Parte seconda: i ferraristi

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1 Parte seconda: i ferraristi CAPITOLO 1 La sala d'attesa Era il sette maggio del '67 e un giovane alto e slanciato stava varcando i cancelli di Maranello per venire a ritirare personalmente la sua 275 GTB. Era il rampollo di una importante famiglia inglese, ricco, deciso, sicuro di sé. Era giovane, ma si vedeva che era già un capo. A soli 35 anni comandava un grande gruppo industriale, specializzato nella costruzione di dischi e nastri. Aveva i movimenti risoluti di chi è abituato a dettar legge e sembrava un piccolo Faraone. Ferrari lo vide entrare nella sua fabbrica, scostò la tenda del suo ufficio al piano terra, dove tutti pensavano ci fosse la guardiola del portiere, e rimase colpito da quel ragazzo. Arrivò subito il suo segretario: "Commendatore c'è Gary Pearce, vorrebbe che fosse lei a consegnargli la macchina". "C'è un problema" disse Ferrari. "La vettura non è pronta, faccia accomodare Pearce nella sala d'aspetto" Era una piccola stanzetta con vecchie poltrone, foto sbiadite alle pareti e una sola finestra. Ferrari la considerava una specie di purgatorio dove chi voleva mettersi al volante di una sua vettura, e non ne era degno, doveva espiare le proprie colpe. Pearce cominciava a diventare impaziente, con la tipica velocità di chi non è abituato, mai, ad aspettare. Così si alzò di scatto e si diresse deciso verso la porta dello studio di Ferrari. Senza bussare entrò nella stanza e con l'inconscia arroganza dell'inglese che dà per scontato che tutti parlino la sua lingua, disse: "Sorry...". Il mio protetto non gli fece finire la frase e senza neanche guardarlo prese il telefono e chiamò il capo

2 officina, muovendosi come al rallentatore, per far pesare ancor più al giovane Faraone la sfacciataggine della sua irruenza. Quello di Maranello era una specie di tempio e il giovane l'aveva profanato. Così, con aria distaccata, ignorando la presenza del ragazzo, disse in dialetto modenese: "Il signor Pearce non vuole più la 275, riportate la macchina in garage". Mr. Gary non aveva capito una parola della strana frase che Enzo Ferrari aveva sibilato nella cornetta del telefono. Anzi, una parola l'aveva capita: il suo nome. Ma con arguzia, aveva anche capito che nell'aria c'era un'atmosfera strana. Enzo a questo punto lo guardò dritto negli occhi e gli disse, stavolta in perfetto italiano, ma conservando sempre una studiata lentezza nei gesti e nel modo di parlare. "Caro Mr. Pearce, l'attesa del piacere è essa stessa piacere. Se lei non è in grado di apprezzare questi rari momenti di gioia, vuol dire che non apprezzerebbe neanche le qualità di una mia macchina. Per guidare una Ferrari si deve essere pazienti. Occorre saper aspettare. E più si va forte più bisogna metter da parte la fretta. Gli estremi si toccano, ma lei evidentemente non è ancora pronto per domare una macchina da corsa. Una vera macchina. Non se la prenda, ma la Gt che lei ha prenotato non è più in vendita. Se vuole una Ferrari ne ordini un'altra. Poi si vedrà". Mr. Pearce era furente. Uscì dalla fabbrica sbattendo la porta e imprecando contro il povero custode che, ormai abituato da anni a sfoderare improbabili sorrisi, regalò anche a quel maleducato la sua tipica smorfia. Tanto, per lui, quelli che passavano di lì erano tutti uguali. O quasi... Il giovane rampollo non poteva tornare in Inghilterra a mani vuote, così passò alla Lamborghini, vicino Bologna, e comprò una Miura. Peccato. Peccato, perché la 275 GTB che aveva invece ordinato a Maranello era un vero schianto. Il giovane Gary forse non sarà stato un pilota, come diceva

3 Ferrari, ma di gusto ne aveva. Eccome: per la "sua" Gt aveva scelto un celeste chiarissimo metallizzato, abbinato a interni in pelle blu notte. In più aveva anche chiesto di avere il bordo delle prese d'aria laterali cromate, copiando la soluzione estetica dalla 500 Superfast. Bellissima. Talmente bella che anch'io, al posto di Gary Pearce, sarei stato impaziente di mettermi al volante di una vettura del genere. Altro che attesa del piacere. Ecco, vedete? Vi pare possibile che un angelo s'invaghisca di un pezzo di ferro con quattro cerchi di gomma sotto? A volte penso che il riposo centennale al quale ora sono condannato sia una cosa giusta. Far fare anticamera per Ferrari era una strategia molto usata: "Commendatore, c'è di là il signor Colin Vandervell", annunciò un'altra volta il suo segretario. "Gli dica di aspettare", gli rispose Ferrari. Vandervell era un distinto signore inglese titolare di un'importante azienda fornitrice della Ferrari. Ma non un'azienda qualsiasi: la sua fabbrica produceva le migliori bronzine del mondo, pezzi importantissimi perché sono quei cuscinetti a strisciamento usati come supporti fissi all'albero motore. Pezzi che all'epoca si rompevano spesso nelle auto da corsa, e pezzi grazie ai quali la Ferrari aveva vinto un gran numero di gare. Al Commendatore erano giunte strane voci. Sembrava, infatti, che il distinto industriale inglese stesse accarezzando l'idea di mettersi in proprio realizzando una monoposto britannica. In realtà Colin Vandervell non aveva nessuna intenzione di tuffarsi in un'impresa del genere. Certo, della cosa in Inghilterra se ne discuteva tanto, ma per ora l'impresa sembrava troppo ardita, troppo piena d'imprevisti. Intanto, nella solita sala d'attesa, il tempo passava. E il nervosismo di Vandervell aumentava: era lì già da un paio di ore e non c'era nulla da leggere in quella stramaledetta stanzetta. Inoltre, lui era stato puntuale, e la sua segretaria

4 gli aveva anche confermato che con Ferrari era stato preso un appuntamento preciso. Era chiaro che il Commendatore ce l'aveva con lui. L'idea che Ferrari avesse avuto un contrattempo era stata in piedi nella sua mente solo per la prima mezz'ora, per resistere strenuamente fino allo scoccare dell'ora e per poi sparire del tutto. Ma Colin Vandervell era caparbio come solo gli inglesi a volte sanno esserlo. E aveva deciso di aspettare. A ogni costo. Voleva finalmente parlare con Ferrari e dirgliene magari quattro su quella lunga attesa. "Io - pensava di urlargli in faccia - non avrei mai fatto aspettare qualcuno tutto questo tempo. Spero solo che non le sia successo niente di grave...". Oppure "è evidente che per far correre le auto non serve l'educazione e la classe, per questo lei ha successo, arrivederci". O meglio "maledetto porco chi ti credi di essere?". Col tempo i suoi propositi diventavano sempre più bellicosi, e le parole che gli frullavano per la testa sempre più pesanti. Al punto che Vandervell cominciava anche a chiedersi, dentro di sé, se forse, alla fine non sarebbe stato meglio non incontrarsi affatto con Ferrari. Intanto il tempo passava. Due ore e mezzo, tre, quattro. Quattro e mezzo. Colin Vandervell non resistette oltre: i suoi propositi di non cedere a quella mascalzonata fallirono miseramente. Iniziò a urlare e a sbattere le porte, si fece chiamare un taxi e, dopo mezza giornata di attesa, se ne andò. Il segretario corse dal Commendatore, gli raccontò la sfuriata di Vandervell e sapete cosa disse Ferrari? "E' già andato via? Ma quello lì aveva così tanta fretta?". Le quattro ore e mezzo d'attesa, però, stavolta costarono care a Enzo Ferrari perché i propositi e i progetti solo abbozzati di cominciare a correre in proprio di Colin Vandervell divennero ben presto realtà, con lo scopo preciso di realizzare una macchina per battere non le

5 Ferrari, ma Ferrari, quell'omone che l'aveva offeso. Nacque così la Vanwall che negli anni Cinquanta diede non poco filo da torcere alla casa di Maranello, battendola sonoramente in più di un'occasione. CAPITOLO 2 Musica maestro Ma quali erano i clienti ideali di Ferrari? A chi il mio protetto avrebbe affidato senza rancori i propri capolavori? A parte i piloti, gli unici che potevano apprezzare fino in fondo le qualità dei bolidi rossi, credo proprio che i musicisti costituissero i clienti ideali delle Gran turismo di Maranello. I piloti, d'altra parte, da Ferrari erano visti come collaudatori, come attori di primo piano nella storia della marca. Gente insomma che non poteva essere confusa con chi comprava le vetture di serie e, in pratica, finanziava l'attività sportiva. A Maranello, infatti, venivano spesso in pellegrinaggio musicisti che nessuno sospetterebbe mai appassionati di vetture dure e pure come le Ferrari, di macchine da guidare con forza e da comprare per una profonda passione. Io personalmente rimasi letteralmente di sasso quando vidi Arturo Benedetti Michelangeli varcare i cancelli dello stabilimento di Maranello. Ma come, il maestro sempre dedito allo studio e alla ricerca della perfezione musicale si diverte a scorrazzare con un bolide da 300 orari? Poi, però, mi abituai all'idea: Michelangeli era un vero maniaco, cambiava macchina frequentemente e s'intratteneva spesso con Ferrari per discutere (o meglio per farsi spiegare) i particolari tecnici delle macchine. Mi ricordo ancora la scena del loro primo incontro: Arturo Benedetti Michelangeli, consapevole che la sua immagine di studioso del pianoforte mal si addiceva a quella di appassionato di motori con le unghie sporche di grasso, si aggirava nella fabbrica di

6 Maranello come se avesse un senso di colpa. Ferrari lo ammirava, e questo suo atteggiamento metteva ancor più in soggezione il grande pianista. Man mano che il mio protetto mostrava i vari reparti dello stabilimento, Arturo Benedetti Michelangeli s'innamorava sempre più dei bolidi del cavallino. E come tutti gli uomini d'arte, quando vengono assaliti dalla passione, per loro sono fulmini, vampate e diventa difficile trattenere l'emozione. Così, col passare del tempo, il musicista si astraeva sempre più, assaporando fino in fondo i rumori, gli odori e il processo produttivo delle macchine, ora brusco e violento, ora dolce e lentissimo. Proprio come in una composizione. C'era chi tagliava pezzi di lamiera con grande sforzo e chi cuciva delicatamente i sedili di pelle, chi prendeva a martellate i gallettoni delle ruote a raggi e chi con l'apprensione di un dentista che cura una carie serrava i prigionieri della testata. Ma, a un certo punto, la sua astrazione cominciò ad avere un motivo ben preciso: Ferrari parlava e Michelangeli non pensava ad altro che al modo di rompere gli indugi e chiedere una macchina al mio amico. Cominciai ai capire perché Ferrari s'indignò con Gary Pearce... Alla fine, approfittando del fatto che il Commendatore si era lasciato andare a grandi complimenti sulla bravura del maestro, quest'ultimo, girando con astuzia la richiesta - come se fosse un omaggio a Ferrari - chiese con un velato imbarazzo, una berlinetta Mille Miglia usata, con la scusa di non potersene permettere una nuova. Io lo so, lui moriva dalla voglia di comprarne una fiammante, ma quella, per ora era il massimo a cui poteva aspirare, non per problemi economici, ma solo per il fatto che una macchina usata era il compromesso ideale per la sua immagine. Questo Ferrari, lo aveva capito. Al punto che definì Michelangeli "un personaggio silenzioso, quasi diafano, con quella sua

7 cortesia fredda, quell'espressione sconcertante. Uno strano signore a colazione tra le nuvole". Enzo Ferrari aveva notevoli doti d'introspezione, e una sensibilità fuori dal comune per leggere nell'animo della gente. Me ne accorsi quasi subito. Sensibilità che usava per capire anche i suoi clienti, e non solo i suoi piloti che in pista dovevano dare sempre il massimo. Fra i musicisti Ferrari trovò anche un vero amico, una persona unica come lui. Era il maestro Cantelli, secondo lui (ma non solo) vero erede di Toscanini. Ferrari e Cantelli si capirono subito: entrambi avevano alle spalle umili origini e tutti e due avevano costruito il proprio successo con rabbia, con grandi sacrifici, ma anche con una sconfinata passione. Una passione che rendeva tutto più bello. La prima volta che il maestro comprò una Rossa fu Ferrari stesso a consegnargliela, ma a Cantelli non bastò: volle che il suo caro amico lo accompagnasse per i primi chilometri per insegnargli qualche trucco del mestiere. Poi, su strada, il maestro iniziò a spingere forse più del dovuto, al punto che Ferrari gli gridò: "Attenzione: l'automobile è femmina e come tutte le femmine è capace di tradire all'improvviso". Non so se il mio protetto in quel momento ebbe paura. Certo è che se quella non era paura, gli somigliava molto... Tra Ferrari, le sue macchine e il mondo della musica c'è sempre stato un legame particolare. Un rapporto strettissimo, quasi a Maranello si costruissero pianoforti, sassofoni o violini, piuttosto che bolidi da corsa, e non è un caso che tra gli altri Grandi del mondo della musica Ferrari conobbe anche i tenori Di Stefano e Corelli, ferraristi sfegatati anche loro. "Uomini diversi ma simpatici entrambi" li definì il Drake. Era evidente che Ferrari apprezzava la passione autentica di Di Stefano: aveva capito che per il suo amico musicista le Rosse non erano "una forma

8 pubblicitaria, ma proprio un godimento personale". Su questo, il folle costruttore di Maranello era molto severo: non accettava che le sue macchine venissero scelte solo per lo status di auto d'elite. Ma, d'altra parte, era difficile che vetture tanto belle, veloci (con relativo passato agonistico) e - perché no - tanto costose, venissero acquistate solo da veri appassionati. Così, perfino il tenore Franco Corelli, suo carissimo amico, fu spesso bersagliato da battutacce da parte di Ferrari: "caro Franco, gli disse una volta, credo che tu consideri l'automobile come il salotto di casa". In fondo le sue cure per i particolari della carrozzeria, dentro e fuori, le sue scelte di tonalità per tappezzerie e vernici, rispondevano - secondo Ferrari - oltre che a un gusto estetico, anche a un briciolo di innocente ambizione. E al Drake non sfuggiva mai il fatto che Corelli a volte si faceva fotografare in cento pose, a Maranello, vicino alle macchine più belle. Poi, però, il grande tenore tornava immediatamente modesto e spontaneo, le due principali caratteristiche che Ferrari apprezzava in un uomo. A Maranello andava spesso anche un tenore mancato, il cosiddetto reuccio della canzone, Claudio Villa. Ma a lui, Ferrari (tanto per cambiare) non ha mai perdonato il fatto di aver comprato Maserati o altre vetture sportive. "Io non ho mai capito - confidò una volta a un giornalista - come un uomo che sa cantare così bene, e che quando vuole sa trovare il giusto stile per ogni pubblico di paesi diversi, possa essere invece tanto incerto e instabile nei suoi gusti e apprezzamenti nei confronti dell'automobile...". Il gionalista lo guardò con un sorriso, ma io sapevo benissimo che non aveva capito nulla. Pensava che Claudio Villa avesse commesso qualche madornale errore di guida in presenza di Ferrari, che si fosse innamorato di qualche orrenda vettura americana. Invece Villa aveva semplicemente "osato" comprare macchine (bellissime) della concorrenza.

9 Insomma se non avevi una Rossa per quel presuntuoso del mio amico, eri un imbecille. Un vero imbecille. E con la spavalderia delle persone che si sentono superiori, Ferrari diceva apertamente quello che pensava. CAPITOLO 3 La Ferrari di Bertone Un lampo giallo attraversò il cortile della fabbrica di Maranello. Era una splendida Iso Grifo, la macchina personale di Nuccio Bertone, il famoso carrozziere che aveva anche disegnato quella fantastica macchina. Checché ne dicesse Ferrari, quella era una bella GT. Bassa, larghissima e con un enorme motore 8 cilindri a V, 7000 cc di origine americana che a un fantastico urlo univa un'affidabilità che i motori Ferrari si sognavano. Ferrari e Bertone erano amici, e dopo una lunga chiacchierata il Drake accompagnò Nuccio alla porta. Vide la Grifo e gli disse: "Bertone, sarebbe ora che lei avesse un'automobile". Il carrozziere annuì e gli confidò che da tempo avrebbe voluto una Ferrari "sua", ossia disegnata e costruita in proprio, ma che non osava invadere il campo di Pininfarina, collaboratore di fiducia della Ferrari e membro, tra l'altro, del consiglio di amministrazione dell'azienda di Maranello. Il mio amico rimase impassibile. Lo guardò dritto negli occhi e ringhiò: "mi chieda un telaio". Gli strinse la mano e lo congedò. A Ferrari piaceva il modo in cui Bertone vedeva le automobili: quello strano insieme di personalità e trasgressione lo affascinava. Ma non sopportava i vincoli contrattuali che il giovane Nuccio gli aveva appena ricordato. E che lui aveva appena infranto. Bertone ebbe il telaio: la macchina che ne uscì fu un vero capolavoro, una GT con il muso a bocca di squalo, proprio come quello delle Ferrari 156 Formula Uno di Phil

10 Hill e Richie Ginther. Grossi fari rotondi anteriori, lunotto posteriore avvolgente e una proporzione dei volumi fantastica. Divenne subito la macchina personale di Bertone; la trovò così bella che non resistette alla tentazione di presentarla ufficialmente in qualche salone dell'automobile. Fu un trionfo. Ma anche un disastro: il sasso nella vetrina che il Drake aveva tirato quel giorno sull'uscio dello stabilimento di Maranello, ora era andato a segno. La stampa specializzata scrisse e commentò che quella macchina era il pomo della discordia tra Ferrari e Pininfarina. Ma non c'era nulla di vero. Quella macchina, quella bellissima GT era solo il frutto del carattere focoso di Enzo Ferrari, che non diede troppo peso alla vicenda. Tuttavia Sergio Pininfarina non era dello stesso avviso: quando Bertone lo chiamò personalmente per rassicurarlo, era evidente che Pininfarina fosse profondamente turbato. CAPITOLO 4 Il museo Ferrari privato Se non si hanno problemi economici, anzi se si ha quello di trovare un modo per spendere i soldi, e se si ha il morbo del cavallino, è facile che dalla realizzazione di una piccola collezione di Ferrari si passi alla creazione di un museo vero e proprio, a mettere in piedi una specie di "Galleria Ferrari" per uso personale. Io ne o visti tantii di collezioni, ma quella che con gli anni ha realizzato Stieger Engelbert, il miliardario svizzero che ha una grande impresa tessile è qualcosa di unico: un vero e proprio museo con trenta delle Ferrari, da corsa e di serie, più preziose e significative della storia della casa di Maranello. Tra le tante Rosse, infatti, Engelbert ha addirittura due GTO, ufficialmente la Ferrari più preziosa del mondo, essendo stata battuta a un'asta a 12 miliardi di lire, una 250 Le Mans e quasi tutte le

11 macchine più importanti prodotte, in 50 anni, dalla casa di Maranello. Elencarle significherebbe scrivere il catologo Ferrari: io stesso quando sono andato a vedere da vicino la sua collezione sono rimasto stupito. Intediamoci, al mondo ci sono tanti altri collezionisti Ferrari che hanno molte più auto, ma nessuno si è costruito una piccola Maranello in casa. E sì, perché queste auto sono perfettamente funzionanti e tenute in efficienza da uno staff di meccanici specializzati che curano dalla mattina alla sera il loro stato di salute. Operazione non certo facile perché mettere a punto una Formula Uno di tanti anni fa è un vero rompicapo: neanche allora, quando la macchina era appena uscita dagli stabilimenti di Maranello, era facile farla funzionare perfettamente. Le auto sono alloggiate in uno splendido locale con pavimento giallo (il giallo di Modena, quello dello sfondo dello stemma del cavallino rampante) e pronte per essere usate dal suo proprietario. Ma, quello di Engelbert non è l'unico avamposto di Maranello all'estero: addirittura nel New Jersey c'è forse la migliore officina specializzata nel restauro di Ferrari d'epoca. L'ha fondata Onofrio Triarsi, un siciliano emigrato in America a 13 anni, e oggi proprietario di varie Ferrari d'epoca, tra cui una delle più belle GTO del mondo. La sua è quella che corse a Le Mans con Tavoni, restaurata in modo impeccabile dopo anni di lavoro, e riportata anche alla colorazione originale: argento metallizzata con una grande striscia blu sulla carrozzeria. Una macchina rarissima che spesso il facoltoso proprietario guida e utilizza come se fosse una Panda: "Se la devono rubare tanto la rubano ugualmente - sdrammatizza Triarsi - e poi credo che la gente ami troppo queste vetture per lasciare che qualche malintenzionato faccia loro del male". Ma se c'è chi usa Ferrari da oltre dieci miliardi di lire a cuor leggero, c'è anche chi le compra solo per investimento

12 economico e non le vuole neanche curare. Il presidente della Foca, l'associazione che organizza il campionato del mondo di Formula Uno, Bernie Ecclestone, ha di recente acquistato per 40 miliardi di lire una importante collezione Ferrari da un venditore che ha preferito rimanere nell'anonimato. Quest'ultimo aveva trasformato anche lui la sua villa in museo Ferrari e adesso, per contratto, dovrà continuare a curare e a custodire le macchine di Ecclestone. Dopo anni di presumibili sacrifici, il misterioso collezionista è ora pagato per coccolare le sue Ferrari d'epoca. Il miliardario ora è soddisfatto, ma forse sarebbe stato più semplice farsi assumere come custode alla "Galleria Ferrari" di Maranello. Ma non si vive di sole Rosse, almeno di quelle vere; c'è anche chi, come Junichiro Hiramtsu, dopo anni di lavoro, è diventato il più grande collezionista del mondo di modellini Ferrari. Ne ha più di 20 mila, perfettamente ordinati nella sua villa di Osaka costruita in legno con perfetto stile giapponese antico, completamente riservata a ospitare, in teche e bacheche di ogni tipo, i 20 mila modellini delle Rosse di Maranello. Ben presto, infatti, la collezione di automobiline è cominciata a diventare troppo ingombrante per essere contenuta nella pur grande casa di Hiramtsu, e il trasloco si è reso necessario per continuare ad accogliere nuovi, piccoli pezzi. Tra questi modelllini, ce ne sono alcuni rarissimi, del valore a volte perfino superiore ai 10 milioni di lire, e - in pratica - è riprodotta tutta la produzione Ferrari considerando che la casa di Maranello, di auto vere, in 50 anni ne ha prodotte solo 80 mila. Nella collezione Hiramtsu non esistono doppioni, ma di alcuni rari modelli come la GTO costruita in 33 esemplari, il ricco giapponese ha anche le perfette copie di ogni versione della macchina, con il colore, la targa, e gli accessori specifici perfettamente

13 riprodotti. Ovviamente la collezione non poteva fermarsi ai modellini. Così accanto alle auto in miniatura ci sono anche le Rosse vere, tra cui spicca la rarissima 250 GT del Macchine accompagnate da vari oggetti Ferrari: cataloghi d'epoca, annuari e libri, compresa la prima edizione dell'introvabile "Le mie gioie terribili" del 1962, un volume venduto a qualche asta intorno ai 3/4 milioni di lire. Insomma, se tutti gli appassionati di auto sportive fossero come Junichiro Hiramtsu, Enzo Ferrari si sarebbe potuto fregiare del titolo di Re Mida moderno: quello che toccava si trasformava in oro, anzi in Yen. CAPITOLO 5 Una tomba da 300 orari La prima manciata di terra si fermò come un'ombra sul lunotto posteriore molto inclinato della 365 GTB/4 Daytona. Io non credevo ai miei occhi: la macchina era perfettamente lucida e la macchia scura disturbava la bellezza di quella vista. Ma poi, le macchie si moltiplicarono, deturpando per sempre il disegno della carrozzeria di Pininfarina. I due inservienti spalavano di buona lena e poco dopo tutta la splendida vernice rossa fu sepolta dalla terra. Rimaneva da coprire solo un piccolo spazio sul vetro laterale, spazio dal quale s'intravedevano ancora i pacchiani interni in pelle bianchi che la sua proprietaria aveva scelto personalmente. Il motore intanto continuava a girare, borbottando sornione al minimo e muovendo su e giù per l'ultima volta i suoi 12 cilindri. Era incredibile: benchè ormai la vettura fosse quasi completamente ricoperta di terra, il 12V continuava a vivere, quasi volesse urlare al mondo pietà, quasi volesse uscire da quella fossa in cui era stato seppellito. Dopo un po', le prese d'aria del propulsore si ostruirono completamente e tutto

14 intorno ci fu il silenzio. Anche l'ultima volontà della signora Dorothy Stevens era stata assecondata: quella di essere sepolta nella sua Ferrari Daytona ancora in moto. "Lascio la villa di Miami - aveva scritto nel testamento la signora Stevens - all'istituto di beneficenza per i bambini orfani, il mio rimanente patrimonio e una rendita mensile di 20 mila dollari a mio figlio Erik. Purché si faccia carico di esaudire l'ultima volontà: quella di essere sepolta nella mia Ferrari 365 GTB/4 Daytona ancora in moto e con i fari accesi, per avere l'illusione di poter correre l'ultima volta con la mia sportiva e di poter illuminare le tenebre a cui andrò incontro. E chissà, alla fine, che con questa GT all'altro mondo non possa poi davvero girare per le strade dei cieli". Erik Stevens sapeva che la mamma non era una persona normale. Lo aveva sempre sospettato, ma ne aveva avuto la scottante conferma quando nel cortile della propria villa vide parcheggiata quella Ferrari. Non una Ferrari normale, ma una Daytona con interni in pelle bianchi (gli stessi delle Cadillac possedute fino a quel momento dalla madre ormai ottantenne). Di fronte alla macchina non osò guardare la targa. Poi si fece coraggio ed ebbe la conferma: "California DS 313", ossia Dorothy Stevens, e il numero della targa della buffa macchinina di Paperino, il fumetto di Walt Disney al quale l'anziana signora era da sempre legata. Neanche Erik aveva mai immaginato che la mamma potesse arrivare a tanto. Ora però il suo problema era quello di accontentarla per l'ultima volta. Non per il testamento (Erik non voleva i soldi, e qualsiasi tribunale avrebbe dichiarato la signora Stevens malata di mente a fronte di una simile ultima volontà), ma semplicemente per una questione di carattere. La mamma aveva sofferto tanto in gioventù, era stata molto sola e Erik l'aveva sempre accontentata. E, poi, diavolo, era sua madre.

15 I problemi, però, erano tutt'altro che semplici da risolvere. In primo luogo occorreva trovare un cimitero che accettasse una grande Gt come sarcofago e cercare un luogo ben protetto dai ladri. In fondo, anche se sepolta nella terra e con un morto a bordo, quella macchina valeva sempre una montagna di quattrini, e l'idea che qualche topo d'auto arrivasse a dissotterrare la Daytona violando la tomba della propria madre non gli andava proprio giù. "Se io avrò difficoltà a portare la macchina in quel cimitero, pensò, i ladri ne avranno molte più di me a portarla fuori". E in effetti il cimitero che aveva scelto Erik sembrava fatto apposta per evitare che qualcuno ci portasse dentro una macchina: era arroccato sopra una piccola collina ed era circondato da grandi mura di cinta, con un solo strettissimo ingresso. Perfetto. L'auto sarebbe dovuta arrivare in elicottero, ma a questo punto si poneva un ulteriore problema: come far scendere la vettura dentro la grande fossa? L'elicottero era da scartare perché la bara a quattro ruote doveva essere calata durante la cerimonia funebre, ed era escluso che qualsiasi cerimonia si potesse svolgere con un grosso elicottero sulla testa dei parenti e degli amici, elicottero che, per giunta, avrebbe dovuto avere i motori al massimo, e che avrebbe quindi spazzato via, come una mosca chiunque fosse stato sotto le sue pale: la potenza che è necessaria a un elicottero per rimanere fermo nell'aria è infatti superiore a quella che gli serve per muoversi in qualsiasi altra direzione. Glielo aveva spiegato con chiarezza quella specie di Rambo e Top Gun che doveva portare la Daytona nel cimitero. Rimanevano altre due strade: quella di scavare una enorme buca con una rampa di accesso in discesa e quella di montare nei pressi della buca un grande paranco che al momento giusto calasse la Ferrari nella fossa. Erik scartò subito la prima ipotesi: mancava materialmente lo spazio

16 per fare una rampa attorno all'enorme area destinata a raccogliere non una bara ma una Ferrari lunga quasi 5 metri. "E poi, pensò Erik un po' divertito, ve la immaginate la scena dell'autista che arriva rombando con la Ferrari e la parcheggia nella fossa? No, impossibile, no non si può proprio". Rimaneva in piedi solo la seconda possibilità, ma c'era da convincere il direttore del cimitero, per realizzare questa messa in scena. Ed Erik dovette ricorrere al solito sistema, vecchio come il mondo: i dollari. Con tutti quelli che il giovane aveva speso per la cerimonia, col valore della Ferrari, il noleggio dell'elicottero e il costo del paranco, in quel cimitero californiano avrebbe potuto seppellirci un intero esercito... CAPITOLO 6 Fort Knox A Fort Knox, nel Kentucky vicino Louisville, dove sono accantonate le riserve auree degli Stati Uniti, hanno meno sistemi di sicurezza dei due garage di Harry Wilson e Mike Hall, collezionisti Ferrari americani. Amici d'infanzia, Harry e Mike dividono, a parte la passione per le Ferrari, anche quella per l'elettronica e, per evitare di farsi rubare le proprie macchine, hanno messo a punto un congegno da veri maniaci. Certo, anche Enzo Ferrari diceva sempre che le sue macchine erano gioielli e che avevano un immenso valore, ma neanche lui sarebbe mai arrivato a tanto, ne sono sicuro. I due americani, infatti, abitano in stati diversi, ma hanno lo stesso congegno di sicurezza: Harry vive in California, a Sacramento, e Mike più a Nord nell'oregon, a Salem. Entrambi si sono fatti installare nel giardino delle proprie ville due enormi rifugi atomici, trasformati in garage per custodire preziosissime Ferrari:

17 potendo stiparne "solo" cinque in ogni rifugio, i modelli sono tra i più rari e preziosi dell'intera produzione di Maranello, dalla 275 alla F40, dalla 166 alla F50. Ma qui sta il bello: l'ingresso del rifugio antiatomico è stato modificato per montare una porta blindata e, soprattutto, una grande stanza che contiene i complicati congegni di apertura. L'idea dei due collezionisti Ferrari è questa: piazzare i meccanismi di accesso della cassaforte di Mike in quella di Harry, e quelli di Harry in quella di Mike. Così, per poter guidare le auto, i due proprietari devono aprirsi a vicenda i caveau, a centinaia di chilometri di distanza. Ma non è tutto. Collegati via modem, i congegni di apertura sono stati progettati per funzionare solo se fatti scattare contemporaneamente. In poche parole, ogni volta che Harry vuole entrare nella cassaforte con le Ferrari, anche Mike deve entrare nel suo box. Per tutta l'operazione, i due devono rimanere collegati telefonicamente e scambiarsi i messaggi sui tempi di apertura del congegno perché le aperture delle quattro porte blindate (due per uno) deve essere fatta nella sequenza preimpostata: "Okay io ho aperto la mia prima porta. Ho la luce verde, digita la tua combinazione", si ripetono per telefono i due pazzi che dopo un quarto d'ora di preciso lavoro possono finalmente sedersi al volante dei loro gioielli. A questo punto, per uscire con le Ferrari i due devono ripetere il processo di apertura percorso al contrario, evitando così che durante l'la manovra qualche malintenzionato s'infili nel "garage". Altro che Fort Knox... Una volta in strada, Mike ed Harry sono sempre seguiti da una scorta armata per evitare tentativi di rapina e, come ultimo estremo sistema di difesa, nei cassetti portaoggetti delle loro Ferrari hanno un paio di manette, identiche a quelle che la polizia usa per arrestare i malviventi: nel caso in cui la scorta venga seminata (qualche volta bisogna pur

18 godersi l'accelerazione delle Ferrari), ai due proprietari non rimane che ammanettarsi al volante dell'auto. "Se vogliono rubarla dovranno rapire anche me - ripete sempre Mike - una volta ci hanno provato e il mio sistema ha funzionato. Certo, quando si sono accorti che non potevano fare più nulla mi hanno riempito di botte, ma almeno ho salvato la macchina...". CAPITOLO 7 Con lei, fino in fondo - "Ma è proprio sicuro? Guardi che se fossi in lei lascerei perdere". - "Lo sapevo, non ne è capace. Ma se non era all'altezza del lavoro allora lo poteva dire subito avremmo risparmiato un sacco di tempo". Il conte Ravelli era infuriato. Quello stupido carrozziere si rifiutava di montare un portapacchi sulla sua F40 nuova di zecca, appena comprata per oltre un miliardo di lire da un losco figuro che aveva guadagnato circa 600 milioni da quella vendita. Diceva di doversi separare da quella F40 per motivi familiari, ma di sicuro - il conte lo aveva capito benissimo - quello non sapeva neanche cosa fosse una famiglia. Tutto ciò a Ravelli non interessava. Lui voleva solo la macchina. Quella macchina; e visto che non se ne trovavano in giro, si dovette rivolgere a quell'avvoltoio. Di conseguenza il signor conte non ascoltava neanche le inutili parole che diceva il venditore. Se il suo meccanico di fiducia avesse stabilito che la F40 era effettivamente nuova, avendo percorso solo i 50 Km che segnava il contachilometri, lui l'avrebbe comprata lo stesso, anche se quell'idota continuava a dire frasi che alle orecchie del signor conte suonavano pressapoco così: "causa partenza vendo valigie".

19 Non so dei due personaggi, quale fosse quello sano di mente e quale quello pazzo: il conte Ravelli, infatti, dopo aver fatto uno dei peggiori affari della sua vita, si era messo in testa di voler utilizzare ogni giorno, solo ed esclusivamente la Ferrari F40. Anche per andare a comprare un pacchetto di sigarette, anche per girare nel centro della città. Voleva "vivere" fino in fondo quella splendida macchina e a tale scopo la vettura non doveva diventare un mezzo da soddisfare, ma una macchina completamente asservita ai suoi bisogni. Solo che aveva fatto male i suoi conti: era come se si fosse appena sposato con Claudia Schiffer pretendendo che la modella si trasformasse in una perfetta casalinga. Insomma pensava di poter usare la F40 come una Punto. Ma il signor conte era deciso e per evitare "tentazioni", aveva anche venduto la sua Bmw 520. Io, in realtà mi divertivo un mondo. E sì, perchè mentre assistevo alla discussione che stava facendo con il ragazzo del negozio specializzato in ricambi auto, per montare un portapacchi sul tetto della F40, ricordavo le discussioni dei tecnici di Maranello che si erano fatti in quattro per adattare alla strada quella macchina da corsa. Mi veniva in mente ancora una riunione nella quale si decise di evitare di rivestire i pannelli di carbonio, all'interno dell'abitacolo, per risparmiare qualche grammo di peso, ai fini di migliorare il più possibile l'accelerazione della vettura. E ora il signor conte stava montando un robusto portabagagli di ferro sul tetto della macchina. Divino. Se quei progettisti l'avessero saputo, non ci avrebbero dormito la notte. Il portapacchi era di fondamentale importanza perché il conte Ravelli aveva deciso di andare a sciare con l'f40. Per cui, oltre agli sci, il portapacchi doveva poter sopportare il peso di almeno un paio di valigie. E quando il titolare del negozio di autoricambi, un signore basso, grassoccio e con

20 grandi baffi neri, chiamati a compensare la cronica assenza di capelli in testa, scoprì tutto questo, mandò a quel paese il signor conte pensando di trovarsi in una candid camera o in qualcosa del genere. Ravelli però non scherzava, e con la sua F40 caricata come un mulo da soma (sommo orrore: per bloccare una valigia aveva fatto girare un elastico intorno allo spoiler posteriore), si apprestava a partire per Cortina. Follia nella follia perché naturalmente non esistevano al mondo catene da neve che potessero abbracciare gli enormi pneumatici 335/60 di quella Ferrari e che potessero in qualche modo infilarsi nella microscopica fessura che separava la gomma della ruota dal bordo del parafanghi. Senza contare che con quelle sezioni di "scarpe" la F40 sarebbe stata ingovernabile sulla neve. "Troverò la strada libera, ne sono sicuro" aveva detto il signor conte, ed era partito senza neanche guardare le previsioni del tempo. A parte le code interminabili, poco dopo Belluno trovò il finimondo, ossia qualche leggero spruzzo di neve che non dava fastidio neanche alla più scamuffa utilitaria, ma che per la sua strapotente F40 costituiva un muro insormontabile. Dopo due testacoda, dopo aver bloccato per due volte il traffico con la vettura immobile che slittava, e dopo aver fatto praticamente il pieno di insulti (la dose era più che sufficiente per le sue brevi vacanze), finalmente il conte si arrese. Ma a modo suo. Chiamò il carro attrezzi che arrivò sul posto, caricò con mille fatiche la macchina sul camion e la portò fino a Cortina. "Finga di dovermi accompagnare dal meccanico del paese, e non faccia domande", disse il signor Conte all'autista del carro attrezzi mettendogli in mano un paio di milioni in banconote da 50 mila e facendone cadere volutamente un po' per terra. La macchina rimase sempre parcheggiata a Cortina e il signor conte disse a tutti che questa volta voleva solo riposarsi in albergo...

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