B. Pascal PENSIERI. «Geometria» e «Finezza»

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1 B. Pascal PENSIERI «Geometria» e «Finezza» Sul Montaigne e sul Descartes Le ragioni del cuore La scommessa Contro l indifferenza e le obiezioni degli increduli Abitudine e la pratica formale Miseria e grandezza dell uomo L'uomo nell universo Le facoltà ingannatrici Incostanza, debolezza e vanità dell uomo Le leggi e le istituzioni sociali La distrazione Segni della grandezza dell uomo Conclusione: la duplicità dell uomo Grandezza e umiltà di Gesù Cristo 1 «Geometria» e «Finezza» Differenza tra lo spirito di geometria e lo spirito di finezza 1. Nel primo i principi sono tangibili, ma lontani del comune modo di pensare, sicché si fa fatica a volger la mente verso di essi, per mancanza di abitudine; ma, per poco che la si volga a essi, si scorgono pienamente; e solo una mente affatto guasta può ragionar male sopra principi cosí tangibili che è quasi impossibile che sfuggano. Nello spirito di finezza i principi sono, invece, nell'uso comune e dinanzi agli occhi di tutti. Non occorre volgere il capo o farsi violenza: basta aver buona vista, ma buona davvero, perché i principi sono cosí tenui e cosí numerosi che è quasi impossibile che non ne sfugga qualcuno. Ora, basta ometterne uno per cadere in errore: occorre, pertanto, una vista molto limpida per scorgerli tutti e una mente retta per non ragionare stortamente sopra principi noti. Tutti i geometri sarebbero, quindi, fini se avessero la vista buona, giacché non ragionano falsamente sui principi che conoscono; e gli spiriti fini sarebbero geometri se potessero piegare lo sguardo verso i principi, a loro non familiari, della geometria. Se, dunque, certi spiriti fini non sono geometri, è perché sono del tutto incapaci di volgersi verso i principi della geometria; mentre la ragione per cui certi geometri difettano di finezza è che non scorgono quel che sta dinanzi ai loro occhi e che, essendo usi ai principi netti e tangibili della geometria, e a ragionare solo dopo averli ben veduti e maneggiati, si perdono nelle cose in cui ci vuol finezza, nelle quali i principi non si lascian trattare nella stessa maniera. Infatti, esse si scorgono appena; si sentono più che non si vedano; è molto difficile farle sentire a chi non le senta da sé: sono talmente tenui e in cosí gran numero che occorre un senso molto perspicuo e molto delicato per sentirle e per giudicarne poi in modo retto e giusto 1 Mantengo la terminologia pascaliana, anche se italianamente non troppo corretta. In sostanza, esprit de géométrie equivale al nostro «spirito matematico»; esprit de finesse, a «intuito, discrezione. 1

2 secondo tale sentimento, senza poterle il più delle volte dimostrare con ordine rigoroso, come nella geometria, perché non se ne possiedono nella stessa maniera i principi e volerlo fare sarebbe un'impresa senza fine. Bisogna cogliere la cosa di primo acchito con un solo sguardo, e non per progresso di ragionamento, almeno sino a un certo punto. E cosí è raro che i geometri siano spiriti fini e gli spiriti fini geometri, perché i primi voglion trattare con metodo geometrico le cose che esigon finezza, e cadono nel ridicolo volendo cominciare dalle definizioni e poi dai principi: metodo fuor di luogo in questa specie di ragionamento. Non che la mente non lo faccia, ma lo fa in modo tacito, naturalmente e senz'arte, perché l'espressione di esse eccede le umane capacità e pochi ne possiedono il sentimento. E gli spiriti fini, per contro, essendo usi a giudicare con una sola occhiata, rimangon talmente stupiti quando si trovano di fronte a proposizioni per loro incomprensibili, e alla cui intelligenza si accede solo attraverso definizioni e principi sterilissimi, che essi non sono avvezzi a esaminare minutamente, che se ne infastidiscono e se ne disgustano. Ma gli spiriti falsi non sono mai né fini né geometrici. I geometri che sono soltanto tali hanno, dunque, una mente retta, purché ogni cosa venga loro spiegata bene, per mezzo di definizioni e di principi: altrimenti, sono falsi e insopportabili, poiché non sanno ragionare rettamente se non sopra principi ben chiariti. E gli spiriti fini che sono soltanto tali non possono avere tanta pazienza da scendere sino ai primi principi delle cose speculative e d'immaginazione, che non hanno mai incontrate nelle civili conversazioni e che sono del tutto fuori dell'uso comune. 46 Sul Montaigne e sul Descartes Prefazione della prima parte. Parlare di coloro che hanno trattato della conoscenza di sé; delle divisioni di Charron 2, che aduggiano e annoiano; del disordine di Montaigne, e che egli aveva bensí avvertito la mancanza [d'un retto] metodo, che lo evitava saltando di palo in frasca, che cercava di darsi arie. Quant'è stolto il suo proposito di dipingere se stesso! E non di sfuggita, e contro le sue massime, come capita a tutti di cadervi; ma conforme alle sue massime e secondo un disegno originario e fondamentale. Perché il dir corbellerie per caso e per debolezza è un male comune; ma quel che non si può sopportare è dirne di deliberato proposito, e dirne come queste Quel che in Montaigne c'è di buono si acquista con difficoltà; quel che c'è di cattivo (non parlo dei costumi) poteva esser corretto in un momento, solo che lo si fosse avvertito che faceva troppe storie e parlava troppo di sé. 48 I difetti di Montaigne sono grandi. Parole lascive: roba che non val nulla, malgrado Mlle de Gournay 3. Credulo: «popolazioni senza occhi». Ignorante: «quadratura 2 Il trattato De la Sagesse di Pierre Charron ( ), che nei primi capitoli tratta precisamente «Della conoscenza di sé», è diviso in ben 117 capitoli, ognuno dei quali suddiviso a sua volta. 3 Marie Le Jars de Gournay, che curò l'edizione definitiva dei Saggi (1595). Nella prefazione, aveva difeso i «discorsi franchi e speculativi sull'amore» del Montaigne. 2

3 del circolo, mondo piú grande». Suoi sentimenti sull'omicidio volontario, sulla morte 4. Egli ispira noncuranza per la propria salvezza: «senza timore né pentimento» Poiché il suo libro non era destinato a condurre alla religione, egli non era obbligato a farlo, ma si è sempre obbligati a non distoglierne. Si possono scusare i suoi sentimenti un po' liberi e voluttuosi in alcune occasioni, ma non si possono scusare le sue opinioni affatto pagane sulla morte. Perché, se non si vuole almeno cercar di morire cristianamente, bisogna rinunziare a ogni pietà. Ora, in tutto il suo libro, egli non pensa se non a morire in modo fiacco e neghittoso. 49 Non in Montaigne, ma in me stesso, trovo tutto quel che vedo in lui Non posso perdonare a Descartes. Avrebbe pur voluto, in tutta la sua filosofia, poter fare a meno di Dio; ma non ha potuto esimersi dal fargli dare un colpetto per mettere in movimento il mondo: dopo di che, non sa che farsi di lui Le ragioni del cuore Noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. In quest'ultimo modo conosciamo i principi primi; e invano il ragionamento, che non vi ha parte, cerca d'impugnarne la certezza. I pirroniani 7, che non mirano ad altro, vi si adoperano inutilmente. Noi, pur essendo incapaci di darne giustificazione razionale, sappiamo di non sognare; e quell'incapacità serve solo a dimostrare la debolezza della nostra ragione, e non, come essi pretendono, l'incertezza di tutte le nostre conoscenze. Infatti, la cognizione dei primi principi come l'esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri, è altrettanto salda di qualsiasi di quelle procurateci dal ragionamento. E su queste conoscenze del cuore e dell'istinto deve appoggiarsi la ragione, e fondarvi tutta la sua attività discorsiva. (Il cuore sente che lo spazio ha tre dimensioni e che i numeri sono infiniti; e la ragione poi dimostra che non ci sono due numeri quadrati l'uno dei quali sia doppio dell'altro. I principi si sentono, le proposizioni si dimostrano, e il tutto con certezza, sebbene per differenti vie). Ed è altrettanto inutile e ridicolo che la ragione domandi al cuore prove dei suoi primi principi, per darvi il proprio consenso, quanto sarebbe ridicolo che il cuore chiedesse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che essa dimostra, per indursi ad accettarle. Questa impotenza deve, dunque, servire solamente a umiliare la ragione, che vorrebbe tutto giudicare, e non a impugnare la nostra certezza, come se solo la 4 Di popolazioni mostruose, senza capo e con gli occhi e la bocca nel petto, Montaigne parla, sulle orme di Erodoto e di Plinio, nei Saggi, II, XII; della quadratura del circolo, II, XIV; del mondo che potrebbe esser più grande di quanto giudichiamo, II, XII; della morte volontaria, «la più bella», II, III; del pentimento, presentato come una forma di debolezza, III, II. 5 Conforme al concetto dello stesso Montaigne che «ciascuno reca in sé la forma intera dell'umana condizione» (III,II). 6 In quanto cerca di spiegare il processo di formazione delle cose con leggi puramente naturali. «Il colpetto»: l'impulso iniziale dato da Dio alla materia. 7 Seguaci di Pirrone (365 ca ca.) il più famoso degli scettici antichi. Pirrone cercava di dimostrare che è possibile vivere una vita felice, anche senza pensare di possedere la verità e senza quei valori che erano stati venerati in passato. 3

4 ragione fosse capace d'istruirci. Piacesse a Dio, che, all'opposto, non ne avessimo, mai bisogno e conoscessimo ogni cosa per istinto e per sentimento! Ma la natura ci ha ricusato un tal dono; essa, per contro, ci ha dato solo pochissime cognizioni di questa specie; tutte le altre si possono acquistare solo per mezzo del ragionamento. Ecco perché coloro ai quali Dio ha dato la religione per sentimento del cuore sono ben fortunati e ben legittimamente persuasi. Ma a coloro che non l'hanno, noi possiamo darla solo per mezzo del ragionamento, in attesa che Dio la doni loro per sentimento del cuore: senza di che la fede è puramente umana, e inutile per la salvezza. 156 Abitudine e la pratica formale... Perché non bisogna disconoscerlo: noi siamo automatismo altrettanto che spirito. E da ciò viene che strumento di persuasione non è soltanto la dimostrazione. Quanto poche son le cose dimostrate! Le prove convincono solamente l'intelletto. L'abitudine genera le prove più efficaci e più credute: piega l'automa, il quale trascina l'intelletto senza che questo se ne renda conto. Su quali dimostrazioni riposa la nostra convinzione che domani tornerà a splendere il sole, o che un giorno moriremo? Eppure, c'è cosa più fermamente creduta? Dunque, è l'abitudine a persuadercene; ed è lei a fare tanti cristiani, a fare i Turchi, i pagani, i mestieri, i soldati, ecc. (nei cristiani c'è in più che nei Turchi la fede ricevuta nel battesimo). Bisogna, perciò, ricorrere a essa, quando l'intelletto abbia veduto dov'è la verità, al fine di abbeverarci e di impregnarci di questa credenza, che in ogni momento ci sfugge: perché averne sempre presenti le prove è troppo arduo. Bisogna acquisire una credenza più agevole, quella dell'abitudine: che senza violenza, senz'arte, senza argomentazioni, ci fa creder le cose e inclina verso questa credenza tutte le nostre facoltà, di modo che la nostra anima ci cade naturalmente. Quando si crede soltanto per convinzione razionale, ma l'automa tende a credere l'opposto, non basta. Bisogna dunque che tutt'e due le parti di noi stessi credano: l'intelletto, per opera delle ragioni, che basta aver conosciute una volta; e l'automa, per mezzo dell'abitudine, e impedendogli d'inclinare verso il contrario. «Inclina il mio cuore alla testimonianza e non alla cupidigia. La ragione agisce con lentezza, e con tanti concetti, sul fondamento di tanti principi, da tener sempre presenti 8, che a ogni passo si assopisce o si smarrisce, perché non li ha mai presenti tutti. Non cosí il sentimento: agisce in un baleno, ed è sempre pronto ad agire. Bisogna, dunque, mettere la nostra fede nel sentimento: altrimenti, sarà sempre vacillante. 159 Le altre religioni, come quelle pagane, son più conformi al popolo, perché fatte di esteriorità, ma non sono adatte alle persone intellettualmente dotate. A queste si addirebbe di più una religione puramente intellettuale, la quale però non servirebbe al popolo. Soltanto la religione cristiana si confà a tutti, perché è mista di esteriore e di interiore. Essa eleva la gente del popolo all'interiorità e sottomette i superbi all'esteriorità; e non è perfetta senza i due elementi, perché è necessario che il popolo intenda lo spirito della lettera e che le persone istruite sottomettano lo spirito alla lettera. 8 Qui, come in altri frammenti, la «ragione» è intesa essenzialmente come attività discorsiva e raziocinativa, in opposizione all'immediatezza intuitiva del «cuore», dell'«istinto», del sentimento. 4

5 La scommessa 164 Infinito, nulla 9. La nostra anima vien gettata nel corpo, dove trova numero, tempo, dimensioni. Essa vi ragiona sopra, e chiama tutto ciò natura, necessità 10, e non può credere altro. L'unità aggiunta all'infinito non lo accresce menomamente, non più che la misura di un piede a una misura infinita 11. Dinanzi all'infinito, il finito si annichila e diventa un puro nulla. Cosí il nostro spirito davanti a Dio e la nostra giustizia davanti alla giustizia divina. Tra la nostra giustizia e quella di Dio non c'è una sproporzione cosí grande come tra l'unità e l'infinito. La giustizia di Dio dev'essere immensa come la sua misericordia. Ora, la giustizia verso i reprobi è meno immensa e deve urtarci meno della misericordia verso gli eletti 12. Noi sappiamo che esiste un infinito, e ne ignoriamo la natura. Dacché sappiamo che è falso che i numeri siano finiti, è vero che c'è un infinito numerico. Ma non sappiamo che cosa è: è falso che sia pari, è falso che sia dispari, perché, aggiungendovi l'unità, esso non cambia natura. Tuttavia, è un numero, e ogni numero è pari o dispari (vero è che ciò s'intende di o gni numero finito). Perciò si può benissimo conoscere che esiste un Dio senza sapere che cos'è. Forse che non c'è una verità sostanziale, dacché vediamo tante cose che non sono la stessa verità? Noi conosciamo, dunque, l'esistenza e la natura del finito, perché siamo finiti ed estesi come esso. Conosciamo l'esistenza] dell'infinito e ne ignoriamo la natura, perché ha estensione come noi, ma non limiti come noi. Ma non conosciamo né l esistenza né la natura di Dio, perché è privo sia di estensione sia di limiti. Tuttavia, grazie alla fede ne conosciamo l'esistenza e nello stato di gloria 13 ne conosceremo la natura. Ora, ho già dimostrato 14 che si può benissimo conoscere l'esistenza di una cosa, senza conoscerne la natura. Parliamo adesso secondo i lumi naturali. Se c'è un Dio, è infinitamente incomprensibile, perché, non avendo né parti né limiti, non ha nessun rapporto con noi. Siamo, dunque, incapaci di conoscere che 9 In questo frammento è svolto il piú discusso argomento apologetico di Pascal.: quello del pari o della scommessa. Va tenuto presente, da un lato, che esso intendeva avere una funzione pragmatica o parenetica ( quella di convincere l'interlocutore a «prender partito» e a prepararsi, con la disciplina della «machine» e la «diminuzione delle passioni», a esaminare con animo ben disposto le prove del cristianesimo); dall'altro, che esso era probabilmente destinato a una speciale categoria di persone, «sospese tra l'incredulità e la fede» e persuase che la loro attitudine fosse la sola conforme a ragione. Tutt'altro che nuovo è il motivo cui esso s'ispira, e che potremmo chiamare dell'«utilitas credendi». Ma nuovo ne è lo svolgimento, a cominciare dall'originale applicazione al problema del calcolo delle probabilità, di cui Pascal fu, col Fermat, uno dei creatori. E pascaliano è il segreto pathos che lo anima e che si fa palese nell'apostrofe finale. 10 Mentre si tratta d'un effetto dell'abitudine. 11 Conseguenza necessaria della definizione matematica dell'infinito. 12 La condanna dei reprobi ha la propria giustificazione nel peccato di Adamo, che ha fatto dell'umanità, secondo l'espressione agostiniana, una «massa damnationis»; mentre il fatto che (come Pascal scrive altrove) «di due uomini egualmente colpevoli», Dio, per pura misericordia, «salvi l'uno anziché l'altro, senza considerare menomamente le rispettive opere», è il mistero per eccellenza, quello che piú trascende e «offende» la nostra ragione 13 Nel senso teologico del termine: la visione beatifica di Dio o, secondo la formula di san Tommaso, «la perfetta fruizione di Dio». 14 A proposito del numero infinito. 5

6 cos'è né se esista. Cosí stando le cose, chi oserà tentare di risolvere questo problema? Non certo noi, che siamo incommensurabili con lui. Chi biasimerà allora i cristiani di non poter dar ragione della loro credenza, essi che professano una religione di cui non possono dar ragione? Esponendola al mondo, dichiarano che è una stoltezza; e voi vi lamentate che non ne diano le prove! Se la provassero, mancherebbero di parola: solo difettando di prove, non difettano di criterio. «Sta bene, ma, sebbene ciò serva a scusare coloro che la presentano come tale, e li assolva dalla taccia di presentarla senza ragione, non scusa però coloro che la accolgono». Esaminiamo allora questo punto, e diciamo: «Dio esiste o no?» Ma da qual parte inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c'è di mezzo un caos infinito All'estremità di quella distanza infinita si gioca un giuoco in cui uscirà testa o croce. Su quale delle due punterete? Secondo ragione, non potete puntare né sull'una né sull'altra; e nemmeno escludere nessuna delle due. Non accusate, dunque, di errore chi abbia scelto, perché non ne sapete un bel nulla. «No, ma io li biasimo non già di aver compiuto quella scelta, ma di avere scelto; perché, sebbene chi sceglie croce e chi sceglie testa incorrano nello stesso errore, sono tutti e due in errore: l'unico partito giusto è di non scommettere punto». Si, ma scommettere bisogna: non è una cosa che dipenda dal vostro volere, ci siete impegnato. Che cosa sceglierete, dunque? Poiché scegliere bisogna, esaminiamo quel che v'interessa meno. Avete due cose da perdere, il vero e il bene, e due cose da impegnare nel giuoco: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha da fuggire due cose: l'errore e l'infelicità. La vostra ragione non patisce maggior offesa da una scelta piuttosto che dall'altra, dacché bisogna necessariamente scegliere. Ecco un punto liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate in favore dell'esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare, che egli esiste. «Ammirevole! Si, bisogna scommettere, ma forse rischio troppo». Vediamo. Siccome c'è eguale probabilità di vincita e di perdita, se aveste da guadagnare solamente due vite contro una, vi converrebbe già scommettere. Ma, se ce ne fossero da guadagnare tre, dovreste giocare (poiché vi trovate nella necessità di farlo); e, dacché siete obbligato a giocare, sareste imprudente a non rischiare la vostra vita per guadagnarne tre in un giuoco nel quale c'è eguale probabilità di vincere e di perdere. Ma qui c'è un'eternità di vita e di beatitudine. Stando così le cose, quand'anche ci fosse un'infinità di casi, di cui uno solo in vostro favore, avreste pur sempre ragione di scommettere uno per avere due; e agireste senza criterio, se, essendo obbligato a giocare, rifiutaste di arrischiare una vita contro tre in un giuoco in cui, su un'infinità di probabilità, ce ne fosse per voi una sola, quando ci fosse da guadagnare un'infinità di vita infinitamente beata. Ma qui c'è effettivamente un'infinità di vita infinitamente beata da guadagnare, una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, e quel che rischiate è qualcosa di finito. Questo tronca ogni incertezza: dovunque ci sia l'infinito, e non ci sia un'infinità di probabilità di perdere contro quella di vincere, non c'è da esitare: bisogna dar tutto. E così, quando si è obbligati a giocare, bisogna rinunziare alla ragione per salvare la propria vita piuttosto che rischiarla per il guadagno infinito, che è altrettanto pronto a venire quanto la perdita del nulla. Invero, a nulla serve dire che è incerto se si vincerà, mentre è certo che si arrischia; e che l'infinita distanza tra la certezza di quanto si rischia e l'incertezza di quanto si potrà guadagnare eguaglia il bene finito, che si rischia sicuramente, all'infinito, che è incerto, Non è così: ogni giocatore arrischia in modo certo per un guadagno incerto; e nondimeno rischia certamente il finito per un guadagno incerto del finito, 6

7 senza con ciò peccare contro la ragione. Non c'è una distanza infinita tra la certezza di quanto si rischia e l'incertezza della vincita: ciò è falso. C'è, per vero, una distanza infinita tra la certezza di guadagnare e la certezza di perdere. Ma l'incertezza di vincere è sempre proporzionata alla certezza di quanto si rischia, conforme alla proporzione delle probabilità di vincita e di perdita. Di qui consegue che, quando ci siano eguali probabilità da una parte e dall'altra, la partita si gioca alla pari, e la certezza di quanto si rischia è eguale all'incertezza del guadagno: tutt'altro, quindi, che esserne infinitamente distante! E, quando c'è da arrischiare il finito in un giuoco in cui ci siano eguali probabilità di vincita e di perdita e ci sia da guadagnare l'infinito, la nostra proposizione ha una validità infinita. Ciò è dimostrativo; e, se gli uomini son capaci di qualche verità, questa ne è una. «Lo riconosco, lo ammetto. Ma non c'è mezzo di vedere il di sotto del giuoco?» Si, certamente, la Scrittura e il resto. «Sta bene. Ma io ho le mani legate, e la mia bocca è muta; sono forzato a scommettere, e non sono libero; non mi si dà requie, e sono fatto in modo da non poter credere. Che volete, dunque, che faccia?» È vero. Ma riconoscete almeno che la vostra impotenza di credere proviene dalle vostre passioni, dacché la ragione vi ci porta, e tuttavia non potete credere. Adoperatevi, dunque, a convincervi non già con l'aumento delle prove di Dio, bensí mediante la diminuzione delle vostre passioni. Voi volete andare alla fede, e non ne conoscete il cammino; volete guarire dall'incredulità, e ne chiedete il rimedio: imparate da coloro che sono stati legati come voi e che adesso scommettono tutto il loro bene: sono persone che conoscono il cammino che vorreste seguire e che son guarite da un male di cui vorreste guarire. Seguite il metodo con cui hanno cominciato: facendo cioè ogni cosa come se credessero, prendendo l'acqua benedetta, facendo dire messe, ecc. In maniera del tutto naturale, ciò vi farà credere e vi impecorirà. Ma è proprio quel che temo E perché? che cosa avete da perdere? Ma, per dimostrarvi che ciò conduce alla fede, sappiate che ciò diminuirà le vostre passioni, che sono i vostri grandi ostacoli. Fine di questo discorso. Ora, qual male vi capiterà prendendo questo partito? Sarete fedele, onesto, umile, riconoscente, benefico, amico sincero, veritiero. A dir vero, non vivrete piú nei piaceri pestiferi, nella vanagloria, nelle delizie; ma non avrete altri piaceri? Vi dico che in questa vita ci guadagnerete; e che, a ogni nuovo passo che farete in questa via, scorgerete tanta certezza di guadagno e tanto nulla in quanto rischiate, che alla fine vi renderete conto di avere scommesso per una cosa certa, infinita, per la quale non avete dato nulla. «Oh! codesto discorso mi conquista, mi esalta, eccetera». Se esso vi piace, e vi sembra valido, sappiate che è fatto da uno che si è messo in ginocchio prima e dopo, per pregare quell'essere infinito e senza parti, al quale sottomette tutto il proprio essere, affinché sottometta a sé anche il vostro, per il vostro bene e per la sua gloria; e che, quindi, la sua forza si accorda con questa umiliazione. 180 Contro l indifferenza e le obiezioni degli increduli... Imparino almeno a conoscere qual è la religione che combattono, prima di combatterla. Se questa religione si vantasse di avere una conoscenza chiara di Dio, e di possederla scopertamente e senza veli, sarebbe un combatterla il dire che nel mondo nulla si vede che lo mostri con tanta evidenza. Ma poiché essa afferma, al contrario, che gli uomini vivono nelle tenebre e nella lontananza di Dio, ch'egli si è 7

8 nascosto alla loro conoscenza e che, anzi, è questo il nome che dà a sé nelle Scritture: «Deus absconditus»; e, poiché, infine, essa si adopera con egual impegno a stabilire queste due cose: aver Dio impresso segni sensibili nella Chiesa per farsi conoscere da quanti lo cerchino sinceramente e averli, nondimeno, ricoperti in modo da esser scorto soltanto da coloro che lo cerchino con tutto il cuore; qual vantaggio possono trarre costoro, che si gloriano della loro indifferenza per la ricerca della verità, quando gridano che non c'è nulla che gliela mostri? Invero, l'oscurità in cui si trovano, e di cui si fan forti contro la Chiesa, non fa se non confermare una delle due cose ch'essa insegna, senza punto intaccare l'altra; e, quindi, nonché infirmarne la dottrina, serve ad avvalorarla. Per combatterla davvero, bisognerebbe che costoro gridassero di aver compiuto ogni sforzo per cercarne la verità in ogni dove, anche in quello che la Chiesa offre a chi voglia conoscerla; ma senza nessun esito. Se parlassero cosí, impugnerebbero veramente una delle sue pretensioni. Ma spero di riuscir qui a dimostrare che non c'è persona ragionevole che possa esprimersi in tale guisa. Oso dire, anzi, che nessuno ha mai parlato cosí. È abbastanza noto come si conducono coloro che si trovano in tale condizione. Credono di aver compiuto grandi sforzi per istruirsi, quando hanno speso qualche ora a leggere qualche libro della Bibbia o interrogato intorno alle verità della fede qualche ecclesiastico: dopo di che si vantano di aver cercato senza frutto nei libri e tra gli uomini. Ma, in verità, debbo ripeter loro quel che ho già detto più volte: una tal negligenza è intollerabile. Non si tratta qui dell'interesse trascurabile di un estraneo, perché sia lecito condursi cosí; ma di noi stessi e del nostro tutto. L'immortalità dell'anima è cosa che c'interessa talmente, che ci riguarda cosí profondamente, che bisogna aver smarrito ogni sentimento per trascurare di venirne in chiaro. Tutte le nostre azioni e i nostri pensieri debbono prendere un corso talmente diverso, a seconda che ci sia o no da sperare in beni eterni, che è impossibile fare un sol passo con criterio e giudizio senza regolarlo mirando a quel punto, che deve costituire il nostro oggetto supremo. Il nostro primo interesse e il nostro primo dovere è, quindi, d'istruirci su quel punto, dal quale dipende tutta la nostra condotta. Ecco perché, tra coloro che non ne sono convinti, faccio una grandissima differenza tra quelli che si studiano con tutte le forze di venirne a capo e quelli che vivono senza darsene cura e senza pensarci. Posso aver soltanto compassione per coloro che gemono sinceramente nel dubbio, che lo considerano come la più grave delle sventure e che, nulla lasciando d'intentato per liberarsene, fanno di questa ricerca la loro prima e più seria occupazione. Ma considero in maniera ben diversa coloro che passano tutta la vita senza mai pensare al supremo termine di essa e che, sol perché non trovano in sé i lumi che possono istruirli, non si danno cura di cercarne altrove e di esaminare se tale opinione sia di quelle che il volgo accoglie con semplicità credula oppure di quelle che, sebbene per sé oscure, si fondano nondimeno su ragioni salde e incrollabili. Questa negligenza, in un problema in cui sono impegnati loro stessi, la loro eternità, il loro tutto, suscita in me, più che pietà, irritazione, mi fa stupire, mi sgomenta: è per me qualcosa di mostruoso. E non parlo cosí per pio zelo di devozione spirituale. Penso, al contrario, che si dovrebbe avere un tal sentimento per un principio d'interesse umano e per un interesse personale. Basta, per questo, vedere quel che scorgono anche le menti meno illuminate. Non occorre un'anima molto elevata per comprendere che quaggiù non ci sono soddisfazioni veraci e durature; che tutti i nostri piaceri son vani e i nostri mali senza numero; e che, infine, la morte, la quale incombe di continuo sopra di noi, ci metterà senza fallo entro breve volger di anni nell'orribile necessità di essere in eterno o annichilati o infelici. 8

9 Non c'è nulla di più reale e di più terribile. Faccian pure gli spavaldi quanto vogliamo: è questo il termine che attende la più bella vita del mondo. Si rifletta su ciò e si dica poi se non è indubbio che, in questa vita, non c'è bene se non nella speranza di un'altra vita; e che si è felici solo in quanto ci si avvicina ad essa; e che, come per coloro che sono pienamente certi dell'eternità non ci saranno più mali, cosí non ci potrà essere felicità per coloro che non ne hanno nessun barlume. È, dunque, sicuramente un gran male essere in tale dubbio; ma, quando lo si sia, è almeno un dovere assoluto cercare di uscirne. Perciò, chi dubita e non cerca è, a un tempo, sommamente sventurato e sommamente ingiusto. Se poi è, per giunta, tranquillo e soddisfatto, lo professa, e se ne gloria e, anzi, trae dal proprio stato motivo di gioia e di vanità, non trovo parole per qualificare un essere cosí stravagante. Donde mai si posson trarre simili sentimenti? Qual motivo di gioia può esserci nel non aspettarsi più se non miserie senza speranza? Qual argomento di vanità nel trovarsi sommersi in oscurità impenetrabili? e com'è possibile che un simile modo di ragionare trovi ricetto in un uomo ragionevole? «Non so chi mi abbia messo al mondo, né che cosa sia il mondo, né che cosa io stesso. Sono in un'ignoranza spaventosa di tutto. Non so che cosa siano il mio corpo, i miei sensi, la mia anima e questa stessa parte di me che pensa quel che dico, che medita sopra di tutto e sopra se stessa, e non conosce sé meglio del resto. Vedo quegli spaventosi spazi dell'universo, che mi rinchiudono'; e mi trovo confinato in un angolo di quest'immensa distesa, senza sapere perché sono collocato qui piuttosto che altrove, né perché questo po' di tempo che mi è dato da vivere mi sia assegnato in questo momento piuttosto che in un altro di tutta l'eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà. Da ogni parte vedo soltanto infiniti, che mi assorbono come un atomo e come un'ombra che dura un istante, e scompare poi per sempre. Tutto quel che so è che debbo presto morire; ma quel che ignoro di più è, appunto, questa stessa morte, che non posso evitare. «Come non so di dove vengo, cosí non so dove vado; so soltanto che, uscendo da questo mondo, cadrò per sempre o nel nulla o in potere di un Dio sdegnato, senza però conoscere quale di queste due condizioni mi toccherà in sorte per l'eternità. Ecco il mio stato, pieno di debolezza e d'incertezza. Da tutto questo concludo che debbo passare i giorni della mia vita senza darmi pensiero d'indagare quel che accadrà di me. Forse potrei trovare qualche chiarimento ai miei dubbi, ma non voglio darmene la briga, né muovere un passo per cercarlo: anzi, trattando con disprezzo quanti si travagliano in questa ricerca, voglio affrontare senza previdenza e senza timore un cosí grande evento, e lasciarmi condurre mollemente alla morte, nell'incertezza dell'eternità della mia futura condizione». (Qualunque certezza essi abbiano, è un motivo di disperazione piuttosto che di vanità). Chi vorrebbe come amico uno che discorresse in siffatto modo? chi lo sceglierebbe tra tanti per metterlo a parte delle cose sue? chi ricorrerebbe a lui nelle afflizioni? e, insomma, a qual uso della vita si potrebbe destinarlo? In verità, è gloria per la religione avere come nemici gente cosí insensata; la loro opposizione, anziché riuscirle pericolosa, serve al contrario a convalidarne le verità. Perché la fede cristiana insegna in sostanza questi soli due principi: la corruzione della natura umana e l'opera redentrice di Gesti Cristo. Ora, io sostengo che se costoro non servono a provare, con la santità dei loro costumi, la verità della redenzione, valgono però mirabilmente a provare, con sentimenti tanto snaturati, la corruttela della natura. Nulla è tanto importante per l'uomo quanto il suo proprio stato; nulla cosí terribile come l'eternità. Perciò, non è cosa naturale che ci siano uomini cosi indifferenti alla perdita dell'esser loro e al pericolo di un'eternità di miserie. Nelle altre faccende si comportano in tutt'altro modo: han timore anche delle cose pili futili, le prevedono, 9

10 le sentono. E quel medesimo uomo che passa tanti giorni e tante notti pieno di rabbia e di disperazione per la perdita di una carica o per qualche offesa immaginaria al suo onore è poi lo stesso che, pur sapendo di dover perdere con la morte ogni cosa, non ne prova nessuna inquietudine o turbamento. È mostruoso vedere nel medesimo cuore tanta sensibilità per cose da nulla e una cosí singolare indifferenza per quelle che più importano. È un incantamento incomprensibile, e un torpore soprannaturale: segno di una forza onnipossente, che ne è la causa. Bisogna che nella natura umana ci sia un singolare stravolgimento per gloriarsi di essere in una condizione, nella quale sembra incredibile che una sola persona possa rimanere. Pure, l'esperienza me ne fa vedere un cosí gran numero che ci sarebbe da restarne stupefatti, se non sapessimo che la maggior parte di costoro ostentano di esser tali, ma, in realtà, non sono tali. Son gente che ha sentito dire che il colmo dell'eleganza sta nel fare cosí il ribelle. Chiaman ciò «avere scosso il giogo», e si studiano di fare altrettanto. Ma non sarebbe difficile far intender loro come s'ingannino cercando di cattivarsi la stima con mezzi simili. Non è quella la via per ottenerla, nemmeno tra le persone di mondo, che giudicano rettamente le cose e sanno che la sola via di riuscirci è di mostrarsi onesti, leali, discreti e capaci di render utili servigi agli amici: perché gli uomini amano naturalmente solo quello che può tornar loro utile. Ora, qual vantaggio ci può essere per noi nel sentir dire da un uomo che ha scosso il giogo, che non crede che ci sia un Dio che veglia sulle sue azioni, che si considera l'unico arbitro della propria condotta e che non pensa di doverne render conto ad altri che a sé? Pensa forse di averci condotti in tal modo ad aver ormai molta fiducia in lui e ad aspettarci da lui consolazioni, consigli e aiuto in tutte le occorrenze della vita? Stima forse di rallegrarci dicendo che sa per certo che l'anima nostra è solo un po' di fumo o di vento, e dicendolo, per giunta, in tono fiero e soddisfatto? È una cosa, codesta, da dirsi allegramente? o non piuttosto con tristezza, come la piú triste cosa del mondo? Se ci pensassero seriamente, vedrebbero che si appongono cosí male, in maniera cosí contraria al buon senso, cosí opposta alla elettezza sociale, cosí lontana per ogni rispetto da quella distinzione cui ambiscono, che essi sarebbero capaci di correggere, piuttosto che di corrompere, coloro che avessero qualche inclinazione di seguirli. Invitateli, infatti, a render conto dei loro sentimenti e delle ragioni che hanno di dubitar della religione; vi diranno cose tanto futili e volgari da convincervi del contrario. È quanto diceva loro un giorno, molto a proposito, un tale: «Se continuerete a discorrere cosí, finirete in verità col convertirmi». E aveva ragione: perché chi non proverebbe orrore di nutrire sentimenti condivisi da persone cosí spregevoli? Coloro, pertanto, che si limitano a fingere quei sentimenti farebbero malissimo a violentare la loro natura per apparire i piú impertinenti tra gli uomini Se, nel loro intimo, si dolgono di non possedere maggiori lumi, non lo nascondano: una tal confessione nulla avrà di vergognoso. La sola vergogna è di non provarne punta. Non c'è nulla che denoti una grave debolezza mentale come il non capire qual è l'infelicità di un uomo senza Dio; non c'è nulla che indichi una mala disposizione del cuore come il non desiderare che le promesse eterne sian vere; nulla è vile come fare il bravo contro Dio. Lascino, dunque, siffatte empietà a coloro che sono tanto perversi da esserne realmente capaci: se non possono essere cristiani, siano, almeno persone per bene; e riconoscano una buona volta che ci sono soltanto due categorie di persone degne di esser chiamate ragionevoli quelle che servon Dio con tutto il cuore, perché lo conoscono; e quelle che lo cercano con tutto il cuore, perché non lo conoscono Quanto poi a coloro che vivono senza conoscerlo e senza cercarlo, essi si giudicano da sé tanto poco degni delle loro proprie cure che non possono esserlo di quelle degli altri; e ci vuole tutta la carità della religione da essi disprezzata per non disprezzarli sino ad abbandonarli alla loro insania. Ma, poiché la nostra religione 10

11 c'impone di considerarli sempre, finché vivono, come capaci di ricevere la grazia che può illuminarli, e di credere che potrebbero essere, tra breve, colmi di tanta fede quanta non ne abbiamo noi, mentre noi, per contro, potremmo cadere nell'accecamento in cui sono, dobbiamo fare per loro quel che vorremmo fosse fatto per noi se ci trovassimo al loro posto, e ammonirli ad aver pietà di loro stessi e a fare almeno qualche passo per tentar se non trovino qualche lume. Dedichino a questa lettura qualcuna delle ore che impiegano tosi futilmente in altri modi: anche se l imprenderanno con avversione, ci troveranno forse qualche cosa e, in ogni caso, non ci perderanno un granché. Coloro, poi, che vi attenderanno con sincerità perfetta e con verace desiderio di conoscere la verità, ne saranno, spero, soddisfatti e resteranno convinti delle prove di una religione tanto divina: prove che ho raccolte qui press'a poco in quest'ordine Prima di addentrarmi nelle prove della religione cristiana, stimo necessario far presente l'ingiustizia degli uomini che vivono nell'indifferenza di cercare la verità di una cosa per loro cosí importante e che li concerne cosí da vicino. Di tutti i loro traviamenti questo è senza dubbio quello che più prova la loro stoltezza e accecamento e quello in cui è più facile confonderli con le più elementari riflessioni del senso comune e con i sentimenti della natura. È, infatti, incontestabile che il tempo di questa vita è solo un attimo, mentre la condizione della morte è eterna, qualunque ne possa esser la natura, e che, quindi, tutte le nostre azioni e i nostri pensieri debbono prendere vie talmente diverse secondo la condizione di tale eternità che è impossibile fare un sol passo con buon senso e con criterio se non lo si regoli in rapporto a quel punto, che deve essere il nostro fine ultimo. Non c'è nulla di più evidente: e, di conseguenza, secondo i principi della ragione, la condotta degli uomini è affatto irragionevole, se essi non prendono un'altra via. Si giudichi, dunque, su questo punto, di coloro che vivono senza pensare a quell'ultimo termine della vita, che si abbandonano senza riflessione e senza inquietudine alle loro inclinazioni e ai loro piaceri e che, come se potessero annientare l'eternità distogliendo da essa il loro pensiero, pensano soltanto a viver felici unicamente in questo attimo. E tuttavia tale eternità esiste; e la morte, che deve segnarne l'inizio e che li minaccia in ogni ora, deve metterli infallibilmente entro breve termine nell'orribile necessità di essere eternamente annientati o infelici, senza che sappiano quale di queste due eternità sia preparata loro per sempre. Ecco un dubbio di capitale importanza. Essi corrono il pericolo di soffrire un'eternità di miserie; eppure, come se non ne mettesse conto, trascurano di esaminare se si tratti di una di quelle opinioni che il popolo accoglie con facilità troppo credula o una di quelle che, essendo intrinsecamente oscure, possiedono un fondamento solidissimo, sebbene nascosto. E cosí essi non sanno se la cosa sia vera o falsa né se le prove siano valide o deboli. Le hanno dinanzi agli occhi, ma si rifiutano di guardarle; e, in quest'ignoranza, scelgono il partito di fare tutto quanto occorre per precipitare in quell'infelicità, nel caso che ci sia, di aspettare di farne l'esperienza nel momento della morte, di starsene nel frattempo contenti del loro stato, di proclamarlo e, infine, di vantarsene. È mai possibile pensare seriamente all'importanza di questo problema senza sentire orrore di una condotta cosí stravagante? Quel riposo in siffatta ignoranza è una cosa mostruosa e di cui bisogna far sentire la stravaganza e la stoltezza a coloro che in essa trascorrono la loro vita, rendendogliela evidente, per confonderli con la visione della loro follia. Ecco, 11

12 infatti, come ragionano gli uomini quando scelgono di vivere in simile condizione, d'ignorare cioè quel che sono e di non cercare nessun lume: «Non so», dicono Ecco quel che vedo e che mi turba. Mi guardo intorno da ogni parte, e non scorgo dappertutto se non oscurità. La natura non mi presenta nulla che non sia, motivo di dubbio e d'inquietudine. Se non scorgessi nessun segno d'una Divinità, mi risolverei per la negativa; se vedessi dappertutto i vestigi di un Creatore, riposerei in pace nella fede. Ma, vedendo troppo per negare e troppo poco per affermare con certezza, mi trovo in uno stato compassionevole, e in cui ho invocato cento volte che, se la natura è retta da un Dio, ce lo mostri senza equivoco e, se i segni che di lui ci mostra sono fallaci, li sopprima del tutto: che ci dica, insomma, tutto o nulla, affinché io veda qual partito debbo seguire. Invece, nella condizione in cui mi trovo, ignorando quel che sono e quel che debbo fare, non conosco né la mia condizione né il mio dovere. Il mio cuore tende tutt'intero a conoscere dove sia il vero bene, per seguirlo; nulla mi sarebbe troppo oneroso per l'eternità. Provo invidia di coloro che vedo vivere nella fede con tanta negligenza, e che fanno cosí cattivo uso di un dono di cui mi sembra che farei un uso molto diverso. Miseria e grandezza dell uomo L'uomo nell universo 223 Sproporzione dell'uomo 16. [Ecco dove ci conducono le conoscenze naturali. Se esse non sono vere, non c'è verità nell'uomo; e se sono tali, egli ci troverà un grande motivo di umiliazione, perché sarà costretto ad abbassarsi in una guisa o nell'altra. E, poiché non può vivere senza credere in esse, vorrei che, prima di addentrarsi in piú profonde indagini della natura, egli la considerasse una volta seriamente e a proprio agio, che osservasse anche se stesso e che, conoscendo quale proporzione c'è...] L'uomo contempli, dunque, la natura tutt'intera nella sua alta e piena maestà, allontanando lo sguardo dagli oggetti meschini che lo circondano 17. Miri quella 15 Vedi il discorso del libertino nel frammento precedente 16 Come già quella del Montaigne la scepsi di Pascal si volge anzitutto contro quel concetto della posizione centrale e privilegiata dell'uomo nella natura e della perfetta proporzionalità tra il microcosmo e il macrocosmo, tra l'uomo e l'universo, che era uno dei temi prediletti della filosofia dell'umanesimo e della Rinascita. Ma insieme con esso tende a investire e demolire quell'ideale di una scienza assoluta e compiuta della natura, capace di coglierne le cause prime e i supremi principi, che stava alla base delle cosmologie del Rinascimento come della fisica cartesiana. Pascal accoglie bensí dalla tradizione umanistica il concetto della posizione intermedia dell'uomo nella gerarchia degli esseri, come accoglie dalle nuove dottrine cosmologiche il concetto dell'infinità dell'universo. Ma per trarre dall'uno e dall'altro la conclusione che quella «considerazione della natura» da cui i filosofi del Rinascimento traevano argomento per celebrare l'eccellenza dell'uomo e la sua eminente dignità di «sovrano giudice del mondo» si risolve, invece, per lui in un grave «motivo di umiliazione», poiché riesce solo a mettere in evidenza la sua irrimediabile finitezza, così nell'ordine dell'essere come in quello del conoscere, e, quindi, la vanità della sua aspirazione ad adeguarsi, con la sua mente, all'infinità del reale, quale si manifesta nella duplice e opposta forma dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo. 17 Cfr. Montaigne, Saggi, I, XXVI: «Chi si rappresenta come in un quadro questa grande immagine della 12

13 luce sfolgorante, collocata come una lampada eterna a illuminare l'universo; la terra gli apparisca come un punto in confronto dell'immenso giro che quell'astro descrive, e lo riempia di stupore il fatto che questo stesso vasto giro è soltanto un tratto minutissimo in confronto di quello descritto dagli astri roteanti nel firmamento. E se, a questo punto, la nostra vista si arresterà, l'immaginazione vada oltre: si stancherà di concepire prima che la natura di offrirle materia. Tutto questo mondo visibile è solo un punto impercettibile nell'ampio seno della natura. Nessun'idea vi si approssima. Possiamo pur gonfiare le nostre concezioni di là dagli spazi immaginabili: in confronto della realtà delle cose, partoriamo solo atomi. È una sfera infinita, il cui centro è in ogni dove e la circonferenza in nessun luogo. Infine, è il maggior segno sensibile dell'onnipotenza di Dio che la nostra immaginazione si perda in quel pensiero. L'uomo, ritornato a sé, consideri quel che è in confronto a quel che esiste. Si veda come sperduto in questo remoto angolo della natura; e da quest'angusta prigione dove si trova, intendo dire l'universo, impari e stimare al giusto valore la terra, i reami, le città e se stesso. Che cos'è un uomo nell'infinito? Ma per presentargli un altro prodigio altrettanto meraviglioso, cerchi, tra quel che conosce, le cose piú minute. Un acaro 18 gli offra, nella piccolezza del suo corpo, parti incomparabilmente pii piccole: zampe con giunture, vene in queste zampe, sangue in queste vene, umori in queste zampe, gocce in questi umori, vapori in queste gocce; e, suddividendo ancora queste ultime cose, esaurisca le sue forze in tali concezioni, sicché l'ultimo oggetto cui possa pervenire sia per ora quello del nostro ragionamento. Egli crederà forse che sia questa l'estrema minuzia della natura. Voglio mostrargli là dentro un nuovo abisso. Voglio raffigurargli non solo l'universo visibile, ma l'immensità naturale che si può concepire nell'ambito di quello scorcio di atomo. Ci scorga un'infinità di universi, ciascuno dei quali avente il suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra, nelle stesse proporzioni del mondo visibile; e, in quella terra, animali e, infine, altri acari, nei quali ritroverà quel che ha scoperto nei primi. E, trovando via via negli altri le stesse cose, senza posa e senza fine, si perda in tali meraviglie, che fanno stupire con la loro piccolezza come le altre con la loro immensità. Invero, chi non sarà preso da stupore al pensiero che il nostro corpo, che dianzi non era percepibile nell'universo, che a sua volta era impercettibile in seno al Tutto, sia ora un colosso, un mondo, anzi un tutto rispetto al nulla, al quale non si può mai pervenire? Chi si considererà in questa maniera sentirà sgomento di se stesso e, vedendosi sospeso, nella massa datagli dalla natura, tra i due abissi dell'infinito e del nulla, tremerà alla vista di tali meraviglie; e credo che, mutando la propria curiosità in ammirazione, sarà disposto a contemplarle in silenzio più che a indagarle con presunzione. Perché, insomma, che cos'è l'uomo nella natura? Un nulla rispetto all'infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla. Infinitamente lontano dalla comprensione di questi estremi, il termine delle cose e il loro principio restano per lui invincibilmente celati in un segreto imperscrutabile: egualmente incapace d'intendere il nulla donde è tratto e l'infinito che lo inghiotte. Che farà, dunque, se non scorgere qualche apparenza della zona mediana delle cose, in un'eterna disperazione di conoscerne il principio e il termine? Tutte le cose nostra madre natura nella pienezza della sua maestà; [...] chi si rispecchia là dentro, e non se stesso soltanto, ma tutto un regno [...], quello solo giudica le cose secondo la loro esatta grandezza. Questo grande mondo [...] è lo specchio nel quale dobbiamo guardarci per conoscerci in modo sicuro». 18 L'acaro passava in quel tempo per il più piccolo degli animali visibili a occhio nudo. Dopo aver considerato l'uomo in relazione con l'infinitamente grande, Pascal passa ora a considerarlo in relazione con l'infinitamente piccolo 13

14 sono uscite dal nulla, e vanno sino all'infinito. Chi seguirà quei meravigliosi processi? Solo l'autore di quelle meraviglie le comprende 19 ; nessun altro lo può. Per non aver considerato questi due infiniti, gli uomini si son volti temerariamente all'indagine della natura, come se avessero qualche proporzione con essa. È strano che abbian voluto scoprire i principi delle cose, e giungere da questi sino a conoscere tutto 20, con una presunzione infinita come il loro oggetto: perché è certo che non si può concepire un tal disegno senza una presunzione o una capacità infinite, come la natura. Quando si è istruiti, si comprende che, avendo la natura impresso in tutte le cose la propria immagine e quella del suo creatore, esse partecipano quasi tutte della sua duplice infinità. Cosí, vediamo che tutte le scienze non conoscono termine nell'estensione delle loro ricerche: perché chi può mettere in dubbio, per esempio, che la geometria non comprenda un numero infinito di proposizioni? Le scienze sono infinite altresì nella moltitudine e nella sottigliezza dei loro principi: perché chi non vede che quelli che vengono proposti per ultimi non si reggon da sé, ma ne presuppongono altri, i quali, presupponendone a loro volta altri ancora, non ne ammettono nessuno che sia l'ultimo? Ma noi ci comportiamo con i principi che la ragione conosce per ultimi come con le cose materiali: dove chiamiamo punto indivisibile quello di là dal quale i nostri sensi non percepiscono piú nulla, sebbene sia divisibile all'infinito, e per sua natura. Di questi due infiniti delle scienze quello di grandezza è assai piú manifesto: onde pochi furono coloro che pretesero di conoscere ogni cosa. «Parlerò di tutto», diceva Democrito. Molto meno manifesto è quello di piccolezza. I filosofi hanno creduto molto più facile arrivare a conoscerlo, ma tutti senza riuscirci. Donde quei titoli, tanto comuni, I principi delle cose, I principi della filosofia 21, e simili, altrettanto fastosi nella realtà, sebbene meno nell'apparenza, di quell'altro, che è un pugno negli occhi: De omniscibili 22. Ci stimiamo naturalmente molto più capaci di giungere al centro delle cose che di\ abbracciarne la circonferenza. L'estensione visibile del mondo ci sorpassa in modo manifesto; ma, essendo noi a sorpassare le cose piccole, ci crediamo meglio capaci di dominarle. Eppure, per arrivare al nulla ci vuole tanta capacità quanta per giungere a comprendere il tutto: in entrambi i casi dev'essere infinita; e a me pare che chi avesse conosciuto i principi ultimi delle cose, potrebbe giungere parimenti a conoscere l'infinito. L'una cosa dipende dall'altra, e l'una conduce all'altra. I due estremi si raggiungono e si toccano a forza d'allontanarsi, e si ritrovano in Dio, e in Dio solamente. Impariamo, dunque, a conoscere le nostre capacità. Siamo qualche cosa e non siamo tutto. Quel tanto di essere che possediamo c'inibisce la conoscenza dei primi principi, che derivano dal nulla, e la pochezza del nostro essere ci preclude la vista dell'infinito. Il nostro intelletto tiene nell'ordine delle cose intelligibili lo stesso posto che il nostro corpo nell'immensità della natura. Limitati, come siamo, in ogni campo, questa condizione intermedia tra due estremi si riscontra in tutte le nostre facoltà. I nostri sensi non percepiscono nulla di estremo: troppo rumore ci assorda, troppa luce abbaglia; l'eccessiva distanza e l'eccessiva prossimità impediscono la vista; troppa lunghezza e troppa brevità rendono oscuro il discorso; troppa verità 19 Che solo Dio possa avere scienza piena e assoluta delle cose, in quanto ne è l'autore, era concetto comune alla filosofia cristiana. 20 Come il Descartes. 21 Probabile allusione ai Principia philosophiae (1644) del Descartes 22 Titolo di una delle novecento «tesi» che Giovanni Pico della Mirandola si proponeva di sostenere a Roma nel 1486 (e la cui discussione pubblica fu vietata da papa Innocenzo VIII). 14

15 c'intontisce (conosco taluni che non riescono a capire che zero meno quattro resta zero); i primi principi son per noi troppo evidenti; troppo piacere c'incomoda, le troppo frequenti consonanze spiacciono nella musica; e troppi benefici ci irritano, giacché vogliamo avere di che ripagarli a dovizia: «I benefici son graditi finché si pensa di poterli ricambiare; se oltrepassano il giusto limite, provocano odio anziché gratitudine 23». Noi non sentiamo né l'estremo caldo né l'estremo freddo. Le qualità eccessive ci sono nemiche, e non vengon da noi sentite: non le percepiamo più, le soffriamo. L'esser troppo giovani o troppo vecchi è d'impaccio alla nostra intelligenza. Troppa o troppo poca istruzione, egualmente. In breve, è come se le cose estreme per noi non esistessero, e noi rispetto a loro non esistiamo: esse sfuggono a noi, noi a loro. Tale la nostra effettiva condizione. Essa ci rende incapaci sia di conoscere con piena certezza come di ignorare in maniera assoluta. Noi voghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all'altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un'eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è piú contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un'ultima base sicura per edificarci una torre che s'innalzi all'infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola, e la terra si apre sino agli abissi. Non cerchiamo, dunque, né sicurezza, né stabilità. La nostra ragione è sempre delusa dalla mutevolezza delle apparenze; nulla può fissare il finito tra i due infiniti che lo racchiudono e lo fuggono. Quando avremo compreso ciò, credo che ce ne staremo tranquilli, ognuno nella condizione in cui la natura lo ha messo. Poiché lo stato mediano toccatoci in sorte rimane sempre distante dagli estremi, che importa avere un po' piú di conoscenza delle cose? Chi ne ha di piú, le guarderà un po' piú dall'alto, ma resterà pur sempre infinitamente lontano dal termine: cosí come la durata della nostra vita resta infinitamente lontana dall'eternità, anche se si prolunghi di dieci anni. Davanti a quegli infiniti, tutti i finiti sono eguali; e non vedo perché dobbiamo fermare l'immaginazione sull'uno piuttosto che sull'altro. Il semplice confronto che facciamo tra noi e il finito ci riesce penoso. Se l'uomo cominciasse con lo studiare se stesso, capirebbe quant'è incapace di spingersi oltre. Come potrebbe una parte conoscere il tutto? Forse esso aspirerà a conoscere almeno le parti con cui ha qualche proporzione. Ma le parti del mondo sono tutte in tale rapporto e connessione reciproca che credo impossibile conoscere l'una senza l'altra e senza il tutto. L'uomo, per esempio, è in rapporto con tutto quello che conosce: ha bisogno di spazio che lo contenga, di tempo per durare, di moto per vivere, di elementi che lo compongono, di calore, di alimenti per nutrirsi, di aria per respirare; vede la luce, sente i corpi: ogni cosa, insomma, è collegata a lui. Per conoscere l'uomo, è necessario, pertanto, sapere perché abbia bisogno di aria per vivere; e, per conoscere l'aria, per qual aspetto abbia quel rapporto con la vita dell'uomo; e cosí via. La fiamma non sussiste senza l'aria; quindi, per conoscere l'una, bisogna conoscere l'altra. Dunque, essendo tutte le cose causate e causanti, adiuvate e adiuvanti, mediate e immediate, ed essendo tutte collegate le une alle altre con un vincolo naturale e impercettibile che unisce le più lontane e le più diverse, stimo impossibile conoscere le singole parti senza conoscere il tutto, come conoscere il tutto senza conoscere le singole parti. 23 Tacito, Annal., IV, VIII; cit. da Montaigne 15

16 [L'eternità delle cose in se stessa o in Dio deve anch'essa fare stupire la nostra breve durata. E l'immutabilità fissa e costante della natura, paragonata al continuo cambiamento che caratterizza il nostro essere, deve produrre lo stesso effetto]. Quel che suggella la nostra impotenza a conoscere le cose è che esse sono semplici, mentre noi siamo composti di due nature opposte e di genere diverso: ossia, di anima e di corpo. È impossibile, infatti, che quella parte in noi che ragiona non sia di essenza spirituale; e chi pretendesse che siamo soltanto corpo, ci inibirebbe ancor di piú la conoscenza delle cose, poiché nulla è altrettanto inconcepibile dell'ipotesi che la materia conosca se stessa. Non ci è dato d'intendere in qual modo essa potrebbe conoscersi. E cosí, se [siamo] soltanto materiali, non possiamo conoscere nulla di nulla; e se siamo composti di spirito e di materia, non possiamo conoscere perfettamente le cose semplici, spirituali o corporee che siano. Tale la ragione per cui quasi tutti i filosofi confondono i concetti delle cose e parlano delle cose materiali spiritualmente e di quelle spirituali materialmente. Cosí, non si peritano di dire che i corpi tendono al basso, che aspirano al loro centro, che ripugnano alla loro propria distruzione, che temono il vuoto, che la materia ha inclinazioni, simpatie, antipatie: tutte affezioni proprie soltanto degli esseri spirituali. E, parlando di questi, li considerano come situati in un dato luogo e attribuiscono loro il movimento da un luogo a un altro: proprietà che appartengono solamente ai corpi. Invece di accogliere le idee di queste cose nella loro purezza, le tingiamo delle nostre qualità e impregniamo del nostro essere composto tutte le cose semplici che ci è dato di conoscere. Chi non crederebbe, vedendoci attribuire a tutte le cose spirituali e corporeità, che una tal mescolanza ci sia perfettamente comprensibile? Eppure, è la cosa che comprendiamo meno di tutte 24. L'uomo è a se stesso il piú prodigioso oggetto della natura, perché non può intendere che cosa sia la corporeità e ancor meno che cosa sia lo spirito, e meno di tutte come un corpo possa essere unito a uno spirito. È la piú ardua delle difficoltà e, nondimeno, è il suo proprio essere: «Il modo come lo spirito è unito al corpo riesce incomprensibile agli uomini, eppure è l'uomo» 25. Infine, per completare la dimostrazione della nostra debolezza, conchiuderò con queste due considerazioni Le facoltà ingannatrici 1 I sensi, le passioni, la memoria 227 Bisogna cominciare di qui il capitolo sulle facoltà ingannatrici. L'uomo è solo un soggetto pieno di errore, naturale e insanabile senza la grazia. Nulla gli mostra la verità, tutto lo inganna. Dei due principi di verità, i sensi e la ragione, non solo ciascuno manca per sé di veridicità, ma tutt'e due s'ingannano reciprocamente. I sensi ingannano la ragione con false apparenze, e lo stesso inganno e lo stesso inganno che tendono alla ragione lo patiscono a loro volta da lei: la ragione si prende così la rivincita. Le passioni turbano i sensi e ne falsano le percezioni. Essi fanno a gara nel mentirsi e ingannarsi a vicenda 24 Era la maggior difficoltà della filosofia cartesiana 25 Agostino, cit. da Montaigne 26 Il frammento è rimasto incompiuto. 16

17 Ma, oltre agli errori in cui si cade per accidente e per mancanza d'intesa [tra queste] facoltà eterogenee C'è una differenza universale ed essenziale tra le azioni della volontà e tutte le altre. La volontà è uno dei principali organi della credenza: non perché generi la credenza, ma perché le cose sono vere o false a seconda del lato da cui vengon considerate. La volontà, compiacendosi di un aspetto piuttosto che di un altro, distoglie l'intelletto dal considerare le qualità di quelli che non le aggradano; e cosí. l'intelletto, procedendo di conserva con la volontà, si ferma a considerare l'aspetto che piace a essa, e finisce col giudicare delle cose soltanto da quel che ne vede. 2 L immaginazione 235 Immaginazione. E quella parte predominante nell'uomo, quella maestra di errore e di falsità, tanto piú insidiosa in quanto non sempre è tale: giacché sarebbe regola infallibile di verità, se fosse regola infallibile di menzogna. Ma, pur essendo il più delle volte fallace, non dà nessun indizio della sua qualità, giacché segna col medesimo carattere il vero e il falso. Non parlo dei pazzi, parlo dei piú savi: tra questi l'immaginazione esercita maggiormente la sua forza persuasiva. La ragione può ben gridare: non può assegnare il giusto valore alle cose. Quella superba, potenza, nemica della ragione, che si compiace di controllarla e di dominarla, per mostrare quanto grande sia il suo potere in ogni cosa, ha costituito nell'uomo come una seconda natura. Ha i suoi felici e i suoi infelici, i suoi sani e i suoi malati, i suoi ricchi e i suoi poveri; fa credere, dubitare, negare la ragione; sospende i sensi e li fa agire; ha i suoi pazzi e i suoi savi; e nulla c'indispettisce come vedere che colma i suoi ospiti di una soddisfazione ben più piena e intera di quella procurata dalla ragione. Coloro che s'immaginano di essere grandi uomini provano un compiacimento di sé molto diverso da quello che posson ragionevolmente nutrire le persone di senno. Guardan gli altri dall'alto in basso; discutono con ardire e sicurezza (gli altri, invece, con timore e sfiducia); e questa loro franchezza li avvantaggia spesso nell'opinione degli ascoltatori: tanto grande è il favore di cui i savi immaginari godono presso giudici della stessa risma. L'immaginazione non può render savi gli stolti, ma li rende felici, a dispetto della ragione, la quale non può rendere i suoi amici se non miseri. L'una li copre di gloria, l'altra di vergogna. Chi dispensa la reputazione? chi, se non l'immaginativa, procura rispetto e venerazione alle persone, alle opere, alle leggi, ai grandi? Quanto sono insufficienti tutte le ricchezze della terra senza il suo consenso! Chi di noi non direbbe che quel magistrato, la cui veneranda canizie ispira reverenza a un intero popolo, si conduca sempre con una ragione pura ed elevata e giudichi le cose secondo la loro natura, senz'arrestarsi a quelle apparenze vane che colpiscono soltanto l'immaginazione delle teste deboli? Guardatelo recarsi alla predica, tutto pieno di zelo devoto, avvalorando la solidità della sua ragione con l'ardore della sua carità. Eccolo pronto ad ascoltare, con rispetto esemplare. Compare il predicatore: se la natura gli ha dato una voce roca o una fisonomia bizzarra, se il suo barbiere lo ha rasato male, se per di più si è casualmente 17

18 imbrattato, per quanto grandi verità esso dica, scommetto che il nostro senatore non tarderà a perdere la propria gravità. E il più gran filosofo del mondo, mettetelo sopra un'asse anche più larga del necessario: se sotto c'è un precipizio, ancorché la ragione lo convinca che non c'è pericolo, si lascerà vincere dall'immaginazione. Molti non potrebbero pensarci senza impallidire e sudar freddo. Non intendo riferire tutti i suoi effetti. Chi non sa che la vista d'un gatto, d'un topo, lo scricchiolio di un pezzo di carbone, ecc., bastano a far uscire fuori dei gangheri la ragione? Il tono della voce mette soggezione anche ai più savi e muta l'efficacia d'un discorso o d'un poema. L'affetto o l'avversione fanno cambiare aspetto alla giustizia. Un avvocato, pagato bene prima, come stima più giusta la causa che difende! e il suo gestire ardito, come lo fa apparire migliore ai giudici, ingannati da quell'apparenza! Bella ragione la nostra, che un fiato di vento muove, e in tutti i sensi!... Potrei ricordare quasi tutte le azioni degli uomini, i quali si muovono quasi solamente sotto la sua spinta. Infatti, la ragione è stata obbligata a cedere, e la più saggia prende come suoi principi quelli che l'immaginazione ha temerariamente introdotti in ogni dove. [Chi volesse seguire soltanto la ragione sarebbe pazzo. Bisogna attenersi all'opinione della maggioranza. Bisogna, dacché a essa così è piaciuto, lavorare tutto il giorno per beni riconosciuti immaginari e, dopo che il sonno ci ha ristorati delle fatiche della nostra ragione, levarsi immediatamente di soprassalto per correr dietro a chimere e sottostare alle impressioni di questa regina del mondo. Ecco uno dei principi di errore, ma non è il solo]. ' [L'uomo ha avuto ragione di congiungere insieme queste due potenze, sebbene, in quest'accordo, l'immaginazione prevalga di gran lunga, perché, nel loro contrasto, essa predomina ancor di più. Mai la ragione non sormonta interamente l'immaginazione, mentre l'opposto è comunissimo]. I nostri magistrati hanno ben compreso questo mistero. Le loro toghe rosse, gli ermellini in cui si avvolgono come tanti gatti impellicciati, i palazzi dove rendon giustizia, i fiordalisi 27, tutto quell'augusto apparato è più che necessario. E se i medici non avessero sottane e mule 28, e i dottori berrette a quattro spicchi e vesti quattro volte più larghe del bisogno, non riuscirebbero a gabbar la gente, incapace di resistere a quella pompa così autentica. Se i magistrati conoscessero la vera giustizia e i medici l'arte di guarire, non saprebbero che farsi di berrette a quattro spicchi: la maestà della loro scienza sarebbe abbastanza rispettabile per se stessa. Ma, possedendo soltanto scienze immaginarie, son costretti a ricorrere a quegli artifici vani per colpire l'immaginazione, con cui han da fare; e così si attirano, infatti, il rispetto. Solo gli uomini di guerra non si camuffano in tale guisa, perché il loro agire è, di fatto, più sostanziale: essi s'impongono con la forza, gli altri col cipiglio. Per lo stesso motivo i nostri re non sono ricorsi a simili travestimenti. Per apparir tali, non si mascherano con abiti fuor dell'ordinario, ma si fanno scortare da guardie, da alabardieri. Quelle truppe armate che hanno mani e forza soltanto per loro, quei trombettieri, quei tamburi che li precedono, e quelle legioni che li attorniano, fan tremare i cuori più saldi. Non hanno solamente l'abito, hanno la forza. Bisognerebbe esser dotati di una ragione molto scaltrita per considerare un uomo come gli altri il Gran Signore, circondato, nel suo superbo serraglio, da quarantamila giannizzeri. Ci basta semplicemente vedere un avvocato in sottana e col tocco in testa per farci un'opinione favorevole della sua capacita. 27 Nei Parlamenti o Corti sovrane i seggi erano ornati di fiordalisi. 28 si tratta delle mule che usavano cavalcare i medici 18

19 L'immaginazione dispone di ogni cosa: crea la bellezza, la giustizia, la felicita, che in questo mondo è tutto.... Ecco press'a poco gli effetti di questa facoltà ingannatrice, che sembra ci sia stata data proprio per indurci in un errore necessario. Noi ne abbiamo altri principi 29. Le antiche impressioni non sono soltanto esse capaci di trarci in inganno; le seduzioni della novità hanno lo stesso potere. Di qui hanno origine tutte le dispute degli uomini, che si rimproverano o di seguire le false impressioni dell'infanzia o di correre temerariamente dietro le nuove. Chi tiene il giusto mezzo? Si faccia avanti, e lo provi. Non c'è principio, per naturale che possa essere, anche se acquisito dopo l'infanzia, che non si possa far passare per una falsa impressione sia dell'istruzione sia dei sensi. «Per il fatto dicono che avete creduto sin dall'infanzia che un cofano fosse vuoto, quando non ci vedevate dentro nulla, avete creduto possibile il vuoto. Si tratta di un'illusione dei vostri sensi, rafforzata dall'abitudine, che la scienza deve correggere». E gli altri dicono: «Perché vi hanno detto nella Scuola che il vuoto non esiste, si è corrotto il vostro senso comune, che lo comprendeva con tanta chiarezza prima di quella cattiva impressione, che bisogna correggere ricorrendo alla vostra natura primitiva» 30. Chi ha, dunque, ingannato: i sensi o l'istruzione? C'è in noi un'altra fonte di errore: le malattie. Esse ci guastano il giudizio e il discernimento; e, se le grandi lo alterano in modo sensibile, non dubito che le piccole non lo alterino in proporzione. Il nostro proprio interesse è un altro meraviglioso strumento per cavarci piacevolmente gli occhi. All'uomo più equo del mondo non è permesso di esser giudice nella propria causa: ne conosco di quelli che, per non cadere in tale amor proprio, sono stati per converso i più ingiusti del mondo; il mezzo sicuro di perdere una causa giustissima era di fargliela raccomandare dai loro parenti prossimi. La giustizia e la verità sono due punte talmente sottili che i nostri strumenti son troppo ottusi per arrivarci con esattezza. Se ci arrivano, ne smussano la punta, e appoggiano tutt'intorno, più sul falso che sul vero. [L'uomo, dunque, è costruito in maniera. talmente felice che non possiede nessun principio valido del vero e molti eccellenti del falso. Vediamo adesso come... Ma la più spassevole causa di errori è la guerra che c'è tra i sensi e la ragione]. 3 - L'abitudine. 243 L'abitudine è la nostra natura. Chi si assuefà alla fede crede a quanto essa insegna, e non può più non aver paura dell'inferno e non crede in altra cosa. Chi si avvezza a credere che il re sia terribile..., ecc. Chi dubiterà, allora, che la nostra mente, essendo abituata a vedere numero spazio movimento, non creda ad essi, e a essi soltanto? 244 Che cosa sono i nostri principi naturali se non i nostri principi abituali e, nei fanciulli, quelli ereditati dalle abitudini dei loro padri, come l'istinto della caccia negli animali?. 29 Ossia: oltre all'immaginazione, ci sono in noi altri principi o fonti di errore. 30 P. si ricorda qui delle sue giovanili ricerche e polemiche sul vuoto. La prima tesi da lui ricordata era comune agli scolastici e al Descartes; la seconda era la sua: l'osservazione dei fenomeni ci conduce ad ammettere la possibilità del vuoto. 19

20 Una differente consuetudine ci darà altri principi naturali, come l'esperienza insegna; e se ce ne sono che non possono esser cancellati dall'abitudine, ci sono anche principi abituali contrari alla natura, che né la natura né una seconda consuetudine riescono a cancellare. Dipende dalla disposizione. 248 La cosa più í importante per tutta la vita è la scelta di un mestiere; eppure, dipende dal caso. A farci muratori, soldati, conciatetti è la consuetudine. «è un ottimo conciatetti», si dice; e, parlando dei soldati: «Sono proprio pazzi». Altri, al contrario: «Di grande, c'è solo la guerra; gli altri uomini son tutti dei miserabili». A furia di sentir sin dall'infanzia lodare un mestiere e disprezzare gli altri, si fa la propria scelta; perché si ama naturalmente la verità e si odia la stoltezza; quelle parole ci colpiscono: si pecca solo nell'applicazione. La potenza della consuetudine è tale che di coloro che la natura ha fatto solamente uomini, si fanno poi tutte le diverse condizioni: ci sono, infatti, paesi interi di muratori, di soldati, ecc. La natura non è certo così uniforme. È, dunque, tutto effetto della consuetudine, la quale violenta la natura. Pure, qualche volta questa riprende il sopravvento e trattiene l'uomo nelle sue inclinazioni native, nonostante qualsiasi consuetudine, buona o cattiva che sia. 4 - L'amore di sé. 253 Amor proprio 31. La natura dell'amore di sé e di questo «io» umano è di amare soltanto se stesso e di considerare soltanto se stesso. Ma come farà? Non può certo impedire che l'oggetto del suo amore non sia pieno di difetti e di miserie: vuol esser grande, e si vede meschino; vuol essere felice, e si vede miserabile; vuol essere perfetto, e si vede pieno di imperfezioni; vuol essere oggetto dell'amore e della stima degli uomini, e vede che i suoi difetti meritano solamente la loro avversione e il loro disprezzo. Questa difficoltà genera in lui la più ingiusta e criminosa passione che si possa immaginare: perché egli concepisce un odio mortale contro la verità che lo riprende e lo convince dei suoi difetti. Vorrebbe annientarla, e, non potendo distruggerla in lei stessa, la distrugge, per quanto gli è possibile, nella propria conoscenza e in quella degli altri: mette, cioè, ogni sua cura nel celare i propri difetti a se stesso e agli altri, e non tollera né che gli vengano mostrati né che sian veduti. Senza dubbio, esser pieni di difetti è un male, ma è un male ancora più grande esserne pieni e non volerlo riconoscere, perché ciò significa aggiungervi quelli di un'illusione volontaria. Non vogliamo che gli altri ci ingannino; non stimiamo giusto che pretendano di esser stimati da noi più che non meritino: dunque, non è giusto neppure che li inganniamo e che pretendiamo di esserne stimati più di quanto meritiamo. Cosi, quand'essi scoprono in noi soltanto imperfezioni e vizi che abbiamo veramente, è evidente che non ci usano nessun torto, perché non ne son essi la causa; anzi, ci rendono un servigio, poiché ci aiutano a liberarci da un male: l'ignoranza di quei difetti. Non dobbiamo irritarci che li conoscano, e ci 31 Per intendere questo frammento nel suo pieno significato, importa ricordare che la teologia agostinianogiansenistica per la quale il peccato di Adamo sarebbe consistito essenzialmente nel volgersi dell'uomo da Dio a se stesso, nella pretesa di non appartenere più se non a se stesso riconduceva all'«amor sui» ogni sentimento e inclinazione dell'uomo. 20

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