Se con il termine discriminazione dovessimo designare



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183 Immigrazione e discriminazioni istituzionali: orientamenti giurisprudenziali Se con il termine discriminazione dovessimo designare come avviene nel linguaggio corrente solo quegli atteggiamenti consapevoli che esprimono avversione, disprezzo o odio verso alcuni gruppi sociali, allora l espressione discriminazione istituzionale avrebbe poco senso, non potendo le istituzioni in quanto tali esprimere sentimenti e intenzionalità. In realtà questo profilo razzista della discriminazione - in parole povere, quello del va via sporco negro, tornato prepotentemente e tristemente alla ribalta con l incredibile serie di aggressioni razziste al ministro Kyenge - esprime solo un aspetto del problema, quello più frequentemente considerato dalla disciplina penale di cui alla L. 205/93. Diversa è invece l accezione civilistica di discriminazione - valorizzata dal diritto comunitario - che designa una disparità di trattamento in quei campi della vita sociale e con riferimento a quei fattori o gruppi sociali per i quali l ordinamento prescrive invece la parità di trattamento: una disparità o disuguaglianza oggettiva nell accesso a beni o a opportunità, che prescinde da qualsiasi intenzione del discriminatore ; ciò che rileva è solo verificare se quella disparità sia riconducibile al fattore vietato. Il discorso sulla discriminazione è dunque, prima di tutto, un discorso sull uguaglianza, ma diversamente dal generale precetto ugualitario contenuto nell art. 3 Cost., il divieto di discriminazione limita il suo raggio d azione alle disuguaglianze determinate dai fattori vietati, il cui elenco è rimesso alle decisioni della storia e della politica e che nel corso di questo secolo si è andato man mano arricchendo. Quando il fattore che viene in considerazione è la cittadinanza o la nazionalità, il discorso sulla discriminazione significa dunque in primo luogo stabilire entro quali limiti lo status civitatis può operare come spada che divide ospiti e padroni di casa, cioè come requisito per attribuire diritti negati ad altri, come criterio di esclusione da beni o prestazioni. Una questione già in se stessa paradossale se pensiamo che la vocazione originaria di questa nozione (cittadinanza) era quella non di dividere, ma di unire gli uomini nel riscatto dalla condizione di servi; ma una questione che l inevitabile spinta difensiva di fronte alle grandi migrazioni ha portato prepotentemente alla ribalta. Ed è di fronte a questo problema che le istituzioni vagano incerte alla ricerca di un discrimine che - complici le incertezze culturali e l assenza di un comune consenso sugli di Alberto Guariso, Studio Legale, Milano

184 I m m i g r a z i o n e e d i s c r i m i n a z i o n i i s t i t u z i o n a l i : o r i e n t a m e n t i g i u r i s p r u d e n z i a l i elementi fondanti della nostra democrazia - sembra sfuggirle a tutti i livelli: sia a quello massimo del Parlamento, spesso bacchettato dalla Corte Costituzionale o dalla Corte UE - sia a quello delle Regioni e degli Enti Locali. Soprattutto questi ultimi sono stati investiti negli anni recenti da una ventata ideologica, attenuatasi solo da ultimo, che ha voluto dare a quella domanda una risposta molto netta: il solco tra padroni e casa e ospiti deve essere quanto più profondo possibile, dunque i diritti da riservare ai cittadini debbono essere sempre più numerosi e va adottata qualsiasi misura possa disincentivare la presenza dello straniero, rendendola più difficile. Favorita, specie in alcune aree del nord, da un presunto consenso popolare - a sua volta alimentato, in un circolo vizioso, dalla costruzione dell immagine dello straniero come nemico - questa scelta ha prodotto appunto quelle discriminazioni istituzionali che hanno messo duramente alla prova la capacità di reazione del nostro ordinamento, sia sul piano processuale che sul piano sostanziale e che hanno prodotto una rilevante quantità di pronunce giudiziali, contribuendo ad una miglior elaborazione sia della nozione di discriminazione che (indirettamente) della nozione di cittadinanza 1. Il filo conduttore di questa giurisprudenza è abbastanza chiaro ed è scritto a chiare lettere nell art. 2 del Testo Unico (TU) immigrazione e nell art. 3 Costituzione: universalità dei diritti fondamentali; uguaglianza nell esercizio dei diritti civili e sociali, salve le deroghe di legge; controllo su dette deroghe, da parte della Corte Costituzionale, secondo il criterio di ragionevolezza. Lo schema è dunque apparentemente semplice, ma i Giudici di merito lo hanno dovuto declinare in una miriade di differenti fattispecie concrete che hanno toccato prevalentemente alcuni settori: prestazioni sociali, iscrizione anagrafica, accesso alla scuola e alle prestazioni sanitarie, accesso al lavoro e in particolare al pubblico impiego. Il primo è stato certamente quello dove si sono manifestate le maggiori tensioni. Sul piano del welfare locale la reazione giurisprudenziale è stata estremamente lineare: il criterio di parità relativa fissato dall art. 41 TU immigrazione (lo straniero che sia titolare di un permesso di soggiorno di almeno un anno ha diritto alle medesime prestazioni garantite agli italiani) vincola le amministrazioni locali, anche perché ribadito dalla legge quadro sui servizi socio assistenziali (L. 328/00) che riguarda proprio le prestazioni degli enti locali: dunque, un ente locale che individui un bisogno e che decida di darvi risposta, non può prevedere altre forme di esclusione degli stranieri se non quella (di modestissimo effetto, visto che i permessi inferiori all anno sono pochissimi) prevista da detto articolo; e ciò, indipendentemente dal fatto che la prestazione afferisca a bisogni essenziali della persona o rappresenti un intervento meramente facoltativo dell ente locale. E così, violano il principio di parità e sono quindi discriminatori i bonus bebé riservati agli italiani (tra le molte Trib. Brescia nei confronti dell amministrazione del capoluogo, con ordinanze 26.1.2009 e 12.3.2009, entrambe confermate in sede di reclamo e poi in sede di giudizio di merito; Trib. Bergamo 17.5.2010 nei confronti del Comune di Palazzago; Trib. Milano 29.9.2010 nei confronti del Comune di Tradate). E discriminatoria la generica esclusione degli stranieri dal sistema integrato dei servizi sociali o da un sussidio per la cura del mal di denti (Trib.Bergamo 28.11.2009 nei confronti del Comune di Brignano Gera d Adda); lo è anche l esclusione da un sussidio per l affitto nel Comune di Adro (Trib. Brescia 15.10.2010) e persino, nonostante il suo carattere asseritamente

I m m i g r a z i o n e e d i s c r i m i n a z i o n i i s t i t u z i o n a l i : o r i e n t a m e n t i g i u r i s p r u d e n z i a l i 185 premiale e facoltativo, un premio all eccellenza scolastica istituito dal Comune di Chiari (Trib. Brescia 19.1.2010). Molto più complesso è stato invece il percorso seguito dalla Corte Costituzionale allorchè ha dovuto esaminare le distinzioni tra italiani e stranieri previste per legge. Le tensioni si sono incentrate soprattutto sull art. 80, comma, 19 L. 388 del 2000 che, pur senza abrogare l art. 41 TU immigrazione, aveva comunque aggiunto ai requisiti necessari allo straniero per godere del principio di parità, quello della titolarità della carta di soggiorno (oggi permesso di soggiorno di lungo periodo). Anche in questo caso, la Corte sembrava in un primo tempo aver fissato due principi relativamente chiari: nessuna esclusione è possibile per le prestazioni che rispondono a bisogni essenziali della persona; per le prestazioni esterne a tale nucleo le distinzioni sono possibili purché assistite da una ragionevole correlabilità tra scopo della legge e criterio di selezione: e la cittadinanza in quanto tale non è mai di per se stessa un criterio ragionevole (sentenza 432/05). Detto questo, la Corte si è poi avvitata per qualche anno in un percorso quanto mai tortuoso: investita della questione di costituzionalità del citato art. 80 con riferimento alla indennità di accompagnamento per gli invalidi, ha affermato che è incostituzionale pretendere la carta di soggiorno in quanto questa a sua volta richiede un reddito minimo e ovviamente è irragionevole chiedere un reddito minimo ai destinatari di una prestazione di assistenza; ma non è incostituzionale richiedere almeno 5 anni di residenza in Italia, che è l altro requisito necessario per ottenere la carta di soggiorno. Insomma una incostituzionalità a metà. Col passar degli anni la Corte si è invece convinta che il predetto art. 80, ove applicato alle prestazioni volte a rispondere a bisogni essenziali della persona, è incostituzionale nel suo insieme sia laddove richiede un reddito minimo, sia laddove richiede i cinque anni di residenza, perché è parimenti irrazionale, ad esempio, che un disabile debba attendere per 5 anni per ottenere la risposta a un suo bisogno (cfr. da ultimo la sentenza 40/13). In tale secondo percorso la Corte non si è limitata ad invocare l art. 3 Cost., ma ha assunto come riferimento anche l art. 14 della Convenzione Europea per i diritti dell uomo (CEDU), che appunto vieta le discriminazioni in ragione della nazionalità, con ciò ricollegando il tradizionale principio di uguaglianza al divieto di discriminazione. Si è chiusa cosi la partita della limitazione delle prestazioni solo ai lungo soggiornanti; e si è aperta quella delle altre limitazioni, esaminate dalla Corte Costituzionale in una raffica di sentenze emesse nel 2013, introdotte prevalentemente dal legislatore del Friuli Venezia Giulia e della provincia di Bolzano e collegate al cosiddetto radicamento territoriale dello straniero: è legittimo introdurre leggi che limitino le prestazioni a favore dello straniero alla condizione che questi abbia soggiornato nella regione da un certo numero di anni? Escluso che lo possa fare l amministrazione locale (che come abbiamo visto può solo fare applicazione dell art. 41 TU), lo può fare con legge una Regione o una Provincia Autonoma? Per ora la risposta della Corte Costituzionale è abbastanza netta: una volta individuato un bisogno, l amministrazione deve darvi risposta in maniera omogenea, non essendo possibile presumere che chi soggiorna da un minor numero di anni abbia un minor bisogno di accedere alla prestazione (sentenze 40/11, 2/13, 172/13). Il criterio resta dunque il bisogno e non la durata del soggiorno, ma questa conclusione viene in rilievo sotto due profili diversi: nella giurisprudenza della Corte Costituzionale rileva sotto

186 I m m i g r a z i o n e e d i s c r i m i n a z i o n i i s t i t u z i o n a l i : o r i e n t a m e n t i g i u r i s p r u d e n z i a l i il profilo della irragionevolezza del criterio (per i motivi appena detti), mentre nella giurisprudenza di merito (ad es. Trib.Udine 5.8.2011 e 19.9.12) e nelle pronunce della Corte UE (ad es. CGE 18.7.2013 in causa C-523/11 e 585/11) rileva come criterio indirettamente discriminatorio in riferimento alla nazionalità, essendo pacifico che gli stranieri hanno statisticamente minori probabilità di maturare un periodo di residenza più prolungato. Sotto l uno o l altro profilo, la affermata illegittimità dei criteri di lungo residenza sembra escludere, in materia di welfare, qualsiasi corrispettività tra pregressi versamenti fiscali o contributivi e diritto alle prestazioni ( ti aiuto se tu hai pagato qui le tasse per un periodo minimo ), ma il tema tocca un aspetto delicatissimo della sensibilità sociale ed è dunque sicuramente ancora aperto. Molto più lineare è stato invece l orientamento della giurisprudenza su questioni rispetto alle quali la legge fissa come regola la parità assoluta senza ammettere deroghe e aggiramenti. Si pensi, in particolare, al tema della iscrizione anagrafica, sul quale l art. 6, comma 7, TU immigrazione è quanto mai esplicito: lo straniero deve essere iscritto all anagrafe alle medesime condizioni del cittadino, per il quale l iscrizione anagrafica è un diritto conseguente al mero accertamento di fatto della stabile dimora: dunque, una volta che lo straniero sia regolarmente soggiornante, anch egli ha diritto di porre la sua stabile dimora ove ritiene, senza che l amministrazione possa arrogarsi il potere di selezionare gli stranieri graditi e quelli sgraditi. E proprio questo pretendevano invece di fare alcun amministrazioni comunali, che avevano introdotto requisiti di reddito o addirittura di titolo di soggiorno ( accettiamo solo i lungo soggiornanti ) per l iscrizione anagrafica dell extracomunitario, incorrendo ovviamente nelle sanzioni dei giudici (si vedano ad es. Trib. Brescia 9.4.2010 e Trib. Bergamo 15.3.2011). Altrettanto lineari sono le rare decisioni riguardanti quei diritti fondamentali della persona che il comma 1 dell art. 2 TU immigrazione garantisce anche ai non regolarmente soggiornanti: cosi il Tribunale di Milano (22.7.2008) ha ritenuto discriminatorio escludere dalla scuola materna i figli di immigrati irregolari, argomentando peraltro sul fatto che il minore, in quanto non espellibile ex art. 19 TU, non può mai considerarsi irregolare. E il Tribunale di Brescia (11.4.12) ha ritenuto discriminatoria la pretesa del sindaco di Chiari di verificare il permesso di soggiorno per contrarre matrimonio, anche dopo la sentenza della Corte Costituzionale 245/11. Ma che accade quando è la legge stessa a porre un discrimine di dubbia legittimità tra italiani e stranieri? A parte il controllo della Corte Costituzionale, di cui si è già detto, qui entra in gioco il diritto comunitario che - dopo aver a lungo rifuggito qualsiasi intrusione nella disciplina dell immigrazione ha man mano delineato un vincolo di assoluta parità (non derogabile neppure dal diritto nazionale) per alcune particolari figure di stranieri, che peraltro coprono ormai numericamente una quota ampiamente maggioritaria degli immigrati: anche in questi casi, benché il principio paritario rivendicato non appartenga a tutti gli stranieri, ma solo a quelli protetti dal diritto comunitario, la violazione deve qualificarsi come discriminazione e come tale può essere portata davanti al giudice. Viene in questione in particolare la condizione dei titolari di permesso di soggiorno CE di lungo periodo (oltre il 60% degli immigrati) ai quali la parità è garantita dall art. 11 direttiva 109/2003: costoro, ad esempio, hanno ottenuto presso tutti i Tribunali d Italia il

I m m i g r a z i o n e e d i s c r i m i n a z i o n i i s t i t u z i o n a l i : o r i e n t a m e n t i g i u r i s p r u d e n z i a l i 187 riconoscimento di quell assegno per famiglie numerose che l art. 65 L. 448/98 riservava invece ai soli cittadini italiani o comunitari. Uno dei terreni numericamente e concettualmente più significativi è quello dell accesso al pubblico impiego. Secondo l approccio tradizionale il rapporto di pubblico impiego impone una particolare compenetrazione tra lavoratore e finalità pubbliche perseguite dalla Pubblica Amministrazione e solo il vincolo di cittadinanza è in grado di garantire questa compenetrazione: solo il cittadino, dunque, può essere un buon pubblico dipendente. La tesi, che sopravvaluta sia la nozione di cittadinanza, sia quella di pubblica amministrazione, confligge con il principio paritario fissato dalla convenzione OIL 143/75 che vincola gli Stati membri a un trattamento uniforme di tutti i lavoratori, autoctoni o migranti, consentendo solo le limitazioni imposte dalla tutela dell interesse nazionale, interesse che evidentemente non sussiste in caso di dipendente pubblico che non eserciti pubblici poteri: applicando questi principi, la stragrande maggioranza dei giudici ha ritenuto discriminatoria l esclusione degli extracomunitari dai concorsi pubblici (si veda ad es. Trib. Milano 4.4.2011, 21.4.2011, 12.8.2011, Trib. Trieste 4.7.2013 in www.asgi.it). La recente legge europea 2013 (L. 97/13) ha infine aperto il pubblico impiego ai soli lungo soggiornanti (che possono ora accedere alla PA, alle medesime condizioni dei comunitari), lasciando così aperta la questione degli stranieri titolari di un normale permesso di soggiorno per lavoro. In qualche più rara occasione i giudici hanno affrontato in termini analoghi anche la questione dell accesso a libere professioni per le quali particolari disposizioni di legge prevedono il requisito della cittadinanza, e anche in questi casi hanno assegnato valore preminente alla direttiva 109/2003, imponendo l ammissione dello straniero lungo soggiornante (si veda Trib.Milano ordinanza 29.8.13, est. Dossi, in www.asgi.it, riferita alla professione di consulente del lavoro). Un percorso in parte analogo ha seguito anche la Corte d Appello di Milano che si è pronunciata per la prima volta sulla delicatissima questione dell accesso al servizio civile che la legge formalmente riserva ai soli cittadini italiani. La Corte, confermando la sentenza di primo grado, ha rilevato l esistenza nel nostro ordinamento di una sorta di seconda cittadinanza (l espressione è della Corte Costituzionale in una risalente sentenza), alla quale appartengono tutti coloro che, pur essendo privi dello status civitatis, sono pienamente partecipi dei diritti e degli obblighi che devono legare tutti coloro che vivono stabilmente su un determinato territorio, ivi compreso l obbligo di solidarietà di cui all art. 2 Cost.: con la conseguente necessità di interpretare le norme di legge in senso non-discriminatorio e pertanto nel senso di non escludere dall accesso al servizio civile gli extracomunitari stabilmente residenti (Corte Appello Milano 22.3.2013) Ma che succede una volta che il Giudice abbia accertato la sussistenza di una discriminazione istituzionale? La speciale procedura prevista dall ordinamento per la repressione della condotta antidiscriminatoria (rinnovato e unificato con l art. 28 Dlgs 150/11) si presenta da questo punto di vista particolarmente efficace, lasciando ampia discrezionalità al giudice nella scelta degli strumenti con i quali porre termine alla discriminazione e ripristinare la parità.

188 I m m i g r a z i o n e e d i s c r i m i n a z i o n i i s t i t u z i o n a l i : o r i e n t a m e n t i g i u r i s p r u d e n z i a l i Ma è proprio a questo punto che la discriminazione istituzionale pone al giudice i due ostacoli più difficili da superare: quello della discrezionalità amministrativa e quello dei vincoli di spesa. Quanto al primo la giurisprudenza, anche grazie a due pronunce della Cassazione (15.2.2011 e 30.3.2011), ha ormai raggiunto un sufficiente grado di certezza attorno ai seguenti principi: a) il diritto alla parità di trattamento è sempre un diritto fondamentale della persona e dunque correttamente il legislatore ha riservato le questioni che riguardano la sua violazione alla cognizione del giudice ordinario e non a quella del Tribunale Amministrativo; b) la Pubblica Amministrazione può essere convenuta in giudizio con la speciale azione civile contro la discriminazione non solo per meri comportamenti (ad es. l addetto all ufficio che non rilascia il certificato allo straniero), ma anche quando la violazione della parità di trattamento sia commessa mediante una vera e propria attività amministrativa (la delibera di giunta che fissa i criteri per l iscrizione anagrafica); c) il giudice ordinario non può annullare lui stesso l atto amministrativo discriminatorio, ma, essendo tenuto a rimuovere la discriminazione, può emettere nei confronti della PA qualsiasi ordine, anche quello di revocare l atto e di emetterne uno con un contenuto diverso, e tale potere non viola l autonomia dell attività amministrativa; d) nell ambito delle proprie scelte discrezionali la PA è libera di adottare discrezionalmente i criteri che maggiormente ritiene conformi al pubblico interesse, ma non può mai violare il principio di parità di trattamento in quei campi della vita sociale e con riferimento a quei fattori per i quali l ordinamento afferma detto principio. Tutte le pronunce dei giudici di merito che hanno valutato casi di discriminazione istituzionale si conformano a detti principi. Più articolato è il tema del possibile conflitto con diritti dei terzi (si veda sul punto Trib.Brescia 17.10.2011, che ha ordinato di revocare le assegnazioni di alloggi effettuate secondo criteri discriminatori) e quello dei poteri del giudice nel ripristino della parità: può, ad esempio, il giudice ordinare di estendere prestazioni sociali che, sulla base di criteri discriminatori, l amministrazione aveva riservato solo ad alcuni? Nella maggioranza dei casi la risposta è stata positiva, posto che la modalità normale con la quale è possibile ripristinare l uguaglianza è appunto l attribuzione del bene negato. In almeno due casi la reazione delle amministrazioni ha consentito di approfondire ulteriormente il problema: in un caso il Comune aveva reagito alla pronuncia estensiva del giudice revocando il beneficio sia per gli italiani che per gli stranieri, ma il giudice lo ha condannato a ripristinare il beneficio per tutti in base al divieto di atti ritorsivi previsto dall art. 4bis Dlgs 215/03 (Trib. Brescia 27.5.2009); in un altro caso il Comune, una volta condannato, aveva preteso di riconoscere agli stranieri solo l importo che avrebbero percepito se lo stanziamento originario fosse stato sin dall inizio ripartito tra tutti: ma il Giudice l ha condannato a pagare esattamente la stessa somma pagata agli italiani, indipendentemente dal fatto che ciò comportasse un esborso complessivo superiore a quello originariamente previsto (Corte Appello Brescia 11.7.2013, pres. est. Buono, Ait e altri c. Comune di Adro). Note 1 Una raccolta della giurisprudenza in materia si trova nel volume Senza distinzioni. Quattro anni di contrasto alle discriminazioni istituzionali nel nord Italia, pubblicazione a cura di Avvocati per niente Onlus ASGI UNAR. Le ordinanze citate nell articolo senza ulteriori riferimenti sono reperibili in detto volume.