Chi canta bene prega due volte



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Transcript:

Paola Di Sabatino Chi canta bene prega due volte Il «metodo semplicissimo» di Guido Monaco «Io pertanto, ispirato dalla carità di Dio, non solo a te, ma anche a quanti altri mi fu possibile, con somma premura e sollecitudine ho offerto il dono che Dio diede a me indegnissimo: cosicché i posteri, imparando con la massima facilità quei canti ecclesiastici, che io e tutti i miei predecessori apprendemmo con grandissima fatica, impetrino la salvezza eterna per me, per te e per gli altri che ci hanno aiutato, e ci sia concessa, per misericordia di Dio, la remissione dei peccati, o almeno una modesta preghiera in ringraziamento di così grandi cose». Così Guido d Arezzo (o Monaco che dir si voglia), in una lettera al confratello Michele dell abbazia di Pomposa. Della vita di Guido, benedettino e teorico della musica Guido d Arezzo attivo nell XI secolo, non si conosce quasi nulla se non quel poco che è possibile ricavare da alcuni cenni autobiografici presenti nelle sue opere. Non si sa, per esempio, se a dare i natali a Guido intorno al 991 fu Pomposa, città del ferrarese sede dell importante abbazia in cui il monaco visse dal 1013 circa al 1025, o Arezzo, luogo in cui egli trovò ospitalità presso la curia del vescovo Teobaldo dopo l allontanamento dal prestigioso monastero pomposano dovuto all «invidia» di alcuni confratelli poco proclivi ad accettare le sue geniali intuizioni in ambito musicale. Così come incerte sono le notizie su un suo priorato presso il monastero di Fonte Avellana dal 1035 al 1040 (periodo durante il quale alcuni Autografo guidoniano ipotizzano l incontro e poi l amicizia con San Pier Damiani) e quelle riguardanti l anno della morte, collocata dai più nel 1050. In verità si ha l impressione che della vita di questo monaco sia arrivato sino a noi esclusivamente quello che di più caro egli ebbe in vita, ovvero i frutti buoni di quel «dono» che il Signore fece a lui «indegnissimo»; un dono attraverso cui non solo è stato possibile fissare per iscritto (e dunque conservare) quell enorme patrimonio musicale gregoriano che rischiava di perdersi o frammentarsi nel particolarismo delle varie scholae canore presenti allora in Europa, ma soprattutto grazie al quale si è semplificato notevolmente l apprendimento della musica che, prima di Guido, prevedeva anni di duro esercizio. 1

Fino agli inizi dell XI secolo i cantori dovevano ad imparare a memoria l intero repertorio liturgico, costretti ad affidarsi ad un maestro che faceva ascoltare loro il canto da eseguire. Inizialmente l unico ausilio a loro disposizione era un rudimentale sistema di notazione che consisteva in alcuni segni molto semplici (probabilmente derivati dagli accenti grammaticali) posti al di sopra del testo liturgico, i quali tracciavano sommariamente il disegno melodico del canto; in seguito, a partire da questi segni, si venne a poco a poco sviluppando un sistema di neumi (il neuma è il segno tuttora impiegato nella notazione del canto gregoriano che indica uno o più suoni, riferiti alla nota o alle note da cantare su una stessa sillaba). Tuttavia anche questa scrittura, collocata sopra le parole del testo senza alcuna indicazione che precisasse gli intervalli fra le note, non era che un semplice ausilio mnemonico. Per quanto riguarda la musica scritta, Guido, perfezionando Esempio di scrittura musicale precedente all introduzione del tetragramma (detta i tentativi di utilizzo del rigo in campo aperto ). L immagine è tratta dal Codex Sangallensis 359 (X secolo). che già prima di lui erano stati fatti, fu il primo ad adottare il tetragramma, sistema di quattro linee orizzontali sulle quali venivano disposti i neumi; questo tipo di scrittura, per noi oggi scontato, allora fu un innovazione rivoluzionaria perché chi leggeva il testo musicale poteva finalmente stabilire con precisione l altezza delle note da eseguire. Inoltre, grazie a questo metodo, i cantori vennero liberati dallo sforzo di dover imparare a memoria l intero repertorio liturgico, venne favorito lo sviluppo di nuove composizioni e, fatto ancor più importante, fu possibile la messa per iscritto di quelle già esistenti. Per quanto concerne invece la lettura musicale, Guido intuì genialmente che l intervallo tra le note non è un concetto relativo, bensì assoluto. Sulla base di questa intuizione introdusse l esacordo, strumento pratico per intonare correttamente gli intervalli tra i suoni. Con la chiarezza e semplicità che gli erano proprie, il monaco illustrava al confratello Michele il metodo Esacordo guidoniano da lui escogitato per istruire i fanciulli cantori di Arezzo: «Se dunque desideri imprimerti nella memoria un suono o un neuma così bene, da riuscire a chiamarlo immediatamente ovunque tu voglia, in qualsiasi canto noto o sconosciuto, [...] devi individuare quel suono o quel neuma all inizio di una melodia che ti sia notissima [...] come è, ad esempio, questo canto di cui mi servo per istruire i fanciulli, siano principianti o esperti». L esempio in questione è la prima 2

strofa dell Inno Ut queant laxis (in onore di San Giovanni Battista, inno già a quei tempi cantato ai vespri della sua festa liturgica il 24 giugno), la cui melodia era ben nota ai cantori, che veneravano, e tuttora venerano, il Precursore di Gesù come loro protettore. È proprio dalle sillabe e note iniziali di ciascuno dei sei emistichi che compongono la prima strofa di quest inno che Guido derivò le sei note dell esacordo, ed è così che vennero battezzate le note musicali (il nome SI, proposto nel 1522 da Ludovico Zacconi, viene dall accostamento delle due lettere iniziali di Sancte Ioannes, mentre l UT divenne DO, abbreviazione di Dominus, nel XVII sec. ad opera di G. B. Doni). «UT queant laxis REsonare fibris MIra gestorum FAmuli tuorum SOLve polluti LAbii reatum Sancte Ioannes». («Affinché possano cantare con voci libere le meraviglie delle tue gesta i servi tuoi, cancella il peccato dal loro labbro impuro, o San Giovanni») La prima strofa dell Inno Ut queant laxis Si può dire, seguendo le belle parole dell Inno, che le voci dei piccoli cantori d Arezzo divennero davvero «libere» di cantare: Guido aveva insegnato loro un metodo che consentiva di apprendere in brevissimo tempo e senza errori d intonazione melodie sconosciute; «cosa che», scriveva ancora il monaco al confratello di Pomposa, «con gli altri sistemi non si verificava neppure in parecchie settimane». La notizia della bravura dei fanciulli istruiti da Guido arrivò sino a Roma, all allora papa Giovanni XIX, il quale volle incontrare personalmente il maestro aretino per verificare la validità del suo metodo. È il benedettino stesso a raccontare la reazione del pontefice: «Giovanni, che dalla somma sede apostolica governa oggi la Chiesa di Roma, giuntagli all orecchio la fama della nostra scuola e in qual modo i fanciulli imparavano canti mai uditi grazie ai nostri Antifonari, pieno di meraviglia m invitò 3

presso di sé [ ]. Mi recai dunque a Roma [...]. Il pontefice si rallegrò assai del mio arrivo: [...] continuava a sfogliare il nostro Antifonario come se fosse un prodigio e, sforzandosi di assimilarne le regole introduttive, non desistette né si spostò dal posto in cui sedeva finché non ebbe imparato un versetto sconosciuto, conseguendo quanto si era ripromesso. Così immediatamente riconobbe, sperimentandolo su di sé, ciò che stentava a credere possibile negli altri». L Antifonario di Guido è andato purtroppo perduto. Di lui ci restano quattro opere tra le quali il Micrologus, trattato musicale che egli aveva scritto per obbedienza al vescovo Teobaldo: «A questo proposito, trattandosi di una cosa utile alla Chiesa, la vostra autorità mi ha ordinato di divulgare l esercizio dell arte musicale per il quale, con l aiuto di Dio, so di non essermi affaticato invano». Le fatiche di cui parla Guido erano state molte in effetti. In primo luogo il disagio di condurre una vita fuori dal chiostro. Quelle intuizioni che egli aveva accolto come dono di Dio gli avevano infatti procurato molti nemici negli anni trascorsi al monastero pomposano, tanto che l abate del monastero, san Guido di Pomposa, dispose il suo allontanamento (anche se qualcuno ipotizza un allontanamento volontario a causa delle ostilità incontrate). Nonostante la sofferenza per quello che sentiva come un vero e proprio esilio, il monaco affrontò le difficoltà con mitezza e fiducia nella bontà del Signore, sapendo di combattere la «buona battaglia»: «anche se la consueta miseria degli uomini resterà ingrata verso benefici tanto grandi, forse il giusto Iddio non ricompenserà la nostra fatica? O, poiché tutto questo è opera di Dio, e noi non siamo in grado di fare nulla senza di Lui, allora non ci sarà concesso nulla? Giammai! Infatti anche l apostolo benché tutto ciò che è discenda dalla Grazia divina tuttavia canta: ho combattuto la buona battaglia, ho compiuto il mio cammino, ho conservato la fede; ora mi attende la corona della giustizia. Forti dunque della speranza della ricompensa, dedichiamoci a un opera così utile: e poiché dopo molte tempeste ritorna il sereno a lungo desiderato, dobbiamo navigare felicemente». Subito dopo il viaggio nella Città Eterna il monaco volle rincontrare l abate pomposano: «Dopo pochi giorni, desiderando vedere dom Guido [dom è il titolo riservato ai monaci benedettini ndr.], abate di Pomposa [ ] uomo carissimo a Dio e agli uomini per sapienza e virtù e parte della mia anima, gli feci visita. Quell uomo di acuto ingegno, come vide il nostro Antifonario, immediatamente lo sperimentò e ne ebbe fiducia e si pentì di aver dato retta un tempo ai nostri avversari. E mi sollecitò a venire a Pomposa [...]. Piegato alle preghiere di tanto padre e obbediente ai suoi consigli, voglio prima di tutto, con l aiuto di Dio, dar lustro a così grande e insigne monastero, e, come monaco, esser di giovamento ai monaci». Non si sa se il ritorno di Guido alla sua vecchia abbazia sia poi realmente avvenuto. È invece noto che il benedettino, anche dopo il successo ottenuto presso il papa, non smise mai di ribadire la sua condizione di umile monaco e soprattutto il suo desiderio di condurre «almeno piccola parte» della vita in solitudine e in preghiera, come provano i rapporti che certamente intrattenne con l eremo di Camaldoli. Così come non mancò di servire la Chiesa attraverso 4

la predicazione e l attività teologica: direttamente coinvolto nell operazione di riforma ecclesiale promossa da Teobaldo, Guido espresse più volte e con decisione la sua posizione in merito al commercio di cariche ecclesiastiche e dei beni materiali a queste connessi: da una sua lettera inviata ad un vescovo sul cui conto circolavano voci di simonia emerge chiaramente quanto egli condannasse duramente questo grave peccato. Oggi Guido viene considerato a tutti gli effetti il padre della musica. Sarebbe però un errore disgiungere la figura del musicus et cantor (così lui stesso si definiva) da quella del religioso: per questo monaco l attività musicale, al pari della predicazione e dello Guido Monaco e il vescovo Teobaldo studio teologico, fu semplicemente un mezzo per servire la Chiesa; un modo di amare Gesù secondo la sua vocazione di benedettino. Poco incline a indugiare in speculazioni di ordine aritmetico-teologico, come d uso al tempo, egli fu il primo trattatista medievale ad occuparsi principalmente di pratica musicale, fornendo ai cantori le conoscenze di base per leggere, scrivere ed eseguire la musica correttamente. Egli aveva capito che cantare bene a Dio era forse più importante dell interrogarsi sulla natura della musica. Scriveva infatti nel Micrologus: «Anche David acquietava il Demone di Saul con la cetra e annientava la ferinità diabolica con la dolce potenza di quest arte». Questo modesto monaco di cui non sappiamo quasi nulla aveva compreso quello che già prima di lui aveva mirabilmente intuito Agostino: «Chi canta una lode [ ] non soltanto loda ma loda con letizia. Chi canta una lode, non soltanto canta ma ama colui che canta. Nella lode c è la voce esultante di chi elogia, nel canto c è l affetto di colui che ama». 5