia passione per il cubismo, che quando ho visitato il Moma a New York mi sono sentita una di famiglia tra quei dipinti, compresa, accettata. Quello che non feci mai, durante quel fatale anno di terza elementare, e neppure in seguito, quando ormai la compulsione si era conclamata, fu di chiedere aiuto. Non chiesi mai alla maestra come dovevo fare per far entrare le mie enormi lettere in quelle righe così piccole. E non lo chiesi neppure a mio padre, tantomeno a mia madre. Mi arrangiai da sola. Sfogandomi coi ghirigori. Figuriamoci. Figuriamoci se l'avessi fatto.

Chiedere aiuto. Io. È così che comincia l'isolamento. Non sono gli altri che ti ci mettono. Ci vai da sola. Ti metti in castigo da sola per orgoglio, per dimostrare quanto sei brava e forte, o magari perché pensi che gli altri non siano all'altezza di aiutarti. Ma che ne sai a otto anni se gli altri sono all'altezza di aiutarti o no? Forse l'hai chiesto, una volta, l'aiuto, e sei rimasta delusa. I bambini ricordano tutto. Solo che poi da grandi se ne dimenticano. Rimane solo l'effetto dell'oltraggio subito. E vanno in analisi. A volte per anni. Per disseppellire qualcosa che, a ben pensare, meglio sarebbe se restasse sommerso. Ho detto a mio figlio che forse lui perde i capelli per un trauma infantile di cui non ha memoria. Gli ho detto che voglio aiutarlo altrimenti non potrò reggere i sensi di colpa. Ho detto: - Qualunque cosa tesoro. La elimineremo alla radice.- Mi ha guardata, serio, ci ha pensato, ancora più serio, e ha risposto: - Fermo restando che capita a noi uomini, superati i venticinque anni, di cominciare a perdere i capelli, in realtà credo che il trauma di avere una sorella maggiore

possa essere stato il fattore scatenante, sì. Quindi se pensi di poter fare qualcosa al riguardo per eliminare il problema, io e i miei capelli te ne saremmo enormemente grati. - I figli, che bella invenzione! Mio figlio dovrà tenersi il suo problema. E io supererò i miei sensi di colpa in altro modo. In effetti, a pensarci bene, l isolamento non è una gran bella cosa. Ti fai le domande, ti dai le risposte, nessun contraddittorio, nessuno che sta lì a giudicare. Tranne te stessa. Che sei il peggior giudice. Perché i parametri te li crei da sola, e così è facile, le regole sono semplificate e vinci sempre. Io no. Io sono sempre stata il peggior giudice di me stessa nel senso proprio che sono cattiva. Mi creo regole impossibili, parametri irraggiungibili. Così la sfida è più eccitante, mi dico. Eccitante. Eccitante è un incontro con qualcuno che ti piace da impazzire e con cui vuoi fare sesso, non una sfida con se stessi. Eccitante è partire per un viaggio per un luogo sconosciuto e non sapere cosa troverai. Eccitante è andare a dormire la sera

senza sapere cosa accadrà al tuo risveglio. Magari sarai morta. Per 12 minuti. Ecco che tornano quei 12 interminabili minuti. Tornano perché non li ho risolti. E questa psicanalista che non si decide ad ipnotizzarmi. Io vago nei chiaroscuri del mio passato, tra embrioni di ricordi, senza alcuna guida e lei prende tempo. Non lo so perché faccio i ghirigori! Perché mi piacciono, va bene? Lei sta seduta con le braccia conserte. Anche questo è un segnale di chiusura. Il linguaggio del corpo non inganna! mi ha detto. Anche questa ci mancava. Il linguaggio del corpo. Mi ricordo che camminavo sempre guardandomi i piedi. Al massimo sollevavo leggermente gli occhi per evitare i pali dei lampioni disseminati lungo il marciapiede. Secondo me ce li mettevano apposta quei pali. Per vedere quante persone distratte ci avrebbero sbattuto contro. Sai che risate. Tutti grandi estimatori di Pirandello questi tecnici dell Enel. L umorismo pirandelliano mi ha sempre fatto venire il nervoso. Io non mi diverto delle disgrazie altrui, per niente. E neppure i clown mi fanno ridere. Li trovo inquietanti. In ogni caso,

mentre camminavo guardandomi i piedi, stavo ben attenta a non fracassarmi la testa contro un palo, perché non volevo essere uno spettacolo da circo. Stavo con gli occhi bassi perché non volevo incontrare gli occhi degli altri. Incontrare uno sguardo poteva significare dover sorridere. Salutare magari. Anche solo un cenno. E io volevo starmene per i fatti miei, nessuna distrazione al flusso dei miei pensieri di camminatrice. A mia madre dissero che ero una scontrosa maleducata, e che me la tiravo pure. Io me la tiro? Ma se sono socievolissima! E poi saluto sempre. Buongiorno. Buonasera. Quando incontro i vicini per le scale, anche se magari faccio su e giù venti volte, li saluto venti volte. Non era vero. In genere facevo le scale di corsa, letteralmente mi rotolavo per tre piani, per evitare di incontrare qualcuno nell incedere lento di ogni singolo gradino. Sapevo salire le scale tre a tre. Scendere no. Ci ho provato una volta e per poco non mi rompevo una gamba. Allora ho imparato a farle di corsa. Quasi in volo. L idea di volare, per far prima, per non rallentare,

mi ha sempre attirato. Mi allenavo al salto triplo in atletica ed ero convinta che quell ultimo salto, quello più lungo, se lo avessi trattenuto il più possibile sospeso in aria sarebbe stato un volo. Quindi, al mio rientro a casa, percorrevo quel marciapiede tutto dritto e liscio che costeggiava il mio palazzo facendo il salto triplo. E l ultimo salto era sempre più lungo e alto. E agitavo anche le braccia per darmi una spinta maggiore. Secondo me non ero io che non socializzavo. Secondo me erano le persone che mi stavano alla larga perché mi credevano pazza. Era il mio corpo che lo diceva, a prescindere da ciò che avrei voluto dire io. Bisogna stare molto attente al linguaggio del nostro corpo. È molto più bravo della nostra bocca a trasmettere il pensiero. Pure gli insulti. E va bene. Mi chiudevo. Ma ora non più, ora ho imparato! Cammino sempre a testa alta, non ho paura a guardare e a farmi guardare, anzi. Mi dicono che a volte ci si sente a disagio con me, perché ho questo modo di fissare, come a volerti scavare dentro, che somiglia a un intrusione. O alla seduzione. Non va mai bene. O è troppo poco

o è troppo tanto. La seduzione. La forma più antica forse di comunicazione. Se seduco allora comunico, giusto? Sono aperta all altro, come quando allarghi le braccia, un invito a lasciarsi avvolgere. Il mio sguardo è come un mantello di braccia, ti copre. Il problema è quando si lascia coprire anche chi non vorrei. Non se ne va più via. Si sta al caldo tra le mie braccia. E pensare che vorrei tanto essere riscaldata io. Che a forza di trasmettere calore mi raffreddo. C è una tale escursione termica tra il mio fuori e il mio dentro che potrei ingurgitare ghiaccioli ed espellere cioccolata calda. Dai pori. Solo che in bocca, nello stomaco, tra le pareti interne di tutti i miei apparati, resta il ricordo del gelo. Per tanto tempo. E guardo quella cioccolata fumante, e la vorrei tanto assaggiare, ma so già che subito diventerebbe un choco frozen. È buono il choco frozen, ma non quando hai freddo, no. Per questo me ne sto da sola. Non sempre. Spesso. Con gli altri mi doso, per evitare dispersioni. D altronde non è che ci sto male con me. Tranne quando partono queste sfide impossibili e c è poco

da fare, devo rispondere. Chi mi sente altrimenti? Io non mi reggo quando recrimino. Sono pesantissima. Tanto vale accettare e cominciare la singolar tenzone. Singolare perché i duellanti sono uno solo: io. Come adesso. Mi sono sfidata a scrivere un romanzo. E ne sto scrivendo due. Vedremo alla fine chi avrà la meglio.