Le principali posizioni dottrinali del prof. Campobasso.
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1 Le principali posizioni dottrinali del prof. Campobasso. Le principali posizioni dottrinali del prof. Campobasso Attività di godimento e attività d'impresa L'organizzazione dell'attività d'impresa Il rapporto tra impresa e lavoro autonomo Economicità dell'attività; La professionalità Lo scopo di lucro Il problema dell'impresa per conto proprio Impresa e professioni intellettuali L'impresa artigiana L'imputazione dell'attività d'impresa Imprenditore occulto L'inizio dell'impresa Attività di organizzazione e attività di esercizio La fine dell'impresa Azienda L'azienda tra concezioni atomistiche e concezioni unitarie, azienda e universalità di beni La circolazione dell'azienda. Oggetto e forma dei negozi traslativi Vendita dell'azienda, il divieto di concorrenza dell'alienante La ditta Impresa illecita La comunione di impresa, le differenza tra società e comunione I rapporti tra società e associazioni Attività commerciale delle associazioni e fondazioni Società di fatto e società occulta L'ammissibilità delle società occasionali La soggettività delle società di persone Azioni e titoli di credito L amministratore di fatto Lo scopo mutualistico delle cooperative Lo scopo mutualistico e lo scopo lucrativo... 27
2 Le principali posizioni dottrinali del prof. Campobasso. N.B. In questa piccola opera sono riportate le principali posizioni dottrinali di Campobasso, cioè quelle che tratta più diffusamente nei suoi manuali di diritto commerciale, non le brevi considerazioni che può fare a commento di un paragrafo. E possibile che alcuni argomenti qui trattati non siano poi trattati in una delle edizioni più recenti dei manuali, ma ho preferito in ogni caso riportare anche quelle riportate in edizioni meno recenti, perché spesso si hanno a disposizione tali volumi, e, in ogni caso, nell ipotesi in cui ciò dovesse accadere, sono sempre espressione della dottrina di Campobasso.
3 1. Attività di godimento e attività d'impresa. Ci si chiede se può essere considerata attività d impresa quella di mero godimento; si fa ad esempio il caso del proprietario che concede in locazione i propri appartamenti. La risposta è no, perché l'attività di mero godimento non dà luogo alla produzione di nuovi beni e servizi; Ciò non vuol dire che vi sia incompatibilità tra mero godimento e attività d'impresa, pensiamo al residence, dove il proprietario sostanzialmente dà in locazione dei locali, ma eroga anche dei servizi collaterali, che eccedono il mero godimento del bene (ricordiamo una sentenza della cassazione che assimila l'attività del affittacamere a quella alberghiera). È ancora godimento l'amministrazione del proprio patrimonio, eseguita anche attraverso gli investimenti finanziari, come il caso di chi vende e compra sul mercato mobiliare titoli usando il proprio danaro. Se però questa attività diviene anche professionale e organizzata, diverrà attività di impresa; sono quindi imprese le società di investimento, come anche le holding. 2. L'organizzazione dell'attività d'impresa. Non è necessario per aversi impresa che si organizzi il lavoro altrui, e non è nemmeno necessario che si abbia un apparato strumentale fisicamente percepibile, come mobili sedie e così via; in definitiva l'attività d impresa non può essere negata sia quando non ci si avvalga di collaboratori, sia quando il coordinamento degli altri fattori produttivi (capitale e lavoro proprio) non si concretizzi nella creazione di un complesso aziendale materialmente percepibile. 3. Il rapporto tra impresa e lavoro autonomo. È impresa quella che si concretizza solamente nel lavoro personale del soggetto agente? Cioè è impresa quando manca la etero organizzazione, quando cioè non vengono utilizzati né lavoro altrui dei capitali propri o altrui? Diciamo subito che chi si avvale di dipendenti altrui per svolgere la propria attività è comunque un imprenditore, ma il problema si pone per differenziare costoro che praticamente lavorano da soli dagli imprenditori anche se piccoli. Dobbiamo quindi chiederci se c'è differenza fra lavoratore autonomo e imprenditore (piccolo). Diciamo subito che in dottrina vi sono due opinioni opposte, secondo quella sostenuta dal Campobasso, ma anche da Ferri, Bonocore, genovese ecc., la semplice organizzazione ai fini produttivi del proprio lavoro non può essere considerata una vera e propria organizzazione di tipo imprenditoriale, e quindi è sempre necessario organizzare, anche se in misura minima, il lavoro altrui o il capitale proprio o altrui per aversi etero organizzazione, e quindi impresa. Questa conclusione non è però pacifica per altri autori, come il Bigiavi; quest'autore, insieme ad altri, sostiene che non c'è differenza tra lavoratore autonomo e piccolo imprenditore, partendo dalla considerazione che l'articolo 2083 che parla del piccolo imprenditore, dice che questo deve organizzare la propria attività prevalentemente con il lavoro proprio e dei propri familiari, sul lavoro altrui sul capitale investito. Questo fatto della prevalenza può fare intendere che la prevalenza può essere anche totale, e che quindi il requisito della "organizzazione" previsto dall'articolo 2082 sarebbe uno pseudo requisito, cioè un
4 requisito non necessario per aversi la qualifica d imprenditore. Tale tesi, però, non convince Campobasso, che nota, che a parte la valutazione sociale che si ha del lavoratore autonomo, proprio il fatto che l'articolo 2083 chiede che ci sia una prevalenza del lavoro del piccolo imprenditore e dei propri familiari sul lavoro altrui e il capitale, implicitamente fa riferimento all'esistenza di una organizzazione, che quindi non può mai mancare nella figura dell'imprenditore; del resto pure organizzare il lavoro dei familiari è pur sempre organizzare lavoro altrui; ancora è da notare che il requisito dell'organizzazione è richiesto sia per il piccolo imprenditore che per l'imprenditore normale, ma non è richiesto per il lavoratore autonomo (articolo 2222). In conclusione un minimo di organizzazione di capitale e lavoro altrui è sempre necessaria per aversi la figura dell'imprenditore, e quindi non sono imprenditori soggetti come l'idraulico o l'elettricista, o anche l'agente di commercio o il mediatore, fino a quando si limitano ad usare quei mezzi minimi che vi servono a svolgere la propria attività, come il telefono la scrivania, o la borsa degli attrezzi; in altre parole, per Campobasso, non si diviene imprenditori fin quando non si supera la soglia dell'autorganizzazione del proprio lavoro. 4. Economicità dell'attività; Attività economica secondo Campobasso, non consiste semplicemente nella produzione di beni o servizi. Abbiamo attività economica, e quindi uno degli elementi caratterizzanti dell art. 2082, quando questa attività è strutturata in maniera tale da raggiungere almeno il pareggio tra costi e ricavi; da ciò s intende anche che lo scopo di lucro, lucro oggettivo, come creazione di una struttura aziendale e d impresa che tenda a avere un avanzo dei ricavi sui costi, non è essenziale per la figura dell impresa; del resto l esistenza dell impresa sociale, che è certamente impresa, ma senza scopo di lucro, fa intendere come detto scopo non sia essenziale alla nozione d impresa. 5. La professionalità. Stabilito che attività professionale non vuol dire attività continuativa ma abituale, dobbiamo porci una serie di problemi per particolari situazioni; È attività d impresa quella che si limita allo svolgimento di un unico affare? Dipende.ritiene Campobasso, perché il singolo affare può dar vita ad attività di impresa quando per la sua rilevanza economica implichi il compimento di operazioni molteplici e complesse, e l'utilizzo di un apparato produttivo idoneo ad escludere il carattere occasionale e non coordinato dei singoli atti economici. Così per Campobasso è imprenditore chi costruisce un singolo edificio, oppure chi acquista un rudere per ristrutturarlo e poi vendere i singoli appartamenti; tale opinione è pacifica in dottrina; per aversi poi professionalità non è necessario che l'attività d'impresa sia protratta nel tempo, ma si ha quando si crea un complesso aziendale idoneo a produrre, per fare intendere che si vuole poi svolgere un'attività potenzialmente stabile e duratura; per esempio possiamo pensare ad una serie di atti, come l'assunzione di dipendenti, l'affitto dei locali, di materie prime ecc., che fanno chiaramente capire che tale attività non sia occasionale ma tende a diventare abituale; se mai tale problema può avere un'importanza per stabilire quando inizia l'attività di impresa. Certo è, sostiene Campobasso, che professionalità e organizzazione sono due cose diverse, come espressamente dispone il 2070 terzo comma, ma è anche vero che l'esistenza di una organizzazione è un indice di professionalità.
5 6. Lo scopo di lucro. Dobbiamo distinguere due scopi di lucro, quello soggettivo, cioè la spinta psicologica dell'imprenditore volta al guadagno, e quello oggettivo, cioè quando si svolge un'attività con modalità che siano astrattamente lucrative, indipendentemente poi dal fatto che si riesca effettivamente a produrre un profitto. Ebbene al lucro oggettivo dobbiamo guardare e non a quello soggettivo, perché i fattori psicologici sono interni e non fisicamente percepibili; ci vuole lo scopo di lucro per l'attività d impresa? No, lo prova l'impresa pubblica, la mutualistica, l'impresa sociale. A dire il vero, nonostante la chiarezza di queste argomentazioni, ci sono autori, come Ferri, che sostengono che lo scopo di lucro vi deve essere per aversi impresa, ma questi autori intendono lo scopo di lucro in maniera molto ampia, cioè come ogni soddisfacimento di bisogni economici del soggetto; sarebbe cioè scopo di lucro ogni produzione di ricchezza; ma così facendo si crea un concetto troppo ampio dello scopo di lucro, e quindi diventa qualcosa di diverso dal vero scopo di lucro. 7. Il problema dell'impresa per conto proprio. Ci si chiede se si diventa imprenditore quando si produce per sé stessi e non per altri. Secondo Campobasso poiché il comma due del 2082 dice che l'attività deve essere organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi (e non al fine della produzione e dello scambio di beni e servizi), ritiene che vi può essere attività di impresa anche per conto proprio non ci sarebbe voluta sia la produzione che lo scambio per aversi impresa. È però prevalente l'opinione contraria, secondo cui per essere imprenditore bisogna comunque svolgere un'attività intermediaria tra proprietari dei fattori della produzione e consumatori, e si ritiene che la destinazione allo scambio risulti in maniera implicita dall'articolo 2082, proprio perché l'attività è professionale, oppure dalla natura economica della stessa, o infine dalla disciplina dell'impresa che tende molto a tutelare i terzi, tutela che sarebbe inutile quando un soggetto agisce per conto proprio; per questa tesi, quindi, non è imprenditore chi produce per sé, anche se lo può diventare se mette in piedi un'organizzazione che potenzialmente o parzialmente può produrre per il mercato. Eccezioni però non convincono Campobasso, che comunque limita di molto il fenomeno. Non siamo nel caso di chi produce per conto proprio nell'ipotesi della cooperativa che produce solo per i propri soci, poiché qui vi sono pur sempre rapporti di scambio tra soci e cooperativa; ancora non sono imprese per conto proprio le aziende costituite dallo Stato o da altri enti pubblici per fornire beni e servizi all'ente di appartenenza, perché qui c'è uno scambio in quanto si tratta pur sempre di soggetti con autonome strutture organizzative. Allora il problema si riduce al caso in cui il soggetto che coltiva un fondo per soddisfare i bisogni dell'agricoltore, cioè i suoi, della sua famiglia, e l'ipotesi in cui si costruiscono appartamenti non destinati alla rivendita (cosiddetta costruzione in economia). Se parliamo dell'agricoltore che produce per sé, notando comunque che è un'ipotesi molto marginale, scopriamo che comunque è un'attività professionale del soggetto; maggiori problemi, però, sorgono dalla questione di chi costruisce per sé; qui abbiamo comunque un'attività svolta con metodo economico, anche se i costi sono coperti dalle risorse personali del produttore. Notiamo poi che anche in questo caso possono sorgere problemi di tutela dei terzi, pensiamo ad esempio alla posizione dei fornitori dei materiali. In realtà per risolvere il problema dobbiamo
6 verificare se esistano i criteri oggettivi stabiliti dall'articolo 2082, criteri che possono esistere anche quando un soggetto produce per sé; in altre parole bisogna vedere se chi produce per sé abbia messo in piedi un'organizzazione potenzialmente idonea alla produzione, per sé o per altri, indipendentemente dal fatto che poi voglia tenere per sé i frutti del proprio lavoro. 8. Impresa e professioni intellettuali. Il professionista intellettuale è escluso dalla disciplina dell'impresa, poiché l'articolo 2238 stabilisce che al professionista intellettuale si applicano solo le disposizioni del capo secondo, terzo, quarto, del capo primo del titolo secondo del libro quinto del codice civile; in altre parole si applicano le norme che tutelano il lavoro nell'impresa, ma non la restante disciplina dell'impresa. Si tratta chiaramente di una scelta politica, perché il professionista intellettuale svolge un'attività che è perfettamente inglobabile in quella dell'articolo del 2082; per questo motivo si tratta di professioni protette o riservate, cui si applicano particolari normative del codice civile, come il 2232, o il 2233 comma due; Per aversi quest'esonero dalla figura dell'imprenditore, il professionista intellettuale deve però svolgere proprio la sua attività di professionista, e questo non è caso del medico che gestisce una clinica; ma a parte quest'ultima considerazione, ci si chiede se per stabilire se il soggetto sia o meno professionista debba essere iscritto ad un albo, in tal modo facendo prevalere il criterio formale; in realtà quello che conta è il criterio sostanziale, ciò è necessario che il soggetto svolga un attività eminentemente intellettuale; il farmacista, ad esempio, pur essendo iscritto ad un albo ed essendo professionista intellettuale, in realtà svolge un'attività sostanzialmente commerciale, che tutti conosciamo. 9. L'impresa artigiana. La vecchia legge del 1956, la 860, fissava la figura dell'artigiano "a tutti gli effetti di legge" e quindi anche agli effetti civilistici e fallimentari. In altre parole creava un modello di impresa artigiana che si imponeva su qualsiasi altra nozione di impresa che fosse contenuta nel codice civile e nelle leggi speciali; tale disciplina si applicava anche alle società artigiane, per le quali si chiedeva che la maggioranza dei soci partecipasse personalmente al lavoro e nell'impresa il lavoro avesse avuto una funzione prevalente sul capitale. L artigiano poi doveva svolgere una particolare attività, attività di natura artistica o usuale, dei beni o servizi prodotti, non essendo rilevante la prevalenza del lavoro familiare nel processo produttivo; perciò era pur sempre artigiano anche chi usasse molti dipendenti, perché non era necessario il criterio della prevalenza, come invece è necessario per il piccolo imprenditore. La cosa è finita con la legge quadro sull'artigianato del 1985, che ha creato una distinzione fondata sull'oggetto dell'impresa che oggi può essere costituito da qualsiasi attività di produzione di beni, anche semilavorate, o prestazione di servizi, sia pure con alcune limitazioni ed esclusioni. Questo però non distingue molto l'attività dell'artigiano da quella dell'impresa, e la distinzione in realtà risiede nel ruolo dell'artigiano, poiché esso deve svolgere in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo, ma non è necessario che il suo lavoro prevalga sugli altri fattori della produzione; in altre parole si vuole pur sempre che l'artigiano intervenga nella produzione, o direttamente con le sue mani, o dando direttive essenziali alla produzione stessa, ad esempio indirizzandola verificando il lavoro fatto dagli altri. Si nota in questo la differenza dall'imprenditore normale, che può dare direttive sulla quantità di
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