Unità 5 Potere e ricchezze a cura di Francesco Piazzi



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Transcript:

Unità 5 Potere e ricchezze a cura di Francesco Piazzi 5.1 - Schiavi e gladiatori 5.2 - L inversione carnevalesca del codice culturale: Leonida e Libanio 5.3 Scheda lessicale: la schiavitù a Roma 5.4 - Scheda lessicale: i rapporti di classe 5.5 - Apuleio: L iconografia del disperato 5.6 - La condizione dei clientes 5.7 - Il berretto della libertà 5.8 - L'entrata trionfale di Trimalcione 5.9 - La schiavitù 5.1 - Schiavi e gladiatori Le categorie dei gladiatori. I gladiatori erano schiavi che combattevano nell'anfiteatro dando vita ai seguenti spettacoli: al mattino, lotte tra belve e lotte di gladiatori contro le fiere; a mezzogiorno intrattenimenti comici, danze ed esibizioni ginniche; al pomeriggio, combattimenti gladiatori. Era possibile distinguerli in base all'abbigliamento e il modo di combattere: - Andabatae: indossavano elmi privi di aperture per gli occhi, pertanto la loro andatura era incerta e sferravano colpi imprecisi, suscitando l'ilarità popolare. - Catervarii: atleti che combattevano in gruppo. - Dimacheri: armati di due spade. - Equites: combattenti a cavallo. - Essedari: lottatori a bordo di carri. - Laqueatores: provvisiti di laccio. - Meridiani: si esibivano a metà giornata. - Mirmillones: portavano una caratteristica immagine di pesce sull'elmo. - Retiarii: armati di tridente e di rete. - Samnites: indossavano le armi tipiche del popolo del Sannio. - Secutores: armati di elmo, scudo e spada - Thraces: provvisti di armi e scudo trace. I combattenti erano addestrati in scuole gladiatorie ad opera di un lanista. L armamento. Un ampia cintura di cuoio o di metallo e una grossa fasciatura avvolgono la vita e il ventre, i gambali di bronzo poteggono dalle braccia in giù, lo scudo fa il resto insieme a un ricco elmo istoriato color oro fornito di una paurosa grata davanti agli occhi. Il codice. Missum o Mitte, come a dire lascialo andare, urlava la folla quando voleva concedere la vita la gladiatore vinto. Se invece desiderava la morte, l esortazione era diversa; Iugula, tagliagli la gola, gridavano con il pollice verso (girato verso l alto), come recita anche il palpitante quadro dipinto nel 1872 da Jean Léon Gérome.

Le reazioni del pubblico. Nulla è più immorale dell assiduità a questi spettacoli. Io ne torno più cupido, più ambizioso, più crudele, più lascivo (Seneca). Non appena vide il sangue cadde vittima dei suoi istinti più bassi: non solo non distolse lo sguardo, ma si concentrò ancora di più su quel che vedeva, assorbendone inconsapevolmente l orrore. E in lui nacque il piacere per quello spettacolo terribile. Da quel momento fu sommerso dalla sete di sangue (S. Agostino). Chi assiste con piacere allo sgozzamento di un uomo sebbene la condanna sia giusta macchia la propria coscienza proprio come se fosse segretamente spettatore complice di un omicidio (Lattanzio) Immagine 5.1.a Lanista e thraces. Verona, Museo archeologico del teatro romano 5.2 - L inversione carnevalesca del codice culturale: Leonida e Libanio La lotta degli schiavi contro i padroni s'è sviluppata in genere in modo sotterraneo, prendendo spesso la forma di sabotaggio cosciente dell'economia padronale, un sabotaggio che poggiava sul deliberato rifiuto dei valori etici definiti dalla classe dirigente. Significativa in tal senso è la contro-morale di Libanio e Leonida. Ma sarebbe errato vedere in questa contro-morale solo una forma di contestazione sociale. Maurizio Bettini ha colto il senso profondo del capovolgimento. Certi momenti della vita sociale richiedono l inversione, la sospensione dei rapporti sociologici autentici. Analogamente a ciò che accade nella festa del Carnevale, i ludi scenici plautini agiscono come scompaginamento fittizio, come inversione giocosa dei rapporti sociologici usati. Il codice culturale si inverte, e ne spunta una società governata dal semplice principio del rovesciamento: quasi a mostrare come andrebbe il mondo se tutto si rimescolasse. A Roma questo bisogno di sospensione e di rovesciamento carnevalesco si esprimeva soprattutto nella libertas Decembris dei Saturnali, allorché i rapporti tra padroni e servi si invertivano e trionfava la giocosa libertà della festa. In un breve testo commenta la contro-morale enunciata da Leonida e Libanio alla luce delle considerazioni di Bettini sull inversione carnevalesca delle regole valide nel mondo normale.

5.3 - Scheda lessicale: la schiavitù a Roma Tipi di schiavi. Secondo il Digesto (testo di diritto romano fatto compilare dall imperatore Giustiniano) il servus schiavo sarebbe stato così chiamato dal verbo servare conservare, perché i generali vincitori sono soliti servare per venderli, anziché ucciderli, i prigionieri di guerra. A Roma c erano servi publici e privati, cioè schiavi di proprietà dello stato e schiavi di proprietà di privati: questi ultimi entravano a far parte della familia romana nella sua accezione più ampia. Gli schiavi nati in casa dei padroni da altri schiavi erano detti vernae, quelli comperati venalitii o mangones. L acquisto di uno schiavo avveniva o tra i prigionieri di guerra (captivi) o tra gli esposti o tra i rapiti dai pirati (c era un mercato di schiavi nell isola di Delo). All atto della vendita si poneva sulla testa dello schiavo una corona (donde l espressione sub corona vendere); se nel luogo di vendita il banditore poneva in terra una lancia si diceva sub hasta vendere (il nostro vendere all asta ). Il venditore doveva attaccare al collo dello schiavo un titulus (o inscriptio), un cartello indicante pregi e difetti dell offerto in vendita. Secondo le mansioni che erano loro affidate nella famiglia, gli schiavi ricevevano nomi diversi. Non avevano però un nomen, nome di famiglia, ma dovevano portare il nomen del padrone e un praenomen nome personale. L affrancamento. Gli schiavi potevano ottenere la libertà per manumissionem per affrancamento, iusta giuridicamente valida, se il padrone davanti al pretore precuoteva lo schiavo con una verga. Poiché poteva ragranellare denaro, lo schiavo poteva riscattarsi (manumissio directa affrancamento diretto ). La manumissio poteva essere legitima legittima anche se il padrone la decideva davanti ad amici testimoni (inter amicos tra amici ), oppure per epistulam per lettera, oppure ammettendo lo schiavo a tavola (per mensam per mezzo della tavola ), oppure adoptione per adozione. Lo schiavo affrancato era libertus o libertinus; se si comportava male poteva revocari in servitutem essere richiamato in (condizione di) servitù, però entro un certo tempo. Lo schiavo non poteva contrarre matrimonio con una schiava, ma poteva vivere in contubernio coabitazione, concubinato. Le condizioni dello schiavo. I rapporti col padrone erano assai diversi da casa a casa, secondo la liberalità del dominus padrone, i servizi che lo schiavo gli rendeva, l intelligenza, la sottomissione dello schiavo. La mancata politica sociale di Roma fu causa di rivolte, fughe, talvolta anche di delitti degli schiavi. L integrazione sociale delle classi subalterne, del sottoproletariato urbano e rurale, delle masse servili avrebbe evitato le guerre servili. La maggiore rivolta servile fu quella di Spartaco, ma non fu la sola. Se col tempo le condizioni degli schiavi in parte furono alleviate, solo col Cristianesimo lo schiavo fu proclamato pari al libero (Riduzione e adattamento da: F. Semi, Le lotte sociali nell antica Roma, pp. 145-146, Canova, Treviso 1974). 5.4 Scheda lessicale: i rapporti di classe Il servo e il guardiano. L italiano servo viene direttamente dal latino servus, termine forse riconducibile alla radice indoeropea *swer e confrontabile con la

voce haurvo che nell Avesta (testo del mazdeismo, cioè dell antica religione dell Iran) compare in due nomi composti indicanti due tipi di cane: quello che sorveglia il gregge e quello che sorveglia la città. Quindi *swer significherebbe sorvegliare e vi si riconnetterebbero servus, servare, observare, ma anche le parole che in greco significano occhi ((v)óroi) e vedere ((v)orao, la cui radice (v)id è la stessa del latino video). Quale poi sia il nesso tra la condizione del sorvegliante e quella del servo non è affatto chiaro. Alcuni studiosi ritengono che servus ricalchi una forma dell etrusco (Servius Tullius, uno dei sette re di Roma, era di origine etrusca). Lo schiavo e lo slavo, Più chiara è l etimologia di schiavo, parola che non deriva dal latino, ma da Slavus che nel Medioevo indicava lo Slavo. Il gran numero di Slavi imprigionati e venduti come schiavi dalla casa di Sassonia nel X secolo fece sì che gli Slavi fossero considerati gli schiavi per eccellenza. Serba memoria della connessione tra Slavi e schiavi la famosa Riva degli Schiavoni (anticamente Riva degli Sclavoni ), dove attraccavano le navi che dalla Dalmazia raggiungevano Venezia. Da questa città si diffuse, a partire dall espressione scào servo tuo, il nostro ciao (ma scào era l abbreviazione di Sclavo, cioè di Slavo). Stessa origine ha il ciao dei tedeschi: Tschüß! Il cliens e il patronus. Il nostro padrone deriva da patronus, termine connesso a pater e indicante l esponente di una famiglia in vista che offriva protezione ai concittadini delle classi più umili, che erano detti clientes. L aiuto offerto dal patronus poteva essere di natura economica, concernere l assistenza in tribunale o altro. In cambio il cliens si rendeva disponibile alle richieste del protettore, come risulta con chiarezza dall etimologia stessa di cliens, da cluere obbedire. L obbedienza poteva riguardare prestazioni in natura o in servizi, ma soprattutto concerneva la sfera elettorale. I clientes rappresentavano per il patronus un serbatoio di voti sicuri. Nel derivato italiano cliente è venuto meno il rapporto di sudditanza e subordinazione, anzi oggi l industria e gli enti che erogano servizi si dichiarano tutti al servizio del cliente. Tuttavia nella lingua politica le espressioni clientela e clientelarismo conservano l idea dell appoggiarsi a un potente per averne in cambio favori. Ma mentre la clientela romana era un istituto giuridico e sociale pienamente lecito e praticato alla luce del sole, oggi il rapporto clientelare non viene dichiarato pubblicamente, e i termini clientelare, clientelismo, ecc. hanno una connotazione etico-politica negativa, essendo considerati sinonimo di corruzione, favoritismo, paternalismo. 5.5 - APULEIO: L iconografia del disperato In questa novella contenuta nelle Metamorfosi (I 6-7) dello scrittore latino APULEIO, un tale Aristòmene racconta di avere incontrato per strada un vecchio amico, Socrate, caduto in uno stato di estrema miseria e abbruttimento psicofisico. La condizione dell uomo è leggibile nell espressione del volto, nella postura, nell abbigliamento, cioè in un insieme di tratti distintivi o indici figurali dell individuo disperato. Ed ecco, improvvisamente, vedo il mio amico Socrate. Sedeva a terra, semicoperto da un mantellaccio sfilacciato, quasi divenuto un altro per il pallore cadaverico, ridotto ad una magrezza miserevole, come sono soliti

gli accattoni chiedere l elemosina agli incroci delle strade. Mi avvicino dubitando che si trattasse di lui, sebbene lo conoscessi benissimo e fosse stato un mio caro amico. Ehi! gli faccio Socrate mio, come sei messo? che faccia hai? Che cosa ti è capitato per ridurti così? A casa tua sei dato per morto e già hai ricevuto l ultimo saluto 1 ; ai tuoi figli è stato assegnato un tutore per ordine del giudice provinciale, e tua moglie, resi gli onori funebri, dopo essersi spremuta gli occhi quasi fino a perdere la vista, è stata spinta dai suoi parenti a compensare la sventura che ha colpito la tua casa con nuove nozze. Ma tu qui sembri il fantasma di un morto, per nostra somma vergogna. Aristomene, fu la sua risposta, si vede bene che tu non conosci le mutevoli giravolte, i colpi mancini, le scambievoli peripezie delle umane vicende. Mentre parlava, il volto gli si tingeva di rosso per la vergogna, sì che alla fine se lo coperse con quel mantello, tutto toppe come quel di una maschera, e in questo atto dall ombelico fino al pube mostrò nudo il resto del corpo. Insomma, non ressi al doloroso spettacolo della sua miseria, e la compassione mi vinse. Gli porgo la mano e gli faccio forza perché si alzi. 1. Era una cerimonia che consisteva nel chiamare ad alta voce il nome di un morto, per dargli l estremo addio. Gli indici figurali del disperato La condizione di abbrutimento di Socrate è stata studiata dal punto di vista degli indici figurali. Si tratta di elementi descrittivi codificati nell ambito di una certa cultura, quindi comprensibili per il lettore antico e in parte data la permanenza del codice anche in età più recente per il lettore moderno. Sono segnali concernenti vari elementi, come l abbigliamento, le posture, l atteggiamento psicologico, i tratti somatici, il ceto, il mestiere, persino il nome. Naturalmente la comprensione di questi segnali presuppone che il lettore conosca il codice, cioè il valore significativo che usualmente essi assumono in una data cultura, all interno di precise convenzioni (letterarie, iconografiche, ecc.). Socrate si caratterizza per i seguenti tratti concernenti la postura, l abbigliamento, l espressione, l aspetto: a) sedeva a terra; b) semicoperto da un mantellaccio sfilacciato mantello, tutto toppe come quel di una maschera; c) il pallore cadaverico la magrezza miserevole; d) il volto gli si tingeva di rosso per la vergogna; e) se lo coperse [il volto] con quel mantello; f) dall ombelico fino al pube mostrò nudo il resto del corpo. Mentre a) e f) indicano la prostrazione e lo stato di abbandono, b) esprime canonicamente la condizione del disperato, secondo un modello che perdurerà in una moltitudine di testi letterari raffiguranti accattoni, vagabondi, emarginati; c) rende lo stato del moribondo o comunque le precarie condizioni di salute; d) indica la condizione psicologica del poveraccio. Infine Socrate appare col capo velato dal mantellaccio logoro. Quest ultimo tratto è caratteristico della icona del morituro o direttamente della morte personificata ( ). In particolare, assai diffusa era la concezione secondo la quale i destinatari della avversa fortuna potevano venire coperti

da un drappo o da una nubes ( ) come nel comportamento di quei plebei che disperati dall indigenza, come racconta Livio, prima di gettarsi nel Tevere si coprivano il capo. Questo atto ( ) va considerato come un gesto collegato strettamente all evento mortale 1. Notissima è la scena della morte di Cesare narrata da Svetonio: ( ) quando si accorse che da ogni parte gli venivano addosso coi pugnali levati, si avvolse il capo nella toga e con la sinistra ne tirò giù il lembo fino ai piedi per cadere più decorosamente ( ). 1. G. Paolo Caprettini, Gli indici figurali e la dimensione iconica del personaggio in Apuleio, Metam. I 6, in Semiotica della novella latina, Herder, Roma 1986, p. 112 ss. 1. Qual è la posizione in cui si presenta Socrate del racconto di Apuleio Di che cosa è rivestito? 2. Com è il suo volto? 3. Il fatto che i famigliari di Socrate lo diano per morto quali conseguenze ha avuto? 4. Che cosa risponde Socrate alle domande dell amico? 5.6 - La condizione dei clientes Nell antica Roma si definivano clientes i cittadini che accettavano la protezione di una persona autorevole, il patronus, in cambio di generici servigi nella vita civile e politica (ad esempio votare per il patronus). La condizione dei clientes secondo Giovenale è peggiorata ai suoi tempi (età di Nerone). Il patronato, un tempo fattore di equilibrio sociale, è ora elemento di discriminazione tra i ricchi, che fanno turpe mostra di lusso, e i poveri costretti a umiliarsi per un pasto. È quanto avviene nella cena offerta da Virrone al cliens Trebio, dove assistiamo anche alla levataccia del protetto, che all alba vuole essere fra i primi a salutare il signore, mentre nella I satira è ritratta la folla dei clientes che si accalcano alla porta del patronus, per ricevere la sportula (somma di denaro). La sperequazione delle ricchezze, la denuncia dell ingiustizia sociale sono temi dominanti in Giovenale. 5.7 - Il berretto della libertà Il poeta Marco Valerio Marziale (I sec. a.c.) condusse una vita modesta di cliente e, sebbene raggiungesse una discreta fama come scrittore di epigrammi, ebbe sempre a lottare con le necessità economiche, come lamenta spesso nei suoi versi. In questo epigramma (II 68) Marziale affronta il tema della libertà, in rapporto alla sua condizione di cliente. L'epigramma è sapientemente costruito sulla ripetizione della formula rex et dominus, che indica prima il titolo preteso per sè dal patrono influente, poi designa i patroni, i quali debbono a loro volta avere dei reges et domini poichè non sono padroni di loro stessi (se non habent). L'epigramma si spiega in relazione all'estensione che i rapporti di clientela avevano ormai ad ogni livello sociale, per cui una stessa persona poteva essere ad un tempo patrono e cliente a sua volta. Marziale è uscito da questo intrico di legami clientelari, comprandosi il pilleum a prezzo di tutte le sue cianfrusaglie (sarcinae): difficile dire se si tratti

di un reale abbandono della vita del cliente o piuttosto di un distacco morale acquisito attraverso una filosofica rassegnazione. Se adesso ti saluto col tuo nome, mentre prima ti chiamavo signore e padrone (regem et dominum), non tacciarmi di tracotanza: ho comprato il berretto (pillea) 1 della libertà a prezzo di tutte le mie carabattole. Signori e padroni (reges et domini) deve averli chi non è padrone di sé stesso (se non habent) e brama ciò che signori e padroni (reges et domini) bramano. Se puoi fare a meno di uno schiavo, Olo, puoi anche, Olo, fare a meno di un signore (regem). l. Il pilleum era un berretto di feltro di forma semiovale o conica, portato nei conviti, nelle feste e dagli schiavi quando venivano affrancati, come segno di libertà. 1. ( ) adesso ti saluto col tuo nome, mentre prima ti chiamavo signore e padrone : un analogo mutamento di rapporto si ha nell epigramma I 112, dove Marziale, che prima salutava Prisco come un patronus, si è accorto che non ne riceve nulla in cambio, probabilmente perchè Prisco è un suo pari, e decide quindi di non rivolgergli più l'ossequioso saluto con la formula rex et dominus. Altrove (in VI 88), l'aver salutato il patrono col semplice nome, senza chiamarlo dominus, è costato a Marziale la perdita della sportula. Nel nostro epigramma si avverte soprattutto l'orgoglio per la raggiunta libertà, e ciò a cui Marziale ha dovuto rinunciare per ottenerla è indicato col termine piuttosto svalutativo di sarcinae, quasi a voler dire che il risultato raggiunto (la libertà) vale il prezzo pagato. 2. Anche oggi ha peso, nei rapporti socialmente asimmetrici (tra chi comanda e chi esegue, tra ricchi e poveri, tra chi ha il potere e non ce l ha, tra l emigrato e l autoctono, tra il dipendente e il capufficio, ecc.), il titolo (dottore, signore, eccellenza, onorevole, ecc.) col quale ci si rivolge al superiore? Fa qualche esempio. 3. Il berretto è per Marziale il simbolo della libertà conquistata. Sapresti indicare un moderno simbolo di libertà? 4. Le carabattole o cianfrusaglie sono il prezzo della libertà. Marziale vuole diere: "ho comprato la mia libertà con la rinuncia a tutti i vantaggi che mi offriva il rapporto di clientela". 5. "( ) signori e padroni deve averli chi non è padrone di sè": anche i patroni, che sono a loro volta clienti di altri patroni più potenti, in virtù di una struttura piramidale della società romana. È analoga la struttura delle società moderne? Chi non ha patroni o padroni? La ricetta per essere davvero liberi In questo epigramma (II 53) Marziale suggerisce a Massimo il sistema per diventare liberi: il concetto fondamentale, condiviso da tutte le filosofie del tempo, risiede nella necessità di accontentarsi del poco e di una vita semplice. Vuoi essere libero? Tu menti, Massimo 1, non lo vuoi: ma se lo vuoi davvero, ecco il sistema. Sarai libero, Massimo, se non ti va di pranzare fuori casa, se basta l uva di Veio 2 a placare la tua sete, se puoi ridertela del

vasellame cesellato d oro di quel povero Cinna, se puoi accontentarti di una toga come la mia, se ti procuri per due assi una volgare prostituta, se non puoi entrare in casa tua senza chinarti. Se hai questa forza, tanta padronanza di te, potrai vivere più libero del re dei Parti. 1. In un altro epigramma, Massimo è ad un tempo un patronus, al quale Marziale scrocca cene, ma a sua volta un cliens di patroni più ricchi. Il motivo si connette con l epigramma II 68 riportato sopra. 2. I vini dell'etruria erano considerati scadenti e, tra essi, il peggiore era quello di Veio. 1. Pranzare fuori casa : la smania di cenare fuori casa è tipica di chi non è liber, in quanto desidera essere continuamente invitato e poter scroccare cene. In un altra composizione (II 69), Marziale rivolgendosi ad un certo Classico, che va dicendo di cenare fuori casa malvolentieri, ma poi cede sempre agli inviti, lo esorta ad essere coerente con le proprie affermazioni (Se sei un uomo, di di no). Altrove Marziale rappresenta personaggi che si disperano per il fatto di dover cenare a casa (II 11) o altri disposti a tutto pur di racimolare un invito (II 14): in questo contesto, dunque, l'essere disposti a mangiare a casa propria diventa un segno di indipendenza morale e accettazione del proprio stato. Condividi questa posizione? 2. vasellame cesellato d oro : il termine greco usato da Marziale (chrysendeta) designa stoviglie e vasellame d'argento intarsiato o bordato d'oro e figura sempre in contesto di ricchezza e ostentazione di lusso. È un motivo filosofico frequente quello della svalutazione del vasellame lussuoso a favore delle semplici coppe di terracotta. Oggi diremmo che si tratta di uno status symbol. Quali moderni e attuali status symbol sai indicare? 3. di quel povero (miser) Cinna : l'aggettivo miser riferito a un ricco esprime il punto di vista filosofico in base al quale il ricco è, appunto, miser in quanto tormentato dal desiderio di possedere sempre di più o dal timore di perdere le proprie ricchezze. In numerosissimi passi, soprattutto del filosofo Seneca (che era stato patronus di Marziale), emerge che il vero povero è in realtà il ricco: infatti, non qui parum habet, sed qui plus cupit, pauper est (ep. 2, 6) è povero non chi ha poco, ma chi desidera di più di quello che ha". E proprio Seneca, in ep. 94, 7, definisce i ricchi miserrimi, esprimendo lo stesso paradosso qui ripreso da Marziale. La febbre del ricco Letino In questo epigramma (XII, 17) Marziale si rivolge al ricco Letino, che si lamenta della febbre che lo affligge e lo accompagna ovunque, e si domanda perchè la malattia non gli lasci tregua. Il poeta risponde che anche la febbre vuole condurre la bella vita di Letino e, dal momento che presso di lui può gustare cibi e vini raffinati e godere di ogni forma di lusso, si guarda bene dall'andare a tormentare un povero o uno schiavo. Una suggestione viene a Marziale dal proemio II del De rerum natura di Lucrezio (34-36): Se il malato smania su tessuti ricamati o sulla porpora rossa, le calde febbri non se ne

vanno via dal corpo prima che se dorme su una coperta modesta. La massima lucreziana "non perchè sei ricco guarisci prima dalla febbre" subisce in Marziale un'accentuazione paradossale: "proprio perché sei ricco non guarirai dalla febbre". Vuoi sapere, Letino, perché la febbre non ti lascia da tanti giorni e non fai che gemere. Con te va a passeggio, fa il bagno con te, cena a base di boleti, di ostriche, di tettina di scrofa, di cinghiale 1, s ubriaca spesso di Setino e spesso di Falerno e il Cecubo 2 lo bene soltanto filtrato attraverso uno strato di neve 3 ; si sdraia a mensa inghirlandata di rose e nera d amomo, e dorme fra le piume in un letto di porpora 4. Se riposa comodamente, se da te fa una così bella vita, come puoi pretendere che la tua febbre preferisca andare da Dama 5? 1. Boleti ostriche tettina di scrofa, di cinghiale Setino Falerno Cecubo: è un piccolo catalogo di ghiottonerie, di cibi lussuosi esemplari, quasi antonomastici. Boleti indicare qui una qualità pregiata di fungo mangereccio. Altro cibo di lusso sono le ostriche ostriche. 2. Setino Falerno Cecubo: il Setino è il vino di Sezze, preferito su tutti da Augusto, perchè non procurava indigestioni. Il Falerno è un altro vino eccellente (al secondo posto nella classifica stilata di Plinio), prodotto in Campania. Completa la triade il Cecubo di cui scrive Plinio (NH 14, 61) "In antico grandissima rinomanza aveva il vino del Cecubo, proveniente dal pioppeti palustri nel golfo di Amincle e ormai scomparso per l'incuria dei produttori e la ristrettezza del podere...". 3. filtrato attraverso uno strato di neve: si fa riferimento all uso di filtrare il vino attraverso la neve, motivo frequente di critica contro il lusso eccessivo, che arriva perfino a forzare la natura, che concede la neve nei soli mesi invernali. 4. si sdraia in un letto di porpora: il passo evoca il quadro di un fastoso banchetto, al quale la febbre, fedele compagna di Letino, partecipa adorna di ghirlande e profumi. 5. Dama: nome tipico di schiavo o mendicante. 1. Perché la febbre rimane accanto a Letino? 2. Ti pare che il ragionamento sotteso all epigramma, e cioè che "non perché sei ricco guarisci prima dalla febbre", sia auto-consolatorio, e comunque serva a consolare, in modo talora ipocrita e reazionario, i ceti disagiati, quasi a volerli persuadere che non c è ingiustizia e a dissuaderli da rivendicazioni di carattere sociale? Quali obbiezioni solleveresti contro questo ragionamento? 5.8 - L'entrata trionfale di Trimalcione Trimalchione è nel romanzo Satyricon di Petronio (I sec. a.c.) protagonista di una celeberrima caena, nella quale ha modo di ostentare ai numerosi convitati per lo più, liberti come lui la sua enorme ricchezza e le sue non minori volgarità e caffoneria da nuovo ricco. Nel passo che riportiamo (Sat. 32, 33), il liberto entra nella sala del banchetto

Eravamo in mezzo a queste delizie, quand ecco che Trimalcione in persona venne portato all interno con accompagnamento musicale, e venne deposto su cuscinetti imbottiti mignon, suscitando il riso in noi imprudenti. Solo la testa pelata, infatti, gli sbucava dal mantello scarlatto, ed attorno al collo infagottato dal vestito aveva infilato un tovagliolo dal largo orlo rosso con frange che pendevano di qua e di là. Portava anche al mignolo della mano sinistra un grande anello dorato, e all estremità della falange del dito successivo uno più piccolo per come mi sembrava tutto d oro, ma incrostato da stelle di ferro. E per non mettere in mostra solo queste ricchezze si scoprì il braccio destro, che era ornato da un bracciale d oro e da un cerchi d avorio unito ad una laminetta splendente. Appena ebbe finito di pulirsi i denti con uno stuzzicadenti d argento, esclamò: amici, non avevo ancora deciso di venire nel triclinio, ma per non farvi aspettare troppo con la mia assenza, mi sono negato ogni piacere. Mi permetterete tuttavia di finire questa partita. Lo seguiva uno schiavetto con una tavola di terebinto e tessere di cristallo, e notai il particolare in assoluto più raffinato: infatti al posto delle pedine bianche e nere utilizzava monete d oro e d argento. 1. Individua nelle descrizione tutte le espressioni che denotano grande ricchezza. 2. Individua nelle descrizione tutte le espressioni che denotano la goffaggine e caffoneria del parvenus. 3. Il personaggio che funge da narratore non è un liberto, ma uno studente raffinato e aristocratico, il quale descrive con ironia e distacco. Dove cogli i segni di questa ironia? Un uomo che si è fatto da sé Spesso chi si è arricchito partendo dalla povertà o addirittura, come in questo caso, dalla schiavitù, ama raccontare le proprie gesta di imprenditore di successo. Così fa anche il nostro liberto, che con comprensibile orgoglio racconta come ha fatto fortuna (Sat. 76). Nulla è mai sufficiente per nessuno. Mi venne voglia di mettermi nel commercio. Per non farvela troppo lunga, feci costruire cinque navi, le riempii di vino e allora si pagava a peso d oro e le spedii a Roma. Potresti pensare che l avessi ordinato io: tutte le navi naufragarono; ed è la realtà, non è una storia. In un solo giorno Nettuno si era divorato 30 milioni di sesterzi. Pensate che mi sia arreso? Per Ercole, questi fatti non mi toccarono nemmeno, come se non fosse successo nulla. Ne costruii delle altre, più grandi, più robuste e più belle, perché nessuno dicesse che io non sono un uomo coraggioso. Sai, una grande nave ha una grande robustezza. Le riempii di nuovo di vino, lardo, fave, profumi e schiavi. A questo punto Fortunata! fece un bel gesto: vendette infatti tutti i suoi ori ed i suoi vestiti e mise nelle mie mani 100 monete d oro. Questo fu lievito per il mio patrimonio. Si fa presto quello che gli dei vogliono. Con un solo viaggio mi tirai su 100 milioni di sesterzi. Subito mi sono ricomprato tutti i terreni che erano appartenuti al mio padrone. Mi costruisco una casa, compro mercati di schiavi e giumenti; tutto quello che toccavo cresceva come un favo di

miele. Quando presi a possedere io più di quanto tutta la mia patria messa insieme possiede, passai la mano: mi ritirai dal commercio ed iniziai a fare prestiti ai liberti. 1. Fortunata è la moglie di Trimalchione. Un liberto decaduto alla tavola di Trimalchione In un attività imprenditoriale, come quella normalmente condotta dai liberti, c è sempre il rischio che ad un ascesa rapida e travolgente corrisponda un declino rovinoso. È il caso di quest altro liberto presente alla cena, al quale l attività di impresario di pompe funebri non ha portato fortuna (Sat. 38). E non ti credere che compri qualcosa. Gli cresce tutto in casa: lana, cedri, pepe. E se gli chiedi latte di gallina, lui te lo trova. Per fartela breve, visto che la lana di sua produzione non era un granché, ha acquistato a Taranto dei montoni fuoriclasse e li ha messi a montare il gregge. Un'altra volta, per avere miele dell'attica in casa, ha ordinato che gli portassero le api dall'attica, in modo che le api nostrane migliorassero un po' stando insieme alle greche. Addirittura in questi giorni ha scritto in India che gli spediscano il seme dei funghi. Non ha una sola mula che non sia figlia di un onagro. Guarda quanti cuscini: ebbene, sono tutti imbottiti con porpora o scarlatto. Questa sì che è fortuna! Gli altri suoi compagni di schiavitù di un tempo, occhio a non prenderli sotto gamba. Si son fatti i soldi anche loro. Lo vedi quello, seduto fra i liberti? Come se l è passata bene! Non lo rimprovero. Si è visto il suo bel milioncino di sesterzi, ma è andato in rovina. Penso che nemmeno i capelli gli rimangano senza ipoteca. E non è per Ercole colpa sua; non c è infatti uomo migliore di lui: ma sono stati i liberti scellerati che si sono portati via tutto. E ricordati: la pentola degli amici bolle male, e quando gli affari vanno male, gli amici si tolgono di torno. E che mestiere onesto esercitò, così come lo vedi: era impresario di pompe funebri. Era dunque solito cenare come un re: cinghiali ricoperti di pelo, capolavori di pasticceria, uccelli, cuochi, fornai. Si versava più vino sotto la sua mensa di quanto qualcuno ne abbia in cantina. Era una fantasmagoria, non un uomo. Quando anche gli affari presero una brutta piega, perché aveva paura che i creditori pensassero che fosse nei guai, pubblicò un avviso d asta con queste parole: C. Giulio Proculo mette all asta il superfluo dei suoi beni. Riassumi in cinque righe l ascesa e il fallimento dell attività imprenditoriale del liberto. Ieri e oggi Commenta gli ultimi due passi del Satyricon, nei quali è descritta la voglia di emergere dei ceti inferiori alla luce della poesia del poeta eritreo Reesom Haile, We have our voice, p. 99 della guida didattica.

5.9 - La schiavitù Come si diviene schiavi. Lo schiavo è una cosa, una res vivente, uno "strumento o animale parlante", come dice Varrone. A Roma, la condizione di schiavo è un caso del più generale stato di dipendenza che il cittadino romano riservava allo straniero, l'uomo alla donna, il padre al figlio. Si diventava schiavi per due motivi: - in seguito a una sconfitta militare: i prigionieri di guerra, divenuti proprietà dello Stato, erano venduti al miglior offerente; - per indebitamento: chi non poteva pagare i propri debiti diventava proprietà del creditore, e veniva venduto al mercato come fosse una cosa. Si poteva diventare schiavi anche in seguito a un naufragio o a una pena che comportasse la perdita della libertà personale (assassinio, renitenza alla leva, ecc.), ma anche per reati minimi, se non si poteva pagare la multa. Nessuna filosofia egualitaria dell'antichità riuscì mai a scalfire questa diffusa cultura dello sfruttamento del lavoro altrui. La compravendita. Gli schiavi venivano venduti nei mercati o nel Foro, sotto la sorveglianza di appositi magistrati, a tutela dei rilevanti profitti statali. Stavano su un palco girevole, con al collo un cartello che indicava la nazionalità, le attitudini, le qualità, i difetti. Quelli provenienti d'oltremare erano riconoscibili per un piede tinto di bianco e i soldati vinti per una coroncina in testa. Schiavi scelti e costosi venivano mostrati in sale chiuse, come nelle trattative riservate degli immobili di pregio. I prezzi variavano a seconda dell'età e delle qualità (intelligenza, cultura, forza fisica ma anche bellezza, buona dentatura, capacità di suonare o cantare, parlare greco) e si aggiravano sui 1.200-2.500 sesterzi (a fine repubblica un sesterzio equivaleva a circa 2 euro: ma questi calcoli sono ovviamente solo indicativi). Molti ricchi romani possedevano da 10.000 a 20.000 schiavi.

Le mansioni. Una volta fatto schiavo, i luoghi prevalenti di destinazione dove esercitare il mestiere erano in aree abbastanza separate: campagna, città, mare (i rematori nelle navi da guerra o di commercio), cave e miniere (soprattutto per l'estrazione dei metalli pregiati). La schiavitù rurale era quella che comprendeva i braccianti, i contadini, gli allevatori. Questi schiavi godevano di condizioni di vita infime. Il loro lavoro era molto faticoso e poco qualificato. Il trasferimento dalla famiglia urbana a quella rustica veniva considerato come una punizione. A capo degli schiavi di campagna era il fattore, assistito dalla moglie. In città invece venivano impiegati per attività artigianali: vasai, decoratori, carpentieri, muratori, lavoratori del cuoio, o industriali (fabbricare tessuti). Questi schiavi godevano di condizioni di vita migliori e il loro lavoro era più qualificato. Ma vi erano anche quelli dediti alla costruzione di strade e alle opere pubbliche, o quelli che dovevano far girare in catene la ruota del mulino, che sicuramente svolgevano lavori molto più duri. Le categorie privilegiate di schiavi erano quelle destinate al servizio domestico (cuochi, camerieri, gli addetti alla toeletta dei padroni, alla cura e all'educazione dei loro figli, alla pulizia della casa e della suppellettile, degli indumenti, gli amanuensi e postini), nonché quelle che aiutavano il padrone nelle attività commerciali (tesoriere, contabile, addetto alla tenuta dei libri), oppure gli schiavi intellettuali, quali pedagoghi, medici e chirurghi, bibliotecari, senza tralasciare gli addetti a scuderie e cavalli. In genere gli schiavi provenienti dall'oriente ellenistico erano adibiti a funzioni domestiche (anche come maestri dei figli dell'aristocrazia) o artigianali cittadine, perché meno robusti e più acculturati dei loro colleghi italici, germanici, iberici. I diritti. Lo schiavo, per definizione, non aveva alcun diritto, ma solo responsabilità penali. Non poteva possedere cose personali, cioè se poteva comprare qualcosa non poteva però disporre come fosse di sua proprietà. Se aveva moglie e figli, il suo padrone poteva venderli senza nessun problema. Lo schiavo restava tale anche se per un evento qualunque cessava di avere un padrone. Lo schiavo, di regola, non poteva sposarsi (Catone il Vecchio fu l'unico a permettere, tra i suoi servi, rapporti sessuali a pagamento intascandone il prezzo), non poteva essere difeso dalla legge o ascoltato in un tribunale. Tuttavia, nel corso dell'impero i padroni di schiavi tendevano a permettere a quest'ultimi la possibilità di una stabile vita di coppia. E' altresì noto che i padroni avevano maggiori riguardi per gli schiavi nati in casa. Gli schiavi che ritenevano ingiusto il padrone potevano rifugiarsi in Campidoglio ed esporre le proprie ragioni, ma non si ha notizia di padroni puniti. Gli veniva concesso asilo se si rifugiava presso un tempio, ma al massimo poteva passare di proprietà da un padrone a un altro. Se un cittadino uccideva uno schiavo altrui, non incorreva in una sanzione penale ma solo amministrativa, cioè pagava una sanzione monetaria corrispondente al valore dello schiavo. La legge Giulia aveva altresì stabilito che non poteva esservi adulterio o stupro se non tra persone libere. Molti giovani schiavi venivano usati a scopi sessuali. Però la lex Petronia proibiva al padrone di dare lo schiavo in pasto alle belve senza una sentenza del giudice. Il diritto romano non riconosceva allo schiavo un culto religioso proprio, ma

gli si consentiva di esercitare alcuni riti secondo i costumi originari. Gli schiavi di città erano sicuramente più liberi di quelli di campagna: potevano frequentare le osterie, i bagni pubblici, il circo. A volte capitava che per esigenze particolari (guerre, ordine pubblico) si accettassero arruolamenti negli eserciti da parte di schiavi e barbari: in tal caso lo schiavo otteneva subito la libertà e il diritto a sposare le vedove dei caduti di guerra. Solo dopo Adriano lo schiavo, coi suoi piccoli risparmi, con le mance, ha diritto di farsi un gruzzolo di denaro con cui affrancarsi, ma soltanto nella tarda età imperiale la legge ordinerà ai padroni di concedere l'affrancamento, dopo aver soddisfatto i loro diritti di proprietario. Gli schiavi, veri e propri "strumenti di produzione", quando la vecchiaia, gli stenti, le malattie li rendevano improduttivi, dato che difficilmente il padrone trovava un compratore, venivano abbandonati a se stessi e lasciati lentamente morire. A meno che non fossero in grado di riscattarsi diventando liberti. Claudio ordinò l'emancipazione degli schiavi malati abbandonati dal padrone. Evoluzione Nei primi secoli di vita della città romana gli schiavi erano inseriti nel sistema patriarcale, nel senso che il lavoro nei campi era svolto dallo stesso pater familias, aiutato sia dai figli che dagli schiavi. Gli schiavi erano considerati persone di famiglia, anche se ovviamente senza alcun diritto. All'inizio del II sec. a.c. raramente le famiglie romane possedevano più di uno schiavo, ma verso la fine dello stesso secolo, soprattutto dopo la fine delle guerre puniche, il numero della popolazione servile era talmente aumentato da alterare i rapporti tra schiavo e padrone. Il mercato degli schiavi era ormai divenuto una delle attività commerciali più produttive del Mediterraneo (questo perché i ricchi proprietari terrieri avevano continuamente bisogno di una crescente manodopera). Il più grande mercato venne organizzato nell isola di Delo, dove nei tempi più proficui si potevano vendere, mediamente, 10.000 schiavi al giorno. L estendersi dell economia schiavistica ebbe conseguenze negative per la popolazione italica, non solo perché frenava lo sviluppo tecnologico, ma anche perché tendeva ad aumentare la disoccupazione. Al tempo dell'imperatore Domiziano poteva sembrare più accettabile la posizione di uno schiavo al servizio di un ricco che non quella di un cittadino libero privo di proprietà. Nel II sec. d.c. famiglie con uno schiavo solo non esistevano più: o non ne compravano affatto perché costava troppo mantenerli, oppure ne possedevano molti di più. Due era il numero minimo, ma la media era di otto. Il livello di benessere, il prestigio pubblico, l'onorabilità, la quantità e la qualità dei servizi privati, in casa e fuori, erano in proporzione alla quantità e qualità di schiavi posseduti. Il prestigio di un avvocato, p.es., era determinato, presso il suo cliente, dalla scorta di schiavi con cui si presentava in tribunale. Plinio il Giovane (età di Traiano), che si dichiarava uomo di modesta ricchezza, ne possedeva almeno 500, e di questi volle affrancarne almeno 100 nel suo testamento. Il massimo dei riscatti consentiti dalla legge Fufia Canina, dell'8 a.c., era di 1/5 del totale degli schiavi posseduti. Nell'età imperiale Adriano tolse al padrone dello schiavo il diritto di vita e di morte, e Antonino Pio e Costantino considerarono omicidio l'assassinio del servo e punirono chi uccideva un figlio con le stesse pene di chi uccideva il padre. Con altre disposizioni si permise allo schiavo di mettere da parte, coi

suoi risparmi, una somma che gli servisse per qualche spesa voluttuaria o gli permettesse di riscattarsi, quando non era lo stesso padrone, spontaneamente, a liberarlo. Nel periodo della crisi dell'impero (192-476 d.c.), con l'anarchia militare e i saccheggi, c'è riduzione di nuove popolazioni in schiavitù, ma nel complesso il numero degli schiavi tende a diminuire, non solo perché ha termine l'espansione dell'impero, ma anche perché si cerca di trasformare la schiavitù in colonato o in servaggio, sulla base di un contratto. Forme di riscatto. L'emancipazione dalla condizione schiavile era solita avvenire in tre forme previste dal diritto civile: - manumissio per vindictam: davanti a un magistrato, il padrone metteva una mano sulla testa dello schiavo (manumissus), pronunciando una determinata formula giuridica, dopodiché un littore del magistrato toccava lo schiavo su una spalla con una verghetta (vindicta), simbolo di potere, e lo dichiarava libero; - manumissio censu: il padrone, dopo cinque anni, faceva iscrivere lo schiavo come cittadino romano nelle liste dei cittadini, dietro consenso popolare o per suo diretto intervento, e lo schiavo era automaticamente libero. L'iscrizione veniva fatta dal censor, cioè dal funzionario addetto ai ruoli delle imposte e alla registrazione del censo; - manumissio testamento: il padrone nel suo testamento dichiarava libero uno o più schiavi; l'esecuzione testamentaria poteva aver luogo anche prima che il padrone morisse e comportava la successiva iscrizione nelle liste del censo. - Col tempo s'imposero forme più semplici: - manumissio inter amicos: il padrone dichiarava in presenza degli amici di voler dare la libertà allo schiavo; - manumissio per mensam: il padrone invitava lo schiavo a mangiare insieme agli ospiti; con la manumissio per convivii adhibitionem il padrone lo liberava semplicemente considerandolo un proprio commensale; - manumissio per epistulam: il padrone comunicava per lettera allo schiavo l'intenzione di liberarlo. La situazione degli schiavi così liberati venne regolata dalla legge Iunia Norbana del 19 a.c., in base alla quale essi potevano disporre di beni propri, anche se non potevano lasciarli in testamento; sicché i loro beni tornavano all'antico padrone. Tale limitazione verrà tolta dall'imperatore Giustiniano. Dopo la manumissio il padrone (dominus) diventava patronus, cioè protettore del liberto. Il nuovo vincolo comportava l'obbligo reciproco degli alimenti, l'obbligo di prestazioni gratuite di manodopera da parte del liberto e altre cose che in sostanza si presentavano come anticamera dei medievali rapporti di servaggio. Lo Stato comunque temeva un'eccessiva liberazione di schiavi, perché sapeva bene ch'essi avrebbero ingrossato la massa della plebe, il cui mantenimento gravava sulla pubblica annona. Di qui la limitazione al 5% del totale posseduto, nonché il divieto di liberare schiavi sotto i 18 anni o il divieto di riscattarsi prima dei 30. D'altra parte gli stessi imperatori impedirono più volte, con la cancellazione dei debiti, che masse di debitori cadessero in schiavitù per insolvenza. I liberti. Uno schiavo affrancato era detto "liberto" e l'età adatta a riscattarsi si aggirava sui 30 anni. Poteva infatti accadere che quando i cittadini liberi erano

impegnati nelle guerre di conquista, gli schiavi dovessero svolgere in patria delle mansioni di una certa responsabilità (gestione di un'azienda, di un'attività economica, di un'abitazione padronale). In tali casi il padrone poteva concedere spontaneamente la condizione di "liberto", oppure lo schiavo poteva riscattarsi pagando un certo prezzo e continuando a lavorare presso il padrone sulla base di un contratto. D'altra parte i senatori, non potendo fare commerci in senso proprio, avevano necessità di servirsi di liberti, che spesso praticavano l'usura e persino il commercio di schiavi. Il liberto poteva anche svolgere un'attività economica indipendente, ma il padrone esigeva sempre delle corvées sui suoi terreni o nella sua abitazione, oppure pretendeva dei doni in occasione di festività. Generalmente i liberti continuavano ad abitare presso la casa padronale. I liberti venivano ammessi alla distribuzione gratuita di frumento, alimenti vari, denaro. I liberti non avevano gli stessi diritti dei cittadini liberi (erano esclusi dai diritti politici), ma avevano il diritto di cittadinanza. Tuttavia i loro discendenti, alla terza generazione, diventavano cittadini romani con la pienezza di tutti i diritti. Qui si può ricordare che i cittadini romani non solo potevano esercitare i diritti politici, ma potevano essere condannati a morte solo da un assemblea cittadina e non da un qualunque magistrato, come accadeva a chi non era romano. Inoltre non potevano essere sottoposti a tortura fisica e fustigazione. I funzionari e gli amministratori imperiali dovevano essere romani: per gli appartenenti alle classi più elevate dei territori conquistati, la cittadinanza era la sola via per far parte dei gruppi dirigenti. Gli stessi imperatori, diffidando delle classi al potere, già corruttrici della repubblica, diedero loro incarichi di fiducia (spesso connessi al fisco). Il che poteva aiutare gli imperatori a dimostrare il carattere democratico delle istituzioni. I liberti di Claudio. L'ufficio politico dell'imperatore Claudio era composto esclusivamente di schiavi di fiducia, che, dopo la sua morte, furono sostituiti da liberti, molti dei quali si erano arricchiti notevolmente sin dal tempo delle guerre civili sillane. Quando, nel 40 d.c., l imperatore Claudio propose di dare ad alcuni galli la possibilità di diventare magistrati e senatori, vi fu in Senato chi sostenne che Roma non aveva bisogno degli stranieri per ricoprire posti di governo. Tuttavia, la tesi che prevalse, riportata da Tacito, fu la seguente: "A qualche altra causa si deve la rovina degli spartani e degli ateniesi, nonostante il loro valore bellico, se non alla loro ostinazione a tenere in disparte gli stranieri? Al contrario, Romolo, che fondò il nostro impero, fu abbastanza saggio da saper trattare nello stesso giorno gli stessi popoli da nemici e da cittadini. Degli stranieri hanno regnato su di noi, i figli di liberti possono diventare magistrati, e questa non è una novità, come si ha il torto di credere: l antica Roma ne ha dato molti esempi". Augusto arrivò ad autorizzare i matrimoni tra liberi e liberti. Tiberio diede la cittadinanza ai liberti pompieri antincendio a condizione che si arruolassero nell'esercito. Claudio la concesse ai liberti che coi loro risparmi avessero armato le navi commerciali. Nerone a quelli che avessero impiegato capitali nell'edilizia e Traiano a quelli che avessero aperto dei forni. Si conoscono rinomati liberti: Antonia Filematio, al servizio degli Antoni nel

13 a.c., capace di fare affari in Egitto; G. Cecilio Isidoro che nell'8 a.c. possedeva enormi latifondi e 4116 schiavi; Roscio, commediante, che ricevette da Silla l'alta onorificenza dell'anello d'oro; Narciso e Pallante furono arbitri di molte carriere militari e politiche. Le punizioni. Posto che la "bontà" verso gli schiavi doveva essere considerata un sentimento eccezionale, le pene o punizioni erano molte e all'ordine del giorno, da quella più semplice del trasferimento in una famiglia rustica a quella del lavoro forzato in miniera, alle cave, alla macine, al circo, sino alla crocifissione. Di regola bastava la fustigazione (sferza, scudiscio e il terribile flagello, frusta a nodi), ma a volte si procedeva alla rasatura della testa, fino alla tortura vera e propria: l'ustione mediante lamine di metallo incandescenti, la frattura violenta degli stinchi, la mutilazione, l'eculeo (strumento in legno che stirava il corpo sino a spezzarne le giunture). Agli schiavi fuggitivi, calunniatori o ladri si scrivevano in fronte, col marchio infuocato, rispettivamente le lettere FUG (fugitivus), KAL (kalumniator) o FUR (fur = ladro). Tuttavia chi riusciva a sottrarsi alla cattura cessava di essere schiavo, per una consuetudine passata nel diritto. Per gli schiavi ribelli, terroristi, sediziosi vi era la crocifissione, cioè l'inchiodamento a una trave per una lenta agonia, previa flagellazione. Ma molti di questi schiavi finivano anche in pasto alle belve feroci del circo o bruciati vivi. I gladiatori. Moltissimi schiavi, per punizione, finivano per fare i gladiatori. La gladiatura fu introdotta nel 264 a.c. e ufficializzata nel 105 a.c.: in essa si realizzava il concetto di virile coraggio. Il primo edificio utilizzato appositamente per questi duelli fu del 53 a.c. Il più famoso è il Colosseo, che aveva 45.000 posti a sedere e 5.000 in piedi. I gladiatori venivano reclutati, di solito, tra i prigionieri di guerra, i disertori e gli incendiari, ma anche tra i cittadini liberi condannati a morte. Era comunque facile passare dall'esercito alla gladiatura, ma in questo caso lo si faceva per guadagnare dei soldi. Contrariamente a quanto si crede, i combattimenti all'ultimo sangue furono molto pochi. Augusto non ne voleva più di due all'anno; Tiberio e Claudio non ne organizzarono neanche uno; Nerone squalificò per 10 anni l'anfiteatro di Pompei. Solo nel IV sec. d.c. i giorni dedicati a queste lotte erano saliti a dieci l'anno. Le rivolte. La prima significativa rivolta armata di schiavi si ebbe in Sicilia nel 137 a.c. Erano stati importati dalla Siria, dalla Grecia, dalla Cilicia, e mandati a lavorare nei campi e nelle miniere. I primi a insorgere furono gli schiavi di Damofilo, sotto la guida di Euno, di origine siriaca. S'impadronirono della città di Enna. Contemporaneamente insorsero anche gli schiavi di Agrigento che sotto la guida dello schiavo Cleone andarono a ingrossare le schiere di Euno. In tutto i rivoltosi arrivarono a 200.000. Elessero re Euno il cui regno rimase in carica dal 137 al 132 a.c., poi distrutto dal console romano Rupilio, con la conquista, dopo lungo assedio, delle città di Tauromenio e di Enna. Euno fu ucciso con torture in carcere. Circa 20.000 schiavi furono giustiziati. Poterono resistere ben cinque anni perché rispettavano i contadini, infierendo solo contro i latifondisti. Negli stessi anni un'altra grande rivolta di schiavi fu capeggiata in Asia

Minore da Aristonico, nella città di Pergamo. Ai romani occorsero ben tre anni prima di avere la meglio. Altre insurrezioni, tutte ferocemente represse, si ebbero in Italia, nelle città di Sinuessa e di Minturno (qui furono crocifissi 450 schiavi); in Grecia nelle miniere dell'attica e della Macedonia e nell'isola di Delo, il più grande emporio di schiavi dell'area mediterranea. In Sicilia si ebbe una seconda rivolta nel 104 a.c., nei pressi di Eraclea, con la sollevazione di 80 schiavi, che si fortificarono su una montagna, dove vennero raggiunti da altri schiavi, fino a formare un esercito di 20.000 fanti e 2.000 cavalieri. Elessero re lo schiavo Salvio, che prese il nome di Trifone. A questi schiavi se ne unirono altri 10.000 raccolti da Atenione nella città di Lilibeo. Insieme fortificarono la città di Triocala. Riuscirono a resistere alle legioni dei pretori Lucullo e Servilio, ma non a quelle del console Aquilio che nel 101 ebbe la meglio. La più grande rivolta di schiavi fu quella di Spartaco, che partì nel 73 a.c. dalla scuola di gladiatori di Capua. Gli insorti si divisero: una parte arrivò, dopo avere sconfitto tre eserciti romani, nella valle Padana; un altra parte agì nell Italia Meridionale. Nel 71 a.c. un esercito guidato da Crasso sconfisse Spartaco che morì sul campo. Gli ultimi movimenti di rilievo dei ceti servili, furono quello detto dei Bagaudi, in Gallia, verso la fine del regno di Gallieno e di Postumo. Agli insorti si unirono i piccoli artigiani di Augustodunum (Autun) e gli schiavi impiegati nelle fabbriche di armi della stessa città. Poi quello degli Isauri in Asia Minore, e dei Mauri in Africa. Ormai siamo alle soglie di un'epoca in cui la schiavitù antica si dissolve e la rivolta servile diventa una vera rivolta contadina. - in seguito a una sconfitta militare: i prigionieri di guerra, divenuti proprietà dello Stato, erano venduti al miglior offerente; - per indebitamento: chi non poteva pagare i propri debiti diventava proprietà del creditore, e veniva venduto al mercato come fosse una cosa. Si poteva diventare schiavi anche in seguito a un naufragio o a una pena che comportasse la perdita della libertà personale (assassinio, renitenza alla leva, ecc.), ma anche per reati minimi, se non si poteva pagare la multa. Nessuna filosofia egualitaria dell'antichità riuscì mai a scalfire questa diffusa cultura dello sfruttamento del lavoro altrui. La compravendita. Gli schiavi venivano venduti nei mercati o nel Foro, sotto la sorveglianza di appositi magistrati, a tutela dei rilevanti profitti statali. Stavano su un palco girevole, con al collo un cartello che indicava la nazionalità, le attitudini, le qualità, i difetti. Quelli provenienti d'oltremare erano riconoscibili per un piede tinto di bianco e i soldati vinti per una coroncina in testa. Schiavi scelti e costosi venivano mostrati in sale chiuse, come nelle trattative riservate degli immobili di pregio. I prezzi variavano a seconda dell'età e delle qualità (intelligenza, cultura, forza fisica ma anche bellezza, buona dentatura, capacità di suonare o cantare, parlare greco) e si aggiravano sui 1.200-2.500 sesterzi (a fine repubblica un sesterzio equivaleva a circa 2 euro: ma questi calcoli sono ovviamente solo indicativi). Molti ricchi romani possedevano da 10.000 a 20.000 schiavi. Le mansioni. Una volta fatto schiavo, i luoghi prevalenti di destinazione dove esercitare il mestiere erano in aree abbastanza separate: campagna, città, mare (i rematori nelle navi da guerra o di commercio), cave e miniere (soprattutto

per l'estrazione dei metalli pregiati). La schiavitù rurale era quella che comprendeva i braccianti, i contadini, gli allevatori. Questi schiavi godevano di condizioni di vita infime. Il loro lavoro era molto faticoso e poco qualificato. Il trasferimento dalla famiglia urbana a quella rustica veniva considerato come una punizione. A capo degli schiavi di campagna era il fattore, assistito dalla moglie. In città invece venivano impiegati per attività artigianali: vasai, decoratori, carpentieri, muratori, lavoratori del cuoio, o industriali (fabbricare tessuti). Questi schiavi godevano di condizioni di vita migliori e il loro lavoro era più qualificato. Ma vi erano anche quelli dediti alla costruzione di strade e alle opere pubbliche, o quelli che dovevano far girare in catene la ruota del mulino, che sicuramente svolgevano lavori molto più duri. Le categorie privilegiate di schiavi erano quelle destinate al servizio domestico (cuochi, camerieri, gli addetti alla toeletta dei padroni, alla cura e all'educazione dei loro figli, alla pulizia della casa e della suppellettile, degli indumenti, gli amanuensi e postini), nonché quelle che aiutavano il padrone nelle attività commerciali (tesoriere, contabile, addetto alla tenuta dei libri), oppure gli schiavi intellettuali, quali pedagoghi, medici e chirurghi, bibliotecari, senza tralasciare gli addetti a scuderie e cavalli. In genere gli schiavi provenienti dall'oriente ellenistico erano adibiti a funzioni domestiche (anche come maestri dei figli dell'aristocrazia) o artigianali cittadine, perché meno robusti e più acculturati dei loro colleghi italici, germanici, iberici. I diritti. Lo schiavo, per definizione, non aveva alcun diritto, ma solo responsabilità penali. Non poteva possedere cose personali, cioè se poteva comprare qualcosa non poteva però disporre come fosse di sua proprietà. Se aveva moglie e figli, il suo padrone poteva venderli senza nessun problema. Lo schiavo restava tale anche se per un evento qualunque cessava di avere un padrone. Lo schiavo, di regola, non poteva sposarsi (Catone il Vecchio fu l'unico a permettere, tra i suoi servi, rapporti sessuali a pagamento intascandone il prezzo), non poteva essere difeso dalla legge o ascoltato in un tribunale. Tuttavia, nel corso dell'impero i padroni di schiavi tendevano a permettere a quest'ultimi la possibilità di una stabile vita di coppia. E' altresì noto che i padroni avevano maggiori riguardi per gli schiavi nati in casa. Gli schiavi che ritenevano ingiusto il padrone potevano rifugiarsi in Campidoglio ed esporre le proprie ragioni, ma non si ha notizia di padroni puniti. Gli veniva concesso asilo se si rifugiava presso un tempio, ma al massimo poteva passare di proprietà da un padrone a un altro. Se un cittadino uccideva uno schiavo altrui, non incorreva in una sanzione penale ma solo amministrativa, cioè pagava una sanzione monetaria corrispondente al valore dello schiavo. La legge Giulia aveva altresì stabilito che non poteva esservi adulterio o stupro se non tra persone libere. Molti giovani schiavi venivano usati a scopi sessuali. Però la lex Petronia proibiva al padrone di dare lo schiavo in pasto alle belve senza una sentenza del giudice. Il diritto romano non riconosceva allo schiavo un culto religioso proprio, ma gli si consentiva di esercitare alcuni riti secondo i costumi originari. Gli schiavi di città erano sicuramente più liberi di quelli di campagna: potevano frequentare le osterie, i bagni pubblici, il circo.

A volte capitava che per esigenze particolari (guerre, ordine pubblico) si accettassero arruolamenti negli eserciti da parte di schiavi e barbari: in tal caso lo schiavo otteneva subito la libertà e il diritto a sposare le vedove dei caduti di guerra. Solo dopo Adriano lo schiavo, coi suoi piccoli risparmi, con le mance, ha diritto di farsi un gruzzolo di denaro con cui affrancarsi, ma soltanto nella tarda età imperiale la legge ordinerà ai padroni di concedere l'affrancamento, dopo aver soddisfatto i loro diritti di proprietario. Gli schiavi, veri e propri "strumenti di produzione", quando la vecchiaia, gli stenti, le malattie li rendevano improduttivi, dato che difficilmente il padrone trovava un compratore, venivano abbandonati a se stessi e lasciati lentamente morire. A meno che non fossero in grado di riscattarsi diventando liberti. Claudio ordinò l'emancipazione degli schiavi malati abbandonati dal padrone. Evoluzione Nei primi secoli di vita della città romana gli schiavi erano inseriti nel sistema patriarcale, nel senso che il lavoro nei campi era svolto dallo stesso pater familias, aiutato sia dai figli che dagli schiavi. Gli schiavi erano considerati persone di famiglia, anche se ovviamente senza alcun diritto. All'inizio del II sec. a.c. raramente le famiglie romane possedevano più di uno schiavo, ma verso la fine dello stesso secolo, soprattutto dopo la fine delle guerre puniche, il numero della popolazione servile era talmente aumentato da alterare i rapporti tra schiavo e padrone. Il mercato degli schiavi era ormai divenuto una delle attività commerciali più produttive del Mediterraneo (questo perché i ricchi proprietari terrieri avevano continuamente bisogno di una crescente manodopera). Il più grande mercato venne organizzato nell isola di Delo, dove nei tempi più proficui si potevano vendere, mediamente, 10.000 schiavi al giorno. L estendersi dell economia schiavistica ebbe conseguenze negative per la popolazione italica, non solo perché frenava lo sviluppo tecnologico, ma anche perché tendeva ad aumentare la disoccupazione. Al tempo dell'imperatore Domiziano poteva sembrare più accettabile la posizione di uno schiavo al servizio di un ricco che non quella di un cittadino libero privo di proprietà. Nel II sec. d.c. famiglie con uno schiavo solo non esistevano più: o non ne compravano affatto perché costava troppo mantenerli, oppure ne possedevano molti di più. Due era il numero minimo, ma la media era di otto. Il livello di benessere, il prestigio pubblico, l'onorabilità, la quantità e la qualità dei servizi privati, in casa e fuori, erano in proporzione alla quantità e qualità di schiavi posseduti. Il prestigio di un avvocato, p.es., era determinato, presso il suo cliente, dalla scorta di schiavi con cui si presentava in tribunale. Plinio il Giovane (età di Traiano), che si dichiarava uomo di modesta ricchezza, ne possedeva almeno 500, e di questi volle affrancarne almeno 100 nel suo testamento. Il massimo dei riscatti consentiti dalla legge Fufia Canina, dell'8 a.c., era di 1/5 del totale degli schiavi posseduti. Nell'età imperiale Adriano tolse al padrone dello schiavo il diritto di vita e di morte, e Antonino Pio e Costantino considerarono omicidio l'assassinio del servo e punirono chi uccideva un figlio con le stesse pene di chi uccideva il padre. Con altre disposizioni si permise allo schiavo di mettere da parte, coi suoi risparmi, una somma che gli servisse per qualche spesa voluttuaria o gli permettesse di riscattarsi, quando non era lo stesso padrone, spontaneamente, a liberarlo.