Leopardi e Novecento: un infinito desiderio d infinito

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1 IX edizione de I Colloqui fiorentini (Firenze, Febbraio 2010) Giacomo Leopardi Desiderii infiniti, visioni altere, pensieri immensi Leopardi e Novecento: un infinito desiderio d infinito Nel corso dell anno scolastico, durante le ore di italiano, abbiamo studiato la vita e le opere di Giacomo Leopardi. Siamo rimasti molto colpiti dal suo pensiero e in particolare dalla sua rinomata concezione pessimistica della vita. Incuriositi da tali aspetti ci siamo confrontati con il nostro insegnante ed abbiamo deciso di non stabilire subito un argomento specifico, provando piuttosto a conoscere più in profondità l autore, alla ricerca di qualche spunto interessante e perchè no più accattivante per noi. Al centro del nostro lavoro non poteva non esserci il testo letterario, così abbiamo letto alcuni lavori leopardiani in aggiunta a quelli già affrontati nelle ore curricolari (passi dallo Zibaldone relativi ai concetti di infinito e indefinito, gli idilli ed anche alcuni stralci della sua Storia dell astronomia, commentata da Margherita Hack) e abbiamo dato vita attorno a essi ad una vera e propria tavola rotonda, lasciando libera la nostra immaginazione. Non sono mancate le idee: c era chi proponeva di scrivere qualcosa sul cielo, sugli astri, sulla passione innata nel poeta per l astronomia; c era chi voleva puntare decisamente sul pessimismo giovanile del poeta rinvenendo in esso un atteggiamento non distante da certe inclinazioni di larga parte dei ragazzi d oggi; c era, infine, chi immaginava di intervistare il poeta di Recanati comodamente seduto in poltrona, ma con un bel problema Quali domande rivolgergli? Così abbiamo deciso di attendere ancora un po in attesa di una lampadina che non ha esitato ad accendersi. Infatti, rileggendo il celebre Infinito, abbiamo associato l immagine del poeta che, seduto sull ermo colle, vaga con la mente negli interminabili spazi posti oltre la siepe, che «da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude», con un altra a noi ben nota:

2 Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, protagonista dell omonimo Novecento di Alessandro Baricco, che, scendendo dalla scaletta del Virginian, si arresta di colpo e fissa l immensità che gli si para davanti. Qui occorre una spiegazione. Conosciamo quel testo poiché due anni fa l abbiamo letto integralmente in classe e ne abbiamo visto la versione cinematografica realizzata da Giuseppe Tornatore, ovvero La leggenda del pianista sull oceano. I versi di Leopardi hanno così rievocato in noi quell immagine. Sarà pure una semplice associazione figurativa, ma sta di fatto che questo confronto/scontro è divenuto il nostro punto di partenza per una riflessione sull uomo Leopardi, la cui grandezza consiste anche nell aver espresso in versi di eterna poesia il senso dell infinito che, in qualche misura, ci coinvolge in prima persona. Ciò che proporremo sarà dunque una sorta di comparazione tra la lirica leopardiana e il monologo finale dell opera di Baricco, in cui si condensa la spiegazione di quell immagine a cui abbiamo poc anzi accennato e che andiamo ora a rievocare. Alessandro Baricco nel 1994 scrive Novecento, un testo che nemmeno lui sapeva come definire, a metà tra narrativa e teatro. Il personaggio principale è Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento, un pianista eccezionale nato e cresciuto sul Virginian, un enorme transatlantico che solca le onde dell oceano tra l Europa e l America. A bordo c è un enorme fetta d umanità che lascia una vita di stenti e parte alla ricerca della felicità, rappresentata dal sogno americano. Abbandonato da bambino nella sala da ballo della nave, Novecento è trovato e allevato da Danny Boodman, un macchinista del Virginian tanto rozzo e sporco quanto buono e affettuoso. Gli anni trascorrono e Danny Boodman T.D. Lemon Novecento (questo il nome attribuito al ragazzo dal padre putativo) ha già compiuto 32 anni. Il dato impressionante è che mai in questi anni ha messo piede sulla terra! Nonostante ciò egli conosce il mondo meglio di chiunque altro, perché sa ascoltare i passeggeri della nave e ha fatto tesoro dei loro racconti: è in grado di descrivere alla perfezione il tramonto visto dal Pont Neuf a Parigi, sa raccontare con assoluta esattezza che odore

3 c è in Bertham Street, d estate, quando ha appena smesso di piovere Ma lui in quei posti non c è mai stato! In nessun angolo del mondo è stato. È rimasto sempre e soltanto lì, sul Virginian, dove, con la Atlantic Jazz Band, suona il pianoforte. Ecco, questo è ciò che gli riesce meglio. Non si sa come diavolo faccia, nessuno gliel ha insegnato, eppure le sue dita scivolano sulla tastiera con una leggiadria inaudita. Finalmente un giorno di febbraio, nel porto di New York, Novecento decide che avrebbe messo piede a terra. Si prepara, indossa un cappotto di cammello elegantissimo e scende il primo scalino. Pochi gradini lo separano dal mondo, ma al terzo si ferma. Se ne rimane così per un tempo eterno. Guarda davanti a sé, sembra che cerchi qualcosa. È questa l immagine che abbiamo associato a quella di Giacomo Leopardi che, dal suo colle, guarda davanti a sé. Cosa vede il poeta di Recanati? Cosa vede Novecento? Quali sentimenti si agitano in loro? Partiamo con la lirica del 1819: L'infinito Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

4 e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare Come è noto, appartiene, insieme ad altre cinque opere alla serie degli Idilli. Stiamo parlando di uno dei capolavori di Leopardi, scritto nel periodo di Pessimismo Storico, nel quale l autore considera la Natura una vana illusione per l uomo: questi cerca in essa consolazioni e risposte per sollevarsi dal dolore che prova, ma lei non dà risposte. Leopardi è seduto in cima al colle Tabour, dove è solito meditare e ascoltare; dinnanzi a lui c è una siepe che non gli permette di osservare l orizzonte, perchè si pone come limite tra il finito e l infinito spaziale; ode poi un suono, il vento, limite a sua volta tra il finito e l infinito temporale. È così che la fantasia e l immaginazione del poeta prendono il sopravvento: non esiste più il cespuglio, non ci sono più barriere che ostacolano la sua visione, ma prevale l immaginazione di un mondo surreale, eterno, irrazionale, ricco di quiete nel quale Leopardi non distingue il presente dal passato e si trova in bilico tra la perdita di se stesso («Così tra questa immensità s annega il pensier mio») e il piacere che prova («E il naufragar m è dolce in questo mare»). Il concetto di infinito leopardiano si costituisce come quell immensità di spazio e tempo surreali, nella quale il poeta supera ogni barriera, sia fisica che ideologica per rifugiarsi nell unico piacere possibile, una specie di ebbrezza d annullamento. L idea di infinito acquista perciò un accezione negativa, in quanto fattore puramente creato dall immaginazione e dal desiderio della mente umana. Per Leopardi l infinito è il desiderio assoluto di felicità, che conduce l uomo ad evadere dalla realtà fisica e a cercarla in un mondo perfetto ma immaginario, dove non approderà mai. La causa dell infelicità umana è proprio da ricercarsi in questa sproporzione tra i desideri di felicità dell individuo, potenzialmente illimitati, e le oggettive, limitate possibilità di soddisfacimento.

5 A questo punto torniamo a Novecento. Non disse mai a nessuno perché quel giorno non era sceso dalla nave. Dobbiamo attendere il monologo finale del libro per capire cosa sia successo, quale molla sia scattata nella testa del pianista. Sono passati gli anni e il Virginian è ormeggiato nel porto di Plymouth in attesa di essere distrutto. Il personaggio-narratore Tim Tooney, nonché trombettista della band e amico di Novecento, sale sull imbarcazione e lo trova seduto sulla dinamite. Comincia il monologo: Tutta quella città non se ne vedeva la fine.../ La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine?/ E il rumore/ Su quella maledettissima scaletta... era molto bello, tutto... e io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c era problema/ Col mio cappello blu/ Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino/ Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino/ Primo gradino, secondo/ Non è quel che vidi che mi fermò/ E' quello che non vidi/ Puoi capirlo fratello?, è quel che non vidi... lo cercai ma non c'era, in tutta quella sterminata città c era tutto tranne/ C era tutto/ Ma non c era una fine. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo/ Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu, sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu/ Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me/

6 Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi/ Milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai e questa è la verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita/ Se quella tastiera è infinita, allora/ Su quella tastiera non c è musica che puoi suonare. Ti sei seduto sul seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio/ Cristo, ma le vedevi le strade?/ Anche solo le strade, ce n era a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una/ A scegliere una donna/ Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire/ Tutto quel mondo/ Quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce/ E quanto ce n è/ Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell enormità, solo a pensarla? A viverla.../ Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità, su una tastiera che non era infinita. Io ho imparato così. La terra, quella è una nave troppo grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una donna troppo bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare. Perdonatemi. Ma io non scenderò. Lasciatemi tornare indietro. Per favore/ Sia Leopardi che Novecento guardano verso l orizzonte ed entrambi scorgono un immensità sconfinata, senza limiti spazio-temporali, in una parola, vedono davanti a loro l infinito; e poco importa se il primo è un infinito immaginario mentre il secondo è reale, perché ciò che è più interessante è la diversa reazione dei due individui di

7 fronte ad esso: Leopardi lo cerca, anela ad esso; Novecento ne è terrorizzato, sente che quella non è la sua dimensione. In Leopardi è vivo il desiderio di abbandonare il suo mondo chiuso e finito per librarsi in volo verso l infinito; egli sente, come ogni uomo, il desiderio di trascendere i confini della vita umana per elevarsi, per andare oltre. Anche Novecento, dal canto suo, percepisce l infinito, lo avverte dentro si sé, lo sente con chiarezza ogni volta che suona il suo pianoforte. È dell immensità del mondo che ha paura: d altronde lui è nato e cresciuto in una nave e da lì non si è mai spostato. Cos è quest ansia d infinito se non esigenza di eterno? Cos è l esigenza di eterno se non ricerca di Dio? Dunque, se l infelicità leopardiana scaturisce dalla sproporzione tra desiderio d infinito e limiti oggettivi dell uomo, ecco che allora Novecento diviene paradigma di questa situazione: il desiderio di scendere dalla nave ce l ha (aveva scelto lui di scendere dopo trentadue anni trascorsi sul Virginian!), il desiderio di vedere quel pianoforte immenso su cui suona dio ma lì si ferma, si paralizza! La sua è una rinuncia. È la rinuncia di chi fa la scelta più comoda, di chi non decide di rischiare, di chi non vuole cambiare. Scendere da quella scala avrebbe significato cambiare vita per sempre. Lui sente la voce dell infinito dentro di sé ma non riesce a darle spazio se non nel suo habitat, la nave. Pensa che, una volta a terra, non sarà in grado di produrre una sola nota e, per paura, non scende quegli scalini. Noi crediamo che egli sarebbe riuscito a liberare quella sua voce infinita interiore anche nel mondo, in mezzo agli uomini, e avrebbe potuto dare libero sfogo alla musica infinita che giace dentro di lui. Il coraggio! Questo gli manca. Questo nostro lavoro ci ha dato modo di riflettere sul significato d infinito: attraverso la figura del poeta e grazie ad un magico pianista degli oceani abbiamo viaggiato dentro noi stessi e ci siamo scoperti più vicini al grande autore di Recanati di quanto non pensassimo. Noi riteniamo, aldilà di tutto ciò che su Leopardi è stato scritto negli anni, che egli sentisse dentro di sé la stessa esigenza d infinito che avvertiamo in noi, la nostra stessa sensazione d incompletezza in quanto uomini e come tali esseri finiti e ricerca di un qualcosa che ci soddisfi veramente. Più di una volta

8 troviamo il poeta con lo sguardo rivolto verso l alto: in Alla luna, ad esempio, ma anche nel Canto notturno di un pastore errante dell Asia. La sua è una tensione verso l alto, il cielo, l infinito o in quale altro modo si voglia definire. Il problema semmai è che molte volte non diamo ascolto a quella voce interiore, che rimane sepolta; il punto di vista da cui si guarda la vita è determinante: se ci lasciamo spingere da questo desiderio fino in fondo, allora il resto acquista senso, valore, una luce nuova e anche la sofferenza, che segna la vita degli uomini e ha segnato pesantemente Leopardi nella sua breve esistenza, acquisterebbe un senso.

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