H a n s e l e G r e t e l Jakob e Wilhelm Grimm

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1 H a n s e l e G r e t e l Jakob e Wilhelm Grimm Nella periferia di un piccolo villaggio, al limite del bosco, viveva una famiglia di taglialegna composta dai genitori e da due figli: Hansel e Gretel. I bambini vivevano felici a contatto con la natura che li circondava. Il loro lavoro preferito era quello di raccogliere i frutti del bosco. Una sera, mentre stavano per rincasare, dopo aver giocato nel centro del bosco, udirono un lontano suono simile al pianto di un bambino. - È il pianto di un neonato - Esclamò Gretel. - Cerchiamolo- Disse Hansel. Penetrarono tra gli alberi, nella direzione dalla quale proveniva il lamento. Nel frattempo si stava facendo buio e tutto diventava grigio. - Torniamo, ho una paura tremenda! -Disse Gretel. - Sei una codarda e una fifona! - Replicò spavaldamente Hansel. - Tua sorella ha ragione, Hansel. È da stupidi girare per il bosco a quest'ora, quindi è meglio che torniate indietro! I bambini ebbero un sobbalzo. Chi aveva parlato? - Sono io, sono qui Siete forse ciechi? Hansel fu il primo a vederlo: - Un corvo che parla? - Disse. - In realtà -Rispose il corvo - io sono un nano dalla barba bianca che ha subìto un incantesimo. È stata una strega e il suo maleficio continuerà fino alla sua morte. - Hai sentito il pianto di un bambino? -Chiese Gretel. - State tranquilli, avete udito me. - Sei tu?!- Rise Hansel - Non dire fesserie! Tu hai la voce come quella del vecchio Snipe, l'ubriacone del villaggio: cavernosa. Il corvo stava per rispondere loro quando intervenne Gretel: - Non essere maleducato, Hansel! Capisco quello che ti è successo, nanetto, e sepotessi ti aiuterei. - Sei molto buona, piccola. Non sei certo come quel discolo di tuo fratello. Vi confiderò un segreto Se andate più avanti, troverete una casetta di cioccolata! - Una casa di cioccolata - Intervenne Hansel, che era molto goloso. -Dove, dove? - Pochi passi ancora e ci sarete. - Non sarà un trucco per farci del male? - Presto la potrete vedere. È tutta colorata, piena di caramelle sulle pareti e sul tetto. È fatta di cioccolato, di torrone e marzapane! È una delizia! Dentro troverete tutti i tipi di dolci. - E potremo mangiarli? - Chiese ancora Hansel. - Certo - Rispose il corvo. - Basta volerlo,seguitemi! I bambini non se lo fecero ripetere due volte e, come l'uccello gli aveva detto, in una radura del bosco incontrarono - Che meraviglia! - Esclamò Gretel. - C'è veramente! Pancia mia fatti capanna! - Disse entusiasta, Hansel. La realtà superava la fantasia. Al fianco della porta c'erano dei bastoni di zucchero. Le pietre del sentiero erano caramelle di tutti i gusti: mente, limone, banana, pino Quando si avvicinarono alla casa si aprì la porta e una donna, vecchia e sdentata, li incoraggiò. - Avanti, entrate figlioli, siete giunti in tempo. Ho appena finito di fare questa torta che dice:"mangiami!" Volete assaggiarla? - Certamente! - Disse Hansel, più deciso, come sempre, di sua sorella. I due bambini cominciarono a mangiare tutto quello che la donna gli portava. Poi, una volta sazi, decisero di andarsene. - Grazie, buona signora. Non ne possiamo più di mangiare, torneremo a trovarla un'altra volta. È stata molto buona con noi. - Disse Hansel. - Il bosco è già buio, fermatevi a dormire qui. Domani sarà un altro giorno. -Disse la vecchia. - Lo faremmo volentieri. - Replicò Hansel. - Ma i nostri genitori ci stanno aspettando Se il nanett Il signorcorvo, ci farà da guida, non tarderemo a tornare a casa. - Niente affatto. - Disse il corvo. - Ho troppo sonno.

2 - Allora ce ne andiamo da soli. - Disse Hansel. - Andiamo, sorella mia. La padrona di casa cessò improvvisamente di sorridere e, infuriata,gridò: - Fermo dove sei, ragazzino! Voi non tornerete dai vostri genitori, né ora né mai più! Come mi piacciono i fanciulli teneri e grassottelli! Il corvo, appollaiato sulla spalla della vecchia strega, gridava: - Arrostiti, con le patatine, saranno una delizia! Ti consiglio una ricetta di mia nonna: si mettono le cipolle, alloro e rosmarino, in una pentola e poi Hansel e Gretel, terrorizzati, ascoltavano increduli la ricetta dello stufato del corvo, di cui loro erano ingredienti principali. Tremanti di paura dissero: - Come siamo stati stupidi a cadere in questa trappola! Hansel per consolare la sorella disse: - Non temere ci salveremo! La brutta strega, che aveva sentito tutto, ridendo disse: - Hai sentito, corvo? Dicono che se ne andranno da qui! - Certo, - rispose il corvo - con le ossa linde e pulite! Ho voglia di mangiarmeli subito, li mangiamo adesso? - no, golosone,aspetteremo che ingrassino un po' ancora. Il bimbo è magro e alla bambina un paio di chili in più non guasteranno Una buona razione di dolci al giorno li farà diventare come li desideriamo! Prese Hansel per le bretelle e disse: - In cella finché non ingrassi. E non opporre resistenza! Gli sforzi del piccolo risultarono inutili. Fu buttato in una stanza senza finestre che comunicava con un'altra cella da dove Hansel poteva vedere la sorella. Allora disse: - Non dobbiamo disperarci, Gretel, fatti coraggio! -Oh, Hansel, ci vogliono mangiare! - Per il momento siamo ancora vivi Ora, però, ascoltami bene: la vecchia è corta di vista. L'ho capito perché guarda come quel contadino del paese che non riconosce un asino da dieci passi! Spiegò tutto il suo piano e concluse: - Non ti opporre, fa quello che ti chiedono. Dobbiamo guadagnare tempo. Il bambino era orgoglioso del suo piano e guardava soddisfatto il topolino che aveva assistito al dialogo dei due fratelli. Ma la situazione era disperata. Hansel lo sapeva. Si guardava intorno alla ricerca di una possibile via di fuga; ma invano, la cella era solida, a prova di fuga. Il trucco che aveva ideato avrebbe funzionato per un po' di tempo, ma poi? Certamente la strega si sarebbe accorta dell'inganno e Tremò di paura e fu colto dallo sconforto. Però non si dette per vinto. Chiamò sua sorella attraverso le sbarre per tracciare un secondo piano d'azione, l'unico possibile. Ella ascoltò le parole del fratello. Voleva credere in una possibilità di salvezza, per quanto improbabile fosse. Il giorno seguente, la strega si avvicinò alla cella della bambina e le disse: - Tira fuori un dito, Gretel, che voglio vedere se sei ingrassata. Come prevedeva il piano di Hansel, la piccina fece passare attraverso le sbarre, un ossicino di pollo, avanzato la sera prima. La strega palpando, senza accorgersi dell'inganno,pensò: << Gli dovrò dare più cibo, è ancora molto magra.>> La stessa cosa successe con il bambino. Il giorno seguente si ripeté la stessa scena e allora Gretel disse alla strega: - Visto che dovrò rimanere qui per tanto tempo perché non mi fai uscire? Potrei aiutarti nelle faccende domestiche, finché non ti deciderai a mangiarmi. La vecchia strega rimase pensierosa per alcuni momenti, poi si decise e disse: - Mi sembra una buona idea, ma bada, se cerchi di fuggire mi mangio subito tuo fratello! Però nel vedere la bimba girare per casa, la strega,che era molto golosa, decise che se la sarebbe

3 mangiata per cena. Gretel intuì la cosa e in fretta cercò la chiave della cella, la aprì e liberò Hansel. - Cosa facciamo adesso? - Aspetta, bisogna riflettere. - Disse Hansel guardandosi attorno. Poi vide il corvo appollaiato sul manico del mestolo, sopra al pentolone che bolliva, ed ebbe un'idea. In quel momento, infatti, la strega si trovava china sul pentolone, tutta intenta nei preparativi dell'ambita cena. Fu proprio allora che Hansel, ricordando quello che il corvo gli aveva confidato nel bosco in relazione al maleficio di cui era vittima, gridò: - Corvo, uccidi la strega! L'uccello, che non aspettava che questa occasione,balzò sulla strega e le diede una tremenda beccata sulla testa, facendola finire nel pentolone. Poi si rivolse ai due fratelli e disse: - Fuggite! Hansel e Gretel, non se lo fecero ripetere, fuggirono a gambe levate e non tornarono mai più in quella parte del bosco.

4 I l p i f f e r o m a g i c o C'era una volta la città di Hamelin in Germania. Era una città molto graziosa, ma aveva due grossi difetti: i suoi cittadini erano molto avari e le sue cantine piene di topi. Di gatti neanche l'ombra perché, siccome qualcosina costavano ai padroni, erano stati cacciati. Fatto si è che i topi diventavano tanti e tanti che non era più possibile vivere nella città. Si pensò allora di far tornare i gatti scacciati, ma i topi li misero in fuga. Era una vita beata la loro. Ce n'erano di tutti i tipi: topi, topini, ratti, rattoni e per tutti c'era da mangiare: nei granai, nelle cucine, dove c'erano molte forme di formaggio. I poveri cittadini, non sapendo più che fare, si rivolsero al loro sindaco, ma anche quello più che dire: - Cercherò... Farò... Non so... - non faceva. Ma ecco, che una mattina comparve in città un ometto minuto tutto brio e allegria che disse al sindaco: - Io vi libererò dai topi, ma voglio in cambio mille monete d'oro. Al sindaco la richiesta non parve esagerata e promise la ricompensa, scambiando con l'ometto una bella stretta di mano. L'ometto, allora, prese da un sacchetto che portava a tracolla un piffero e diede due o tre zufolate. Subito i topi che erano nello studio del Sindaco, nascosti qua e là, balzarono fuori e, quando l'uomo uscì, lo seguirono. Il pifferaio continuò a suonare in strada e nugoli di topi lo seguirono squittendo felici. Nelle loro testoline vedevano montagne di formaggio tutte per loro, vedevano dispense con ogni ben di Dio pronte ad essere saccheggiate. - Tutto per voi, tutto per voi, bei topini! - prometteva la musica che li attraeva e li affascinava. E la marcia trionfale del suonatore continuò: da tutte le case uscivano a centinaia topi di tutte le dimensioni, di tutte le età: anche i più saggi e i più furbi tra loro credevano a ciò che la musica magica prometteva! E la gente, affacciata alle finestre, appoggiata ai muri delle case guardava esterrefatta e felice quella smisurata fila di roditori che seguiva il suonatore. - Se ne vanno! Se ne vanno! Ma è possibile? Oh, che gioia! Che il cielo sia benedetto! Finalmente quando tutti i topi della città furono riuniti dietro a lui, il suonatore si avviò verso il fiume e le bestiole dietro, sempre più affascinate dalla musica magica. Il pifferaio entrò ad un tratto nell'acqua e quelli ancora dietro; avanzò ancora finché fu immerso fino al collo e i topi lo seguirono incantati e fiduciosi. Egli allora si fermò in mezzo alla correte e seguitò a suonare e i topi per un po' nuotarono e poi, siccome da lui non potevano allontanarsi finirono per annegare tutti, nessuno escluso! Allora il suonatore uscì dal fiume, si scrollò l'acqua di dosso e si recò dal sindaco per ricevere la dovuta ricompensa. Il sindaco, come lo vide entrare, arricciò il naso e gli chiese: - Che vuoi tu? - Essere pagato per tutto quello che ho fatto per la città! - Mille monete d'oro per aver suonato il piffero per poco più di un'ora? - Senza di me i topi avrebbero distrutto le vostre case! - Ebbene io non ti dò niente! - Chiedi ai cittadini se sono del tuo parere. Il sindaco si affacciò al balconcino del municipio e chiese ai concittadini quel che doveva fare e tutti furono d'accordo con lui, da quegli avaracci che erano. Il pifferaio allora amareggiato e molto arrabbiato minacciò: - Vi pentirete oh, se vi pentirete di quello che mi fate! Uscì in strada ed eseguì una scala col flauto soffiando a tutte gote poi, aiutandosi con le agili dita, emise dolcissimi suoni. Tosto si videro teste di bimbi guardare giù dalle finestre, volgersi verso il pifferaio, poi un ragazzino uscì dalla casa e guardò con entusiasmo l'uomo che suonava. A lui si unirono due, tre compagni e tutti guardavano come affascinati il suonatore. E questi non smise di suonare, anzi la sua musica diventò più dolce e persuasiva e nella mente dei bambini faceva nascere visioni di città tutte balocchi, di città tutte dolci, senza scuole, senza adulti

5 che volevano comandare ad ogni ora del giorno. E la schiera ingrossava sempre più e tutti i componenti erano felice e ridevano, e tenendosi per mano cantavano seguendo sempre più affrettatamente il pifferaio. Ed ecco i genitori rincorrere quella schiera di gioiosi figlioli che se ne andavano con l'omino così, come i topi che lo avevano seguito sino alla morte! - Non andate con lui! Tornate per carità! - gridavano disperati i padri e le madri mettendosi a loro volta in fila. Ma essi si stancavano da morire e non riuscivano a tenere il passo con i loro figli che camminavano sognando cose meravigliose... Il sindaco, chiuso nelle sue stanze, si strappava disperato i capelli. Intanto il suonatore si avviava verso la grande montagna che si trovata proprio alle spalle della città. I bimbi dietro cantavano: erano così felici di seguire quell'omino che nessuno li avrebbe distolti dal loro proposito. Giunsero così a metà montagna: al suono del piffero questa si aprì e tutti, pifferaio in testa, entrarono nella fenditura che si richiuse ermeticamente dietro l'ultimo della fila. Ne restò fuori solo uno zoppetto che non era riuscito a camminare veloce come i compagni. I cittadini che giunsero sul luogo dopo qualche tempo, lo trovarono là che piangeva disperato per non aver potuto raggiungere i suoi amici. Dei bambini non c'era più traccia e nessuno seppe mai ciò che ne fosse stato. (anonimo)

6 B i a n c a n e v e e i s e t t e n a n i Di Jakob e Wilhelm Grimm Una volta, nel cuor dell inverno, mentre i fiocchi di neve cadevano dal cielo come piume, una regina cuciva, seduta accanto a una finestra, dalla cornice d ebano. E così, cucendo e alzando gli occhi per guardar la neve, si punse un dito, e caddero nella neve tre gocce di sangue. Il rosso era così bello su quel candore, ch ella pensò: "Avessi una bambina bianca come la neve, rossa come il sangue e dai capelli neri come il legno della finestra!" Poco dopo diede alla luce una figlioletta bianca come la neve, rossa come il sangue e dai capelli neri come l ebano; e la chiamarono Biancaneve. E quando nacque, la regina morì. Dopo un anno il re prese un altra moglie; era bella, ma superba e prepotente, e non poteva sopportare che qualcuno la superasse in bellezza. Aveva uno specchio magico, e nello specchiarsi diceva: - Dal muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella? E lo specchio rispondeva: Nel regno, Maestà, tu sei quella. Ed ella era contenta, perché sapeva che lo specchio diceva la verità. Ma Biancaneve cresceva, diventava sempre più bella e a sette anni era bella come la luce del giorno e ancor più della regina. Una volta che la regina chiese allo specchio: Dal muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella? lo specchio rispose: Regina, la più bella qui sei tu, ma Biancaneve lo è molto di più. La regina allibì e diventò verde e gialla d invidia. Da quel momento la vista di Biancaneve la sconvolse, tanto ella odiava la bimba. E invidia e superbia crebbero come le male erbe, così che ella non ebbe più pace né giorno né notte. Allora chiamò un cacciatore e disse: - Porta la bambina nel bosco, non la voglio più vedere. Uccidila, e mostrami i polmoni e il fegato come prova della sua morte -. Il cacciatore obbedì e condusse la bimba lontano; ma quando estrasse il coltello per trafiggere il suo cuore innocente, ella si mise a piangere e disse: - Ah, caro cacciatore, lasciami vivere! Correrò nella foresta selvaggia e non tornerò mai più -. Ed era tanto bella che il cacciatore disse, impietosito: - Và, pure, povera bambina-. "Le bestie feroci faranno presto a divorarti", pensava; ma sentiva che gli si era levato un gran peso dal cuore, a non doverla uccidere. E siccome proprio allora arrivò di corsa un cinghialetto, lo sgozzò, gli tolse i polmoni e il fegato e li portò alla regina come prova. Il cuoco dovette salarli e cucinarli, e la perfida li mangiò, credendo di mangiare i polmoni e il fegato di Biancaneve. Ora la povera bambina era tutta sola nel gran bosco e aveva tanta paura che badava anche alle foglie degli alberi e non sapeva che fare. Si mise a correre e corse sulle pietre aguzze e fra le spine; le bestie feroci le passavano accanto, ma senza farle alcun male. Corse finché le ressero le gambe; era quasi sera, quando vide una casettina ed entrò per riposarsi. Nella casetta tutto era piccino, ma lindo e leggiadro oltre ogni dire. C era una tavola apparecchiata con sette piattini: ogni piattino col suo cucchiaino, e sette coltellini, sette forchettine e sette bicchierini. Lungo la parete, l uno accanto all altro, c eran sette lettini, coperti di candide lenzuola. Biancaneve aveva tanta fame e tanta sete, che mangiò un po di verdura con pane da ogni piattino, e bevve una goccia di vino da ogni bicchierino, perché non voleva portar via tutto a uno solo. Poi era così stanca che si sdraiò in un lettino ma non ce n era uno che andasse bene: o troppo lungo o troppo corto, finchè il settimo fu quello giusto: ci si coricò, si raccomandò a Dio e si addormentò. A buio, arrivarono i padroni di casa:erano i sette nani, che scavavano i minerali dai monti. Accesero le loro sette candeline e, quando la casetta fu illuminata, videro che era entrato qualcuno; perché non tutto era in ordine, come l avevan lasciato.

7 Il primo disse: - Chi si è seduto sulla mia seggiolina?- Il secondo: - Chi ha mangiato dal mio piattino?- Il terzo: - Chi ha preso un po del mio panino?- Il quarto: - Chi ha mangiato un po della mia verdura?- Il quinto: - Chi ha usato la mia forchettina?- Il sesto: - Chi ha tagliato col mio coltellino?- Il settimo: - Chi ha bevuto dal mio bicchierino?- Poi il primo si guardò intorno, vide che il suo letto era un po ammaccato e disse: - Chi mi ha schiacciato il lettino?- Gli altri accorsero e gridarono: - Anche nel mio c è stato qualcuno -. Ma il settimo scorse nel suo letto Biancaneve addormentata. Chiamò gli altri, che accorsero e gridando di meraviglia presero le loro sette candeline e illuminarono Biancaneve. Ah, Dio mio! ah, Dio mio! esclamarono: - Che bella bambina! Ed erano così felici che non la svegliarono e la lasciarono dormire nel lettino. Il settimo nano dormì coi suoi compagni, un ora con ciascuno; e la notte passò. Al mattino, Biancaneve si svegliò e s impaurì vedendo i sette nani. Ma essi le chiesero gentilmente: - Come ti chiami?- Mi chiamo Biancaneve,- rispose. Come sei venuta in casa nostra?- dissero ancora i nani. Ella raccontò che la sua matrigna voleva farla uccidere, ma il cacciatore le aveva lasciato la vita ed ella aveva corso tutto il giorno, finchè aveva trovato la casina. I nani dissero: - Se vuoi curare la nostra casa, cucinare, fare i letti, lavare, cucire e far la calza, e tener tutto in ordine e ben pulito, puoi rimanere con noi, e non ti mancherà nulla. Sì,- disse Biancaneve,- di gran cuore-. E rimase con loro. Teneva in ordine la casa; al mattino essi andavano nei monti, in cerca di minerali e d oro, la sera tornavano, e la cena doveva essere pronta. Di giorno la fanciulla era sola. I nani l ammonivano affettuosamente, dicendo: - Guardati dalla tua matrigna; farà presto a sapere che sei qui: non lasciar entrare nessuno. Ma la regina, persuasa di aver mangiato i polmoni e il fegato di Biancaneve, non pensava ad altro, se non ch ella era di nuovo la prima e la più bella; andò davanti allo specchio e disse: - Dal muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella? E lo specchio rispose: - Regina, la più bella qui sei tu; ma al di là di monti e piani, presso i sette nani, Biancaneve lo è molto di più. La regina inorridì, perché sapeva che lo specchio non mentiva mai, e si accorse che il cacciatore l aveva ingannata e Biancaneve era ancora viva. E allora pensò di nuovo come fare ad ucciderla: perché, s ella non era la più bella di tutto il paese, l invidia non le dava requie. Pensa e ripensa, finalmente si tinse la faccia e si travestì da vecchia merciaia, in modo da rendersi del tutto irriconoscibile. Così trasformata, passò i sette monti, fino alla casa dei sette nani, bussò alla porta e gridò: - Roba bella, chi compra! chi compra!- Biancaneve diede un occhiata dalla finestra e gridò: - Buon giorno, brava donna, cos avete da vendere? Roba buona, roba bella,- rispose la vecchia,- stringhe di tutti i colori -. E ne tirò fuori una, di seta variopinta. "Questa brava donna posso lasciarla entrare", pensò Biancaneve; aprì la porta e si comprò la bella stringa. Bambina, - disse la vecchia,- come sei conciata! Vieni, per una volta voglio allacciarti io come si deve-. La fanciulla le si mise davanti fiduciosa e si lasciò allacciare con la stringa nuova: ma la vecchia strinse tanto e così rapidamente che a Biancaneve mancò il respiro e cadde come morta. Ormai lo sei stata la più bella,- disse la regina, e corse via. Presto si fece sera e tornarono i sette nani: come si spaventarono, vedendo la loro cara Biancaneve

8 stesa a terra, rigida, come se fosse morta! La sollevarono e, vedendo che era troppo stretta alla vita, tagliarono la stringa. Allora ella cominciò a respirare lievemente e a poco a poco si rianimò. Quando i nani udirono l accaduto, le dissero: - La vecchia merciaia altri non era che la scellerata regina; sta in guardia, e non lasciar entrare nessuno, se non ci siamo anche noi. Ma la cattiva regina, appena arrivata a casa, andò davanti allo specchio e chiese: - Dal muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella? Come al solito, lo specchio rispose: - Regina, la più bella qui sei tu; ma al di là di monti e piani, presso i sette nani, Biancaneve lo è molto di più. A queste parole, il sangue le affluì tutto al cuore dallo spavento, perché vide che Biancaneve era tornata in vita. "Ma adesso,. pensò,- troverò qualcosa che sarà la tua rovina"; e, siccome s intendeva di stregoneria, preparò un pettine avvelenato. Poi si travestì e prese l aspetto di un altra vecchia. Passò i sette monti fino alla casa dei sette nani, bussò alla porta e gridò: - Roba bella! roba bella! Biancaneve guardò fuori e disse: - Andate pure, non posso lasciar entrare nessuno. Ma guardare ti sarà permesso,- disse la vecchia; tirò fuori il pettine avvelenato e lo sollevò. Alla bimba piacque tanto che si lasciò sedurre e aprì la porta. Conclusa la compera, la vecchia disse: -Adesso voglio pettinarti per bene-. La povera Biancaneve, di nulla sospettando, lasciò fare; ma non appena quella le mise il pettine nei capelli, il veleno agì e la fanciulla cadde priva di sensi. Portento di bellezza!- disse la cattiva matrigna: - è finita per te!- e se ne andò. Ma per fortuna era quasi sera e i sette nani stavano per tornare. Quando videro Biancaneve giacer come morta, sospettarono subito della matrigna, cercarono e trovarono il pettine avvelenato; appena l ebbero tolto, Biancaneve tornò in sé e narrò quel che era accaduto. Di nuovo l ammonirono che stesse in guardia e non aprisse la porta a nessuno. A casa, la regina si mise allo specchio e disse: - Dal muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella? Come al solito, lo specchio rispose: - Regina, la più bella qui sei tu; ma al di là di monti e piani, presso i sette nani, Biancaneve lo è molto di più. A tali parole, ella rabbrividì e tremò di collera. Biancaneve morirà,- gridò,- dovesse costarmi la vita -. Andò in una stanza segreta dove non entrava nessuno e preparò una mela velenosissima. Di fuori era bella, bianca e rossa, che invogliava solo a vederla; ma chi ne mangiava un pezzetto, doveva morire. Quando la mela fu pronta, ella si tinse il viso e si travestì da contadina, e così passò i sette monti fino alla casa dei sette nani. Bussò, Biancaneve si affacciò alla finestra e disse: - Non posso lasciar entrare nessuno, i sette anni me l hanno proibito. - Non importa,- rispose la contadina,- le mie mele le vendo lo stesso. Prendi, voglio regalartene una. - No,- rispose Biancaneve,- non posso accettar nulla. - Hai paura del veleno?- disse la vecchia.- Guarda, la divido per metà: tu mangerai quella rossa, io quella bianca -. Ma la mela era fatta con tanta arte che soltanto la metà rossa era avvelenata. Biancaneve mangiava con gli occhi la bella mela, e quando vide la contadina morderci dentro, non potè più resistere, stese la mano e prese la metà avvelenata. Ma al primo boccone cadde a terra morta. La regina l osservò ferocemente e scoppiò a ridere, dicendo: - Bianca come la neve, rossa come il sangue, nera come l ebano! Stavolta i nani non ti sveglieranno

9 più -. A casa, domandò allo specchio: - Da muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella? E finalmente lo specchio rispose: - Nel regno, Maestà, tu sei quella. Allora il suo cuore invidioso ebbe pace, se ci può esse pace per un cuore invidioso. I nani, tornando a casa, trovarono Biancaneve che giaceva a terra, e non usciva respiro dalle sue labbra ed era morta. La sollevarono, cercarono se mai ci fosse qualcosa di velenoso, le slacciarono le vesti, le pettinarono i capelli, la lavarono con acqua e vino, ma inutilmente: la cara bambina era morta e non si ridestò. La misero su un cataletto, la circondarono tutti e sette e la piansero, la piansero per tre giorni. Poi volevano sotterrarla; ma in viso, con le sue belle guance rosse, ella era ancora fresca, come se fosse viva. Dissero: - Non possiamo seppellirla dentro la terra nera,- e fecero fare una bara di cristallo, perché la si potesse vedere da ogni lato, ve la deposero e vi misero sopra il suo nome, a lettere d oro, e scrissero che era figlia di re. Poi esposero la bara sul monte, e uno di loro vi restò sempre a guardia. E anche gli animali vennero a pianger Biancaneve: prima una civetta, poi un corvo e infine una colombella. Biancaneve rimase molto, molto tempo nella bara, ma non imputridì: sembrava che dormisse, perché era bianca come la neve, rossa come il sangue e nera come l ebano. Ma un bel giorno capitò nel bosco un principe e andò a pernottare nella casa dei nani. Vide la bara sul monte e la bella Biancaneve e lesse quel che era scritto a lettere d oro. Allora disse ai nani: - Lasciatemi la bara; in compenso vi darò quel che volete -. Ma i nani risposero: - Non la cediamo per tutto l oro del mondo - Regalatemela, allora,- egli disse,- non posso vivere senza veder Biancaneve: voglio onorarla ed esaltarla come la cosa che mi è più cara al mondo.- A sentirlo, i buoni nani s impietosirono e gli donarono la bara. Il principe ordinò ai suoi servi di portarla sulle spalle. Ora avvenne che essi inciamparono in uno sterpo e per la scossa quel pezzo di mela avvelenata, che Biancaneve aveva trangugiato, le uscì dalla gola. E poco dopo ella aprì gli occhi, sollevò il coperchio e si rizzò nella bara: era tornata in vita. -Ah Dio, dove sono?- gridò. Il principe disse, pieno di gioia: - Sei con me,- e le raccontò quel che era avvenuto, aggiungendo: - Ti amo sopra ogni cosa del mondo; vieni con me nel castello di mio padre, sarai la mia sposa-. Biancaneve acconsentì e andò con lui, e furono ordinate le nozze con gran pompa e splendore. Ma alla festa invitarono anche la perfida matrigna di Biancaneve. Indossate le sue belle vesti, ella andò allo specchio e disse: - Da muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella? Lo specchio rispose: - Regina, la più bella qui sei tu; ma la sposa lo è molto di più. La cattiva donna imprecò e il suo affanno era così grande che non poteva più dominarsi. Dapprima non voleva assistere alle nozze; ma non trovò pace e dovette andar a vedere la giovane regina. Entrando, riconobbe Biancaneve e impietrì dallo spavento e dall orrore. Ma sulla brace eran già pronte due pantofole di ferro: le portarono con le molle, e le deposero davanti a lei. Ed ella dovette calzare le scarpe roventi e ballare, finché cadde a terra, morta.

10 P o l l i c i n o di Jakob e Wilhelm Grimm Moltissimo tempo fa, quando si filava ancora la lana, nelle campagne vivevano due poveri contadini, marito e moglie. Sebbene fossero molto poveri, desideravano moltissimo d'avere un figlio. - Pensa, moglie mia - sospirava l'uomo - come la casa sarebbe più allegra se ci tenesse compagnia vicino al fuoco un bel bambino! - Ahimè! Marito mio - rispose la moglie fermando il suo arcolaio - anche io ne sarei molto felice. Anche se fosse molto piccolo, guarda, non più grande del mio pollice, l'accoglierei con gioia. Qualche mese dopo, con loro grande felicità, nacque un figlio. Era ben fatto ed aveva una bella voce, ma di taglia piccolissima, non più grande dell'unghia di suo padre. Il ragazzo non divenne mai grande. Aveva un'intelligenza viva, era anche molto abile, riusciva in tutto quello che si attingeva a fare. I suoi genitori, anche se in un primo tempo si erano preoccupati, si erano presto adattati alla sua piccola statura e lo avevano soprannominato con affetto Pollicino. Vegliavano su questo piccolo uomo che avevano tanto desiderato, affinché non gli mancasse nulla. Un giorno suo padre, mentre si apprestava a partire per abbattere alcuni alberi, sospirò: - Se avessi almeno qualcuno che mi aiutasse a condurre la carretta! - Papà! - gridò Pollicino - Lasciatemi guidare la carretta da solo. Vi raggiungerò nella radura e voi intanto guadagnerete tempo. - Ma tu sei piccolo! - esclamò il padre sorridendo - Come potrai guidare il cavallo e prendere le redini? - Ho un'idea - gridò il piccolo uomo - la mamma attaccherò il cavallo, poi mi isserà fino all'altezza della testa ed io scivolerò all'interno del suo orecchio. Il cavallo mi conosce bene e non avrà certamente paura, così io lo guiderò al luogo dove avrai tagliato la legna. Il padre diede infine il suo consenso, la madre attaccò il cavallo. Il ragazzo lo guidò come un vero carrettiere, fermandosi saggiamente agli incroci. Quando fu in vista della radura incrociò due stranieri che chiacchieravano. Poiché udirono una voce essi si voltarono. - Hoo! Hoo! Là! Là! Stiamo per arrivare mio bravo Zeffiro - gridò in quel momento Pollicino ben nascosto nel suo strano nascondiglio. - Sangue di Bacco! Sto sognando! - disse uno dei due - una carretta che se ne va da sola: si sente la voce del guidatore e non si vede nessuno. - Seguiamola, non c'è dubbio che si tratta di qualche stregoneria. Il pesante veicolo si fermò di colpo davanti alla catasta di legna. Davanti agli occhi dei due curiosi il contadino s'avvicinò al cavallo e gli tolse dall'orecchio il minuscolo omino che, tutto vispo, venne a sedersi su un fuscello di paglia a qualche metro dai due uomini. Nel vedere questo personaggio in miniatura così audace e pieno di risorse, i due uomini ne rimasero colpiti. Alla fine uno dei due s'avvicinò al contadino e gli disse: - Brav'uomo, vendeteci vostro figlio. Gli faremo guadagnare una fortuna facendolo vedere nelle fiere dei grandi villaggi. - Vendere il mio caro figlioletto? Non se ne parla nemmeno. - rispose indignato il contadino. Ma Pollicino, approfittando della distrazione dei due compari, occupati a contare i loro scudi, gli sussurrò: - Papà, accetta il denaro di questi due furfanti che vogliono sfruttarmi, io scapperò prestissimo, te lo prometto. Il brav'uomo, con il cuore un po' grosso, lo vendette quindi per due bei scudi d'oro. Rapidamente saltò sulla falda del vestito di uno dei due compari, s'arrampicò sulla sua spalla e infine s'installò sul bordo del suo cappello. Camminarono così tutta la giornata e allorquando arrivarono al bordo di un campo appena mietuto,

11 Pollicino all'improvviso gridò: - Lasciatemi scendere a terra, vedo laggiù un coniglio selvatico preso al laccio, con il quale potremo fare un buon pranzo. Ve lo mostrerò.- Allettato e senza alcun sospetto, l'uomo lo posò in terra. Agile come un'anguilla, Pollicino si infilò nel buco di un topo campagnolo gridando: - Buona sera signori e buon viaggio, ma senza di me.- Furiosi i due uomini se ne partirono imprecando. Pollicino decise di attendere l'alba al riparo di un guscio vuoto di lumaca. Dormiva profondamente quando un brusio di voci lo svegliò. Due ladri si erano fermati a due passi da lui. Uno di loro diceva: - Come potremo rubare a questo ricco prete? - Vi dirò io come fare - gridò molto forte Pollicino - portatemi con voi e io vi aiuterò. Abbassate gli occhi, sono qui vicino. - Come, sei tu, piccolo diavoletto, che pretendi d'aiutarci? - dissero i due ladroni scoppiando a ridere. - Io scivolo con facilità tra le sbarre della camera del prete - spiegò Pollicino - poi, una volta entrato, vi passo tutto quello che volete. - Tu non sei uno stupido - disse uno dei due uomini collocandolo sulla sua spalla - che la fortuna ci assista, ma affrettiamoci perché si sta alzando la luna. Arrivati al presbiterio, Pollicino vi entrò e si mise a gridare: - Volete tutti i luigi d'oro e i lingotti d'argento?- Stupiti i ladri lo supplicarono immediatamente di parlare a voce bassa, perché un tal chiasso rischiava di svegliare il prete. Ma Pollicino fece orecchie da mercante ai consigli dei due banditi e gridò a gran voce: - Decidetevi perdiana! I quadri e l'argenteria vi interessano o no?- La cuoca che aveva il sonno leggero, udendo quel beccano, scese dal letto, accese la candela alle braci del focolare e si precipitò in direzione dell'ufficio. Quando entrò nella stanza la trovò vuota. I ladri, spaventati, erano fuggiti da sotto la finestra, mentre Pollicino, tutto tranquillo, si era rifugiato in una mangiatoia del granaio vicino. La brava donna, rassicurata, tornò a dormire. Al mattino, all'alba, la serva incaricata di dar da mangiare alle bestie s'impossessò di una bracciata di fieno per nutrire le mucche. Quella che aveva il vitellino ad allattare si gettò avidamente sulla mangiatoia e, hop! Pollicino, svegliatosi, fu precipitato fino in fondo allo stomaco nauseabondo del ruminante che ingurgitava grosse quantità di fieno. - Basta fieno, basta erba! Soffoco! - gridò Pollicino. Presa da gran spavento nel sentire la mucca parlare, la povera serva cadde riversa chiamando il prete al soccorso. - Miio braavo papa..drone, la la.. nos...tra mu..mu...mmucca paarla que..que..sta mamaa..ttina! - balbettò la brava donna. - Vediamo, figlia mia, voi sognate! - gridò stupito il prete alzando la sottana nella stalla tutta sporca. Ma la voce risuonò di nuovo. Il prete si fece subito il segno della croce. - E' senza dubbio una manovra del diavolo. Cosparse abbondantemente d'acqua santa la stalla, la mucca e la serva. Dopodiché (non si è mai troppo prudenti) decise di far abbattere l'animale perché continuava ostinatamente a gridare. Effettivamente Pollicino aveva paura di morire soffocato. La povera mucca fu dunque sacrificata e il suo stomaco fu gettato in un mucchio di detriti. Pollicino soffrì molto ad uscire da quel ventre maleodorante. Finalmente respirò il suo primo sbuffo d'aria fresca, sennonché un lupo affamato inghiotti lo stomaco della mucca ed il suo contenuto. Ecco di nuovo il nostro sfortunato piccolo uomo in un nuovo nascondiglio poco confortevole ed inoltre tutto buio. Egli quindi mormorò:

12 - Caro lupo, nell'ultima casa del villaggio c'è una dispensa ben fornita. Quando arriva la notte entra dentro dal tubo di scarico, potrai così riempirti la pancia a sazietà. - Questo lungo digiuno - borbottò tra se il lupo - mi dà allucinazioni, infatti sento alcune voci... bah! Il consiglio non è poi così cattivo, seguiamolo. Lo seguì così bene che quando volle andarsene il suo ventre troppo pieno gli impedì di passare attraverso il tubo. Era rimasto in trappola. Pollicino si mise subito a gridare, mettendo in subbuglio la casa: - Caro papà, ammazzate questo lupo che mi tiene prigioniero nella sua pancia!- Così avvenne e Pollicino ritrovò i suoi genitori felici di rivederlo.

13 L a B e l l a a d d o r m e n t a t a n e l b o s c o di Charles Perrault C'era una volta un Re e una Regina che erano disperati di non aver figliuoli, ma tanto disperati, da non potersi dir quanto. Andavano tutti gli anni ai bagni, ora qui ora là: voti, pellegrinaggi; vollero provarle tutte: ma nulla giovava. Alla fine la Regina rimase incinta, e partorì una bambina. Fu fatto un battesimo di gala; si diedero per comari alla Principessina tutte le fate che si poterono trovare nel paese (ce n'erano sette) perché ciascuna di esse le facesse un regalo; e così toccarono alla Principessa tutte le perfezioni immaginabili di questo mondo. Dopo la cerimonia del battesimo, il corteggio tornò al palazzo reale, dove si dava una gran festa in onore delle fate. Davanti a ciascuna di esse fu messa una magnifica posata, in un astuccio d'oro massiccio, dove c'era dentro un cucchiaio, una forchetta e un coltello d'oro finissimo, tutti guarniti di diamanti e di rubini. Ma in quel mentre stavano per prendere il loro posto a tavola, si vide entrare una vecchia fata, la quale non era stata invitata con le altre, perché da cinquant'anni non usciva più dalla sua torre e tutti la credevano morta e incantata. Il Re le fece dare una posata, ma non ci fu modo di farle dare, come alle altre, una posata d'oro massiccio, perché di queste ne erano state ordinate solamente sette, per le sette fate. La vecchia prese la cosa per uno sgarbo, e brontolò fra i denti alcune parole di minaccia. Una delle giovani fate, che era accanto a lei, la sentì, e per paura che volesse fare qualche brutto regalo alla Principessina, appena alzati da tavola, andò a nascondersi dietro una portiera, per potere in questo modo esser l'ultima a parlare, e rimediare, in quanto fosse stato possibile, al male che la vecchia avesse fatto. Intanto le fate cominciarono a distribuire alla Principessa i loro doni. La più giovane di tutte le diede in regalo che ella sarebbe stata la più bella donna del mondo: un'altra, che ella avrebbe avuto moltissimo spirito: la terza, che avrebbe messo una grazia incantevole in tutte le cose che avesse fatto: la quinta che avrebbe cantato come un usignolo: e la sesta, che avrebbe suonato tutti gli strumenti con una perfezione da strasecolare. Essendo venuto il momento della vecchia fata, essa disse tentennando il capo più per la bizza che per ragion degli anni, che la Principessa si sarebbe bucata la mano con un fuso e che ne sarebbe morta! Questo orribile regalo fece venire i brividi a tutte le persone della corte, e non ci fu uno solo che non piangesse. A questo punto, la giovane fata uscì di dietro la portiera e disse forte queste parole: "Rassicuratevi, o Re e Regina; la vostra figlia non morirà: è vero che io non ho abbastanza potere per disfare tutto l'incantesimo che ha fatto la mia sorella maggiore: la Principessa si bucherà la mano con un fuso, ma invece di morire, s'addormenterà soltanto in un profondo sonno, che durerà cento anni, in capo ai quali il figlio di un Re la verrà a svegliare". Il Re, per la passione di scansare la sciagura annunziatagli dalla vecchia, fece subito bandire un editto, col quale era proibito a tutti di filare col fuso e di tenere fusi per casa, pena la vita. Fatto sta, che passati quindici o sedici anni, il Re e la Regina essendo andati a una loro villa, accadde che la Principessina, correndo un giorno per il castello e mutando da un quartiere all'altro, salì fino in cima a una torre, dove in una piccola soffitta c'era una vecchina, che se ne stava sola sola, filando la sua rocca. Questa buona donna non sapeva nulla della proibizione fatta dal Re di filare col fuso. "Che fate voi, buona donna?", disse la Principessa. "Son qui che filo, mia bella ragazza", le rispose la vecchia, che non la conosceva punto. "Oh! carino, carino tanto!", disse la Principessa, "ma come fate? datemi un po' qua, che voglio vedere se mi riesce anche a me." Vivacissima e anche un tantino avventata com'era (e d'altra parte il decreto della fata voleva così), non aveva ancora finito di prendere in mano il fuso, che si bucò la mano e cadde svenuta. La buona vecchia, non sapendo che cosa si fare, si mette a gridare aiuto. Corre gente da tutte le parti; spruzzano dell'acqua sul viso alla Principessa: le sganciano i vestiti, le battono sulle mani, le stropicciano le tempie con acqua della Regina d'ungheria; ma non c'è verso di farla tornare in sé. Allora il Re, che era accorso al rumore, si ricordò della predizione delle fate: e sapendo bene che

14 questa cosa doveva accadere, perché le fate l'avevano detto, fece mettere la Principessa nel più bell'appartamento del palazzo, sopra un letto tutto ricami d'oro e d'argento. Si sarebbe detta un angelo, tanto era bella: perché lo svenimento non aveva scemato nulla alla bella tinta rosa del suo colorito: le gote erano di un bel carnato, e le labbra come il corallo. Ella aveva soltanto gli occhi chiusi: ma si sentiva respirare dolcemente; e così dava a vedere che non era morta. Il Re ordinò che la lasciassero dormire in pace finché non fosse arrivata la sua ora di destarsi. La buona fata, che le aveva salvata la vita, condannandola a dormire per cento anni, si trovava nel regno di Matacchino, distante di là dodici mila chilometri, quando capitò alla Principessa questa disgrazia: ma ne fu avvertita in un baleno da un piccolo nano che portava ai piedi degli stivali di sette chilometri (erano stivali, coi quali si facevano sette chilometri per ogni gambata). La fata partì subito, e in men di un'ora fu vista arrivare dentro un carro di fuoco, tirato dai draghi. Il Re andò ad offrirle la mano, per farla scendere dal carro. Ella diè un'occhiata a quanto era stato fatto: e perché era molto prudente, pensò che quando la Principessa venisse a svegliarsi, si vedrebbe in un brutto impiccio, a trovarsi sola sola in quel vecchio castello; ed ecco quello che fece. Toccò colla sua bacchetta tutto ciò che era nel castello (meno il Re e la Regina) governanti, damigelle d'onore, cameriste, gentiluomini, ufficiali, maggiordomi, cuochi, sguatteri, lacchè, guardie, svizzeri, paggi e servitori; e così toccò ugualmente tutti i cavalli, che erano nella scuderia coi loro palafrenieri e i grossi mastini di guardia nei cortili e la piccola Puffe, la canina della Principessa, che era accanto a lei, sul suo letto. Appena li ebbe toccati, si addormentarono tutti, per risvegliarsi soltanto quando si sarebbe risvegliata la loro padrona, onde trovarsi pronti a servirla in tutto e per tutto. Gli stessi spiedi, che giravano sul fuoco, pieni di pernici e di fagiani si addormentarono: e si addormentò anche il fuoco. E tutte queste cose furono fatte in un batter d'occhio; perché le fate sono sveltissime nelle loro faccende. Allora il Re e la Regina, quand'ebbero baciata la loro figliuola, senza che si svegliasse, uscirono dal castello, e fecero bandire che nessuno si fosse avvicinato a quei pressi. E la proibizione non era nemmeno necessaria, perché in meno d'un quarto d'ora crebbe, lì dintorno al parco, una quantità straordinaria di alberi, di arbusti, di sterpi e di pruneti, così intrecciati fra loro, che non c'era pericolo che uomo o animale potesse passarvi attraverso. Si vedevano appena le punte delle torri del castello: ma bisognava guardarle da una gran distanza. E anche qui è facile riconoscere che la fata aveva trovato un ripiego del suo mestiere, affinché la Principessa, durante il sonno, non avesse a temere l'indiscretezza dei curiosi. In capo a cent'anni, il figlio del Re che regnava allora, e che era di un'altra famiglia che non aveva che far nulla con quella della Principessa addormentata, andando a caccia in quei dintorni, domandò che cosa fossero le torri che si vedevano spuntare al di sopra di quella folta boscaglia. Ciascuno gli rispose, secondo quello che ne avevano sentito dire: chi gli diceva che era un vecchio castello abitato dagli spiriti; chi raccontava che tutti gli stregoni del vicinato ci facevano il loro sabato. La voce più comune era quella che ci stesse di casa un orco, il quale portava dentro tutti i ragazzi che poteva agguantare, per poi mangiarseli a suo comodo, e senza pericolo che qualcuno lo rincorresse, perché egli solo aveva la virtù di aprirsi una strada attraverso il bosco. Il Principe non sapeva a chi dar retta, quando un vecchio contadino prese la parola e gli disse: "Mio buon Principe, sarà ormai più di cinquant'anni che ho sentito raccontare da mio padre che in quel castello c'era una Principessa, la più bella che si potesse mai vedere; che essa doveva dormirvi cento anni, e che sarebbe destata dal figlio di un Re, al quale era destinata in sposa". A queste parole, il Principe s'infiammò; senza esitare un attimo, pensò che sarebbe stato lui, quello che avrebbe condotto a fine una sì bella avventura, e spinto dall'amore e dalla gloria, decise di mettersi subito alla prova. Appena si mosse verso il bosco, ecco che subito tutti gli alberi d'alto fusto e i pruneti e i roveti si tirarono da parte, da se stessi, per lasciarlo passare. Egli s'incamminò verso il castello, che era in fondo a un viale, ed entrò dentro; e la cosa che gli fece un po' di stupore, fu quella di vedere che nessuno delle sue genti aveva potuto seguirlo, perché gli alberi, appena passato lui, erano tornati a ravvicinarsi. Ma non per questo si peritò a tirare avanti per la sua strada: un Principe giovine e innamorato è

15 sempre pien di valore. Entrò in un gran cortile, dove lo spettacolo che gli apparve dinanzi agli occhi sarebbe bastato a farlo gelare di spavento. C'era un silenzio, che metteva paura: dappertutto l'immagine della morte: non si vedevano altro che corpi distesi per terra, di uomini e di animali, che parevano morti, se non che dal naso bitorzoluto e dalle gote vermiglie dei guardaportoni, egli si poté accorgere che erano soltanto addormentati, e i loro bicchieri, dove c'erano sempre gli ultimi sgoccioli di vino, mostravano chiaro che si erano addormentati trincando. Passa quindi in un altro gran cortile, tutto lastricato di marmo; sale la scala ed entra nella sala delle guardie, che erano tutte schierate in fila colla carabina in braccio, e russavano come tanti ghiri; traversa molte altre stanze piene di cavalieri e di dame, tutti addormentati, chi in piedi chi a sedere. Entra finalmente in una camera tutta dorata, e vede sopra un letto, che aveva le cortine tirate su dai quattro lati, il più bello spettacolo che avesse visto mai, una Principessa che mostrava dai quindici ai sedici anni, e nel cui aspetto sfolgoreggiante c'era qualche cosa di luminoso e di divino. Si accostò tremando e ammirando, e si pose in ginocchio accanto a lei. In quel punto, siccome la fine dell'incantesimo era arrivata, la Principessa si svegliò, e guardandolo con certi occhi, più teneri assai di quello che sarebbe lecito in un primo abboccamento, "Siete voi, o mio Principe?", ella gli disse. "Vi siete fatto molto aspettare!" Il Principe, incantato da queste parole, e più ancora dal modo col quale erano dette, non sapeva come fare a esprimerle la sua grazia e la sua gratitudine. Giurò che l'amava più di se stesso. I suoi discorsi furono sconnessi e per questo piacquero di più; perché, poca eloquenza, grande amore! Esso era più imbrogliato di lei, né c'è da farsene meraviglia, a motivo che la Principessa aveva avuto tutto il tempo per poter pensare alle cose che avrebbe avuto da dirgli: perché, a quanto pare (la storia peraltro non ne fa parola), durante un sonno così lungo, la sua buona fata le avea regalato dei piacevolissimi sogni. Fatto sta, che erano già quattro ore che parlavano fra loro due, fitto fitto, e non si erano ancora detta la metà delle cose che avevano da dirsi. Intanto tutte le persone del palazzo si erano svegliate colla Principessa: e ciascuno aveva ripreso le sue faccende: e siccome tutti non erano innamorati, così non si reggevano in piedi dalla fame. La dama d'onore, che sentiva sfinirsi come gli altri, perdé la pazienza e disse ad alta voce alla Principessa che la zuppa era in tavola. Il Principe diede mano alla Principessa perché si alzasse: ella era già abbigliata e con gran magnificenza: ed egli fu abbastanza prudente da farle osservare, che era vestita come la mi' nonna, e che aveva un camicino alto fin sotto gli orecchi, come costumava un secolo addietro. Ma non per questo era meno bella. Passarono nel gran salone degli specchi e lì cenarono, serviti a tavola dagli ufficiali della Principessa. Gli oboè e i violini suonarono delle sinfonie vecchissime, ma sempre belle, quantunque fosse quasi cent'anni che nessuno pensava più a suonarle: e dopo cena, senza metter tempo in mezzo, il grande elemosiniere li maritò nella cappella di corte, e la dama d'onore tirò le cortine del parato. Dormirono poco. La Principessa non ne aveva un gran bisogno e vissero cent'anni e più felici e contenti...

16 I l b r u t t o a n a t r o c c o l o Hans Christian Andersen L'estate era iniziata; i campi agitavano le loro spighe dorate, mentre il fieno tagliato profumava la campagna. In un luogo appartato, nascosta da fitti cespugli vicini ad un laghetto, mamma anatra aveva iniziato la nuova cova. Siccome riceveva pochissime visite, il tempo le passava molto lentamente ed era impaziente di vedere uscire dal guscio la propria prole finalmente, uno dopo l'altro, i gusci scricchiolarono e lasciarono uscire alcuni adorabili anatroccoli gialli. - Pip! Pip! Pip! Esclamarono i nuovi nati, il mondo è grande ed è bello vivere!- - Il mondo non finisce qui,- li ammonì mamma anatra,- si estende ben oltre il laghetto, fino al villaggio vicino, ma io non ci sono mai andata. Ci siete tutti? - Domandò. Mentre si avvicinava, notò che l'uovo più grande non si era ancora schiuso e se ne meravigliò. Si mise allora a covarlo nuovamente con aria contrariata. - Buongiorno! Come va? - Le domandò una vecchia anatra un po' curiosa che era venuta in quel momento a farle visita. - Il guscio di questo grosso uovo non vuole aprirsi, guarda invece gli altri piccoli, non trovi che siano meravigliosi?- - Mostrami un po' quest'uovo. - Disse la vecchia anatra per tutta risposta. - Ah! Caspita! Si direbbe un uovo di tacchina! Ho avuto anche io, tempo fa, Questa sorpresa: Quello che avevo scambiato per un anatroccolo era in realtà un tacchino e per questo non voleva mai entrare in acqua. Quest'uovo è certamente un uovo di tacchino. Abbandonalo ed insegna piuttosto a nuotare agli altri anatroccoli!- - Oh! Un giorno di più che vuoi che mi importi! Posso ancora covare per un po'. - Rispose l'anatra ben decisa.- - Tu sei la più testarda che io conosca! - Borbottò allora la vecchia anatra allontanandosi. Finalmente il grosso uovo si aprì e lascio uscire un grande anatroccolo brutto e tutto grigio. - Sarà un tacchino! - Si preoccupò l'anatra. - Bah! Lo saprò domani!- Il giorno seguente, infatti, l'anatra portò la sua piccola famiglia ad un vicino ruscello e saltò nell'acqua: gli anatroccoli la seguirono tutti, compreso quello brutto e grigio. - Mi sento già più sollevata, - sospirò l'anatra, - almeno non è un tacchino! Ora, venite piccini, vi presenterò ai vostri cugini.- La piccola comitiva camminò faticosamente fino al laghetto e gli anatroccoli salutarono le altre anatre. - Oh! Guardate, i nuovi venuti! Come se non fossimo già numerosi! e questo anatroccolo grigio non lo vogliamo! - Disse una grossa anatra, morsicando il poverino sul collo.- - Non fategli male! - Gridò la mamma anatra furiosa - E' così grande e brutto che viene voglia di maltrattarlo! - Aggiunse la grossa anatra con tono beffardo.- E' un vero peccato che sia così sgraziato, gli altri sono tutti adorabili, - rincarò la vecchia anatra che era andata a vedere la covata. - Non sarà bello adesso, può darsi però che, crescendo, cambi; e poi ha un buon carattere e nuota meglio dei suoi fratelli, - assicurò mamma anatra, - -La bellezza, per un maschio, non ha importanza, - concluse, e lo accarezzò con il becco - andate, piccoli miei, divertitevi e nuotate bene!- Tuttavia, l'anatroccolo, da quel giorno fu schernito da tutti gli animali del cortile: le galline e le anatre lo urtavano, mentre il tacchino, gonfiando le sue piume, lo impauriva. Nei giorni che seguirono, le cose si aggravarono: il fattore lo prese a calci e i suoi fratelli non perdevano occasione per deriderlo e maltrattarlo. Il piccolo anatroccolo era molto infelice. Un giorno, stanco della situazione, scappò da sotto la siepe. Gli uccelli, vedendolo, si rifugiarono nei cespugli. "sono così brutto che faccio paura!" pensò l'anatroccolo. Continuò il suo cammino e si rifugiò, esausto, in una palude abitata da anatre selvatiche che accettarono di lasciargli un posticino fra le canne. Verso sera, arrivarono due oche selvatiche che maltrattarono il povero anatroccolo già così sfortunato. Improvvisamente, risuonarono alcuni spari le due oche caddero morte nell'acqua! I cacciatori,

17 posti intorno alla palude, continuarono a sparare. Poi i lori cani solcarono i giunchi e le canne. Al calar della notte, il rumore cessò. Il brutto anatroccolo ne approfittò per scappare il più velocemente possibile. Attraversò campi e prati, mentre infuriava una violenta tempesta. Dopo qualche ora di marcia, arrivò ad una catapecchia la cui porta era socchiusa. L'anatroccolo si infilò dentro: era la dimora di una vecchia donna che viveva con un gatto ed una gallina. Alla vista dell'anatroccolo, il micio cominciò a miagolare e la gallina cominciò a chiocciare, tanto che la vecchietta, che aveva la vista scarsa, esclamò: - Oh, una magnifica anatra! Che bellezza, avrò anche le uova purché non sia un' anatra maschio! Beh, lo vedremo, aspettiamo un po'!-la vecchia attese tre lunghe settimane ma le uova non arrivarono e cominciò a domandarsi se fosse davvero un'anatra! Un giorno, il micio e la gallina, che dettavano legge nella stamberga, interrogarono l'anatroccolo: - Sai deporre le uova? - domandò la gallina; - No - rispose l'anatroccolo un po' stupito. - Sai fare la ruota? - domandò il gatto; - No, non ho mai imparato a farla! - rispose l'anatroccolo sempre più meravigliato. - Allora vai a sederti in un angolo e non muoverti più! - gli intimarono i due animali con cattiveria.improvvisamente, un raggio di sole e un alito di brezza entrarono dalla porta. L'anatroccolo ebbe subito una grande voglia di nuotare e scappò lontano da quegli animali stupiti e cattivi. L'autunno era alle porte, le foglie diventarono rosse poi caddero. Una sera, l'anatroccolo vide alcuni bellissimi uccelli bianco dal lungo collo che volavano verso i paesi caldi. Li guardò a lungo girando come una trottola nell'acqua del ruscello per vederli meglio: erano cigni! Come li invidiava! L'inverno arrivò freddo e pungente; l'anatroccolo faceva ogni giorno un po' di esercizi nel ruscello per riscaldarsi. Una sera dovette agitare molto forte le sue piccole zampe perché l'acqua intorno a lui non gelasse: ma il ghiaccio lo accerchiava di minuto in minuto finché, esausto e ghiacciato, svenne. Il giorno seguente, un contadino lo trovò quasi senza vita; ruppe il ghiaccio che lo circondava e lo portò ai suoi ragazzi che lo circondarono per giocare con lui. Ahimè, il poveretto ebbe una gran paura e si gettò prima dentro un bidone di latte e poi una cassa della farina. Finalmente riuscì ad uscire e prese il volo inseguito dalla moglie del contadino. Ancora una volta il brutto anatroccolo scappò ben lontano per rifugiarsi, esausto, in un buco nella neve. L'inverno fu lungo e le sue sofferenze molto grandi ma un giorno le allodole cominciarono a cantare e il sole riscaldò la terra: la primavera era finalmente arrivata! L'anatroccolo si accorse che le sue ali battevano con molto più vigore e che erano anche molto robuste per trasportarlo sempre più lontano. Partì dunque per cercare nuovi luoghi e si posò in un prato fiorito. Un salice maestoso bagnava i suoi rami nell'acqua di uno stagno dove tre cigni facevano evoluzioni graziose. Conosceva bene quei meravigliosi uccelli! L'anatroccolo si lanciò disperato verso di loro gridando: - Ammazzatemi, non sono degno di voi!- Improvvisamente si accorse del suo riflesso sull'acqua: che sorpresa! Che felicità! Non osava crederci: non era più un anatroccolo grigio era diventato un cigno: come loro!! I tre cigni si avvicinarono e lo accarezzarono con il becco dandogli così il benvenuto, mentre alcuni ragazzi attorno allo stagno declamavano a gran voce la sua bellezza e la sua eleganza. Mise la testa sotto le ali, quasi vergognoso di tanti complimenti e tanta fortuna: lui che era stato per tanto tempo un brutto anatroccolo era finalmente felice e ammirato.

18 L a f a v o l a d e l l ' a b e t e Hans Christian Andersen In mezzo al bosco si trovava un grazioso alberello di abete aveva per sé parecchio spazio, prendeva il sole, aveva aria a sufficienza, e tutt'intorno crescevano molti suoi compagni più grandi, sia abeti che pini, ma quel piccolo abete aveva una gran fretta di crescere. Non pensava affatto al caldo sole né all'aria fresca, né si preoccupava dei figli dei contadini che passavano di lì chiacchierando quando andavano a raccogliere fragole o lamponi. Spesso arrivavano con il cestino pieno zeppo di fragole oppure le tenevano intrecciate con fili di paglia, si sedevano vicino all'alberello e esclamavano: «Oh, com'è carino così piccolo!» ma all'albero dispiaceva molto sentirlo. L'anno dopo il tronco gli si era allungato, e l'anno successivo era diventato ancora più lungo; guardandone la costituzione si può sempre capire quanti anni ha un abete. «Oh! se solo fossi grosso come gli altri alberi!» sospirava l'alberello «potrei allargare per bene i miei rami e con la cima ammirare il vasto mondo! gli uccelli costruirebbero i loro nidi tra i miei rami e quando c'è vento potrei dondolarmi solennemente, come fanno tutti gli altri.» E non si godeva affatto né il sole, né gli uccelli o le nuvole rosse che mattina e sera gli passavano sopra. Quand'era inverno e la neve brillava bianchissima tutt'intorno, arrivava spesso una lepre e con un salto si posava proprio sopra l'alberello. Che noia! Ma dopo due inverni l'albero era così grande che la lepre dovette limitarsi a girargli intorno. Oh! crescere, crescere, diventare grosso e vecchio, è l'unica cosa bella di questo mondo pensava l'albero. In autunno giunsero i taglialegna per abbattere alcuni degli alberi più grandi; questo accadeva ogni anno e il giovane abete, che ormai era ben cresciuto, rabbrividiva al pensiero di quei grandi e meravigliosi alberi che cadevano a terra con un fragore incredibile. I loro rami venivano strappati, così restavano lì nudi, esili e magri che quasi non si riconoscevano più, poi venivano messi sui carri e i cavalli li portavano fuori dal bosco. Dove erano diretti? Che cosa ne sarebbe stato di loro? In primavera, quando giunsero la rondine e la cicogna, l'albero chiese: «Sapete forse dove sono stati portati? Non li avete incontrati?». La rondine non sapeva nulla, ma la cicogna sembrò riflettere un po', poi fece cenno col capo e disse: «Sì, credo di sì! Ho incontrato molte nuove navi, mentre tornavo dall'egitto; avevano alberi maestri magnifici: immagino fossero loro, dato che odoravano di abete. Posso assicurarvi che erano magnifici, davvero magnifici!». «Oh, se anch'io fossi abbastanza grande da andare per il mare! Ma com'è poi in realtà questo mare, e a cosa assomiglia?» «È troppo lungo da spiegare!» rispose la cicogna andandosene. «Rallegrati per la giovinezza!» dissero i raggi di sole. «Rallegrati per la tua crescita, per la giovane vita che è in te!» Il vento baciò l'albero e la rugiada riversò su di lui le sue lacrime, ma l'albero non riuscì a capire. Quando si avvicinarono le feste natalizie, vennero abbattuti giovani alberelli, che non erano ancora grandi e vecchi come quell'abete, che non riusciva a avere pace e voleva sempre partire. Questi alberelli, che erano stati scelti tra i più belli, conservarono i loro rami e vennero messi sui carri che i cavalli trascinarono fuori dal bosco. «Dove vanno?» chiese l'abete «non sono più grandi di me, anzi ce n'era uno che era molto più piccolo. Perché conservano i rami? Dove sono diretti?» «Noi lo sappiamo! Noi lo sappiamo!» cinguettarono i passerotti «abbiamo curiosato attraverso i vetri delle finestre, in città. Sappiamo dove vengono portati! Ricevono una ricchezza e uno sfarzo inimmaginabili! Abbiamo visto attraverso le finestre che vengono piantati in mezzo a una stanza riscaldata e decorati con le cose più belle, mele dorate, tortine di miele, giocattoli e molte centinaia di candeline!» «E poi?» domandò l'abete agitando i rami «e poi? Che cosa succede dopo?» «Non abbiamo visto altro. Ma era meraviglioso!» «Magari sarò anch'io destinato a seguire quel destino splendente!» si rallegrò l'abete. «E è molto meglio che andare per mare. Che nostalgia! Se solo fosse Natale! Ormai sono alto e sviluppato come gli alberi che erano stati portati via l'anno scorso. Potessi essere già sul carro! E nella stanza

19 riscaldata con quello sfarzo e quella ricchezza! e poi? Poi succederanno cose ancora più belle, più meravigliose; altrimenti perché mi decorerebbero? Deve succedere qualcosa di più importante, di più straordinario, ma che cosa? Come soffro! che nostalgia! Non so neppure io che cosa mi succede!» «Rallegrati con me!» dissero l'aria e la luce del sole «goditi la tua gioventù qui all'aperto!» Ma lui non gioiva affatto. Cresceva continuamente e restava verde sia d'estate che d'inverno, di un verde scuro, e la gente che lo vedeva esclamava: «Che bell'albero!». Verso Natale fu il primo albero a essere abbattuto. La scure penetrò in profondità nel midollo; l'albero cadde a terra con un sospiro, sentì un dolore, un languore che non gli fece pensare a nessuna felicità era triste perché doveva abbandonare la sua casa, la zolla da cui era spuntato. Sapeva bene che non avrebbe più rivisto i vecchi e cari compagni, i piccoli cespugli e i fiorellini che stavano intorno a lui, e forse neppure gli uccelli. La partenza non fu certo una cosa piacevole. L'albero si riprese solo mentre veniva scaricato con gli altri alberi, quando udì esclamare: «Questo è magnifico! Lo dobbiamo usare senz'altro!». Giunsero due camerieri in ghingheri che portarono l'abete in una grande sala molto bella. Tutt'intorno, sulle pareti, pendevano ritratti e vicino a una grande stufa di maiolica si trovavano vasi cinesi con leoni sul coperchio. C'erano sedie a dondolo divani ricoperti di seta, grossi tavoli sommersi da libri illustrati e da giocattoli che valevano cento volte cento talleri, come dicevano i bambini. L'abete venne messo in piedi in un secchio di sabbia, ma nessuno vide che era un secchio, perché era stato ricoperto di stoffa verde e era stato messo su un grosso tappeto a vari colori. Come tremava l'albero! Che cosa sarebbe accaduto? I camerieri e le signorine lo decorarono. Su un ramo pendevano piccole reti ricavate dalla carta colorata; ognuna era stata riempita di caramelle. Pendevano anche mele e noci dorate, che sembravano quasi cresciute dai rami. Poi vennero fissate ai rami più di cento candeline bianche rosse e blu. Bambole che sembravano vere, e che l'abete non aveva mai visto prima d'allora, dondolavano tra il verde. In cima venne posta una grande stella fatta con la stagnola dorata; era proprio meravigliosa. «Questa sera!» esclamarono tutti «questa sera deve splendere!» Fosse già sera! pensò l'albero se almeno le candele fossero accese presto! Che cosa accadrà? Chissà se verranno gli alberi del bosco a vedermi? E chissà se i passerotti voleranno fino alla finestra? Forse metterò radici qui e resterò decorato estate e inverno! Sì! ne sapeva davvero poco! ma gli era venuto mal di corteccia per la nostalgia, e il mal di corteccia è fastidioso per un albero come lo è il mal testa per noi. Finalmente vennero accese le candele. Che splendore, che magnificenza! L'albero tremava con tutti i suoi rami finché una candelina appiccò fuoco al verde. Che dolore! «Dio ci protegga!» gridarono le signorine e subito spensero la fiamma. Ora l'albero non osava neppure più tremare. Che tortura! Aveva una gran paura di perdere qualche parte del suo addobbo, ed era molto turbato per tutto quello sfarzo. Si aprirono i due battenti della porta e una quantità di bambini si precipitò nella stanza, sembrava quasi che volessero rovesciare l'albero. Gli adulti li seguirono con prudenza; i piccoli si azzittirono, ma solo per un attimo, poi gridarono nuovamente di gioia facendo tremare tutta la casa. Ballarono intorno all'albero e tolsero, uno dopo l'altro, tutti i regali. Che cosa fanno? pensò l'albero. Che succede? Intanto le candele bruciarono fino ai rami, e man mano che si consumarono vennero spente. Poi i bambini ebbero il permesso di disfare l'albero. Gli si precipitarono contro con tale veemenza che l'albero sentì scricchiolare tutti i rami. Se non fosse stato fissato al soffitto con la stella dorata si sarebbe certamente rovesciato. I bambini gli saltellavano intorno coi loro magnifici giocattoli. Nessuno guardò più l'albero, eccetto la vecchia bambinaia che curiosò tra le foglie per vedere se era stato dimenticato un fico secco o una mela. «Una storia! Una storia!» gridarono i bambini trascinando un signore piccoletto ma robusto verso l'albero. Lui vi si sedette proprio sotto e disse: «Adesso siamo nel bosco, e anche l'albero farebbe bene a ascoltare! Comunque racconterò solo una storia. Volete quella di Ivede-Avede o quella di Klumpe-

20 Dumpe che cadde giù dalle scale, salì sul trono e sposò la principessa?». «Ivede-Avede!» gridarono alcuni; «Klumpe-Dumpe» gridarono altri. Fu un grido solo e solo l'albero se ne stette zitto a pensare: Non posso partecipare anch'io? Non posso far più nulla?. In realtà aveva già partecipato e fatto la parte che gli spettava. L'uomo raccontò la storia di Klumpe-Dumpe che cadde giù dalle scale, salì sul trono e sposò la principessa; i bambini batterono le mani e gridarono: «Racconta, racconta!». Volevano sentire anche quella di Ivede-Avede, ma fu raccontata solo la storia di Klumpe-Dumpe. L'abete se ne stava zitto e pensieroso; gli uccelli del bosco non avevano mai raccontato storie del genere. Klumpe-Dumpe che cade dalle scale e sposa la principessa! Certo: è così che va il mondo! concluse l'albero, credendo che tutto fosse vero, dato che era stato raccontato da un uomo così per bene. Certo! Chi può mai saperlo? Forse cadrò anch'io dalle scale e sposerò una principessa!. E si rallegrò al pensiero che il giorno dopo sarebbe stato decorato di nuovo con candele, giocattoli, e frutta dorata. Domani non tremerò! pensò. Voglio proprio godermi tutto quello splendore. Domani sentirò ancora la storia di Klumpe-Dumpe e forse anche quella di Ivede-Avede. L'albero restò fermo a pensare per tutta la notte. Il mattino dopo entrarono il cameriere e la domestica. «Adesso ricomincia la festa! pensò l'albero; invece lo trascinarono fuori dalla stanza, su per le scale fino in soffitta e lo misero in un angolo buio dove non arrivava neanche un filo di luce. Che significa!? pensò l'albero. Che cosa faccio qui? Che cosa posso ascoltare da qua? Si appoggiò al muro e continuò a pensare. Di tempo ne aveva, passarono giorni e notti e nessuno venne lassù, quando finalmente comparve qualcuno, fu solo per posare delle casse in un angolo. L'albero era ormai nascosto, si poteva pensare che fosse stato dimenticato. Adesso è inverno là fuori!» pensò l'albero. La terra è dura e coperta di neve. Gli uomini non potrebbero ripiantarmi, per questo devo rimanere al riparo fino a primavera. Che ottima idea! Come sono bravi gli uomini! Se solo qui non fosse così buio ed io non fossi così solo! Non c'è neppure una piccola lepre! Invece era proprio bello nel bosco quando c'era la neve e la lepre mi passava vicino. Sì, anche quando mi saltava sopra ma allora non mi piaceva. Qui invece c'è una solitudine terribile! «Pi! Pi!» esclamò un topolino proprio in quel momento e saltò fuori. Subito dopo ne uscì un altro. Fiutarono l'abete e si infilarono tra i rami. «Fa un freddo tremendo!» dissero i topolini. «Se non fosse per questo freddo, si starebbe bene qui! Non è vero, vecchio abete?» «Non sono affatto vecchio!» replicò l'abete. «Ce ne sono molti che sono più vecchi di me!» «Da dove vieni?» gli chiesero i topolini «e che cosa sai?» Erano infatti terribilmente curiosi. «Raccontaci del posto più bello della terra! Ci sei stato? Sei stato nella dispensa dove c'è il formaggio sugli scaffali e i prosciutti pendono dai soffitto, dove si balla sulle candele di sego, dove si arriva magri e si esce grassi?» «Non lo conosco!» rispose l'albero «ma conosco il bosco, dove splende il sole e dove gli uccelli cinguettano!» e così raccontò della sua gioventù, e i topolini non avevano mai sentito nulla di simile, così lo ascoltarono attentamente e poi dissero: «Oh! Tu hai visto molto! come sei stato felice!». «Io?» esclamò l'abete, pensando a quello che raccontava. «Sì, in fondo sono stati bei tempi!» poi raccontò della sera di Natale, di quando era stato addobbato con dolci e candeline. «Oh!» esclamarono i topolini «come sei stato felice, vecchio abete!» «Non sono per niente vecchio!» rispose l'albero. «Sono venuto via dal bosco quest'inverno! Sono nell'età migliore, ho solo terminato la crescita!» «Come racconti bene!» gli dissero i topolini, e la notte dopo ritornarono con altri quattro topolini che volevano sentire il racconto dell'albero; e quanto più raccontava, tanto più chiaramente si ricordava tutto e pensava: Erano proprio bei tempi! Ma ritorneranno, ritorneranno! Klumpe- Dumpe cadde dalle scale e ebbe la principessa; forse anch'io ne sposerò una e intanto pensava ad una piccola e graziosa betulla che cresceva nel bosco e che per l'abete era come una bella principessa.

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