Israele racconta. la sua storia /6. Il culto di Israele. (Es 25-31; 35-40, Lv 1-27, Nm 1-10) Alessandro Sacchi

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1 Israele racconta la sua storia /6 Il culto di Israele (Es 25-31; 35-40, Lv 1-27, Nm 1-10) Alessandro Sacchi La tradizione sinaitica, che occupa la seconda parte dell Esodo, si estende a tutto il libro del Levitico e ai primi dieci capitoli dei Numeri. Il terzo e il quarto libro del Pentateuco sono accomunati dal fatto che ambedue riportano racconti riguardanti il soggiorno degli israeliti presso il monte Sinai e soprattutto norme legali che JHWH avrebbe comunicato loro in quel contesto. Il terzo libro è stato intitolato dai traduttori greci Leuitikos, «Levitico», perché riporta prevalentemente disposizioni riguardanti il culto, di cui erano incaricati i membri della casta sacerdotale, appartenenti alla tribù di Levi. In ebraico è chiamato con la parola iniziale Wajikra, «E (il Signore) chiamò». Il titolo greco del quarto libro è Arithmoi, «Numeri»: esso è dovuto alle numerose indicazioni numeriche in esso contenute, soprattutto nella parte iniziale, riguardante il censimento degli israeliti. Anche in esso sono contenute numerose disposizioni liturgiche ambientate nel contesto del Sinai, ma in più si narrano, nella seconda parte, le peregrinazioni degli israeliti nel deserto dal Sinai fino alle steppe di Moab. In ebraico questo libro è chiamato con la parola iniziale 1 / 17

2 Bamidbar, «Nel deserto». Le disposizioni rituali contenute nei due libri, pur avendo un origine più remota, rispecchiano la mentalità e la pratica cultuale del postesilio, quando oramai i giudei formano una comunità dedita al culto, radunata intorno al tempio e guidata da sacerdoti. Anche i racconti in essi riportati, pur utilizzando materiale tradizionale, sono stati redatti dopo l esilio in funzione dei problemi religiosi e sociali propri di quell epoca. In base alla redazione finale il contenuto dei due libri si situa in due momenti diversi dal punto di vista sia storico che geografico. Al materiale di carattere cultuale contenuto nel Levitico e nella prima parte dei Numeri, bisogna aggiungere le disposizioni riguardanti la costruzione del santuario riportate nel libro dell Esodo (Es 25-31; 35-40). Nei due libri successivi si presuppone l esistenza del santuario e si danno disposizioni circa la liturgia che in esso doveva svolgersi nonché il ruolo assegnato ai sacerdoti. Il Levitico si apre con una sezione riguardante i sacrifici offerti nel santuario (Lv 1-7); in un altra sezione si descrive l investitura dei sacerdoti (Lv 8-10); vengono poi presentate le norme riguardanti la purezza rituale (Lv 11-15), che si concludono con la descrizione della festa dell Espiazione (Kippur), nella quale erano perdonate le trasgressioni involontarie delle norme di purità commesse dagli israeliti (Lv 16); la sezione successiva contiene un codice che, in base alla finalità a cui tendono le norme in esso contenute, viene chiamato «Legge di santità» (Lv 17-26). Mentre le prime tre parti si caratterizzano per il loro stile descrittivo, la legge di santità assume un tono più tipicamente esortativo. Il libro termina con un appendice relativa ai voti (Lv 27). La prima parte dei Numeri (Nm 1-10) contiene invece una strana mescolanza di leggi per lo più cultuali e di racconti. In esso è riportato anzitutto il risultato del censimento degli israeliti (Nm 1-4); segue poi una sezione in cui sono raccolte leggi e disposizioni rituali riguardanti situazioni diverse (Nm 5-8); infine, si racconta la celebrazione della prima Pasqua dopo l uscita dall Egitto e la partenza dal Sinai (Nm 9-10). In questo capitolo presentiamo lo strato sacerdotale della tradizione sinaitica, mettendo in rilievo soprattutto l impatto che i riti ivi descritti hanno avuto nella vita di Israele. Queste prescrizioni hanno influenzato fortemente anche il movimento cristiano, che se ne è servito secondo modalità diverse per costruire il suo universo cultuale. A. IL SANTUARIO DEL DESERTO (ES 25-32; 35-40) Un breve sguardo alle due sezioni cultuali inserite nella parte sinaitica dell Esodo è utile per comprendere la teologia della tradizione sacerdotale. Per i sacerdoti esiliati in Babilonia l alleanza tra Dio e Israele risale a molto tempo prima degli eventi sinaitici. Infatti l alleanza concessa da Dio ad Abramo si estende anche ai suoi discendenti (Gn 17,7). Quando poi decide di liberare Israele dalla schiavitù egiziana, JHWH lo fa perché si è ricordato della sua alleanza con loro (Es 2,24; 6,5). Secondo la tradizione sacerdotale la manifestazione di Dio al Sinai ha dunque lo scopo non di attuare l alleanza con Israele, ma di manifestargli le norme riguardanti il santuario e le funzioni dei sacerdoti. Nell Esodo si parla direttamente del santuario del deserto. In una prima sezione (Es 25-32) si presentano le direttive divine date a Mosè mentre si trova sulla montagna per 2 / 17

3 ricevere le tavole della legge; nella seconda (Es 35-40) invece si descrive la loro esecuzione. Esse sono in gran parte parallele, anche se è diverso l ordine in cui sono presentati i diversi temi e alcuni di essi sono elencati in una parte e non nell altra. 1. Le prescrizioni divine (Es 25-32) La sezione inizia con le disposizioni riguardanti la raccolta dei materiali per la costruzione del santuario (25,1-9). È poi descritta l arca dell alleanza (25,10-22): essa misurava due cubiti e mezzo di lunghezza (cm. 138), uno e mezzo di larghezza (cm. 82) e altrettanto di altezza; su di essa poggiava un coperchio di oro puro denominato kapporet («propiziatorio» o meglio «espiatorio»), perché una volta all anno il sommo sacerdote vi compiva il rito dell espiazione (Kippur), descritto in Lv 16. L espiatorio era sormontato da due cherubini anch essi di oro puro. L arca era uno strumento di culto molto antico, come attesta la presenza delle stanghe per il trasporto. Il suo scopo non è indicato in modo uniforme. In alcuni testi essa è presentata come il trono su cui JHWH siede invisibile (cfr. Nm 10,35-36; 1Sam 4,4), garantendo così in modo stabile la sua presenza in mezzo a Israele. Secondo la tradizione deuteronomica invece l arca è il recipiente in cui si conservavano le tavole dell alleanza (cfr. Dt 10,1-5). Dio dà poi le direttive riguardanti la tavola su cui erano deposti i pani della presenza (25,23-30), il candelabro dai sette bracci chiamato menorah (25,31-40), i teli e gli assi per la costruzione del santuario (26,1-30) e il velo che doveva separare il Santo dal Santo dei santi (26,31-37). Sono poi date disposizioni riguardanti l altare degli olocausti (27,1-8), il recinto che circonda il santuario (27,9-19) e l olio per il candelabro (27,20-21); una lunga sezione è dedicata ai paramenti sacerdotali (28,1-43); a essa seguono le disposizioni per la consacrazione sacerdotale (29,1-37). Subito dopo si parla dell olocausto quotidiano, che consiste in un agnello offerto al mattino e uno al tramonto (29,38-46). È poi descritto l altare dei profumi (30,1-10); in un intermezzo si parla della tassa di mezzo siclo che ogni adulto deve pagare per il tempio (30,11-16). Ulteriori disposizioni riguardano la conca per le abluzioni (30,17-21), l olio della consacrazione (30,22-33) e i profumi (30,24-38). Concludono la prima sezione due brani che riguardano rispettivamente gli operai del santuario, la cui abilità tecnica è presentata come un dono speciale di Dio (31,1-11); infine si parla dell osservanza del sabato (31,12-18). 2. Costruzione ed erezione del santuario (Es 35-40) La seconda sezione sacerdotale si apre con una prescrizione riguardante il sabato (35,1-3). Mosè allora dà inizio alla raccolta dei materiali necessari, rimettendo nuovamente in luce il dono speciale fatto da Dio agli operai (35,4-36,7). Si passa poi alla costruzione del santuario (36,8-34); intanto viene confezionato il velo del tempio (36,35-38). Successivamente vengono 3 / 17

4 costruiti l arca (37,1-9), la tavola per i pani della presenza (37,10-16), il candelabro (37,17-24), l altare dei profumi (37,25-29), l altare degli olocausti (38,1-7), la conca per le abluzioni (38,8) e infine il recinto per l assemblea (38,9-20). Dopo di ciò viene fatto il computo dei materiali preziosi usati per la costruzione (38,21-31) ed è descritta lungamente la confezione dei paramenti sacerdotali (39,1-32). Alla fine tutte le opere eseguite sono consegnate a Mosè (39,33-43) e il santuario è eretto e consacrato (40,1-33) Al termine della sezione viene data una descrizione sintetica del santuario (40,16-33). Esso era una costruzione smontabile, che consisteva in una tenda lunga 30 cubiti (circa m. 16,5) e larga 10 (m. 5,5), chiusa con una cortina, nella quale solo i figli di Aronne avevano il diritto di entrare. La tenda era divisa in due vani, l uno più interno e l altro più esterno, separati l uno dall altro mediante un velo prezioso. Il vano più interno era chiamato «Santo dei santi», in quanto era il luogo più santo di tutto il santuario; in esso si trovava l arca dell alleanza. Al centro del vano più esterno, chiamato «Santo», stava un piccolo altare d oro su cui si faceva bruciare l incenso due volte al giorno; alla sua sinistra si trovava il candelabro d oro a sette bracci e a destra una tavola con i dodici pani dell offerta, che ogni sabato venivano consumati dai sacerdoti e sostituiti con altrettanti pani freschi. Intorno alla tenda vi era un sagrato di 100 cubiti per 50 (circa m. 55 per 27,5), nel quale prendeva posto il popolo. In esso, di fronte all ingresso della tenda, si ergeva l altare degli olocausti, dotato di quattro sporgenze dette «corni»; di fianco a esso si trovava una grande vasca, nella quale i sacerdoti facevano le abluzioni prima della liturgia (40,16-33). Il santuario eretto da Mosè nel deserto è identico al tempio di Gerusalemme, rispetto al quale però le misure sono dimezzate (cfr. 1 Re 6-7): si vuole così affermare che la struttura del tempio salomonico risale a Mosè e attraverso lui a Dio stesso. Dopo aver descritto la costruzione del santuario da parte di Mosè, la tradizione sacerdotale soggiunge: «La nube coprì la tenda del convegno e la gloria di JHWH riempì la dimora. Mosè non poté entrare nella tenda del convegno perché la nube dimorava su di essa e la gloria di JHWH riempiva la dimora» (40,34-35). La tradizione P designa qui il santuario con l antico appellativo di «tenda del convegno» (cfr. Es 33,7), ma a esso preferisce poi quello di «dimora» (mishkan), con cui si indicava originariamente l abitazione dei nomadi: in tal modo mette in primo piano l idea di una presenza divina stabile e continuata. E difatti, al termine della costruzione, questa tenda è riempita dalla gloria (kabôd), che rappresenta la manifestazione esterna e sensibile di Dio. Mediante la sua gloria il Dio del Sinai prende così dimora fra i figli di Israele, guidandoli nel loro cammino (40,36-38) e soprattutto dando loro la possibilità di offrirgli un culto a lui gradito. Il santuario israelitico aveva notevoli somiglianze con i templi dei cananei. In essi l effigie della divinità era collocata in una cella, a volte sopraelevata, che si trovava in fondo alla sala del culto, e davanti a essa era edificato un portico o un vestibolo, mentre l accesso era situato al fondo dell edificio. La tenda del convegno descritta in Es 33,7-11 era invece più simile al luogo di culto delle tribù arabe nomadi o seminomadi, che consisteva in una tenda in cui erano collocati i betili, cioè gli idoli di pietra della tribù. Essa era trasportata a dorso di cammello nelle processioni religiose e nei combattimenti; nel campo era drizzata presso la tenda dello sceicco e a essa si veniva quando si desiderava un oracolo. La tradizione sacerdotale ha così integrato nella fede israelita la concezione di un tempio nel quale Dio abita in mezzo al suo popolo. Esistono però numerosi passi biblici in cui si critica la concezione stessa del tempio: JHWH non ha bisogno di un tempio (2Sam 7,6-7), anzi non può abitare in esso, perché neppure i cieli dei cieli possono contenerlo (1Re 8,27); «Il cielo è il mio 4 / 17

5 trono, la terra è lo sgabello dei miei piedi. Quale casa mi costruirete e quale sarà il luogo del mio riposo?» (Is 66,1). I profeti affermeranno che Dio è effettivamente presente nel suo santuario solo se il popolo è fedele all alleanza: in caso contrario il tempio non ha più alcun significato, anzi deve essere distrutto (cfr. Ger 7,1-15). B. I SACRIFICI (LV 1-7) Le disposizioni riguardanti i sacrifici sono collocate dalla tradizione sacerdotale all inizio del Levitico, cioè subito dopo il racconto della costruzione del santuario, di cui si parla nell ultima parte dell Esodo. I diversi tipi di sacrificio sono elencati e descritti in modo scarno e distaccato. Non si accenna mai al motivo per cui bisogna fare certi gesti e non altri. Il codice sacerdotale ricorda diversi tipi di sacrifici, di cui sono descritte con cura le caratteristiche principali. Olocausto (Lv 1). Questo sacrificio era così chiamato in greco perché tutta la vittima, appartenente al bestiame grosso o minuto, era bruciata sull altare. In ebraico esso è chiamato olah, che significa «salita», perché tutta la vittima era fatto salire in fumo verso Dio. L animale offerto doveva essere senza difetto. L offerente imponeva poi le mani sulla testa della vittima: questo gesto, presente anche in altri sacrifici, non significava che l animale era sacrificato al posto dell offerente, ma che questi ne era il legittimo proprietario e ne faceva offerta a Dio. In seguito la vittima veniva uccisa e bruciata, mentre il sangue veniva sparso intorno all altare. Offerte vegetali (Lv 2). Parte di esse veniva bruciata sull altare e parte consumata dai sacerdoti. La parte bruciata era chiamata «memoriale» ( azkarah), in quanto doveva ricordare l offerente a Dio. Inoltre l offerta doveva essere salata con il «sale dell alleanza» (v. 13). Sacrificio di comunione (zebah shelamîm, sacrificio di pace) (Lv 3). In esso era offerto a Dio come vittima sacrificale, mediante l imposizione delle mani, un capo di bestiame grosso; questo veniva ucciso e il suo sangue era sparso intorno all altare. Una parte della carne era bruciata, mentre il resto veniva diviso tra il sacerdote e l offerente, che lo consumava con i suoi congiunti e amici. Sacrifici per il peccato (haththa, peccato) (Lv 4-5). Questo sacrificio aveva lo scopo di eliminare i peccati commessi dal popolo o da qualcuno dei suoi membri, che poteva essere il sommo sacerdote, un capo o un privato. Il tipo di vittima variava a seconda della dignità di colui per il quale il sacrificio era offerto. Dopo l imposizione delle mani sul capo della vittima e la sua immolazione, se il sacrificio era per il sommo sacerdote o per tutto il popolo, il sacerdote ne prendeva il sangue e aspergeva il velo del Santo dei santi e gli angoli dell altare dei profumi. Per il peccato di un capo o di un privato il sangue veniva invece posto sugli angoli dell altare degli olocausti. Parte della carne era bruciata e parte era consumata dai sacerdoti, a meno che si trattasse di un peccato del sommo sacerdote, nel qual caso tutta la carne veniva bruciata (cfr. Lv 6,22-23). Sacrificio di riparazione ( asham) (Lv 5,14-26). Era analogo al precedente. Non è chiaro quali fossero le sue finalità specifiche, ma sembra che venisse offerto esclusivamente dai privati. Se il peccato per cui era offerto il sacrificio era stato causa di danni, questi dovevano essere previamente risarciti. Alla descrizione dei diversi sacrifici fanno seguito altre norme e precisazioni riguardanti lo 5 / 17

6 stesso tema (Lv 6-7). In questo contesto si prescrive che il fuoco sull altare degli olocausti sia tenuto sempre acceso (6,5-6): ciò si spiega con il fatto che non si tratta di un fuoco ordinario ma di un fuoco che è stato dato direttamente da Dio (cfr. Lv 9,24; 2Cr 7,1). I riti sacrificali israelitici sono mutuati dalle religioni dei popoli circonvicini. I pastori arabi avevano il costume di aspergere il sangue delle vittime su particolari oggetti che rappresentavano la divinità, come ad esempio la stele sacra. I cananei invece, dopo aver immolato le vittime, bruciavano parte delle loro carni sull altare. Sia gli uni sia gli altri inoltre consumavano, in certi casi, parte delle vittime nel corso di un banchetto sacro. Se i riti erano simili, diverso era invece il significato che veniva loro attribuito. Per gli arabi e i cananei il sacrificio era sostanzialmente un dono fatto alla divinità per renderla propizia. Siccome ogni dono deve entrare in possesso di colui al quale è offerto, anche la vittima doveva passare dalla sfera umana a quella divina: questo scopo veniva raggiunto simbolicamente uccidendo la vittima e bruciandone la carne o aspergendo con il sangue (l elemento più nobile di ogni essere vivente) gli oggetti che indicavano la presenza della divinità (altare, stele). Per lo stesso scopo parte delle vittime veniva consumata dai sacerdoti o data agli offerenti che la mangiavano alla presenza della divinità. Il significato specifico dei sacrifici israelitici è invece profondamente diverso. Esso viene spiegato non nel contesto in cui sono descritti i riti, ma in quello della promulgazione dell alleanza sinaitica (Es 24,1-10). In questo testo infatti viene fatta risalire al rito di conclusione dell alleanza l origine dei due più importanti sacrifici, l olocausto e il sacrificio di comunione. A proposito dell olocausto si mette in luce come il sangue versato sull altare faccia parte di un rito in cui si attua la comunione tra JHWH e gli israeliti, basata sull alleanza e sul fatto che il popolo si impegna a osservare i suoi comandamenti. Il sacrificio di comunione invece ricorda il banchetto sacro consumato sulla montagna dai rappresentanti del popolo alla presenza di JHWH. È dunque Dio stesso che offre al popolo un mezzo di suo gradimento per «ricordare» i benefici da lui conferiti e per rafforzare o ristabilire il vincolo stabilito mediante l alleanza. Sia l aspersione del sangue sia il banchetto nel santuario diventano così un rinnovamento dei riti con cui l alleanza era stata conclusa ai piedi della sacra montagna. La forza unitiva del sangue fa sì che non solo il sacrificio per il peccato e quello di riparazione ma di tutti i sacrifici servano per espiare i peccati, che rappresentano il maggiore ostacolo al persistere dell alleanza con Dio. A tal fine era soprattutto importante l uso del sangue che si riteneva donato da Dio proprio per l espiazione dei peccati (cfr. Lv 17,11). Questa non è quindi opera dell uomo, ma di Dio, il quale, mediante il rito compiuto dal suo rappresentante, mette il proprio perdono a disposizione di tutto il popolo. L uccisione della vittima non è importante in se stessa, ma perché permette di ottenere il sangue necessario a questo scopo; l idea che essa fosse uccisa al posto del peccatore per soddisfare le esigenze della giustizia divina è totalmente assente dal rituale israelitico. Di per sé i sacrifici espiavano solo i peccati commessi per inavvertenza (cfr. Lv 4,13.22), cioè per debolezza e ignoranza, senza un pieno coinvolgimento personale, mentre quelli commessi volontariamente potevano essere espiati con il pentimento (cfr. 2Sam 12,13) o con la morte (cfr. Lv 16), ma in pratica ai sacrifici era attribuito un ruolo espiatorio molto più ampio. Il significato dei sacrifici è illustrato anche in Gn 22,2, dove si dice che Abramo ha ricevuto da Dio il comando di offrire in sacrificio suo figlio Isacco, da cui doveva nascere il popolo di Israele; il luogo in cui ciò doveva avvenire era il monte Moria, lo stesso sul quale sarebbe stato poi edificato il tempio di Gerusalemme e sarebbe venuto a trovarsi l altare dei sacrifici. Da questo 6 / 17

7 testo appare che l unico sacrificio gradito a Dio è quello che fanno di se stessi gli israeliti. Il fatto che allora Isacco sia stato sostituito, per volontà di Dio, con un capro significa che le vittime animali sono a lui gradite, ma solo come espressione della fedeltà all alleanza da parte di tutto il popolo. Perciò in un salmo profetico si auspica l offerta di un sacrificio in cui la vittima si identifichi pienamente con l offerente (cfr. Sal 40,7-9). Ciò si è attuato nell esperienza del «Servo di JHWH», il quale ha offerto a Dio in sacrificio non una vittima animale ma se stesso (Is 53,10). Il sacrifico israelitico è dunque un rito voluto da Dio allo scopo di rinsaldare il rapporto che il suo popolo ha con lui. Esso dunque non serve per propiziare la divinità, ma per esprimere la misericordia di JHWH che accoglie il suo popolo peccatore e lo purifica non solo dalle sue impurità rituali ma anche dai suoi peccati, a patto però che ritorni a lui con tutto il cuore. C. L INVESTITURA DEI SACERDOTI (LV 8-10) L esercizio del culto in Israele era strettamente legato alla funzione sacerdotale. Di essa si occupa la seconda sezione del Levitico, nella quale si descrive l investitura dei sacerdoti in base alle direttive impartite da Dio a Mosè sulla sacra montagna (Es 28-29). Numerosi altri passi che riguardano i sacerdoti si trovano nelle parti successive del Levitico e dei Numeri. I riti raccolti in questa sezione sono esposti in forma parzialmente narrativa, come sarebbero stati compiuti da Mosè nei confronti di suo fratello Aronne, capostipite del gruppo sacerdotale israelitico. In realtà essi sono il punto di arrivo di una lunga evoluzione, che ha portato a riservare certe funzioni a una categoria speciale di persone. In Lv 8 è descritta la consacrazione di Aronne e dei suoi figli. Essa dura sette giorni ed è costituita da vari atti cultuali: purificazione con acqua (v. 6), vestizione (vv ), offerta di un sacrificio espiatorio (vv ) e di un olocausto (vv ) e infine la consacrazione vera e propria (vv ). Nel corso di questo complesso rituale ha luogo anche la consacrazione del santuario (vv ). La posizione di Aronne è distinta da quella degli altri sacerdoti: egli è consacrato separatamente da loro e a lui sono riservate le vesti sacre (vv. 7-9). Nel giorno successivo alla loro consacrazione Aronne e i suoi figli cominciano a svolgere le loro funzioni (Lv 9). L indicazione dei sacrifici offerti in quella occasione è piuttosto incerta: nell esordio (vv. 3-4) e nel corpo del testo (v. 17) si parla di un oblazione. Nella conclusione (v. 22) invece si accenna a un sacrificio espiatorio, un olocausto e sacrifici di comunione. La celebrazione dei sacrifici si conclude con la benedizione sacerdotale (v. 22) e con una teofania (vv ) già annunziata precedentemente (cfr. v. 4). Tale teofania sembra tuttavia un elemento aggiunto, perché descrive la consumazione da parte di Dio dell olocausto e delle parti grasse che, secondo il v. 14, erano già state bruciate in precedenza. Il suo scopo è quello di mostrare che il fuoco dell altare, mantenuto sempre acceso (cfr. 6,5-6), viene direttamente da Dio, il quale fa proprie le offerte che gli sono presentate. In Lv 10 si narra la morte di Nadab e Abiu, figli di Aronne, causata da una irregolarità connessa con il culto (vv. 1-5). Seguono alcune norme riguardanti il lutto per i sacerdoti (vv. 6-7), l uso del vino (vv. 8-11) e la parte dei sacerdoti nelle offerte (vv ). Nel brano successivo si narra di un sacrificio per il peccato compiuto in modo irregolare dai figli di Aronne (vv ): con 7 / 17

8 questo racconto si intende correggere alcuni abusi di cui sfugge l effettiva entità. Norme e racconti sottolineano la drastica separazione che intercorre tra sacro e profano. In questa sezione l origine del sacerdozio e delle sue funzioni è fatta risalire dalla tradizione sacerdotale a un esplicita volontà di Dio. Egli avrebbe scelto per questo compito la tribù di Levi in sostituzione dei primogeniti a cui esso originariamente spettava (cfr. Nm 3, ); per sua volontà all interno della tribù di Levi la funzione sacerdotale, che implica un contatto diretto con gli oggetti del culto, sarebbe stata affidata al fratello di Mosè, Aronne, e ai suoi discendenti; agli altri leviti invece sarebbero state demandate mansioni di carattere secondario (cfr. Nm 3,8-13; 8,5-22). A capo di tutti i sacerdoti è posta la figura del sommo sacerdote, diretto discendente di Aronne (Lv 21,10-15). A parte questo testo, però, il titolo di «sommo sacerdote» non compare nel Levitico: esso assumerà importanza dopo l esilio, quando al capo della casta sacerdotale saranno riconosciute alcune prerogative regali, fra cui quella dell unzione (cfr. Es 29,7; Lv 8,12), estesa poi a tutti i sacerdoti (cfr. Es 28,41; Lv 7,36). Allora si affermerà la tradizione secondo cui i sommi sacerdoti dovevano appartenere al ramo di Sadok, il sommo sacerdote di Davide (cfr. Ez 44,15; 48,11). In altri testi la scelta dei leviti è spiegata diversamente. Secondo Es 32,25-29 la loro investitura, indicata con l espressione «riempire le mani» (v. 29; cfr. Lv 8,22), è una ricompensa per la fedeltà dimostrata a JHWH e a Mosè sterminando coloro che avevano adorato il vitello d oro. Un altra tradizione fa risalire questa scelta a un fatto non precisato che avrebbe avuto luogo a Massa e Meriba (Dt 33,8-9). Secondo P la scelta dei figli di Aronne sarebbe dovuta allo zelo che Pincas, suo nipote, ha dimostrato nel punire un israelita che aveva aderito al culto di Baal-Peor (Nm 25,10-13). Dal punto di vista storico sembra che il sacerdozio israelitico abbia avuto un origine diversa. La tribù di Levi, come quella di Simeone, era scomparsa fin da tempi molto remoti, disperdendosi in mezzo alle altre tribù (cfr. Gn 49,5-7). Forse alcuni dei suoi membri avevano cominciato a esercitare le funzioni sacerdotali (cfr. Gdc 17,7-13), che diventarono poco per volta una loro prerogativa. La distinzione tra sacerdoti e leviti invece avrebbe avuto luogo più tardi, quando il re Giosia aveva distrutto i santuari periferici, mettendone i sacerdoti al servizio del tempio di Gerusalemme, ma in posizione subordinata a quelli che già vi svolgevano il loro servizio (cfr. 2Re 23,9): i primi sarebbero così diventati «leviti» in senso generico, mentre i secondi avrebbero mantenuto la prerogativa di «sacerdoti» in senso proprio. Originariamente i sacerdoti dovevano trasmettere gli oracoli divini, insegnare la legge (tôrah), che consisteva allora in una breve istruzione di carattere cultuale, e infine presiedere al culto sacrificale (cfr. Dt 33,8.10). Con l andare del tempo la funzione oracolare era stata assunta dai profeti, mentre l insegnamento della legge era diventata la prerogativa degli scribi. Ai sacerdoti è restata invece la funzione sacrificale, che dopo l esilio diventa il loro compito essenziale: essi non dovevano però uccidere la vittima ma aspergere con il suo sangue gli oggetti sacri, bruciare sull altare la carne o le offerte che spettavano a Dio e infine consumare le carni a loro riservate. Questo compito non derivava loro, come per i profeti, da una vocazione personale, ma dal fatto stesso di appartenere, per nascita, a una famiglia sacerdotale. Dopo l esilio, con la scomparsa di Zorobabele, l ultimo discendente di Davide, sono state le potenti famiglie sacerdotali ad assumere l amministrazione del gruppo giudaico sotto il governo dei persiani e poi dei greci e dei romani. I discendenti dei maccabei (asmonei), pur appartenendo a un ramo secondario dei discendenti di Aronne, si sono appropriati sia del sacerdozio che della regalità. 8 / 17

9 D. LEGGE DI PURITÀ (LV 11-16) In questa sezione sono riportate le norme riguardanti la purezza rituale. Anzitutto è indicato con precisione ciò che rende la persona ritualmente impura e sono spiegati i riti mediante i quali lo stato di impurità può essere eliminato (Lv 11-15). Poi viene descritto il rituale del gran giorno dell espiazione (Kippur), mediante il quale sono eliminate tutte le impurità del popolo (Lv 16). 1. I diversi tipi di impurità (Lv 11-15) Le impurità qui enumerate sono quelle causate da certi cibi, dal parto, dalla lebbra e da situazioni connesse con la vita sessuale. Altrove si accenna ad altre impurità, come ad esempio quelle derivanti dal contatto con i cadaveri (cfr. Nm 19,11-16). L impurità viene contratta mediante il semplice contatto con oggetti considerati impuri o al verificarsi delle situazioni previste, anche se esse hanno luogo indipendentemente dalla volontà del soggetto. In primo luogo rende impuro l uomo il mangiare o anche solo il toccare la carne di certi animali (Lv 11; cfr. Dt 14,3-21). Sono considerati impuri gli animali che non hanno lo zoccolo spaccato e sono ruminanti (o sono considerati come tali), oppure quelli che, pur avendo lo zoccolo spaccato, non ruminano. In base a questa regola sono impuri il cammello, l irace (una specie di coniglio), la lepre e il maiale. Gli animali acquatici sono impuri se non hanno pinne e squame. Sono impuri anche gli uccelli da preda e gli uccelli rapaci, nonché gli insetti alati che camminano su quattro zampe (ad eccezione delle locuste, delle cavallette, dei grilli e degli acridi) e i rettili, fra i quali sono enumerati anche topi, lucertole e talpe. Infine sono impuri gli animali morti di morte naturale o uccisi da altri animali (cfr. Lv 17,15). Particolari abluzioni sono stabilite per chi mangia la loro carne o viene a contatto con essa. L impurità può derivare anche dal parto (Lv 12). Una donna è impura per sette giorni dopo la nascita di un figlio maschio e per quattordici giorni se si tratta di una figlia; dopo di ciò nel primo caso dovrà astenersi dai rapporti sessuali per altri trentatré giorni, e nel secondo per altri sessantasei. Alla fine dei quaranta o degli ottanta giorni è tenuta a un rito di purificazione. È chiaro che queste norme non presuppongono una svalutazione dell attività procreatrice, che la tradizione sacerdotale fa oggetto di una particolare benedizione divina (cfr. Gn 1,28). Un altra causa di impurità è la lebbra (Lv 13-14). Il termine ebraico tradotto con «lebbra» non indica soltanto la malattia che oggi è chiamata con questo nome ma anche diverse malattie della pelle, alcune delle quali guaribili. Spettava al sacerdote, non come medico ma come interprete della legge, decidere quando si trattava effettivamente di lebbra. Colui che era riconosciuto come lebbroso era dichiarato impuro, e di conseguenza era allontanato dalla comunità ed era costretto a vivere fuori dalla città o dal villaggio (Lv 13,45-46). In caso di guarigione, era ancora il sacerdote che doveva constatarla (14,3): il lebbroso guarito doveva offrire un sacrificio e sottoporsi a particolari riti di purificazione; solo quando questi erano terminati egli poteva essere riammesso alla vita della comunità (Lv 14). Stranamente erano 9 / 17

10 considerati come soggetti a lebbra, e quindi bisognosi di purificazione, anche i vestiti (13,47-59) e le case (14,33-57). La vita sessuale è anch essa un campo in cui si verificava con facilità la condizione di impurità (Lv 15). Questa concezione era dovuta a una certa incompatibilità che Israele aveva colto tra la sessualità e l esercizio del culto. Si incorreva nell impurità in quasi tutte le funzioni sessuali, legittime o illegittime, normali o anormali. Per fare solo qualche esempio, l uomo era impuro se si verificava una qualsiasi perdita di carattere genitale (Lv 15,1-17); i normali rapporti sessuali rendevano impuri per il resto del giorno (15,18; cfr. 1Sam 21,4); una donna era impura durante le mestruazioni, come pure durante ogni anormale perdita di sangue (15,19-30). In Israele l impurità non aveva nulla a che fare con il campo morale, ma riguardava esclusivamente la componente fisica dell uomo e lo rendeva inabile nei confronti del culto. Il concetto di impurità deriva, come le sue molteplici applicazioni, da antichi tabù religiosi la cui origine è sconosciuta. Forse era considerato come impuro tutto ciò che aveva direttamente a che fare con la vita e con la morte, considerate come le aree nelle quali si manifesta più apertamente il potere della divinità. Questa ipotesi non spiega però come mai l impurità rende inadatti all esercizio del culto. Per quanto riguarda gli animali, è probabile che siano stati considerati come impuri quelli che erano utilizzati dai popoli circonvicini in connessione con i loro culti. Sembrano invece escluse considerazioni di carattere igienico. Le norme di purità, qualunque sia stata la loro origine, sono state introdotte in modo piuttosto forzato all interno della religione israelitica e rischiano di stravolgerne il significato. In essa infatti il rapporto con Dio dipende dalla fedeltà ai suoi comandamenti (decalogo e prescrizioni sociali da esso derivate), mentre le norme di purità lo subordinano a condizioni esterne, che non hanno nulla a che vedere con la vita morale. Le norme di purità hanno avuto un ruolo positivo, anche se marginale, nella religione ebraica, in quanto servivano per inculcare l idea della trascendenza di Dio e il rispetto a lui dovuto in ogni ambito e momento della propria vita; durante e dopo l esilio sono esse che hanno consentito ai giudei di tenersi separati dall ambiente circostante e di difendere la propria identità: facendo però consistere la volontà di Dio in prescrizioni esterne e banali, essi hanno più volte rischiato di cadere in un vuoto legalismo. 2. Il grande giorno dell espiazione (Lv 16) La consapevolezza di non essere in grado di eliminare volta per volta tutte le impurità in cui ciascuno poteva incorrere ha portato all introduzione di una festa annuale, il Kippur («espiazione»), che aveva lo scopo di effettuare la purificazione generale di tutto il popolo. Il rituale di questa festa contemplava l uso di due capri, ciascuno dei quali era sorteggiato per un compito diverso. Sul primo di questi capri il sommo sacerdote imponeva le mani e confessava i peccati di Israele, che erano così trasferiti a esso; questo capro non era sacrificato, ma era condotto vivo nel deserto e abbandonato ad Azazel, lo spirito del male. Perciò è chiamato capro emissario. Questo rito è molto arcaico e rispecchia una mentalità magica secondo cui il peccato si elimina caricandolo su un animale e rimandandolo a colui che era considerato lo spirito impuro per 10 / 17

11 eccellenza. L imposizione delle mani sulla testa del capro emissario non deve essere confusa con il rito analogo che aveva luogo nei sacrifici. Il secondo capro era immolato insieme con un giovenco; il sangue del giovenco era usato per l espiazione a favore del sacerdote e della sua famiglia, mentre quello del capro serviva per l espiazione di tutto il popolo. Esso perciò viene chiamato capro espiatorio. L espiazione veniva fatta portando il suo sangue nel Santo dei santi (era questa l unica volta all anno in cui ciò avveniva) e aspergendolo sul coperchio dell arca (espiatorio). Si riteneva infatti che questo luogo, in cui Dio stesso risiede, venisse contaminato dalle impurità del popolo: per ciò la sua aspersione con il sangue aveva l effetto di purificare tutto il popolo, rendendo così possibile la presenza di Dio nel tempio. L efficacia del rito dipendeva dalle prerogative che erano riconosciute al sangue, in quanto sede della vita (cfr. Lv 17,11), e più a monte dal fatto che l alleanza tra Dio e Israele era stata conclusa con un rito analogo (cfr. Es 24,6). La cerimonia del Kippur deriva dunque dalla fusione di due riti, di cui solo il secondo si ispira alla genuina concezione sacrificale propria del popolo di Israele. Lo scopo di questa festa era limitato, in quanto serviva a eliminare quelle impurità rituali che, essendo state contratte inavvertitamente, non potevano essere tolte mediante i riti prescritti per ciascuna di esse. Con il tempo però il rito del Kippur venne visto come il mezzo per eccellenza con cui Dio perdona il suo popolo. E. LA LEGGE DI SANTITÀ (LV 17-27) L ultima parte del Levitico è chiamata «codice di santità» perché contiene le prescrizioni che il popolo di Israele è chiamata a osservare per essere un popolo santo, cioè consacrato a Dio. Secondo la teoria documentaria questa sezione è la più antica del codice sacerdotale, in quanto sarebbe stata composta nel periodo che precede immediatamente l inizio dell esilio; oggi si ritiene più probabile che essa sia stata elaborata dopo la ricostruzione del tempio. Il motivo conduttore di tutta la sezione è quello indicato in questo invito: «Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo» (19,2): su di esso si basa non solo il codice di santità, ma tutta la legislazione biblica, il cui scopo è quello di far sì che Israele diventi pienamente partecipe della santità di Dio, in forza della quale, ai piedi del Sinai, è diventato una «nazione santa» (cfr. Es 19,6). Dio è santo perché è totalmente separato dalle creature imperfette e corruttibili, ma più ancora perché è completamente estraneo al peccato che contrassegna la vita dell essere umano (cfr. Is 6,3). Egli manifesta la propria santità soprattutto intervenendo nella storia umana e procurando la salvezza del suo popolo (cfr. Ez 36,22-23). Chiunque entra nella sfera della sua santità deve imitare il suo modo di agire, mettendo in pratica i suoi comandi. Questi sono anzitutto i precetti morali, contenuti nel decalogo e nelle liste a esso apparentate (cfr. Lv 19, ), ma anche numerose altre prescrizioni che toccano la sfera rituale. Il contatto con la santità divina, se avviene conformemente alla sua volontà e secondo le modalità da lui stabilite, è sorgente delle benedizioni più grandi, altrimenti è fonte di terribili castighi. Il codice di santità ha lo scopo di istruire gli israeliti affinché possano vivere in modo conforme 11 / 17

12 alla santità che è stata loro conferita, evitando così che si scateni su di loro l ira divina. Dopo un introduzione riguardante l efficacia del sangue (Lv 17), è riportata una lunga serie di prescrizioni riguardanti il campo sessuale, la morale e il culto con indicazione circa i castighi che comportano diverse trasgressioni (Lv 18-20). Segue una raccolta di norme riguardante i sacerdoti e le feste liturgiche con l aggiunta di altre prescrizioni rituali e morali (capp ). Segue poi un brano riguardante gli anni santi, a cui fa seguito un elenco di benedizioni e minacce seguite da un appendice (Lv 25-27). 1. Efficacia del sangue (Lv 17) All inizio del capitolo è ripresa la legge riguardante la centralizzazione del culto (vv. 1-9). È poi riaffermata la proibizione di mangiare il sangue di qualsiasi animale (v. 10); a questa norma è data la seguente motivazione: «Poiché la vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho concesso di porlo sull altare in espiazione per le vostre vite; poiché il sangue espia in quanto è la vita» (7,11). Il sangue è usato per l espiazione poiché in esso vi è la vita: è questa un ingenua affermazione popolare, derivante dal fatto che da una parte il sangue versato emette un po di vapore, e dall altra la sua scomparsa produce la morte. Il sangue è posto sull altare in «espiazione per le vostre vite». Ciò non significa, come si è a volte sostenuto nel passato, che il peccato commesso dall uomo è scaricato sulla vittima, la quale di conseguenza è punita al suo posto con la morte. Più semplicemente questa espressione significa che il sangue, togliendo il peccato, ridona la vita al peccatore. Secondo la mentalità ebraica il sangue svolge questo ruolo in quanto con esso sono aspersi gli oggetti che significano la presenza di Dio in mezzo al suo popolo. A monte sta l idea, già sottolineata a proposito del Kippur, secondo cui il peccato allontana Dio dal suo popolo, e di conseguenza dissacra, cioè priva del loro significato religioso proprio gli oggetti che sono a diretto contatto con la divinità, quali l altare, il velo del Santo dei santi, il coperchio dell arca. Questi devono quindi essere riconsacrati mediante il sangue, il quale ricava la propria efficacia dal fatto che l alleanza che era stata conclusa versando il sangue sull altare e sul popolo (cfr. Es 24,6). Il capitolo termina con alcune direttive riguardanti il trattamento del sangue nella vita profana (vv ). 2. Precetti vari e amore del prossimo (Lv 18-20) Il codice prosegue con un capitolo nel quale sono elencate numerose proibizioni sessuali, con particolare riferimento all incesto: la trasgressione di queste norme è presentata come caratteristica dei cananei, i quali proprio per questo sarebbero stati scacciati dalla terra (Lv 18). Il capitolo successivo (Lv 19) si apre con un invito alla santità di Dio (v. 2) e prosegue con una 12 / 17

13 raccolta di precetti morali (vv ) simili a quelli del decalogo, all interno della quale sono state inserite alcune prescrizioni di carattere religioso e sociale (vv. 5-10). Al termine dell elenco appare la seguente direttiva: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il prossimo tuo come te stesso. Io sono il Signore» (v. 18). Con questa breve formula il legislatore intende fare capiere che non si possono osservare i diversi precetti che scaturiscono dall alleanza se non si riconosce nella persona che sta di fronte un altro se stesso, dotato degli stessi diritti e doveri, bisognoso della stessa solidarietà che ciascuno desidera per se stesso. In altre parole, l amore non consiste in un generico volersi bene o nell assistenza in caso di bisogno ma nel saper vivere in un rapporto costante con gli altri, dando vita a quella realtà profonda e complessa che è la comunità. L amore del prossimo diventa così la sintesi di tutti i comandamenti: esso infatti rappresenta il loro principio ispiratore, in quanto la fedeltà verso Dio (clausola fondamentale) si attua soltanto mediante l impegno effettivo nei confronti del prossimo e indica che cosa bisogna compiere per essere fedeli a Dio anche in quelle situazioni che non sono regolate da una legge specifica. È dunque amando il proprio prossimo che l israelita riconosce che JHWH è il suo Dio e si lascia coinvolgere nella sua santità. Propriamente parlando il prossimo, a cui è dovuto l amore, è solo il fratello, colui che appartiene anch egli al popolo di Dio. Però il precetto è aperto a ulteriori sviluppi, in quanto l amore, nella concezione biblica, si sviluppa a raggiera: esso deve raggiungere anzitutto i più vicini, estendendosi poi a tutti coloro con i quali si entra via via in un rapporto di prossimità. E difatti il codice di santità, dopo aver prescritto l amore del prossimo, fa obbligo di estendere il proprio amore anche al forestiero che ha posto la propria residenza in Israele (v. 34). Il capitolo prosegue con altri precetti di carattere morale e rituale. Nel capitolo successivo (Lv 20) si commina la pena di morte per chi dà uno dei suoi figli a Moloch (vv. 1-5) e l eliminazione dal popolo per chi si rivolge agli indovini (v. 6); dopo un esortazione ulteriore alla santità (v. 7), sono elencate le pene per numerose colpe riguardanti la famiglia (vv. 8-21). Il capitolo termina con una esortazione (vv ). 3. Sacerdoti e feste di Israele (Lv 21-23) La legge di santità prosegue con una serie di prescrizioni riguardanti la santità dei sacerdoti (Lv 21) e le disposizioni di coloro che partecipano ai cibi sacri (Lv 22). Subito dopo è riportato un brano in cui sono elencate le festività del popolo di Dio, che sono ulteriormente spiegate nei passi paralleli. Alcune di esse sono trattate in modo più esteso dalla stessa tradizione sacerdotale in altri contesti: a. Sabato (vv. 3-4; cfr. Es 20,8-11). b. Pasqua e Azzimi (vv. 5-8; cfr. Es 12). c. Il primo covone (vv. 9-14): offerta delle primizie dell orzo. d. Festa delle Settimane (vv ): cade cinquanta giorni dopo la Pasqua e perciò è chiamata in greco Pentecoste. In essa si celebra la fine del raccolto; in seguito diventerà il ricordo annuale dell alleanza e del dono della legge (cfr. Es 19,1). e. Primo giorno del settimo mese (vv ): festa di Capodanno. 13 / 17

14 f. Il giorno delle Espiazioni (Kippur) (vv ; cfr. Lv 16). g. La festa delle Capanne (vv ): si festeggiava il raccolto autunnale. Per sette giorni la gente dimorava in capanne. Si trattava di un uso agricolo, che era diventato ben presto un ricordo della peregrinazione del popolo nel deserto. Le feste di Israele hanno avuto per lo più una origine agricola e hanno conservato il loro collegamento originario con i ritmi della natura. Esse però sono diventate ben presto un ricordo delle potenti gesta compiute da JHWH. Celebrando le sue feste, Israele ripercorre nell arco dell anno tutti i momenti più salienti della storia della salvezza. 4. Gli anni santi (Lv 25) Accanto alle feste, che scandiscono i tempi dell anno, la legge di santità assegna a certi anni un compito particolare nella vita religiosa di Israele (Lv 25). Nel settimo anno (anno sabbatico) la terra doveva restare incoltivata (cfr. Es 23,10-11): infatti come l essere umano e gli animali, così anche la terra deve avere un riposo sabbatico (vv. 2-7). Dal canto suo Dio assicura che supplirà alla mancanza del raccolto di quell anno con un raccolto più abbondante nell anno precedente (vv ). Nel cinquantesimo anno aveva luogo il Giubileo (vv ). Questo anno era così chiamato «giubileo» perché il suo inizio veniva proclamato con il suono del corno (jôbel). In esso si doveva compiere quanto era già previsto per l anno sabbatico e in più restituire i beni immobili, la terra o la casa, a chi eventualmente li avesse alienati (vv ); inoltre dovevano essere liberati gli schiavi ebrei (vv ). Da questa legge risulta che la proprietà, piuttosto che venduta, era affittata a un prezzo da calcolare in base agli anni che separano dal giubileo. Lo stesso valeva per stabilire il valore di chi si vendeva come schiavo. Questa regola non si applicava invece alle case che si trovano dentro le mura di una città, a meno che esse appartenessero ai leviti (cfr. vv ). La legge del giubileo si ispira al principio secondo cui Dio soltanto è il padrone della terra (v. 23), in quanto è lui che l ha conquistata e l ha data alle tribù in usufrutto. La legge riguardante il giubileo è molto recente e non trova conferme in altri testi, se non in Lv 27,16-25 e Nm 36,4, che però dipendono da questo testo. Secondo il codice dell alleanza la liberazione degli schiavi ebrei doveva avere luogo al termine di sei anni di servizio (cfr. Es 21,2; cfr. anche Ger 34,8-16 e Is 61,1); la stessa prescrizione si trova nel codice deuteronomico (Dt 15,12-18), dove è menzionato l anno sabbatico, ma solo come occasione in cui sono condonati i debiti (cfr. Dt 15,1-3.9). Più che di una norma concreta, il giubileo rappresenta forse un ideale di giustizia e di uguaglianza sociale, a cui il popolo deve tendere a prescindere dalla sua attuazione concreta. 5. Benedizioni e minacce (Lv 26-27) 14 / 17

15 Al termine del codice non manca un lungo brano riguardante le benedizioni e le minacce (Lv 26): in caso di fedeltà Dio darà al popolo pace, fecondità, benessere e soprattutto gli garantirà la sua costante presenza; ma in caso di infedeltà lo colpiranno terribili sventure, malattie, sconfitte, carestie, lo sterminio da parte di bestie selvatiche e infine la dispersione fra le nazioni; ma anche se queste si verificheranno, Dio non rigetterà per sempre Israele e non lo annienterà del tutto. Nell appendice si danno ulteriori direttive riguardanti i voti, il riscatto dei primogeniti, l anatema e le decime (Lv 27). F. AI PIEDI DEL SINAI: ULTIMI ATTI (NM 1-10) La tradizione sinaitica giunge al termine nella prima sezione dei Numeri (Nm 1-10). Essa si divide in tre parti: anzitutto è presentato il resoconto dei censimenti delle tribù (Nm 1-4), a cui fa seguito un blocco prevalentemente legislativo (Nm 5-8); infine è raccontata la celebrazione della Pasqua e la partenza dal Sinai (Nm 9-10). La prima di queste due parti si apre con l ordine dato da Dio a Mosè di fare il censimento di tutti i maschi dai vent anni in su (cfr. 1,45). Mosè obbedisce e fa il censimento (Nm 1): il numero di tutti i censiti ( ) è spropositato rispetto alle possibilità di organizzazione e di spostamento nel deserto. I leviti, che svolgono il loro servizio nel santuario, non sono calcolati. A essi è affidato il compito di trasportare il santuario portatile e di tutti i suoi accessori (vv ). Si indicano poi le modalità con cui le tribù devono disporsi nell accampamento e come devono marciare sia negli spostamenti normali sia nei momenti di pericolo (Nm 2). Successivamente l attenzione è rivolta più specificamente ai leviti (Nm 3): Aronne e i suoi figli sono consacrati sacerdoti, mentre i leviti hanno il compito di risiedere attorno alla tenda dell arca al centro del campo; questi ultimi sono stati scelti in sostituzione dei primogeniti e sono a loro volta censiti (cfr. 3, ). In forza della presenza dei leviti, gli israeliti diventano un esercito consacrato, vincolato al santo servizio del Signore. I leviti sono poi elencati per famiglie e a ognuna di esse è affidato un compito specifico (Nm 4). A questo punto sono riportate alcune leggi (Nm 5): l una riguarda l espulsione degli impuri e l altra la restituzione dovuta in caso di furto (5,1-10). Dopo di esse è spiegato lungamente ciò che il sacerdote deve fare quando un uomo sospetta la moglie di adulterio senza averne prove sicure, lasciando alla fine che sia Dio stesso a pronunziare il giudizio (5,11-31). Un ultimo capitolo (Nm 6) è dedicato alle norme riguardanti i nazirei, persone consacrate a Dio che si distinguevano per la lunga capigliatura, per l astensione dalle bevande alcooliche e soprattutto per l attenzione a evitare qualsiasi contatto con cadaveri. Al termine del capitolo è riportata la benedizione che Aronne e i sacerdoti suoi discendenti dovranno pronunciare su tutti gli israeliti: «Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace» (6,24-26). La benedizione ha lo scopo di attirare sul popolo la protezione divina. Questa si manifesta nel fatto che Dio «fa brillare» il proprio volto sul popolo, cioè gli sorride, dimostrando così la sua benevolenza. Come segno del suo favore Dio concede a Israele il dono della pace (šalôm), che 15 / 17

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