Della fedeltà retorica Le traduzioni poetiche di Patrizia Valduga di Alessandra Ruffino



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Della fedeltà retorica Le traduzioni poetiche di Patrizia Valduga di Alessandra Ruffino Esiste un andare metamorfico e metaforico, una traduzione della tradizione che collega epoche e linguaggi nella condivisione d una comune lingua madre, ove la Parola è una supermusica e le Immagini istruiscono le linee d un necessario contrappunto. Dinamica e transazione sono alla base di tale nozione, poiché la metamorfosi è movimento e la metafora è scambio. Nella traduzione si manifesta il conflitto dialettico tra capacità unificante e potere separante del linguaggio, esso tende a configurare due campi: uno spazio di affinità e un luogo della differenza. Le traduzioni valdughiane di Donne (1572-1631), Mallarmé (1842-1898) e Valéry (1871-1945) esemplificano con eccellenza la suddetta asserzione, suggerendo in più un modello di lettura delle forme; di esse non si guarderà tanto la straordinaria sapienza metrico-linguistica, quanto la capacità d essere un tramite tra luoghi e luoghi, tra un mondo e l altro: vera capacità poietica. La zona della vicinanza accoglie la voce inglese di J. Donne; lo spazio disgiuntivo parla francese e s inquadra nella cornice di una «sconfitta generale»: entrambi gli spazi contrastano l impero meramente illustrativo o narrativo della comunicazione; il luogo barocco reagisce per estrazione, sulla scorta di un idea di figurabile, l opzione mallarmeana per astrazione verso il senso figurato. Facoltà dell interprete è innescare risonanze ben oltre la pagina singola: la meta è tradurre, e non volgarizzare, divenire capaci di vedere le voci e di udire i colori come suoni. Il proposito è quello della «fedeltà alla forma, come unica forma di fedeltà»: fare quindi un ontologia a partire dalle figure, da forme che sono - alla radice - bellezza (Nigra sum & formosa, sta scritto...). Alla confluenza tra ineffabile e visibile, la traduzione pone un gesto (muto), che precede l eloquenza del testo, e, con un amoroso e veramente filologico tributo al Logos, consegna parola e immagini di un testo a vita rinnovata. L operazione che porta la filologia del poeta a trionfare sull esercizio del linguista si chiamerà fedeltà retorica. Delle cinque categorie fondamentali della Retorica (Inventio, Dispositio, Elocutio, Memoria, Pronuntiatio) almeno quattro tornano qui di interesse. 1) Nel caso del traduttore Inventio è ritrovamento e riconoscimento. La cura filologica o restituzione amorosa, passa attraverso lo scrupolo di cercare le parole e pervenire a dei trovati, grazie all ascolto di quel che la pagina detta. 2) L Elocutio è il regno del poeta: la sua unità porta un nome antico: canto, non inteso come eufonia o come qualità delle immagini, bensì come modo di tenere il mondo sotto il proprio linguaggio, il modo di strappare Euridice alla morte. 3) La Memoria, categoria aggiunta solo a partire dal I a.c. con la «Rhetorica ad Herennium», è in questo discorso determinante. La facoltà di memoria si attua in un modulo figurale ove materia (= memoria dello Spazio, equivalente pittorico del colore) e sostanza (= memoria del Tempo, equivalente pittorico della luce) sono condensate in «figurae», poste a difesa della «diligentia» (cioè quasi un amore) e della disciplina (cioè quasi una guerra). Il legame che avvince il traduttore al suo originale è frutto di una collisione: infatti la traduzione, che è «imitatio rhetorica», mette in scena un amore e un conflitto, nel tentativo di far coesistere i due motivi. Nella relazione copia-originale l anteriorità diventa interno e la poesia una superlativa interiorità: la memoria governa questa discesa nel tempo e dà norma all uso del precedente. Per chiarire il rapporto tra tempo anteriore e interiorità della poesia si prenda come esempio l abitudine rinascimentale di assimilare il repertorio classico incastonandolo nella tessitura poetica; tale raffinato modo di traduzione, anche quando lo ritenessimo - come certuni - un arte di rapina, non mancherà di rientrare comunque sotto il dominio di Hermes, signore dei ladri, ma pure della scienza occulta e dell ermeneutica. Una traduzione inclusa al processo ermeneutico, invece di documentare indebite riesumazioni del passato, vale in quanto invita a capire e a interrogarsi: essa dunque non ruba ma dona. Una simile arte di poesia è ovunque profusa nell opera di Valduga: scintillano qua e là, fra le sue rime, allusioni petrarchesche, gemme imprestate da Tasso e Marino, da Campana e Rebora, che focalizzano un punto di vista mediante il quale va a smarrirsi la separazione tra autore e traduttore, a beneficio del poeta. 4) Ciascun segno letterario è destinato alla voce, ossia alla «Pronuntiatio»; la considerazione di questo concetto nell ambito della traduzione comporta il rispetto dei valori sonori delle parole, anche a scapito dei contenuti informativi (ancora una volta Forma vs. Informazione). La tendenza a produrre una parola multisensibile, strutturata sul Ritmo, discende da una simile attenzione al suono.

La traduzione, essendo gesto, offre sistemazioni momentanee, fedeli alla propria specifica qualità di soluzioni aperte; ed è quando l interrogazione - modo antidogmatico per eccellenza diventato, con Proust e Valéry, una somma filosofia poetica - entra in contatto con la retorica, che l aspetto drammatico della lingua acquista la massima evidenza. Del figurabile: conoscere per estrazione I due luoghi delineati dalla dialettica tra linguaggio che avvicina e linguaggio che separa possono rispettivamente essere rappresentati da due metafore-chiave: una quella dell artifex-pittore, subentrata nel tardo Rinascimento al Dio-Architetto della cultura medievale; l altra è il mito dell architettura, ripreso da Valéry nello spazio disgiuntivo delle astrazioni. Nella regione delle affinità il demone analogico aleggia tra una moltitudine di segnacoli, ivi compresi i Songs del decano di St. Paul, l ombra di Velazquez, l immaginario di Francis Bacon e quel cinema inglese che per rinnovarsi, con Jarman e Greenaway, guardò a Caravaggio. La legge che qui vige per scampare all informazione è l estrazione: cioè il trapasso dall illustrazione a una delle possibili figure, dal dato al figurabile, lungo una via conoscitiva caratterizzata dal perdurare nei secoli di un comune repertorio d immagini. Sarà più facile riconoscere la maniera di estrazione, qualora si ricordi come essa sia contemporanea alle anatomie (Donne pubblica «An Anathomy of the World», 1611, nel 1621 esce «Anathomy of Melancholy» di Robert Burton). Per tutta la vita Bacon si accompagnò alla magnificenza di Velazquez, annesso alla cultura visiva inglese nell Ottocento, dopo essere stato anticipato dalla retorica del corpo sregolato di Hogarth: Velazquez, è noto, era stato il primo a tradurre in pittura la divisione tra le parole e le cose, ed è per ciò che ci interessa. In Bacon, come già in Artaud, il corpo diviene intenso, intensivo e privo di organi perché non più organismo, un corpo che Valduga invoca così: «mai, mai quel che c è, sempre un non ancora» (Medicamenta e altri medicamenta, 1989, p. 55). In John Donne l unità della poesia non era determinata - come nel canto - dal verso, ma dalla strofa, che è misura dell eloquenza: i moduli da lui usati tendono ad un effetto dram matico e discorsivo. L eloquio donniano consegue suggestioni espressive con i vocaboli in quanto suoni e in quanto segni grafici: Valduga - riprendendolo - restaura una linea che porta fino a noi il mondo di Dante (lo stesso di Donne) in un ricercare musicale interminato, nella grazia di ciò che non dura: quella che per Benjamin distingueva la nobiltà della traduzione. La traduzione come luogo dell effimero e del reversibile tocca il colmo dell intensità dove tutto si perde, la discesa dall originale all in terpretato è punto di splendore, il movimento di caduta non è diminuzione, ma quasi un «clinámen» dove trovano moto, e vita, le figure dell essere e dell apparire: e nel conflitto inscenato dall «imitatio rhetorica» si fa presente anche la morte. Come avviene nello sguardo dei pittori barocchi, l integrità delle forme non è rispettata: fondo e contesto fanno emergere figure che sviluppano puri ritmi di luce e d ombra. Il ritmo, sia che derivi dal principio del «rhêin» (scorrere, divenire), sia che discenda da «rhýsmos» (figurazione mutevole), evoca un idea di apparenza; se il ritmo che agisce a livello uditivo sembra musica, quello che opera a livello visivo appare pittura: la medesima legge di fedeltà alla forma costuma la grazia di questo movimento; ricerca e ritrovamento sono, nell uso retorico, dominio dell «inventio» e non mai creazione dal nulla. Del figurato: conoscere per astrazione Nella zona della distanza, all interno dell ambivalenza originaria musica -silenzio, predomina il termine del silenzio, il quadro della sconfitta; qui abitano, tra gli altri, Mallarmé, Maeterlinck, Valéry, Debussy, Reverdy. Nei dizionari il senso figurato viene chiamato in causa per giustificare l uso non comune, quasi infedele, di un vocabolo: ciò ci mette di fronte ad un assenza, che sta ad indicare come nella via conoscitiva per astrazione la Parola sia in permanente scambio con la musica, laddove, in quella per anatomie, essa era avvinta all immagine. Su tale sfondo, Debussy svolge la funzione più su assolta dalla pittura baconiana; con le musiche composte per l «Après-midi d un faune» (1894) e sul dannunziano «Martyre de Saint-Sébastien» (1911), egli si pone come tramite fra (inter/interpres) le sovraccariche figure del D Annunzio, cittadino della regione del figurabile, e le rarefatte astrazioni mallarmeane. Secondo Mallarmé il verso si deve comporre di intenzioni e non di parole: la sua intenzione era di rendere alla Poesia l autorità e il potere che la grande musica contemporanea le aveva sottratto. Ma intenzione è il vuoto avanti d essere riempito dalla Parola, la plenitudine è invece nell attuale, da cui la

Parola si astrae, andando a designare l unità compositiva nella pagina intera; la pagina è lo spazio tipografico corrispondente al cosmo prima che il Verbo ne iniziasse la storia: in essa Mallarmé prova a dimostrare come il mondo esista per giustificare un libro. La volontà mallarmeana di dipingere l effetto, e non l oggetto, fa della Parola il vettore delle cose: l indissolubilità di forma e fondo è ripresa da Val éry, il cui primo amore fu l architettura, arte atematica - al pari della musica - che era per Cartesio immagine di rettitudine e giustizia. Mallarmé, Debussy e Valéry non traducono mai stati d umore, negando all espressione artistica un qualsiasi sviluppo discorsivo, meditando - per contro - su un idea di poema che sia ininterrotta oscillazione tra suono e senso. Accade allora che l aspirazione alla musica nelle lettere faccia dell unità non il centro, ma il limite d una ricerca, d una «inventio» potenzialmente infinita. Mallarmé stesso lavora sull unità della Parola per disintegrazione, e ne sprigiona l energia; a unificare linguaggi e tempi giunge la prosodia, quell arte di accordare suoni e valori del verso, prossima al canto e alla musica, ovvero a ciò che preesiste alla parola e a ciò che succede all estinzione della lingua. Musica e mito precedono l avvento del Logos: l affermazione valéryana che identifica mito e Poesia (per Valéry ogni attività poetica è traduzione) si spiega allora in quanto a tutto ciò che esiste avendo solo la parola per causa spetta il nome di mito. In consonanza con Valduga, la fedeltà che Valéry asseconda è tesa a rivelare la musicalità interiore dei linguaggio degli dèi, il concetto è quello, già accennato, della poesia come interiorità, la cui facoltà risiede appunto nell interno, in ciò che è taciuto o che è solo sfiorato dalle parole, «A tutto ciò che non ha nome e tace / sento l anima mia farsi vicina», dice Valduga (Cento quartine, 1997, 49), che più volte si rivolge alla ragione silenziaria dei puntini di sospensione per dar volume a figure del dire: «Amici cari, carissimi amori, / voi sapete, sapete bene che... / che sarebbe diverso il mondo se... / e che solo la poesia è... è... (Donna di dolori, 1991, p. 40). La traduzione si dà all insegna della capacità anziché della potenza: non si tratta infatti di colmare la distanza tra originale e differito, ma di far luogo all esperienza di tale spazio. Un altro nome per la reversibilità, di cui s era detto, è permeabilità: val e a dire la virtù di farsi attraversare, di tessere un discorso poetico che porga l inedito dal tràdito, che sappia far trasparire sfondo storico, sedimenti, relitti: attraverso questo passaggio la retorica di Orfeo non solo trattiene il mondo al proprio canto, ma finalmente salva Euridice, lasciando che essa spieghi la propria voce. Allo stesso modo con la fedeltà retorica si passa dall ascolto all arte di lasciar nuovamente parlare il testo; attraverso l ermeneutica il traduttore restituisce per via analogica ciò che della prima lingua si rende assente. Curiosamente lo stesso principio di reversibilità, che convalida il lavoro di traduzione, è la prima regola dei restauratori di opere d arte; il restauro compiuto dalla traduzione rinnova transitoriamente l a pienezza dell originale e il suo pregio consiste nella corretta auscultazione della forma. Valduga, dopo avere ritmato sul tempo ternario dantesco la sua «Tentazione» (1985), vi torna per trasmettere Mallarmé ai lettori italiani dell estremo Novecento. I n Dante il movimento è contrario a quello mallarmeano, porta dalla Parola alle cose, il Verbo si fa carne e non viceversa; fu proprio grazie all uso dantesco dell allegoria che Figura e senso dell immagine divennero tecnica compositiva e interrogativa, cosicché l allegoria, mutuata dalla Patristica, venne promossa a luogo di studio e di conoscenza. E forse per via del ricorso a Dante che il linguaggio con cui Valduga trasmette Mallarmé è stato definito improbabile. Per Deleuze e Bacon «la Figura è l improb abile stesso»; come Bacon traduce Velazquez per l età contemporanea, restituendone la grandezza e la pena mortale, così Valduga, col salmodiare al firmamento di soli nella «Corsia degli incurabili» (1996), non rimanda forse a noi la bellezza della costellazione di parole del mallarmeano «Coup de dés?». De rhetorica fidelitate Qualcosa è sfuggito a Lorenzo Morandotti quando ha paragonato la valdughiana «donna allo stato colliquativo» al Cristo morto del Mantegna: il Cristo morto di Hans Holbein il Giovane, che sembra non potrà risorgere mai, e soprattutto nulla dice di quell icona che ossessiona l immaginario europeo fin dall epoca di John Donne: Ofelia. Tre secoli dopo, le mortifere acque di Ofelia sono tradotte da Debussy negli stagni del «Pelléas et Mélisande» (1902, testo di M. Maeterlinck). In «Pelléas» tutto l esistente precipita negli Inferi dell inesistenza: nel dramma lirico, come in poesia, il movimento del mare rappresenta l avversione al divenire discorsivo. Ofelia appare nel 1995 sulla soglia d un a raccolta inglese di «rock-songs», donde una voce, che si leva da una bara di cristallo, canta dell andar viva in sepoltura, di livide pompe infernali e dell affondare in abissi d acqua morta.

Mélisande, Hérodiade e Ofelia sono, come - prima di tutte - Eva, in un isolamento tragico, al limite del demoniaco: il medesimo che vediamo nelle solitarie presenze dei quadri baconiani. Dire Mélisande come Eva permette di scorgere alle spalle di Mélisande l origine del problema del linguaggio: Eva è quest origine, e basterà rammentarsi del «Paradise Lost»: mentre Adamo denomina, Eva predica; mentre Adamo identifica, Eva distingue e domanda: l Eva miltoniana traduce in retorica la sterile logica della scienza infusa. Nella tradizione cristiana, testimone del gioco silenzio/parola, Eros si manifesta con parlare dovizioso, Agápe vive nel vuoto di parole: un solo potere suasivo rilega, però, l eros del linguaggio musicale e l eroico della parola, che transitano verso di noi nella presenza retorica. Traduzione è transito, quasi una Pasqua dopo la discesa nelle tenebre: all origine è ancora quel prim o passaggio del Verbo fatto carne, «sa anche farsi carne la parola», traduce il poeta («Medicamenta e...», p. 53). Una traduzione per via poetica e per via musica, come quella di Valduga, restituisce alla Parola testo, gesto, contesto: il suo fine non è tanto il buon funzionamento quanto il prestare energia, ed è in virtù di questo imprestito - non per capriccio di sinestesia - che si è presa l audacia d alludere alle canzoni di fine Novecento, «forse l universo è iniziato con un downbeat rock: è perfettamente concepibile». Lo sviluppo per estrazione del figurabile barocco presenta un estrema metamorfosi nella voce solista, appoggiata al continuato accompagnamento d uno strumento (di nuovo l indissolubilità di fondo e forma), rassomigliante tanto al recitar cantando che al principio del Seicento rovesciò la pratica musicale, quanto alla forma-monologo di «Donna di dolori» e «Corsia degli incurabili». Se si parla ancora di musica è perché l atto del tradurre presuppone anzitutto un atto di ascolto. La voce umana («la voce umana mi pare così bella in sé, scriveva Valéry) dà corpo alla Parola nella «pronuntiatio» e, all interno della canzone, ha una funzione unificante alla quale corrisponde la consapevolezza retorica in letteratura. Erotica e retorica: ecco una traduzione della dialettica tra capacità unificante e potere separativo del linguaggio; ma del resto la Poesia stessa è sempre un fare, un dire capace di separare la tenebra dalle luci, una costruzione comunque imparentata col Caos, contaminata da un brusio, una voce, di più: un respiro intelligibile, quasi un fiato effuso da rovi in fiamme. E infatti al roveto ardente che conviene tornare, a quella tautologia dell «Io sono colui che sono», per scoprire come l identità del Sempre -Medesimo sia solamente l inizio: il fine è quello della Creazione o Poesia, davanti al quale perde un po di senso lo scrupolo di troppo fedeli armonie, e ne acquista - per contro - la capacità di conoscere più sensi, facendo luogo alla Parola, che conserva per sé un autonomo margine di espressività, tanto più evidente quanto più sofisticati sono gli strumenti retorici coi quali con Essa discorriamo. Le traduzioni valdughiane, in ragione di una sensibilità formale di estrema sottigliezza, restituiscono alla praticabilità quello spazio di attesa dove memoria e scoperta offrono a chi legge piaceri e pensieri non ancora saggiati, portando un vero tributo alla più alta filologia. «... ti porto, anche così svogliata al terzo, non al settimo dei cieli. Il terzo cielo? E il cielo degli amanti...» P. Valduga, «Cento quartine» 83-84 «E lo cielo di Venere si può comparare alla Rettorica per due proprietadi: l una si è la chiarezza del suo aspetto, che è soavissima a vedere più che altra stella; l altra si è la sua apparenza, or da mane o r da sera. E queste due proprietadi sono ne la Rettorica: ché la Rettorica è soavissima di tutte le altre scienze...» Dante, «Convivio» II, XIII, 13-14