Un patto energetico per l Italia



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Transcript:

Franco Bernabé, Fulvio Conti, Enrico Letta, Paolo Scaroni, Bruno Tabacci Un patto energetico per l Italia Tre grandi manager e due politici italiani discutono di sicurezza energetica dell Italia, propongono un patto sull energia per la nuova legislatura, rivedono criticamente le scelte compiute negli anni passati dalla politica e dalle imprese, trattano il problema del ritorno al nucleare. Sullo sfondo di due grandi sfide: una sfida esterna, costituita dall influenza crescente dei grandi produttori, anzitutto della Russia di Putin; e una sfida interna, ossia le difficoltà di superare le resistenze locali. FRANCO BERNABÉ Non credo che si possa veramente parlare, nonostante la crisi degli ultimi due mesi, di un problema strutturale di sicurezza energetica per l Italia. È vero che abbiamo una forte dipendenza dal gas; ma è altrettanto vero che l Italia, rispetto a tutti gli altri paesi europei, ha una struttura di approvvigionamenti che le dà flessibilità, soprattutto nel lungo periodo. Il gas non arriva solo dalla Russia; arriva anche da Sud, dall Algeria e dalla Libia. Nel medio periodo arriverà anche dalla Turchia, che avrà una sovrabbondanza di gas nei prossimi anni; e arriverà probabilmente dall Iran. Abbiamo infine rifornimenti dal Nord, dalla Norvegia e dall Olanda. Paradossalmente, non sarà l Italia ad avere problemi di rifornimenti di gas, mentre potrebbe averli il Nord Europa: negli ultimi mesi, del resto, abbiamo visto problemi di rifornimenti in Gran Bretagna, mentre l Italia, fino alla fine del 2005, ha prodotto energia elettrica con gas di importazione per l esportazione verso l Europa centrale. In sintesi: siamo in una situazione di sicurezza, tanto più che si aggiungerà il gas naturale liquido, quando avremo finalmente costruito nuovi terminali. E se riusciremo a costruire dei rigassificatori, superando le molte resistenze locali che esistono, l Italia sarà a quel punto una sorta di grande hub delle forniture di gas. Le cose stanno in modo diverso per quel che riguarda il petrolio; ma è un problema che riguarda tutti i consumatori. Teniamo conto dell aumento dei consumi: in passa-

to i consumi di petrolio aumentavano di circa 600 mila barili al giorno, nel 2003 sono cresciuti al ritmo di 1,6 milioni di barili al giorno; nel 2004, la crescita è stata di 3 milioni di barili al giorno. È un aumento senza precedenti in tutta la storia dell industria petrolifera. Forse non abbiamo un problema di disponibilità ma certamente abbiamo un problema di sicurezza perché gli unici paesi che hanno un forte potenziale di aumento dell offerta petrolifera sono l Iran e l Iraq, che potrebbero forse arrivare a produrre 6-7 milioni di barili al giorno. L incognita riguarda la Russia, che nella prima metà degli anni Novanta ha subito il crollo della propria produzione, dopo che l aveva aumentata in modo dissennato negli anni Settanta e Ottanta. La produzione sovietica era intorno ai 10 milioni di barili al giorno (b/g); a metà degli anni Novanta è crollata fino ad arrivare attorno ai 5-6 milioni b/g, per poi risalire negli anni successivi. È molto improbabile, in assenza di nuovi investimenti nella Siberia orientale, che i russi riescano ad aumentare la produttività degli attuali giacimenti. L offerta di petrolio russo, in altri termini, potrebbe declinare per un periodo abbastanza lungo, mentre le risorse petrolifere in Occidente (Stati Uniti e Mare del Nord) sono ormai in declino strutturale. In conclusione: per il petrolio esiste un vero problema, che invece non esiste per il gas. E se guardiamo alla sicurezza energetica da questo punto di vista, l Italia è messa meglio di molti altri paesi. 37 PAOLO SCARONI È tutto vero; ma parlando di gas è importante avere in mente una prospettiva temporale. Abbiamo un orizzonte immediato, con una crisi abbastanza complicata e che richiede risposte contingenti, ma di cui in fondo è anche poco utile discutere. C è poi l orizzonte dei prossimi 10 anni e in questo arco di tempo l Italia andrà a gas. Su questo non ci sono dubbi. È una scelta, quella del gas, che è stata fatta: inutile domandarsi ora se sia stata giusta o sbagliata. È comunque non correggibile nell arco dei prossimi anni. Il riscaldamento delle case italiane è a gas; l energia elettrica è largamente prodotta a gas. L Italia è l unico paese europeo a usare in modo così intensivo, forse dissennato, una fonte così preziosa per produrre energia elettrica di base. Ma è appunto una scelta ormai compiuta: l unico tema, che dobbiamo affrontare nei prossimi 10 anni è come garantirci il gas nelle quantità che ci servono, ai prezzi più bassi possibili e con quella sicurezza della fornitura che ci è essenziale. È vero che non dipendiamo solo dalla Russia; abbiamo anche una pipeline dall Algeria, una dalla Libia, e un gasdotto dal nord Europa. Ma Russia e Algeria, messe insieme, coprono già più del 50% del nostro fabbisogno e la loro quota salirà al 65% nel 2010. In sostanza dipenderemo da due soli fornitori. E c è poi un

38 trend di fondo: gli equilibri si sono spostati a favore dei produttori. Fino a qualche tempo fa si diceva che produttori e consumatori avevano lo stesso potere negoziale. Non sono più certo che sia così. Per due ragioni: perché i produttori hanno ormai maggiore elasticità, sono diventati più ricchi grazie ai prezzi alti e quindi nel breve non hanno bisogno di vendere gas per sopravvivere; e poi perché si sono aperti nuovi mercati, a cominciare dalla Cina e dall India. In altri termini: i produttori non hanno più la stessa necessità di prima di vendere proprio a noi. E questo ha delle implicazioni per l Italia. È vero, abbiamo un grado notevole di diversificazione ma resta che la maggior parte delle nostre forniture vengono da due fornitori che hanno una forza negoziale in aumento. È per questo che la soluzione sempre evocata ma non ancora realizzata costruire nuovi rigassificatori appare indispensabile. Il punto è che i terminali valorizzano il gas di paesi, come la Nigeria, per i quali il gas è solo un sottoprodotto del petrolio. Ma per valorizzarlo bisogna disporre di tutta la catena tipica delle grandi società petrolifere: disponibilità di gas, capacità di liquefazione, di trasporto e di rigassificazione. Allora, non serve ripeterlo, di rigassificatori abbiamo bisogno; ma dotarsi di rigassificatori significa molto di più di un terminale in un porto italiano. Si tratta di disporre di contratti a lungo termine per il gas liquido, di noli per metaniere e finalmente del terminale di rigassificazione. L LNG, insomma, è il mondo delle grandi compagnie petrolifere e non quello dei piccoli imprenditori o dei traders del gas. C è infine lo scenario più a lungo termine: cosa faremo dopo il 2015? E in questa prospettiva temporale che ha senso parlare, per esempio, di nucleare. Ma ricordandoci bene una cosa: non apriamo la discussione sul nucleare per evitare in un paese refrattario ad accettare qualunque decisione su nuove infrastrutture di fare le cose che possiamo fare subito e cioè nuove infrastrutture per il gas. BRUNO TABACCI Certo è un paese refrattario. Ma anche perché si illude di potere evitare le scelte. L alternativa ai rigassificatori e al nucleare, va detto molto chiaramente, è di avere uno shock energetico. Il localismo va combattuto: sull esempio di Brindisi si stanno organizzando comitati locali per impedire la costruzione di rigassificatori anche altrove. Del resto, viviamo in un paese in cui nessuno vuole nulla nel proprio cortile di casa, che manda i rifiuti solidi urbani in Germania, che non vuole neanche gli impianti eolici. Il momento di dire le cose in tutta la loro crudezza è oggi; la sicurezza energetica non è più garantita se qualunque parte dell Italia potrà mettere il veto a nuove infrastrutture, che siano del gas o del nucleare.

PAOLO SCARONI Resta il fatto che tutti i paesi al mondo che hanno realizzato programmi nucleari l hanno fatto con scelte del paese, non con scelte di una parte politica. Quando qualche esponente di partito dice io sono favorevole al nucleare, lo metto nel nostro programma di governo penso che dica una cosa che non è praticabile. Nessuno investe miliardi di euro in un programma che richiede almeno 7-8 anni per essere realizzati senza essere sicuro che entrambe le parti politiche ne condividano i principi. FULVIO CONTI Fatemi riportare il discorso sui dati di fondo della sicurezza energetica. Anch io sono convinto, come Franco Bernabé, che nel lungo periodo non avremo problemi: c è un amplissima disponibilità di materie prime energetiche. Esiste solo una questione di costi e di infrastrutture. Nulla dimostra che fra 20 o 30 anni avremo una crisi legata all esaurimento del petrolio o alla mancanza di gas. Sono scenari di cui si parla molto ma in cui non credo. Nel 1970 il Club di Roma sosteneva già che sarebbe mancato il petrolio in tempi brevi. Ricordo che mi chiesero: Perché vai a lavorare in una società petrolifera? Nel 2000 non avrai neanche la pensione, perché il petrolio sarà finito. Il petrolio c è ancora e sono arrivato quasi alla pensione. Il punto essenziale non è la scarsità dei combustibili: è che è mancata una politica nazionale a favore di investimenti nelle infrastrutture. 39

40 Guardiamo alla crisi dei mesi scorsi. C è stata una carenza di gas: temporanea ma indubbia. Le ragioni non dipendono solo dalle scelte della Russia, ma dall aumento complessivo dei consumi, che sono quasi raddoppiati negli ultimi cinque anni. Nel 1999, l industria elettrica consumava in Italia 19 miliardi di metri cubi di gas. Oggi ne consuma quasi 38 miliardi, perché ciascuno degli operatori elettrici, inclusi quelli molto piccoli, ha potuto scegliere di bruciare gas. Come paese, siamo andati allegramente verso questa soluzione tutto gas senza porci il problema dei suoi costi. E un costo lo stiamo pagando adesso, con carenze temporanee dei rifornimenti. La realtà è che nessuno si è preoccupato di capire se c era il contesto adatto per una scelta del genere. L ENEL sta cercando da anni di costruire un rigassificatore, e ha avviato un piano di conversione di impianti a carbone pulito. Non ci siamo riusciti perché si frappongono mille ostacoli amministrativi, localisti, politici a chi voglia fare degli investimenti in questo senso. Faccio solo un esempio: abbiamo delle centrali a biomasse bloccate da presunti problemi di inquinamento. Bloccate. Se vogliamo uscire dalle fasi critiche, quindi, non possiamo che pagare costi più elevati di quanto non sarebbe necessario; costi ambientali perché dobbiamo tornare a bruciare olio combustibile per la generazione elettrica e costi economici e sociali, perché dobbiamo ridurre i consumi. E allora il problema è prima di tutto politico. Non è accettabile che impianti già autorizzati a livello centrale vengano bloccati da gruppi locali. Non è una visione antidemocratica, altri paesi europei hanno ben chiaro questo punto. Abbiamo bisogno di chiarire bene: quando un impianto risponde a tutti i criteri di legge, non può essere bloccato da resistenze locali. Se esistesse un approccio del genere ma questo dipende evidentemente dal ruolo della politica avremmo già costruito il rigassificatore di Brindisi, avremmo attivato la centrale a biomasse del Mercure, avremmo già l impianto a carbone pulito di Civitavecchia, concepito nel 1999 e ancora molto lontano dal completamento. In sostanza, avremmo avuto gli strumenti per rispondere a una crisi temporanea senza pagare costi troppo alti. ENRICO LETTA D accordo, ma paradossalmente è stata una crisi salutare: non solo per la politica italiana ma anche per la politica europea. Se il caso Ucraina non fosse mai nato, avremmo quasi dovuto crearcelo; perché, finalmente, la sicurezza energetica è diventata un vero tema di riflessione, un argomento centrale sull agenda della politica europea.

Ed è chiaro che tutto ciò di cui stiamo parlando non ha solo una dimensione nazionale. Il problema della sicurezza energetica ha una dimensione tale da richiedere risposte continentali. Senza contare che l Europa è in gran parte fatta da consumatori, che hanno interesse a trattare in modo unitario con produttori che hanno aumentato il loro potere nel tempo. Putin o non Putin, Ucraina o Georgia, la crisi del gas ci sarebbe stata comunque. Direi di più: se guardiamo ai consumi e alle scorte a questo punto dell anno, è facilissimo prevedere che una crisi ci sarà anche nell inverno del 2006. Siamo arrivati ai punti critici di decisioni prese in passato: uscendo dal nucleare, ed è stato un errore secondo me, e criminalizzando il carbone, l Italia ha di fatto scelto il gas come fonte energetica principale. Insomma, il peso del gas non è frutto del caso, è frutto di una scelta precisa del paese. Il punto è che dovevamo gestirne le conseguenze; cominciamo a farlo solo adesso, dopo la crisi dei mesi scorsi. Dicevo prima che sappiamo già che avremo una crisi di forniture nell inverno prossimo; e fra un anno non avremo ancora nuovi rigassificatori e i gasdotti non saranno aumentati. Allora il mio punto è molto semplice: questa vicenda ci obbliga per la prima volta forse a fare un vero ragionamento sulla razionalizzazione dei consumi. Mi rendo conto che non è un argomento facile in una campagna elettorale; ma dobbiamo in ogni caso porci adesso il problema di una programmazione dei consumi che eviti la prossima crisi annunciata. Questo è per me il primo tema: razionalizzazione e programmazione dei consumi. Il secondo, come avete già detto, è quello delle infrastrutture. Da manager, voi sembrate dire che le responsabilità ricadono interamente sulle politiche o meglio sulla politica. Sono in parte d accordo. Esistono responsabilità politiche serie e che in qualche modo sono ripartite: enti locali che hanno bloccato i rigassificatori, politica nazionale che non ha fatto di questo tema un problema centrale. Ma esistono anche le responsabilità degli attori economici. La mia tesi, come sapete, è che l ENI, negli anni 2002-2004, abbia privilegiato i dividendi e non gli investimenti che sarebbero stati necessari. Resta che oggi siamo tutti più consapevoli enti locali, politica nazionale, attori economici della cose da fare. Ed è per questo che posso avanzare la mia proposta: un patto serio di politica energetica per l Italia. Primo, un patto fra le due coalizioni politiche, perché si assumano la responsabilità condivisa di una scelta prioritaria: la scelta di dotare l Italia di quattro rigassificatori, a Rovigo, Brindisi, Taranto, Livorno. Secondo, un patto che coinvolga l azionista pubblico e l ENI, impegnandoli in una svolta a favore degli investimenti, piuttosto che dei dividendi. 41

42 FRANCO BERNABÉ La storia secondo cui l ENI abbia sempre privilegiato i risultati economici non è corretta. Guardiamo per esempio alla vicenda del nucleare. Come noto, il tema del nucleare venne iniziato proprio dall ENI, che costruì la prima centrale a Latina negli anni Cinquanta, che venne poi dismessa per una serie di motivi. In campo nucleare, l ENI fece una serie di investimenti soprattutto nell attività di upstream, cioè nell attività mineraria; investimenti che comportarono per l ENI molti migliaia di miliardi di lire di perdite. La mia opinione, che contrasta con quella di molti di voi, è che l abbandono del nucleare sia stata una scelta saggia da parte dell Italia. Lo dimostra il fatto che da quando l Italia ha abbandonato il nucleare non sono più state costruite nuove centrali in nessuna parte del mondo, a eccezione del Giappone. E il motivo è molto semplice: la sicurezza. Prendiamo il caso della centrale di Caorso, la cui sicurezza è stata progettata rispetto a un incidente che potrebbe essere provocato dalla caduta sulla centrale di un motore di cacciabombardiere. Se sulla centrale di Caorso cadesse un aereo, invece di un motore, la pianura padana verrebbe spazzata via. Esiste quindi un problema gravissimo. Lo stesso è vero per gli impianti di Saluggia; un inondazione che portasse via tutti i materiali stoccati nella centrale, avrebbe effetti devastanti sulla pianura padana. Il nucleare concepito nel dopoguerra, adattando per scopi civili una tecnologia militare, pone insomma enormi problemi di sicurezza. Con le tecnologie esistenti, e visti i nuovi rischi legati al terrorismo, non può più essere utilizzato. Forse fra cinque o dieci o venti anni, avremo realmente nuove tecnologie per il nucleare civile. Solo allora, avrà senso parlare di ritorno al nucleare. Per tornare ai discorsi sul gas, sono trent anni che non si riescono costruire infrastrutture in Italia. L ENI era contraria allo sviluppo della generazione termoelettrica attraverso il gas. Tanto che per aiutare l ENEL parlo degli anni Ottanta a passare al carbone, l ENI investì quasi 500 miliardi di lire nello sviluppo di una tecnologia di trasporto del carbone in fase liquida. Le cose però non cambiarono: la scelta del gas era ormai stata fatta, e fu confermata da qualunque governo ci sia stato. Da parte sua, però, le infrastrutture l ENI ha cercato di farle: pensiamo al blue stream dalla Libia o al green stream dalla Turchia. La realtà, a differenza di quanto ha detto Enrico Letta, è che ENI e ENEL hanno applicato la saggia impostazione democristiana degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, con la sua logica abbastanza esplicita che suona così: Non mettiamo il ministro dell Energia a fare la politica energetica, diamo la responsabilità agli enti energetici. E gli enti energetici, anche con i governi degli anni Ottanta, si sono mossi coerentemente.

FULVIO CONTI Va aggiunto un altro elemento. Negli anni scorsi si parlava in ENI di bolla di gas e, se esisteva una bolla, investimenti per aumentare la capacità di rifornimento non avevano senso. In effetti l ENI non ha investito nei cosiddetti sbottigliamenti, ma piuttosto nel settore termoelettrico: brucio il gas perché ne ho in abbondanza. È la logica in base a cui l ENI è diventato il terzo operatore elettrico nazionale e sta esportando, come gran parte degli altri operatori, elettricità verso l estero. Dobbiamo però uscire da questo dibattito sulle responsabilità del passato. Per quel che mi riguarda, avevo anticipato la crisi del gas e questo non mi rende certo più felice. I problemi da discutere oggi sono strategici e metterei anzitutto l accento sul tema già sollevato da Paolo Scaroni. C è un grande movimento sul fronte dei produttori di energia primaria che stanno da tempo nel petrolio, e ormai anche nel gas allargando e integrando le loro attività. I grandi paesi produttori hanno smesso di esportare petrolio e basta. Hanno cominciato a costruirsi raffinerie, poi si sono comperati società di marketing refining in Europa, e in Italia in particolare, e infine stanno integrandosi a valle, per conquistare direttamente fette consistenti dei nostri mercati. Sta ormai succedendo la stessa cosa per il gas. Sono convinto che questo processo sia in corso fra Algeria e Russia, attraverso Sonatrach e Gazprom. Questo ci crea un vero problema: e non certo quello di essere troppo grandi. 43 PAOLO SCARONI Siamo arrivati così proprio al punto che volevo affrontare: cosa vuol dire liberalizzare? Moltiplicare i compratori di gas in Italia è veramente liberalizzare? La realtà mi sembra molto diversa. Se i fornitori sono sempre due, che i compratori siano dieci o cento non cambia granché: chi fa il mercato è chi il gas lo vende, non chi lo compra. E questo vuol anche dire che il mercato del gas è un mercato per grandi imprese, non per operatori commerciali di breve periodo. Non è chiaro, fra l altro, che beneficio tragga il consumatore da questa moltiplicazione dei piccoli compratori. La logica di questo modo di realizzare la liberalizzazione del settore mi sfugge. La mia tesi, invece, è che la vera liberalizzazione consista nei rigassificatori proprio perché diversificano le fonti moltiplicando il numero dei fornitori. Se ciò non avverrà il potere dei produttori continuerà ad aumentare e parallelamente il loro desiderio di conquistare la catena del valore del loro gas. Si vuole cedere SNAM Rete Gas a Sonatrach o a Gazprom? Siamo veramente sicuri che questo tipo di operazione sia nel migliore interesse del nostro paese? La scelta di moltiplicare i compratori di gas in Italia, come strategia di liberalizzazione, risale a 6-7 anni fa, in condizioni di mercato totalmente diverse da quelle di oggi, quando il petrolio valeva 15 dollari al

barile e non i 60 di oggi. L Italia e l Europa hanno oggi di fronte a sé fornitori di gas che hanno una tale forza commerciale e politica da richiedere interlocutori forti almeno quanto ENI: altrimenti, in nome della concorrenza (quale?), avremo in realtà meno sicurezza e il consumatore non ne trarrà alcun beneficio. Immaginiamo per un momento che oggi ENI esca dal gas in Italia, che SNAM Rete Gas e Stogit siano operatori indipendenti e che in Italia ci siano venti operatori che comprano gas dall Algeria, dalla Russia e dalla Libia: il nostro sistema sarebbe più garantito? Francamente non lo credo. BRUNO TABACCI È assurdo che, su un tema come questo, restiamo chiusi in una battaglia quasi ideologica. Il punto non è se abbiamo aperto troppo o troppo poco il mercato. Tutti vogliamo che apertura di mercato e sicurezza si combinino. Il punto è quello centrale di Paolo Scaroni: lo strumento di una vera liberalizzazione, oggi, è il terminale di rigassificazione nel settore del gas. 44 PAOLO SCARONI Resta che, in nome di una falsa liberalizzazione, ENI sarà costretto a vendere la nuova capacità di trasporto di gas attraverso un meccanismo di aste, a una congerie di piccoli operatori. Come risultato, capacità di trasporto per 12 miliardi di metri cubi di gas, necessari per fare fronte alla crescita del consumo italiano, verranno messe in mano a traders spesso improvvisati, i quali poi cercheranno di negoziare l acquisto del gas da Sonatrach e Gazprom. Il risultato sarà che Gazprom e Sonatrach approfitteranno di occasioni come queste per comprare finalmente capacità di trasporto sui nostri mercati. È tutto ciò nell interesse generale del nostro paese? BRUNO TABACCI Il peso dei monopoli esteri, d altra parte, è rafforzato dal fatto che usiamo gas, una fonte di grande qualità, per produrre energia elettrica. E qui arriviamo di nuovo al problema delle alternative al gas: carbone pulito, grazie alle nuove tecnologie, e nucleare. Anche questi sarebbero due punti del patto per l energia proposto da Enrico Letta. E patto significa che alcune scelte essenziali in materia di politica energetica non possono essere oggetto di battaglia domestica. Sarà più difficile, naturalmente, sul tema del nucleare. Non mi spingerei a dire che vanno riattivati i vecchi impianti rimasti chiusi, anche se è giusto ricordare che la chiusura delle centrali non era un esito dovuto del referendum; era dovuto non costruirne di nuovi. Vi fu insomma una forzatura sbagliata; e nonostante quanto ha af-

fermato Franco Bernabé resta che la tecnologia utilizzata a Caorso è oggi in funzione in altri 90 impianti nel mondo. In sostanza: una serie di paesi continuano a produrre quantità rilevanti di energia elettrica con il nucleare. Sbagliano loro o per caso non siamo stati troppo precipitosi noi? Propendo per questa seconda risposta, tanto più se aggiungiamo considerazioni ambientali. Il nucleare è anche un modo per abbattere le emissioni inquinanti. E se parliamo di ritorno al nucleare, non parliamo per forza di centrali in Italia. Possiamo partecipare a progetti internazionali, come ha cominciato a fare ENEL; dobbiamo partecipare ai progetti per lo sviluppo di una nuova generazione di tecnologie nucleari, da cui stiamo restando fuori. Registro questo: avevamo una tecnologia importante e soprattutto avevamo università, centri di ricerca, istituzioni, che si dedicavano all energia nucleare. Oggi abbiamo perso tutto questo e l Italia, con le sue imprese, è fuori da un settore comunque tecnologicamente avanzato. Il problema è come possiamo rientrare. Con intelligenza e prudenza; ma consci che la nuova tecnologia nucleare aiuterà a produrre energia con minori costi ambientali. FULVIO CONTI Come ENEL, stiamo lavorando attivamente in questa direzione: in Slovacchia diventeremo operatori diretti di una società che ha più di duemila megawatt di nucleare e abbiamo progetti per una seconda centrale in quel paese. Stiamo lavorando al progetto francese EPR che è la nuova tecnologia nucleare, migliorata dal punto di vista della sicurezza e con minore produzione di scorie. Sperabilmente è una tecnologia che potrà essere esportata. Resta il dato di fondo: possiamo essere nuclearisti convinti, ma l Italia è un paese piccolo e densamente popolato dove la gente non è disposta ad accettare quasi niente nel cortile di casa. E siccome crediamo di vivere nella contea Amish dell Europa, il problema nucleare è remoto rispetto a quello che dobbiamo e possiamo fare oggi. Ammesso che si decida il ritorno al nucleare, i risultati si avranno fra più di 10 anni. Nel frattempo, dobbiamo aumentare la quota di altre fonti di energia, carbone incluso. 45 ENRICO LETTA Voi, come manager, ci richiamate alle responsabilità della politica nazionale. Io però vorrei richiamarvi alle responsabilità industriali. Non è vero che la mancanza di investimenti sia facilmente scusabile. C è stata perlomeno una forte disattenzione sulla questione chiave: cioè la costruzione di infrastrutture che avrebbero permesso di rispondere alla crescita dei consumi. È vero che gli enti locali, quando parliamo di rigassificatori, hanno responsabilità negative; è altrettanto vero

46 che gli accordi che erano stati raggiunti in passato con ENI per nuovi investimenti sono stati realizzati solo in minima parte. Anche la questione degli sbottigliamenti è più grave di quanto non abbia ammesso Paolo Scaroni; tanto più perché avrebbero richiesto pochi investimenti. Non sono neanche d accordo sul modo in cui viene impostato il nodo liberalizzazioni/campioni nazionali. Di fatto, le scelte attuate negli anni Novanta hanno portato a una situazione di equilibrio. Nessuno, oggi, vuole fare scendere ENEL e ENI sotto la soglia che hanno raggiunto. Ma il punto chiave è un altro e si tratta di nuovo di questioni per il paese nel suo insieme. Liberalizzazione significa che dopo essere scesi a un livello fisiologico sul piano nazionale, ENI e ENEL, per crescere e restare forti, devono crescere fuori, non in Italia. Cosa che non è ancora. Per due ragioni. La prima è l errore compiuto da ENEL con l ingresso nelle telecomunicazioni: invece di scegliere di fare il grande player dell elettricità su scala europea, ENEL ha scelto una strategia sbagliata di diversificazione delle proprie attività nazionali. Una scelta irrazionale, che è fra l altro costata cifre folli, che andavano invece investite all estero nel settore energetico. Nel caso di ENI, il problema di cui preoccuparsi non è la mini-competizione domestica. È la consapevolezza che per mantenere una massa critica sui mercati, ENI deve fare operazioni fuori. Aggiungerei che il consumatore italiano, dopo le liberalizzazioni nel settore energetico, sta mediamente meglio di quanto non stesse venti anni fa. Infine, è vero che piccoli traders italiani non possono fare grandi operazioni internazionali. Ma è assolutamente positivo il fatto che oggi in Italia ci siano due, tre o quattro soggetti in grado di fare rigassificatori. I rigassificatori che si stanno costruendo non li fa ENI ma Edison, li fa British Gas, li farà Endesa. In conclusione: ENI e ENEL non devono scendere al di sotto della soglia attuale; ma possono rafforzarsi solo rafforzandosi all estero. La liberalizzazione in Italia ha intanto prodotto il fatto che alcuni nuovi soggetti, italiani ed esteri, contribuiscano alla diversificazione delle fonti, e quindi alla nostra sicurezza. Se così non fosse, resteremmo alla logica della vecchia FIAT, tutta concentrata sulla domanda interna. E io non credo che concentrare tutto sulla domanda interna sia la chiave del successo futuro. FULVIO CONTI Non sono d accordo. Se nel 2000 avessimo comprato all estero, anziché comprare Wind-Infostrada, oggi avremmo lo stesso problema. Il fatto che ENEL avrebbe potuto investire all estero, in altri termini, non aggiunge né toglie niente al dato di fatto: oggi ci mancano 20 milioni di metri cubi al giorno di gas, il che si-

gnifica che abbiamo un problema, almeno temporaneo, di sicurezza. Ripeto: nessuna scelta è possibile in un clima politico che di fatto fra mancanza di coordinamento e resistenze locali impedisce la costruzione di nuove infrastrutture. La riforma del titolo V ha peggiorato le cose. PAOLO SCARONI È vero, nel vostro patto di politica energetica dovrebbe rientrare la riforma della Costituzione, per quel che riguarda le competenze in materia di politica energetica. Il problema non è tanto se si riesca a raggiungere un accordo bipartisan su un piano energetico per l Italia: se guardiamo alle persone competenti, lo spazio di convergenza è molto ampio. Il problema è se siamo nelle condizioni, in Italia, di attuare le decisioni prese. BRUNO TABACCI Lasciatemi allargare il discorso alle energie rinnovabili. Nel nostro patto di politica energetica rientra naturalmente anche un ruolo per le fonti alternative. Ma qui dobbiamo essere molto seri e dirci chiaramente tre cose. Primo, veniamo da un vero e proprio scandalo: il cosiddetto regime CIP6, volto in teoria a incentivare l uso di fonti rinnovabili, ha finito in realtà per sovvenzionare sottoprodotti degli idrocarburi. In sostanza, si è avuta una distrazione di fondi, con un grande bluff su cosa sia davvero energia pulita. Secondo: se l Italia è ancora all ultimo posto fra i paesi avanzati nell utilizzo del fotovoltaico, molto dietro alla Germania che non ha certo il nostro sole, è perché, di nuovo, si frappongono resistenze locali; e perché il fotovoltaico ha costi molto alti, da 400 a 500 euro a MWh. Se non si stanziano forti incentivi, come nel caso tedesco, la produzione non aumenterà. E il paradosso, allora, è che il fotovoltaico viene fatto a Bolzano, dove incentivi esistono; ma non in Sicilia, dove c è il sole. Terzo: non dobbiamo crearci o creare illusioni. Il ruolo delle fonti alternative resterà limitato almeno per parecchio tempo. L idrogeno non è una vera fonte alternativa: è un vettore di energia: per usarlo ci vogliono altre fonti energetiche. Quel che potevamo fare con la geotermia, un vapore che nasce in certe località, in particolare in Toscana, lo abbiamo già fatto. Esiste poi, lo dicevo prima, la possibilità di usare il vento per produrre energia da fonti eoliche. Fino adesso, vengono prodotti così all incirca 500 MW (su un totale di 60.000) e l Italia è un paese con pochissimo vento, dove abbiamo già realizzato pressoché tutti gli impianti possibili. E poi ci sono i residui e le biomasse; ma di nuovo, ci sono anche forti resistenze locali a permettere impianti di trasformazione in loco. 47

Se non smusseremo questo crescente potere di interdizione a livello locale, non riusciremo a modernizzare la politica energetica dell Italia. 48 FULVIO CONTI Non solo; perderemo anche la faccia in Europa. Il protocollo di Kyoto è collegato a tutte queste tematiche sulle fonti rinnovabili, ma andando avanti così non riusciremo mai a essere in regola. D altra parte, le responsabilità non sono solo italiane. Il fatto è che gli obiettivi di impatto ambientale fissati da Kyoto si basano su valutazioni del 1990, del tutto superate dall evoluzione successiva. E questo determina una ripartizione degli sforzi nazionali totalmente falsata. È già abbastanza assurdo che siano solo gli europei, che determinano il 16% delle emissioni inquinanti nel mondo, a farsi carico del problema nel suo insieme. Chi inquinerà in modo esponenziale, negli anni prossimi, sono Cina e India, due paesi rimasti fuori dagli accordi di Kyoto. Ma anche guardando solo all interno dell Europa, la divisione degli sforzi nazionali è irrazionale perché non tiene conto dei radicali cambiamenti avvenuti nel sistema industriale dal 1990 in poi, come conseguenza del crollo del Muro di Berlino. Mi riferisco al fatto che le vecchie economie pianificate dell Europa orientale hanno dismesso da un giorno all altro gli impianti inquinanti ereditati dalla pianificazione sovietica. E quindi si trovano in possesso di crediti che paghiamo noi che abbiamo avviato una strada di maggiore efficienza. L Italia è in una situazione paradossale: avendo un intensità di efficienza elettrica più alta, ma una unità di consumo di energia elettrica per unità di prodotto nazionale lordo più bassa, paghiamo per tutti gli altri. La distorsione fra gli oneri nazionali nasce infine dal fatto che non vengono usati, per i singoli tipi di industrie, criteri uniformi di valutazione dei risparmi di emissioni. Se tutti i cementieri in Europa avessero lo stesso tipo di criterio, avremmo un problema in meno. Invece qui in Italia li trattiamo in una certa maniera, in Spagna in un altra maniera e così via. Ancora una volta, da un obiettivo giusto, come Kyoto certamente è, derivano conseguenze pratiche negative, per l Europa e per Italia in particolare. Kyoto va rinegoziato: un regime del genere ha senso solo includendo gli Stati Uniti e i paesi emergenti; e ha senso solo allocando in modo più razionale gli obiettivi nazionali. ENRICO LETTA Lasciatemi riassumere quello che ci siamo detti. Non siamo d accordo su tutto, come abbiamo potuto constatare. Ma siamo d accordo su tre punti sostanziali. Primo, l Italia ha bisogno di un patto nazionale sull energia, che permetta

gli investimenti infrastrutturali necessari per uscire da una situazione troppo squilibrata: troppo gas per la produzione di energia elettrica, e troppo gas da due soli fornitori. Diversificare è la parola chiave di un accordo del genere: e questo significa, anzitutto, la costruzione di rigassificatori. Per alcuni anni almeno, d altra parte, la nostra dipendenza dagli idrocarburi non diminuirà. Dobbiamo usare questi anni per rientrare negli sviluppi dell energia nucleare e per aumentare il peso, per limitato che resti, delle energie rinnovabili. Ma poco o nulla sarà possibile senza ridurre il potere di interdizione locale su scelte nazionali di politica energetica. Per funzionare, un patto nazionale sull energia richiederà una revisione delle competenze costituzionali in materia. Secondo punto: continuiamo ad avere bisogno di imprese energetiche italiane forti, che non perdano altri pezzi in casa e soprattutto che crescano all estero. È negli interessi del paese e dei consumatori. Su questo siamo d accordo; siamo molto meno d accordo, come dimostra la nostra conversazione, su pregi e limiti delle liberalizzazioni. Terzo punto: la politica energetica è anche politica di sicurezza e politica estera: il modo in cui Putin sta giocando la carta del gas, nei rapporti con i paesi vicini e con l Europa, lo dimostra. E insieme dimostra che si tratta di un mercato asimmetrico: i grandi produttori si basano su colossi di Stato; i grandi consumatori hanno almeno in parte liberalizzato. Per tutte queste ragioni, la sicurezza energetica va sottratta alle incertezze della politica domestica. Semplicemente, non ce lo possiamo più permettere. Non possiamo neanche più permetterci di lasciare che siano le imprese, come è stato per molto tempo in passato, a surrogare la mancanza di una politica energetica italiana. È una politica da giocare sul tavolo europeo: se c è una lezione degli accordi di Kyoto, è che senza darsi una strategia energetica più coerente, l Italia sarà non solo meno sicura ma pagherà anche costi molto alti. 49 Franco Bernabé, vicepresidente della Rothschild Europe e amico di Aspen; Fulvio Conti, amministratore delegato dell ENEL; Enrico Letta, deputato al Parlamento europeo e vicepresidente di Aspen Institute Italia; Paolo Scaroni, amministratore delegato dell ENI; Bruno Tabacci, presidente della Commissione Attività produttive, Commercio e Turismo della Camera.