Morte 2. ovvero i migranti e la morte. di Marco Saverio Loperfido. Esserre Press



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Morte 2 ovvero i migranti e la morte di Marco Saverio Loperfido Esserre Press 1

ISBN 9788890801556 eisbn 9788890801549 I due quadri, all'inizio e alla fine del libro, sono un dittico che si intitola "E musica è" di Gino Loperfido. Titolo del disegno in copertina: La scoperta meditativa, di Marco Saverio Loperfido, 1996. 2

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PREFAZIONE Lo studio di Marco Loperfido si occupa del difficile e complesso rapporto che i migranti hanno con la morte, sia dal punto di vista teorico e culturale, sia da quello esistenziale e concreto, un forte rapporto. Entrambi i due poli dell'analisi infatti, il migrante e la morte, sono fatti sociali totali (Mauss 1965) che danno la possibilità, intrecciati ed analizzati in questa interconnessione, di studiare una vasta gamma di fenomeni sociali da un punto di vista inedito e creativo. La ricerca parte da due domande: come è possibile far fronte alle difficoltà umane dello straniero in seguito al pensiero della propria morte all'estero e alla morte dei propri cari lontano dal paese di appartenenza? Come può la visibilità delle differenze che si manifestano nelle diverse concezioni e pratiche della morte (di cui sono portatori i migranti) rivitalizzare il tessuto liso (Sozzi 2009) della morte nella società occidentale? In questo senso la prospettiva dalla quale si pone Marco Loperfido è quella della sociologia comprendente, nella quale i soggetti sono i primi interpreti della realtà che si vuole studiare per cui è necessario partire dai significati simbolici che essi attribuiscono alle loro azioni. L approccio qualitativo realizzato con interviste in profondità a testimoni privilegiati valorizza al massimo questo aspetto. Per analizzare questo complesso mondo è necessario porsi dal punto di vista dell altro, con lo sguardo dell altro, secondo la prospettiva di Ricoeur. L approccio è interdisciplinare e i vari ambiti, strettamente connessi, aiutano a spiegare il fenomeno da vari punti di vista, sociologico, filosofico e antropologico, in mancanza dei 5

quali l analisi sociologica, che costituisce il frame specifico dell Autore, non sarebbe possibile. La ricerca di Marco Loperfido è strutturata in sei capitoli, nel primo dei quali svolge un'analisi delle riflessioni tanatologiche prodotte nel corso del pensiero filosofico occidentale da studiosi classici e moderni (Epicuro, Görer 1963; Morin 1980; Bauman 1995; Remotti 2005; Elias 2005; Jankélévitch 2009), con uno sguardo particolare rivolto al pensiero cinese come forma altra del morire e di concepire il tra insito in ogni divenire (Jullien 2010). Il secondo capitolo affronta le dinamiche sociologiche che la morte provoca all interno della società, la pluralità di interpretazione nelle varie culture, le strategie messe in atto dalle concezioni religiose dell'esistenza, dalle forme laiche dello Stato e, a prescindere dalla cultura di provenienza, dalle comunità reali. Analizza quindi il trauma implicito ad ogni decesso e la successiva ricomposizione del soggetto coinvolto e del tessuto sociale, gli strumenti posseduti dalla comunità per gestire le angosce e il dolore conseguenti (lutto, cordoglio, memoria, afflizione, ansie, paure etc.) e la crisi prodotta dalle attuali strategie nella società post-moderna occidentale. Si passa così all analisi centrale della ricerca, costituita dalle questioni teoriche dei migranti e dalle caratteristiche che definiscono il soggetto migrante nella sua differenza con il resto della popolazione italiana (terzo capitolo). Molti sono i vissuti che differenziano i migranti nel contesto italiano e che sono stati analizzati in questi ultimi decenni dai sociologi, ma il rapporto del migrante con la morte costituisce una novità, sebbene essa sia la dimensione dell esistenza con la quale egli si confronta quotidianamente. Il rapporto del migrante con la morte, affrontato nel quarto capitolo, costituisce il focus dello studio. Nel quarto capitolo 6

infatti vengono affrontati le questioni centrali della dinamica migratoria; la partenza, il viaggio in mare, il mito del ritorno in patria del soggetto migrante, tutti aspetti osservati dalla finestra della morte, che ne disegna gli orizzonti e le prospettive. La scelta del luogo di sepoltura si configura come un importante indicatore della volontà o meno del migrante di radicarsi altrove rispetto al suolo natio; c è chi vuole tornare nella terra di origine, c è chi sceglie la terra di approdo e chi non compie scelta alcuna, avendo rimosso la morte nella propria esperienza di vita. Nel contesto del viaggio del migrante assume un forte valore simbolico l isola di Lampedusa, luogo pregno di significato, nel mezzo del Mediterraneo, punto di approdo di molti migranti provenienti dalle coste del Nord Africa. In questa terra l Autore ha compiuto un viaggio significativo, quasi per sperimentare i percorsi dei migranti e conoscere alcuni protagonisti e testimoni privilegiati, che raccolgono i corpi dei migranti che qui arrivano, restituiti alla terra dalle onde del Mediterraneo. Un attenzione particolare è dedicata alla ricostruzione della rotta delle salme che vengono rinvenute a Lampedusa e nel Mediterraneo anche attraverso l esperienza dell ex guardiano del cimitero della medesima isola. Il quinto capitolo, dopo aver spiegato le motivazioni della scelta del campo di ricerca, espone la metodologia utilizzata, che è quella qualitativa, condotta attraverso la tecnica delle interviste semi-strutturate, che valorizzano la storia personale dei soggetti della ricerca. In questo ambito si analizzano i dati raccolti nelle 25 interviste effettuate a testimoni privilegiati a vario titolo, nel territorio della Provincia di Viterbo. Tra gli altri, alcuni dei migranti, soggetti della ricerca, hanno fatto il viaggio con 7

i «barconi della speranza» e dalle loro interviste emerge il cambiamento a cui una simile esperienza li ha portati. Nel sesto capitolo si descrive la pluralità dei riti funebri analizzati (riti islamici, ortodossi, cattolici di culture non italiane, buddisti, cinesi, induisti, protestanti, rom, minimi) e si delineano i medaglioni degli intervistati. L Autore individua, sulla base dell analisi empirica delle variabili (cultura di provenienza, religione e religiosità, esperienze di vita, grado di partecipazione al fenomeno della globalizzazione) quattro tipologie di migranti: Localistici nostalgici, Localistici globalizzati, Cosmopoliti nostalgici, Cosmopoliti globalizzati. Queste diverse figure declinano ognuna a suo modo la poliedricità della morte e le sue problematiche e allo stesso tempo hanno una propria modalità di interazione con la società di accoglienza. Mi piace affermare che la parte più originale della ricerca sia costituita dalla ricerca empirica, unica nel suo genere, che sperimenta l applicazione di modelli teorici alla stessa ricerca sul campo. Lo studio sociologico di Marco Loperfido mette in risalto che la riflessione sui migranti è essenzialmente un discorso su di noi, sul modo in cui noi organizziamo il nostro sapere ed applichiamo le nostre categorie conoscitive. In definitiva, la sociologia, mentre cerca di rispondere alle domande e ai bisogni dei migranti, riflette criticamente anche sul proprio sguardo, basato su principi autoreferenziali. In questo senso, secondo la prospettiva di Ricoeur, l altro che viene da lontano, prima si fa carico della storia personale, dopo riesce a restituirmela, rendendo possibile che il soggetto-altro se ne riappropri. Ogni racconto, nascendo da una dinamica intersoggettiva, non è mai né mio né completamente tuo ma è contemporaneamente nostro. Il fatto di essere nostro 8

implica che ci sia un noi dal quale possa sgorgare genuino il racconto. L uomo infatti è quell animale che seppellisce i propri morti, sostiene Thomas (1976), e da ciò ne consegue che dimenticarsi della morte dei migranti diventa la traccia della dimenticanza della nostra stessa umanità. Gli uomini sono tutti differenti, ma uguali di fronte alla morte, ed è forse solo grazie a questa esperienza che potremmo ridefinirci come appartenenti ad un'unica comunità, sentirci uguali pur nella differenza. Da questo punto di vista i migranti subiscono una serie di difficoltà aggiuntive rispetto a chi migrante non è, come l angoscia di morire all estero che si intreccia con il mito del ritorno, l ansia di non riuscire a tornare in tempo per i funerali di un congiunto deceduto, la burocrazia e il costo del rimpatrio della salma, la paura di non riuscire a compiere i rituali secondo la propria tradizione funebre. Il corteo funebre per esempio, non è affatto una manifestazione vuota e formale, è anche un modo di ripossedere gli spazi della vita quotidiana unificandoli, cercando in essi la protezione divina, sociale e quotidiana. Ma se la morte, come visto, è al plurale lo è non solo perché essa è culturalmente e storicamente declinata, ma anche perché di essa si può parlare in molte e diversificate maniere. Per esempio un migrante potrà subire una perdita in Italia o nel paese di accoglienza; potrà pensare alla propria morte all estero o a quella dei propri cari all estero o in Italia. Lo studio di Marco Loperfido, realizzato con cura, ricchezza di documentazione e serietà scientifica, sia per l impianto teorico che per gli aspetti metodologici, evidenzia un originalità e creatività nell ambito degli studi sull immigrazione, che sicuramente potranno essere continuati nel futuro. Carmelina Chiara Canta Ordinaria di Sociologia dei processi culturali e comunicativi Università di Roma Tre 9

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Introduzione Nel dimenticatoio della nostra società Il dimenticatoio è un luogo immaginario dove vengono riposte le cose che non vogliamo vedere. Le cose scomode e fastidiose. Una specie di sgabuzzino invisibile che racchiude speranze perdute, illusioni svanite, ma anche mostri della mente e fatti traumatici. Forse quelle cose che più ci fanno male e ci tormentano. Freud userebbe il termine "rimozione", intendendo un meccanismo di difesa personale davanti ad esperienze troppo dolorose. Ma è possibile parlare di dimenticatoi e quindi di rimozioni anche per un'intera cultura? Per una società nel suo insieme? Nella nostra società c'è un primo grande "rimosso" ed è lo status di "persona" del migrante. Colui che migra, specialmente colui che migra da paesi più poveri, magari non occidentali, con una cultura e perché no un colore della pelle diverso, non è a tutti gli effetti una persona come gli altri, ma qualcosa come uno scomodo extra, pura forzalavoro senza diritti, un clandestino da respingere il prima possibile, un invasore irregolare. Insomma in poche ma sintetiche parole: una non-persona 1 (Dal Lago 2001). Il 1 Scrive Dal Lago sulle non-persone: "Sono vivi, conducono un'esistenza più o meno analoga a quella dei nazionali (gli italiani che li circondano), ma sono passibili di uscire, contro la loro volontà, dalla condizione di persone. Continueranno a vivere anche dopo, ma non esisteranno più, non solo per la società in cui vivevano come «irregolari» o «clandestini», ma anche per loro 11

continuo e ininterrotto discutere a destra e sinistra della questione immigrazione porta inevitabilmente a nascondere, dietro nuove metafore, neologismi e quant'altro, il fatto semplice ed evidente che, al di là delle concettualizzazioni e delle classificazioni in base a paese di provenienza, cultura e formazione sociale, prima di tutto il migrante è una persona e come tale è portatore di diritti e di doveri. Di questi difficilmente si parla e si discute, persi come siamo a voler a tutti i costi capire se i migranti siano un fattore di crescita e di possibilità (non soltanto economiche) o un fattore di destabilizzazione e di rischio. La nostra incapacità di governare i flussi sempre crescenti di persone straniere, di inquadrarle istituzionalmente e di dare loro delle risposte di vita soddisfacenti affinché crescano stabilmente nel nostro paese (Borgna 2011), non fa altro che aumentare il rischio di fraintendimento su chi sia realmente il migrante (cioè semplicemente una persona), alimentando il pregiudizio e la separazione, sfavorendo dunque la coesione sociale. I diritti e i doveri, dietro a questa complessità, perdono di centralità, vengono appunto scordati, messi da parte, "rimossi". "Tutto si sfarina. Anche i diritti diventano una variabile dipendente: riconosciuti o negati, a seconda dell'opportunità, in relazione alla provenienza, alla cittadinanza, ad un'etnia, ad una condizione sociale. Non solo i «diritti politici», che la nostra Costituzione riserva ai soli cittadini, ma anche i diritti fondamentali della persona che per lunga tradizione culturale abbiamo sempre stessi, poiché la loro esistenza di fatto finirà e ne inizierà un'altra che comunque non dipenderà dalla loro scelta" (Dal Lago 2001: 207). 12

considerato preesistenti a qualunque norma e dunque semplicemente riconosciuti dalle Costituzioni" (Borgna 2011: 14). Il secondo grande rimosso, nella società post-moderna, è la "morte". Padrona incontrastata della mente degli uomini dei secoli passati (Ariès 1980), oggi è ridotta a fantasma di se stessa. Mette ancora paura, questo si, anzi angoscia, ma solo quando arriva il fatidico momento del trapasso, cioè solo quando gli uomini debbono farci i conti sul serio, ovvero in vecchiaia o quando si è morenti. La morte però, così intesa, non ha più quel ruolo di strutturazione del reale che prima possedeva, non riesce più a cambiare gli uomini in virtù di se stessa, e quando ci prova è ormai troppo tardi. Rimane sullo sfondo come un ronzio fastidioso, come una mosca che ogni tanto ci dà noia, ma che non riusciamo a far uscire definitivamente da casa. Non ci sarebbe nulla di male, intendiamoci, se non che la riflessione sulla morte, in primis, non è soltanto apportatrice di negatività, bensì anche di possibili rinascite e risorgimenti. In secondo luogo c'è la constatazione che la morte arriverà, questo è inevitabile, e non parlarne, non farci i conti, rimuoverla totalmente dalle scene, comporta fenomeni di defamiliarizzazione 2 (Elias 2 Chiamo processo di defamiliarizzazione quel meccanismo che porta gli uomini che non hanno fatto i conti con la realtà della morte sin da piccoli, come dice Elias, a non inquadrarla nel contesto delle cose possibili. Essi rimangono basiti di fronte a questo nuovo e inaspettato ospite che li viene d'un tratto a trovare e che, a quanto pare, non se ne andrà mai più, fino alla fine. Gli uomini della nostra società dunque, che rimuovono la morte perché nessuno gliel'ha mai insegnata, sono inesperti di fonte ad essa e si sentono perduti. 13

1985), informalizzazione 3 (ibidem), igienizzazione 4 (Ibidem; Glaser e Strauss 1965) e desocializzazione 5 (Thomas 1976) (cfr. Cap. II), che a loro volta in maniera sinergica ed esponenziale, rendono l uomo post-moderno molto più fragile, isolato e disperato. D'altra parte se abbiamo relegato la morte nell'angolo più buio della nostra mente (e della nostra società) non è tanto perché abbiamo scordato d'un tratto quanto la paura che essa comporta, nel corso del nostro passaggio dalla condizione di animali a quella di uomini, ci abbia fatto diventare religiosi (Salvarani 2005), scientifici (Severino 2006) o addirittura culturali tout court (Bauman 1995), quanto perché non sappiamo più, come una volta, quali strategie apporre al suo inesorabile verdetto. Ogni possibile via per l'affermazione di un qualsivoglia tipo di immortalità è stata tentata ed ha dimostrato, almeno agli occhi dell'uomo occidentale, la sua natura di illusione. Dunque la morte è un inquilino scomodo, che spaventa soltanto e che ha smesso di sollecitare positivamente la nostra creatività. Essa viene rimossa, lasciata nel dimenticatoio, obliata. C'è poi una terza dimenticanza in questo ipotetico sgabuzzino delle cose rimosse della nostra società, che non ci 3 Chiamo processo di informalizzazione quel meccanismo che conduce chi sta accanto ad un morente a non avere strumenti culturali idonei per far fonte alla sua angoscia e al suo dolore. 4 Processo consequenziale agli altri che conduce a vivere la propria morte o la morte dei propri cari in luoghi asettici come gli ospedali, lontano da occhi indiscreti che possano vedere che la morte esiste realmente. 5 Incapacità di vivere la morte insieme agli altri, come fatto naturale e collettivo, e che porta con sé, ovviamente, senso di solitudine. 14

stupisce affatto che ci sia. Essa infatti è semplicemente l'unione delle due rimozioni di cui ho parlato fin'ora, ovvero il rapporto tra i migranti e la morte. Più precisamente la terza dimenticanza è la «morte dei migranti». Ma se i due termini che la compongono, cioè il migrante e la morte, sono dimenticati, in un certo senso, semplicemente e direttamente, la «morte dei migranti» invece è rimossa in una maniera amplificata e maggiorata, se non altro perché è l'unione di due rimozioni e quindi una rimozione all'ennesima potenza (da qui il titolo del presente libro: Morte 2 ). E' come se essa occupasse un luogo nascosto ed invisibile dello sgabuzzino dove si trovano le cose dimenticate. La morte dei migranti si trova in un cassetto dimenticato dello stesso dimenticatoio. Il primo segno di questo fenomeno amplificato è dato dalla mancanza di bibliografia a riguardo. Mentre per il migrante e la morte presi isolatamente esistono bibliografie sterminate (non dimentichiamoci che entrambi i fenomeni sono considerati "fatti sociali totali"), raramente l analisi dell intreccio di queste due vastissime e dibattute aree tematiche è stato preso in esame. In Europa per esempio, che io sia riuscito a trovare, esiste solo una ricerca che abbia come oggetto queste due tematiche in relazione, ovvero la ricerca del francese Chaïb, pubblicata nel 2000 (Chaïb 2000), mentre in Italia c'è solo quella di Maria Cristina Manca Le cerimonie funebri come riti di passaggio (Manca 2005), e recentemente la mia tesi di dottorato (Il migrante e la morte. Indagine nella Provincia di Viterbo), dalla quale traggo la maggior parte delle considerazioni che espongo in questo saggio. Un ulteriore segno della dimenticanza è dato dal fatto che, benché sulle scene mediatiche la morte dei migranti sia onnipresente a causa delle notizie delle morti in mare dei 15

cosiddetti «clandestini», nulla viene fatto realmente affinché questo scempio abbia una fine definitiva. I morti, secondo Fortress Europe (http://fortresseurope.blogspot.it/), dal 1988 a oggi sono più di 18.000 (dati a luglio 2012), un numero impressionante. Al tempo della nostra amicizia con la Libia di Gheddafi (cioè soltanto un anno e mezzo fa) era del tutto ovvio respingere uomini nel deserto senza sapere che fine avrebbero fatto, in barba ai diritti umani di cui ci facciamo fieri portavoce. "Per cui il fatto noto e conclamato che uomini e donne respinti dai nostri mari siano andati a morire di sete nel deserto libico, è cosa che non sgomenta, non provoca indignazione, voglia di ribellarsi. Le ossa di centinaia di persone, disperse nelle sabbie sahariane, suscitano in Italia meno emozione e meno discussioni di una partita di calcio" (Borgna 2011: 14-15). Dimenticarsi della morte dei migranti significa altresì non porre l attenzione sulle necessità psicologiche di chi vive una perdita fuori dal proprio paese di origine, non preoccuparsi della sua stabilità emotiva, non voler vedere che il lutto, il funerale e la memoria degli antenati non sono questioni meramente pratiche e di poco conto, ma fondamentali per l equilibrio sociale dello stesso paese che ospita il migrante. Queste rimozioni hanno una trama teorica complessa, la comprensione della quale trova le sue motivazioni nell analisi svolta da molte discipline scientifiche: filosofia, sociologia, antropologia e storia, che si intrecciano a volte in maniera inestricabile. L origine stessa di queste dimenticanze affonda le radici nella profondità dei secoli, 16

nella storia stessa del pensiero occidentale e dei suoi tentativi di conoscere il mondo e l uomo. Scopo di questo saggio è dunque quello di gettare una prima ed esile luce su questa grande e quasi inesplorata complessità, per comprendere meglio le lacune della cultura post-moderna occidentale sulla fine dell esistenza umana e dare un giusto riconoscimento alla morte dimenticata dei migranti, nonché alle loro difficoltà nel rapportarsi con la morte, idealmente e praticamente, in terra straniera. 17

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Cap. I La filosofia e la morte Tutto mi parla della vita, persino l idea di mortalità; niente mi parla della morte, nemmeno la filosofia della morte. V. Jankélévitch La morte come pensiero del nulla Da sempre il pensiero filosofico s interroga sulla morte, considerandola in un certo senso la sua materia prediletta, la tematica per eccellenza della sua speculazione. E da sempre una visione della morte, tra tutte, si è fatta strada come la più famosa e ingegnosa: quella di Epicuro 6, che la considera come una vana preoccupazione, un pensiero che non dovrebbe sussistere. La morte infatti semplicemente non è. Non è nel senso che non esiste in quanto cosa o fenomeno. Non essendo non dovrebbe nemmeno incutere timore. Questa riflessione è talmente popolare che citarla in un testo che si occupi della morte è diventata una vera e propria consuetudine (anch io, come si può ben vedere, non mi sono voluto privare di questo vezzo), un poco noiosa forse, ma dall indubbio pregio di inquadrare subito la questione da un 6 Invece, vedi Meneceo, la morte considerata il più atroce di tutti i mali non esiste per noi. Quando noi viviamo, la morte non c è, quando c è lei non ci siamo più noi. Dunque, la morte non è nulla né per noi, che siamo vivi, né per i morti, che non sono più (Epicuro, Lettera a Meneceo sulla felicità, in Natoli 2007: 75). 19

punto di vista vantaggioso, da cui cercheremo di far partire il nostro ragionamento. Epicuro infatti ci dice semplicemente che aver paura di cose che non ci riguardano è del tutto ingiustificato, così come appariva ingiustificato già a Platone, o meglio a Socrate, allorquando affermava, prima di lui, che Aver paura della morte non è nient altro che sembrare sapiente senza esserlo (Platone, 2009: 29b), perché nessuno sa cosa ci aspetta dopo la morte e aver paura di ciò che non si può sapere è davvero da stupidi. Ma come è possibile che la nostra morte, intesa come cosa o fenomeno, non ci appartenga? Molto tempo dopo Platone ed Epicuro è Heidegger a chiarire questo passaggio, con altre terminologie naturalmente: Il passaggio al non Esser-ci-più sottrae all Esserci la possibilità di esperire questo passaggio e di concepirlo come esperibile (Heidegger 1976: 292). La morte non è esperibile perché in essa ciò che viene a mancare è, in generale, la stessa possibilità di esperire. Questa consapevolezza si basa dunque su di una mancanza vera e propria. Anzi potremmo dire che è proprio grazie a questa mancanza (che poi è la mancanza di noi nel momento della morte) che per Epicuro non dovremmo aver paura della morte. Rintracciamo lo stesso pensiero nelle parole di un altro filosofo: Così la morte gioca a nascondino con la coscienza: dove io sono, la morte non c è; e quando la morte c è, sono io a non esserci più. Finché io sono, la morte deve ancora venire; e quando la morte arriva, qui e ora, non c è più nessuno. Delle due l una: o coscienza o presenza della morte! Morte e coscienza si scacciano e si escludono reciprocamente, come per effetto di un commutatore Impossibile sommare 20

questi elementi contraddittori! Decisamente, l alternativa è combinata con cura (Jankélévitch 2009: 30). La costituzione fondamentale della morte di conseguenza ha per noi un duplice ruolo: da un lato ci tranquillizza, come dice Epicuro, dall altro ci lascia addosso il senso di un impossibilità totale, proprio sul terreno che più dovrebbe esserci familiare, ovvero noi stessi. Ma se questa considerazione è essenziale al nostro più costitutivo modo di essere al mondo, se questa analisi è corretta e ineccepibile, di cosa abbiamo paura realmente quando parliamo della morte? E d altra parte: cosa invochiamo a gran voce nel momento della sofferenza più alta in cui la vita ci sembra un fardello insopportabile e vogliamo che giunga la morte? Insomma: se la morte non è una cosa alla stregua di un sasso o di un tavolo e se per giunta nessuno ne ha mai fatto vera esperienza perché, come dice La Rochefoucauld, essa è impossibile da guardare in faccia come il sole (La Rochefoucald 2005: 26), allora di cosa ci stiamo occupando realmente? Ebbene ci stiamo occupando di un pensiero. Ma non di un pensiero qualsiasi come potrebbe essere appunto il pensiero di una cosa o di un fatto, bensì di un pensiero molto articolato e sfaccettato. Meglio sarebbe dire che ci stiamo occupando di un processo cognitivo, che entra in scena quando capiamo che non esisteremo completamente più, sotto nessun tipo di sembianze o forma, ovvero quando annunciamo a noi stessi la possibilità di sprofondare nel totale oblio, nell annientamento più assoluto. Quello che fa paura della morte dunque è il pensiero del nostro non esserci più un giorno, il passaggio dall essere al non-essere e questo pensiero accade ora, non poi, ma adesso che io anticipo la morte, non quando essa arriverà effettivamente (con buona pace di Epicuro). La paura allora subentra, oltre che per l incognita che il passaggio tra questi due stadi comporta (dall essere al nonessere), anche perché abbiamo a cuore la nostra identità 21

individuale che sentiamo in pericolo, un pericolo mortale. E lo scomparire definitivo di questa individualità ad atterrire, ciò che Jankélévitch chiama la finestra che dà sul niente. Il nostro guardare attraverso questa finestra è il processo cognitivo che la morte fa entrare in gioco, l idea compiuta del vuoto, che la morte richiama. La paura della morte e la riflessione sulla morte altro non sono, si potrebbe dire, che il nostro riflettere affacciati alla finestra dell impensabile, perché, come dice Edgar Morin La vera e propria idea della morte è priva di contenuto, o meglio il suo contenuto è il vuoto infinito. E la più vuota delle idee vuote perché il suo contenuto è l impensabile, l inesplorabile [...] (Morin 1980: 43). Questo pensiero non genera semplicemente paura. La paura infatti è contraddistinta dall essere paura di e come abbiamo visto la morte non è qualcosa in particolare di cui avere paura. Il tipo di paura che si viene a generare in questo modo è propriamente una paura esponenziale e senza fine, ma anche senza punti fissi eppur terrorizzante, un girare a vuoto esistenziale, ovvero è angoscia. L angoscia è infatti lo sgomento di una coscienza che ha cercato di pensare la morte come si pensa un contenuto finito e che arretra, avvilita e disorientata, davanti a questo mostro (ivi: 40). Se partiamo dal punto di vista di Epicuro, ineccepibile, non dovremmo aver paura della morte. Ciononostante ne abbiamo e questo perché non è la morte in sé a fare paura, quanto il pensarla adesso come non-essere in contrapposizione all essere che siamo. 22

Guardiamoci in faccia. Il più terribile male è l agonia che precede la morte. Essere nel momento in cui sai che non sarai più (Reale in Monti 2010: 52). Ma secondo alcuni autori, tra cui Severino, questo pensiero dell annientamento totale, del passaggio dalla vita alla morte come passaggio dall essere al non-essere, non è un pensiero astorico e sempiterno, collocato nella naturale costituzione dell uomo. Ha invece una sua precisa collocazione culturale. Nasce in un determinato contesto filosofico e si sviluppa poi man mano. Prima di questo momento, una sorta di spartiacque tra il prima e il dopo del pensiero, non esisteva e questa considerazione ne fa un concetto che può essere messo in discussione, relativizzato. Quantomeno osservato e analizzato come prodotto culturale specifico. Esso, se così fosse, potremmo dire con una paradossale metafora, non ci cadrebbe addosso come una sentenza di morte definitiva. In un certo momento della storia, il pensiero occidentale pensa la morte come annientamento: il senso radicale del nulla e la morte come assoluto annientamento erano ignoti prima dei Greci. Per arrivare a scorgerlo è necessario pensare il nulla, il niente, e per pensare il niente è necessario pensare il non niente, cioè l essere e pertanto prima dei Greci il senso della morte non è legato al nulla proprio perché in chi li precede è assente il senso radicale dell opposizione dell essere e del nulla. A evocare questo pensiero è ciò che chiamiamo «filosofia» (Severino in Monti 2010: 140). Secondo la prospettiva di Severino tutta la tradizione filosofica occidentale si muove all interno di un estrema Follia che pensa il divenire di tutte le cose come un oscillazione tra l essere e il non- 23

essere. Estrema Follia a cui egli contrappone la non-follia, ovvero la concezione per cui ogni essente, ogni stato del mondo, ogni anima e ogni corpo, non potendo entrare nell essere, essere e poi uscirne, ma sostando sempre nel positivo, è eterno. Illusione è il loro uscire e il loro ritornare nel nulla. Illusione è l evidenza del senso greco del divenire (Severino 2006: 23). Questi concetti sono mutuati dall intuizione di Nietzsche secondo la quale la storia della filosofia, da Platone ad oggi, altro non sarebbe che la storia di un errore (Nietzsche 2005a: 46-47). Tutto ciò di cui da millenni i filosofi hanno fatto uso, erano concetti mummificati; dalle loro mani non sortì vivo nulla di reale. Quando adorano, questi signori che idolatrano il concetto, uccidono, impagliano quando adorano, essi diventano un pericolo mortale per ogni cosa. La morte, il mutamento, tanto la vecchiaia che la generazione e la crescita sono per loro delle obiezioni, addirittura delle confutazioni. Quel che è, non diviene; quel che diviene, non è Allora tutti costoro credono, persino con disperazione, a ciò che è (ivi: 40). Essere e non-essere, in quanto concetti ontologici, non danno la possibilità di carpire dal reale ciò che più lo contraddistingue, ovvero il mutamento, il divenire, la nascita e la morte. In una maniera solo apparentemente paradossale i sostenitori di questa ontologia, non riuscendo a carpire il come della morte, è come se uccidessero filosoficamente la realtà di cui la morte fa parte. Ma torniamo agli effetti del pensiero della morte intesa come uno sprofondare nel nulla. Severino su questo concorda con Jankélévitch: il pensiero antitetico tra essere e non-essere è generatore di angoscia: Quando il pensiero greco guarda in faccia il niente, porta dunque alla luce il volto più angoscioso che mai 24

si sia mostrato nell esperienza dell uomo. Il dolore umano dipende da ciò che il sofferente è convinto di essere, e gli abitatori dell Occidente si lasciano convincere che il loro essere polvere è il loro essere destinati al nulla (Severino in Monti 2010: 140-141). Jacques Choron (1971), in accordo con questa visione storica del pensiero della morte come nulla assoluto, afferma che l ineluttabilità della morte non è stata sempre una consapevolezza per l uomo. Per «l uomo primitivo» infatti essa è sempre il risultato di un azione esterna, di un accidente. Se non ci fosse questo accidente (malattia, caso nefasto, uccisore) nessuno morirebbe mai. L uomo, per questo tipo di pensiero o cultura, nasce immortale e quando muore comunque non scompare mai totalmente. Dunque la morte al principio, per gli uomini, non è sinonimo di totale annientamento. L uomo primitivo non crede che si muoia completamente. In ogni caso la morte per lui non è la pura e semplice soppressione di tutte le forme di attività ed esistenza. Essa non è mai assoluta (ivi: 19). Per l uomo primitivo o per colui che non ha pensato l Essere nei termini greci la morte è seguita sempre da una sorta di rinascita (vedi il Cap II). La morte è un passaggio immanente che non interrompe bruscamente il ciclo dei fenomeni. Per l uomo che non ha vissuto la rivoluzione filosofica greca, ovvero che non pensa l essere e il non essere come forme distinte e inconciliabili, la morte ha fattezze diverse. Il pensiero della morte dunque non è un pensiero a priori, ma culturalmente e storicamente determinato. Parlando di Melanesia e delle culture delle sue popolazioni Cavicchia Scalamonti scrive: Non vi è 25

alcuna idea di annientamento nella morte. Il Canaco non può confondere morte e nulla (Cavicchia Scalamonti 1984: 38). Cassirer ribalta addirittura la questione sostenendo che l annientamento era così difficile da pensare per i primi uomini che era la morte a dover essere dimostrata, non l immortalità. Fu il cambiamento della concezione del tempo da ciclico a lineare che rese possibile la coscienza dell ineluttabilità della morte e del suo carattere di totale annientamento. In queste società, cioè, il tempo non scorre linearmente, non va insomma dal passato al futuro, ma è sia immobile che ciclico. Ciò che è stato una volta e all origine torna e si ripresenta ad intervalli più o meno regolari. Esso viene periodicamente riattualizzato, conferendo così agli oggetti e alle azioni una verità ed una realtà che intrinsecamente e autonomamente essi non possiedono affatto. [ ] In questo modo il passato continua a perdurare possedendo la stessa realtà del presente. Ed è chiaramente su questo principio che si fonda il culto degli antenati, mentre le tradizioni, quelle osservate ritualmente, sono il passato materializzato e perpetuato nell attualità (Cavicchia Scalamonti 1992: 22). Per ultimo, ma non certo per importanza, analizzerò la visione del filosofo francese François Jullien, il quale nel suo libro Le trasformazioni silenziose (Jullien 2010) fa un analisi comparata del modo di intendere il cambiamento per la cultura filosofica occidentale (che trae le sue radici fondamentalmente dal pensiero filosofico post-socratico) e la concezione totalmente altra messa in campo dalla saggezza cinese. Per Jullien non si tratta di stabilire quale cultura sia meglio di un altra, né di capire 26

cosa sia sostanzialmente l una e l altra 7, ma semplicemente di comprendere, attraverso appunto la comparazione, i vuoti che una data visione del mondo lascia inevitabilmente aperti con la sua riflessione. Jullien difatti sostiene che il partito preso dell Essere nel suo complesso e la sua grande costruzione detta «ontologica» (ibidem), nasconde la possibilità agli occidentali di comprendere veramente le trasformazioni della realtà. Per i Greci, abituati a pensare in termini di idee immutabili e sempiterne (Platone) o sostanze (Aristotele), quello che rimane difficile da afferrare è proprio il passaggio da una forma all altra dell esistenza, ovvero il fondamentale, ciò che più caratterizza l esperienza del mondo che abbiamo sotto gli occhi: il susseguirsi delle stagioni, il sorgere e il tramontare delle passioni, il lento cambiamento delle società, il movimento silenzioso della storia, l inevitabile invecchiamento e anche la morte. E la transizione il grande rimosso, ciò che apre letteralmente un buco nel pensiero europeo, riducendolo al silenzio (ivi: 22). Il problema non è la pensabilità delle forme, ma il tra che si instaura all interno di due stadi. Come in Platone ciò che trattiene Aristotele dal pensare il tra in quanto tra è che in esso viene meno la determinazione che fa «essere». Poiché c è «essere» - questo il postulato greco solo se non è sfumato [flou] ma distinto e determinato. O piuttosto, dato che non possiamo prendere in considerazione di pensare in altro modo che in termini di Essere, il che 7 Non sto nemmeno a domandarmi qui cosa caratterizza «in proprio» la cultura e il pensiero, greci o cinesi, in base a quel che sarebbe la loro originalità nativa: bisogna temere un eccessiva arbitrarietà in queste rappresentazioni essenzialiste della cultura, per di più fossilizzate dalla tradizione. Ma piuttosto: quali risorse hanno dispiegato e promosso, da una parte e dall altra, nella loro inventiva, dalle quali la nostra comune intelligenza può oggi trarre partito? (Jullien 2010: 31). 27

è più di un postulato, è la piega greca del pensiero: in essa il trans della trasformazione risulta logicamente annegato, o piuttosto ne viene negato, e davanti a questa degenerazione io mi pongo interrogativi (ivi: 24). Non è difficile constatare come il partito preso dell Essere di cui parla Jullien sia lo stesso procedimento storico di cui parla Severino, che lui chiama, come abbiamo già visto, l estrema Follia, ovvero il senso greco del divenire come passaggio da un Essere ad un altro Essere attraverso il Non-essere. Che questo non sia nient altro che un partito preso, e che continuare a muoversi solo all interno di questo partito sia una estrema follia, risulta chiaro se ci spostiamo, sotto la guida di Jullien, dall ambito europeo a quello cinese: La cosa più intrigante quando si passa dall Europa alla Cina è che le domande che ci poniamo noi, e che non possiamo non porci, quando passiamo all altro versante, vale a dire quando ci si sposta nell altra lingua, non si pongono più, non sono più da porsi: non si risolvono, ma vi si dissolvono. Anche nel Laozi, la cesura che la frase europea fa apparire dal «nonessere» all «essere» - viene riassorbita, dato che la nascita viene fuori da sé da una continuazione 8 : come si vede l acqua torbida, quando la si lascia riposare, diventa a poco a poco chiara e limpida, allo stesso modo, viene detto in parallelo, «[quel che è] in riposo 8 Laozi, paragrafo 15. Laozi è una importante figura del pensiero filosofico cinese, anche se gli studiosi non sono ancora concordi della sua reale esistenza. A lui è attribuita la stesura del Tao te ching, testo sacro taoista, e la fondazione dello stesso taoismo. Visse probabilmente nel VI secolo a.c. 28

mettendolo lungamente in movimento a poco a poco nasce» (o «cresce» o «vive»: sheng). Non costituendo più una rottura, l origine della vita non ha più nulla di enigmatico (ivi: 49). E ovviamente, così come l origine della vita non è rottura tra non-essere ed essere, non lo è nemmeno il suo dileguarsi, il passaggio inverso, ovvero la morte. La morte come pensiero edificante Il pensiero della morte non è soltanto un pensiero angosciante e mortifero. Esso porta con sé dei semi di vita inaspettati. La morte infatti ricorda continuamente al soggetto l obiettivo ultimo della sua vita. Essa sembra potersi definire come quella fine che rammenta il fine. Chi pensa alla morte, alla propria morte, pensa in realtà al fatto se abbia o meno portato a compimento il proprio obiettivo ultimo e questa consapevolezza lo aiuta a concentrarsi meglio sul da farsi, sul vero valore delle cose e su ciò che di più ha a cuore profondamente. Incontrare la morte sul proprio cammino costringe a ripensare la propria quotidianità in termini di pienezza e di senso. Il pensiero della propria morte infatti proietta il soggetto in un ambito prettamente trascendente, facendolo entrare in contatto con il problema fondamentale dell esistenza. Ovvero: qual è il nostro senso? La domanda non è più soltanto se abbiamo portato a termine progetti concreti ed umani, ma anche se questi nostri progetti siano in accordo con una visione più ampia dell esistenza stessa, che includa anche il fatto che un giorno non ci saremo più. Analizzeremo in dettaglio questa ipotesi avvalendoci della spiegazione di Jankélévitch. Egli sostiene che di fronte all irruzione della consapevolezza che dovremo morire, i 29

momenti psicologici interiori che possono scattare sono due e consequenziali. Il primo è la presa di coscienza del non-senso di quel stiamo vivendo. Questa presa di coscienza, come un terremoto, rade al suolo la stabilità delle nostre costruzioni abituali, ci risveglia d improvviso da quel sonnacchioso vivere di tutti i giorni e ci pone di fronte al dubbio dell utilità di ogni nostro sforzo ad andare avanti. La morte fa vacillare retroattivamente la finalità della nascita, e in genere l utilità della breve passeggiata che la vita ci fa fare nell eternità del nulla. La morte ci fa dubitare della ragione d essere dell essere, e presto o tardi bisbiglia all orecchio dell uomo: a che pro? (Jankélévitch 2009: 70). Il secondo passo psicologico però è come una fenice che rinasce dalle ceneri e che ci fa fare il salto trascendente. E proprio nel momento del più assoluto sconcerto che la voglia di vivere acquista un senso più grande, che va al di là di questa mera esistenza e ci proietta in un terreno superiore. Scavando nel cuore dell essere il vuoto del non senso, la morte ci obbliga a cercare per questo essere fondamenti assoluti (ibidem). Alla radice di ogni pensiero trascendente, sia questo filosofico o religioso, c è il pensiero della morte. Come scrive infatti Bonora: In ogni letteratura religiosa e filosofica, dall antico testo babilonese dell epopea di Gilgamesh fino alla questione dell autenticità dell essere-per-la morte di Heidegger, la morte è il problema cruciale che non può essere eluso da chi cerca di capire il senso della vita (Bonora 1983: 150). La morte dunque ci lascia addosso la sensazione di un paradosso. Come scrive D Agostino: La morte getta una luce sulla 30

vita e allo stesso tempo rivela l assurdità della vita (D Agostino 1977). Ma da questo paradosso la riflessione ne esce arricchita, con un piano di interpretazione in più. L uomo turbato da questa chiusura e da questo avvenire sbarrato concepisce un altro mondo, un altra vita, un altro ordine, un Altrove e un Piùtardi, un Altrimenti da cui è escluso dall ostacolo invalicabile della morte (Jankélévitch 2009: 70). Questo è il punto fondamentale per comprendere cosa intendiamo quando diciamo che la morte è un pensiero che edifica. Edifica nel senso che dalla morte è possibile ricostruire un senso laddove sembrava esserci solo desolazione e vuoto. E come se nell esperienza della morte trovassimo un inaspettata conferma empirica del secondo teorema di incompletezza di Gödel, per il quale nessun sistema è coerente senza un meta-sistema che lo renda tale. La vita, nel momento in cui viene intesa come sistema chiuso attraverso la prospettiva della morte, sente la necessità, per darsi un senso, di porre un nuovo livello di interpretazione, più propriamente un livello superiore di spiegazione, tramite il quale darsi una coerenza altrimenti indimostrabile. Sulla base di queste riflessioni torniamo adesso a Severino. Egli sostiene, insieme a Nietzsche come abbiamo visto, che l uomo greco, anch esso turbato dalla caducità dell esistenza, dal pensiero della morte che vanifica ogni sforzo, nel tentativo di pensare ciò che rimane inviolato dal divenire, che non sprofonda nell oblio, concepisce la Verità in quanto Epistéme. Verità quindi come monolite assoluto che permane nonostante il divenire e la caducità delle cose e nonostante l impossibilità di diventarne padroni (Nietzsche 2005: 40). Verità intesa non già come semplice erudizione. Alla base della concezione greca della verità c è dunque una volontà di salvezza. 31

L uomo greco vuole la verità perché vuole salvarsi con verità dalla morte, emissaria di tutti i dolori. Si rende conto che per questa salvezza il mito non basta più: non può bastare né la vita eterna di Dioniso, né quando verrà alla luce, quella di Cristo. La salvezza dalla morte deve essere ormai vera salvezza, dove il pensiero vero afferma l esistenza del vero dio, cioè dell Essere che è sempre salvo dalla morte (Severino 2006: 10). Qui ci muoviamo, dunque, sempre all interno dei due momenti individuati con precisione da Jankélévitch: un primo momento di spaesamento e angoscia per il proprio destino e un secondo momento di ricomposizione della speranza e di immortalità. Severino chiama questi due momenti, sulla scia di Eschilo, la Minaccia e il Rimedio, o Sommo Rimedio. La filosofia è il sommo rimedio perché essa non è «mito», «opinione», «speranza», ma «epistéme della verità», sapienza incontrovertibile e immutabile in cui appare la necessità che il divenire del mondo sia guidato da Dio (ivi: 52). Ma epistéme della verità è anche l ambito in cui si è mossa la scienza occidentale dalle origini al XIX secolo 9, cioè la scienza intesa in senso positivistico. 9 La scienza positiva ha lasciato il posto nel XX secolo ad una scienza di tipo statistico-probabilistica, che non fa quindi più riferimento all universalità della spiegazione. Inoltre: seguendo il ragionamento di Popper e della sua teoria della falsificabilità (Popper 1970) è proprio la possibilità che una teoria venga falsificata che la rende scientifica. Sarebbe interessante notare i punti di contatto di questa visione ciclica della scienza (o meglio a spirale) rispetto a quella lineare e progressiva del positivismo e confrontare queste visioni con la visione della morte per la religione e della morte come morte-rinascita (cfr. Cap II). Infatti la 32

Nel pensiero filosofico e poi per lungo tempo anche nel pensiero scientifico la «verità» è intesa come «incontrovertibilità», «innegabilità», ossia come ciò che è sommamente capace di permanere e dunque di essere immutabile (ivi: 26). Ancora un passo con Emanuele Severino: non solo la scienza positivistica ha alla sua base il senso greco del divenire, ma anche quel pensiero che vede il nulla come fondamento di ogni cosa, ovvero il nichilismo, questa religione del niente e nientificazione di ogni cosa. La «morte di Dio» di nietzscheana memoria, riassunto e manifesto di ogni nichilismo, è possibile solo ed esclusivamente nella tradizione occidentale, in quanto è solo essa ad aver istituito la possibilità di un Essere immutabile ed eterno che si sottrae al divenire e alla morte. La morte di Dio è la conseguenza inevitabile del senso greco del divenire (ivi: 56) sostiene Severino, perché se pensiamo il divenire come un oscillazione dall essere al non-essere abbiamo solo due possibilità finali: o giungere all Essere in quanto Verità assoluta o giungere al Non-essere in quanto Verità assoluta. La persuasione comune che l essere del mondo proviene dal nulla e vi ritorna è la fede che sta all origine dell intera civiltà occidentale e che intende se stessa come evidenza assolutamente incontrovertibile. Sul fondamento di questa fede, la «morte di Dio» che è insieme la morte dell immortalità dell anima, è inevitabile (ivi: 16). scienza secondo Popper è un continuo susseguirsi di morti delle teorie, da cui seguono però delle rinascite. E la possibilità di morire che rende una teoria vera. Ciò che non può morire in scienza è dogma assoluto e quindi non-scienza. Quando una teoria dimostra di essere mortale allora essa dimostra anche di essere stata scientifica. 33

Ricapitolando: la morte, secondo questi autori, sembra essere il motore grazie al quale non solo prende il via ogni concezione trascendente, religiosa e filosofica, ma anche il nichilismo (come religione del nulla) e la scienza così come è stata pensata fino al XIX secolo, momento in cui invece è passata da un impostazione metafisica ad una statistico-probabilistica. Questi presupposti teorici sono anche la base per cui la morte getta un seme di vita anche da un punto di vista pratico ed emotivo. Un lutto, se ben interiorizzato, è spesso fonte di crescita individuale e di forte presa di coscienza di cosa significhi veramente vivere. Chi, per esempio, ha vissuto un esperienza lavorativa con i morenti ritorna alla vita quotidiana sicuramente cambiato e scosso, ma fondamentalmente arricchito. Così scrive Sozzi: Coloro che si sono occupati di accompagnamento dei morenti hanno sovente narrato un esperienza di maturazione a contatto con il dolore e la morte: la familiarità con la morte può dischiudere orizzonti di senso della vita, e quindi di appagamento dell attimo e piacere di esistere (Sozzi 2010: 25). Uno dei tratti fondamentali che contraddistingue coloro che hanno vissuto esperienze di vicinanza alla morte 10 (Near-Death Experiences o Stati di Premorte) è quello di uscirne profondamente cambiati, rinnovati, con un senso nuovo della religiosità (http://www.horizonresearch.org/). C è poi un ampio 10 Le esperienze ai confini della morte, anche note come NDE (acronimo per l espressione inglese Near Death Experience, a volte tradotto in italiano come esperienza di premorte ) sono esperienze vissute e descritte da soggetti che, a causa di malattie terminali o eventi traumatici, hanno sperimentato fisicamente la condizione di coma, arresto cardiocircolatorio e/o encefalogramma piatto, senza tuttavia giungere fino alla vera e propria morte. 34

sostegno sperimentale alla considerazione che man mano che la gente invecchia (e il pensiero della morte si fa più pressante) diventa progressivamente più credente e che le persone esposte a grandi pericoli diventano più religiose (Acquaviva 1991). Il pensiero dell ultimo istante quindi è anche, retroattivamente, quel pensiero che riempie di significato il fondamentale e svuota d importanza il superfluo. Anzi si potrebbe affermare che la vita deve il suo valore alla morte, ovvero per usare un espressione di Hans Jonas è solo perché siamo mortali che «contiamo i giorni e i giorni contano» (Salvarani 2005: 10). Se dunque il nostro rapporto con la morte, inteso non come contemplazione del nulla assoluto che ci attende, ma come fine inevitabile di un percorso, è poco presente e mal sistematizzato, possiamo dedurne che anche il nostro rapporto con la vita ne uscirà indebolito. Al contrario la presenza della riflessione sulla fine inevitabile della nostra vita, se non è un ossessivo memento mori, può arricchire e amplificare la nostra capacità di vivere il presente e gli attimi che lo seguono. E proprio questa la sfida: la morte acquista un senso soltanto se intrecciata a un rinnovato sguardo sull esistenza. La riflessione sulla morte diventa così una riflessione sulla vita [ ] (Monti 2009: IX). Estrema concezione infine quella pasoliniana, che intende la vita dotata di senso solo lì dove si incontra con la morte. Finché io non sarò morto, nessuno potrà garantire di conoscermi veramente, cioè di poter dare un senso 35