Anno C. Commento e letture per i lettori del mese di Gennaio UNITÀ PASTORALE. Barbarano Mossano Villaga

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2018 UNITÀ PASTORALE Barbarano Mossano Villaga Anno C Commento e letture per i lettori del mese di Gennaio Claudio Unità Pastorale Barbarano, Mossano, Villaga.

Maria Madre di Dio 01 gennaio 2019 Il libro dei Numeri raccoglie in sé materiale tradizionale eterogeneo che trova il suo punto di convergenza nel tema del cammino verso la conquista della Terra promessa: l'allestimento della campagna militare (Nm 1,1-10,10) funge da prologo alla grandiosa marcia nel deserto (10,11-21,20) per culminare nella fase iniziale della conquista della terra di Canaan (21,21-36,13). Il brano odierno, meglio noto come la «benedizione di Aronne» o «sacerdotale» (6,22-27), è stato scelto in ragione del suo contenuto: la benedizione divina, foriera di pace, possa riversarsi copiosa sul popolo che Dio si è scelto come sua eredità. La benedizione di Dio concessa a Israele. La b rakāh è concessa alla comunità d'israele nel deserto solo dopo la purificazione; essa è comunicata da Dio anzitutto a Mosè (6,22), colui che è stato scelto come mediatore e guida per liberare gli ebrei dalla schiavitù d'egitto: la liberazione è in vista della benedizione. Per il tramite di Mosè, Aronne e i suoi figli sono incaricati da parte del Signore di benedire (in ebraico, brk) gli israeliti (v. 23). Tuttavia, è evidente che l'efficacia della benedizione dipende esclusivamente dalla volontà divina, come appare palese nella composizione dei vv. 24-26; si noti che ogni stico si compone di due frasi: mentre nella prima s'invoca il movimento di Dio verso il popolo (benedire; splendere il volto; rivolgere il volto), nella seconda si palesano i risultati della triplice azione divina (protezione; grazia; pace). Benedizione e protezione. Il destinatario, espresso alla seconda persona singolare, non è un singolo individuo, ma la comunità che si appresta a riprendere il cammino verso il luogo della promessa. Al v. 24 la benedizione si realizza nell'impegno che il Signore si assume di custodire (šmr) l'assemblea degli israeliti da ogni male, garantendo loro incolumità durante il cammino che essi dovranno affrontare percorrendo un luogo insidioso come il deserto (cfr. Sal 121,7-8). Benedizione e splendore di grazia. La formula «faccia splendere ('wr) YHWH il suo volto» (Nm 6,25) è un'espressione semitica usata di frequente, per indicare che la divinità si mostra benevola nei confronti dei suoi fedeli. L'orante invoca lo splendore del volto di Dio sul suo volto e confida nella misericordia divina per ottenere salvezza (Sal 31,17; cfr. Sal 67,1-2.6-7;123,23; Es 33,19); nella speranza che YHWH si volga a compassione del suo popolo, la comunità prega: «fa' splendere il tuo volto e noi saremo salvi» (Sal 80,4.8.20). Il volto luminoso di Dio favorisce l'apprendimento delle sue leggi (Sal 119,135) e presiede alla ricostruzione del santuario devastato (Dn 9,17). Benedizione e pace. La terza benedizione divina (Nm 6,26) pone ancora al centro il motivo del volto divino ma, in luogo del verbo splendere, è attestato il verbo sollevare (śym). Dio leva in alto la sua faccia per stabilire una relazione stabile e duratura con il suo popolo; è un'alleanza sigillata dal dono divino per eccellenza, lo šālôm («pace»). Lo scopo ultimo della benedizione divina è riassunto nella parola ebraica šālôm, pace, che è il risultato del fatto che Dio abbia levato il suo volto, ed è la parola ultima di tutta la benedizione. La concessione della pace di Dio si estende agli individui, alla comunità riunita nel culto, alla nazione e a tutto il creato. Non si tratta solo di un augurio o di un desiderio; ma si esprime la 1

concretezza per il destinatario, nel caso Israele, di trovarsi a contatto diretto con la benedizione che è diventata o che diventa o che diventerà realtà in suo favore. Il nome di Dio su Israele. La formula termina al v. 27 con la garanzia che il nome (šēm) di Dio, vale a dire la sua presenza, sarà posto sui figli d'israele assicurando l'efficace realizzazione delle benedizioni precedenti. Ciò che si stabilisce tra il Signore e il suo popolo è una relazione di reciproca appartenenza, resa salda dalla presenza benedicente divina. Gli israeliti si apprestano ad entrare in possesso della Terra promessa, ma prima dovranno confrontarsi con altri popoli che si affidano alla protezione di altre divinità; tuttavia, nel nome di Dio che li ha liberati, essi non avranno nulla da temere perché egli assicura loro benedizione, pace e prosperità. 2 Salmo responsoriale S a l 6 6 ( 6 7) Dio abbia pietà di noi e ci benedica. I motivi della benedi zione, dello splendore e del volto divino autorizzano a ritenere che il Salmo 66 abbia trasposto in chiave lirica la benedizione sacerdotale concessa da Dio agli israeliti per la mediazione di Aronne. La b rakāh è il segno della grazia che il Signore concede all'assemblea; il suo volto splende su di essa con uno scopo preciso: perché si conosca sulla terra la sua via, cioè l'itinerario etico-religioso che egli ha stabilito, così che anche le genti possano comprenderlo e sperimentare che la salvezza viene da Dio. Le nazioni non si limitano a un'esperienza conoscitiva; esse possono condividere con l'assemblea d'israele la condizione lieta di chi ha riconosciuto Dio per i suoi giudizi retti e per la sua equità nel governo della terra. Nella parte finale del componimento salmico, la comunità orante si rivolge a Dio con l'auspicio che tutti i popoli possano corrispondere al dono della benedizione con la preghiera di lode incessante e con la consapevolezza che egli solo va temuto e onorato perché non v'è altro Signore all'infuori di lui. La lettera ai Galati è stata opportunamente definita il manifesto della libertà in Cristo: mentre è impegnato ad annunciare il Vangelo a Corinto o a Efeso, tra il 54 e il 58 d.c., Paolo è informato dell'incipiente apostasia che rischia di coinvolgere la cristianità galata di origine gentile, tentata di accogliere la proposta di un gruppo di missionari itineranti, di origine giudaica, sottomettendosi alla legge mosaica e accettando di farsi circoncidere per rendere più piena la loro adesione a Cristo. l'apostolo decide pertanto di rivolgersi ai Galati per ribadire che essi, in virtù della loro adesione di fede, non hanno bisogno di praticare le opere richieste dalla Legge poiché hanno già ottenuto la giustificazione (Gal 2,16) e sono divenuti figli di Dio (3,26). La figliolanza abramica. Il brano di Gal 4,4-7 costituisce l'epilogo della seconda dimostrazione (3,1-4,7) con la quale Paolo intende convincere i suoi destinatari che figliali Abramo si diventa mediante lo Spirito e la fede in Cristo. Ad Abramo è connessa la promessa della benedizione divina estesa a tutte le genti: «se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di

Abramo, eredi secondo la promessa» (3,29). Tutto ciò è stato reso possibile mediante la libera iniziativa di Dio che, quando stabilì che fosse maturo il tempo della salvezza, inviò il suo Figlio (4,4a). La formula d'invio che segue (4,4b-5) presenta una composizione chiastica, in cui gli elementi si corrispondono in forma incrociata: il Figlio che il Padre ha inviato è a) nato da donna, b) nato sotto la Legge, b 1 ) per riscattare coloro che erano sotto la Legge, a') perché ricevessimo l'adozione a figli. Figli di Dio per le fede in Cristo. Le corrispondenze sono antitetiche e sortiscono un effetto paradossale: colui che è nato da donna, nella fragilità della condizione umana, dona all'umanità intera la possibilità di divenire figli adottivi di Dio (hyothesía) mediante la fede in lui (cfr. Rm 8,15; Ef 1,5). Accettando d'incarnarsi nel grembo di Maria, egli entra a far parte della storia del popolo d'israele, sottomettendosi anch'egli alla legge mosaica; essere sottoposti alla legge equivale a trovarsi sotto la minaccia della maledizione, che si abbatte su tutti coloro che non la osservano (Dt 27,26 citato in Gal 3,10). Tuttavia, con la sua morte in croce, Cristo riscatta (il verbo exagorázō era utilizzato nel lessico commerciale per indicare la compravendita degli schiavi al mercato cittadino) tutti coloro che erano prigionieri della maledizione della legge (cfr. Gal 3,13-14). Per mezzo dello Spirito, intimi con il Padre. La benevolenza divina non si esaurisce con l'invio del Figlio: la missione dello Spirito non si giustappone, ma conferma lo statuto filiale dei credenti, interpretando la formula introduttiva di Gal 4,6 in senso dichiarativo piuttosto che causale (cfr. Rm 8,15-17). In sostanza lo Spirito non è donato perché essi sono figli, ma la sua effusione nei cuori attesta che essi scno divenuti figli per mezzo di Cristo. È la conferma che i credenti, uniti a Cristo, sono introdotti nella piena comunione con Dio e possono rivolgersi a lui con il titolo aramaico di Abbà (Rm 8,15; Mc 14,36), con il quale si era soliti rivolgersi in tono familiare al padre sia da parte dei bambini che degli adulti. La condizione filiale esclude che il credente possa concepirsi e vivere da schiavo (Gal 4,7): concludendo la sua argomentazione, Paolo afferma che il cristiano non deve sottomettersi al giogo della legge e della circoncisione per ché, in quanto figlio, è divenuto a pieno titolo erede del patto di alleanza che Dio ha stabilito con il suo popolo. Delineiamo il percorso proposto dalle letture: Maria è descritta dal vangelo come colei che «custodiva tutti questi eventi meditandoli nel suo cuore». Mentre lo stupore è il primo effetto dell'incontro con Dio, la fede richiede un cammino di interiorizzazione che trova nel cuore lo spazio per l'accoglienza del mistero che si fa vita: così Dio prende dimora in mezzo a noi e può rigenerare l'umanità. Maria non si ferma alla superficie degli eventi, ma li custodisce e li trasforma in vissuto, ne comprende il senso e ne vive l'efficacia, accettando continuamente la fatica del confronto e del discernimento. Nel vangelo Maria tiene insieme dentro di sé i segni della potenza e della povertà, la grandezza di Dio e la fragilità dell'uomobambino, diventando così autentico modello del credente. La prima lettura ci orienta a invocare su di noi la benedizione di Dio: il volto del Signore si mostri come grazia e forza a chi in lui confida. Nella seconda lettura ci è ricordata l'adozione a figli come dono dello Spirito e principio di una relazione che trasforma la vita del vero credente. 3

Commento al vangelo: Il primo giorno dell'anno civile da vari anni si celebra in tutto il mondo la giornata della pace nel nome di Maria, madre di Dio e madre della Chiesa. La pace (= šālôm) è il dono messianico per eccellenza che Gesù risorto ha portato ai suoi discepoli (cfr. Gv 20,19-21 è la salvezza degli uomini e la riconciliazione definitiva con Dio. Ma la pace di Cristo è anche la pace dell'uomo, ricca di valori umani, sociali e politici, che trova il suo fondamento, per dirla con la Pacem in terris di GIOVANNI XXIII, nelle condizioni di verità, di giustizia, di amore e di libertà, che sono i quattro pilastri su cui si regge la casa della pace. La costante benedizione di Dio nella prima alleanza, l'azione di Cristo svolta a vantaggio dell'intera umanità e di ogni singolo componente, lo stesso nome dato a Gesù, che ne evoca la missione di salvatore, sono tutti eventi orientati nella linea della pace, dell'alleanza, della fraternità. Dio non ha creato l'uomo per la guerra, ma per la pace e la fraternità. Il male in tutte le sue molteplici forme si contrasta solo con una costante educazione alla pace. Quella pace che la Vergine Maria, Regina della pace, ci può ottenere dal Padre: la šālôm biblica viene da Dio ed è legata alla giustizia. La radice della pace, nondimeno, risiede nel cuore dell'uomo, cioè nel rifiuto dell'idolatria, perché non c'è pace senza vera conversione, non c'è pace senza tensioni (cfr. Mt 10,34). La pace di Cristo non è come quella del mondo, perché quella di Gesù esige che ci si allontani dalla mentalità mondana. Con la venuta di Cristo la pace è offerta ad ognuno di noi, perché nasce dal cuore di Dio che è amore. Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi, donaci il tuo Spirito, perché tutta la nostra vita nel segno della tua benedizione si renda disponibile ad accogliere il tuo dono. 4

Epifania del Signore 06 gennaio 2019 La luce brilla sulla terra perché Dio ha posto la sua dimora tra gli uomini e nel suo Figlio Gesù ha manifestato il suo luminoso volto a tutti gli uomini. Il Cristo è l'irradiazione della luce eterna divina: luce che illumina e rischiara il cammino dell'uomo, affinché non brancoli nelle tenebre e nel buio. L'oracolo è parte integrante della terza sezione del libro di Isaia, definito dagli studiosi Trito-Isaia, che si presenta come una raccolta composita, attribuibile a una pluralità di autori. Il testo di Is 60,1-6 è databile attorno al VI secolo a.c., nell'epoca del post-esilio babilonese, in continuità con il messaggio di speranza e di consolazione trasmesso dal Deutero-Isaia (Is 40-55). Una ricostruzione storica e religiosa più puntuale degli eventi che fanno da sfondo alla profezia isaiana è tuttavia problematica, per l'assenza di riferimenti a circostanze e personaggi. La gloria luminosa di Dio brilla su Gerusalemme. Il messaggio è rivolto a Gerusalemme, anche se non è espressamente menzionata; in Is 51,17 la città santa, dopo aver bevuto il calice dell'ira divina, sarà riscattata da Dio. Non sarà più oggetto di vituperio tra le genti, e potrà indossare gli abiti sontuosi che si addicono a una regina (52,1). Essa non è più prostrata nella polvere a causa dei suoi oppressori; può e deve rialzarsi (60,1) dall'umiliazione patita perché è stata riscattata. La luce scintillante. Il vestito che si addice alla nuova condizione di Gerusalemme è scintillante di luce ('ôr); il Signore è la luce che dà salvezza (Sal 27,1) e rialza chiunque è caduto (Mi 7,8). La sua presenza gloriosa (kābôd) brilla e avvolge il luogo che ha scelto per sua dimora; è l'aurora di un nuovo inizio, di un avvenire non più contrassegnato dalla violenza e dalla sopraffazione, ma dalla pace e dalla salvezza. Al v. 2 si enfatizza il contrasto fra le tenebre e la nebbia, che obbligano a una condizione di oscurità le nazioni straniere, e la gloria luminosa che risplende sulla città di Dio. Gerusalemme diviene un faro luminoso per tutte le genti: verso di essa si mobiliteranno i popoli attratti dalla sua luminosità (v. 3a). Anche i re saranno affascinati dalla luminosità che promana dalla città eletta, e non indugeranno a recarsi presso di essa (v. 3b). Lo sguardo fiero. La città santa è invitata a levare in alto il suo sguardo (v. 4), segno di fierezza e di orgoglio, per contemplare dall'alto l'avanzare in pellegrinaggio delle nazioni che, guidate dai loro capi, vengono da lei. In mezzo ad esse anche i figli e le figlie di Gerusalemme: su preciso ordine divino, quanti avevano gustato il calice amaro della deportazione e dell'esilio sono ricondotti in patria fra le braccia di coloro che li avevano resi schiavi (Is 43,6; 48,18.22). Il pellegrinaggio delle nazioni. I popoli che l'avevano im poverita riverseranno nel suo grembo le loro ricchezze che proverranno dal mare, dal lato occidentale (v. 5); dall'oriente e dall'egitto si snodano carovane di cammelli che, attraversando le zone desertiche del Sinai e della Siria, giungono insieme ai dromedari provenienti da Madian, Efa e Saba per portare oro e incenso e dare gloria a Dio (v. 6). L'omaggio delle nazioni sim boleggia il riconoscimento della regalità di YHWH, che si estende oltre i confini d'israele, e la sua divinità, senza eguali. 5

S a l m o r es p o n s o r i a l e Sa171 (72) Ti adoreranno Signore, tutti i popoli della terra. Presumibilmente composto in epoca postesilica, il Salmo 71 suppone ancora esistente l'istituzione monarchica e proietta nella figura del sovrano, Salomone, le attese messianiche di un popolo desideroso di ritornare in patria e di riscattare la sua condizione miserevole. Sul re s'invoca la benedizione divina perché possa governare il popolo affidatogli, avendo particolare cura degli umili e dei poveri, i cui diritti rischiano di essere lesi vivendo ai margini della vita sociale e religiosa, esposti ad abusi e vessazioni. L'orante auspica l'avvento di giorni in cui il re atteso possa garantire la giustizia e la pace, estendendo il suo dominio in linea temporale («finché la luna non si spenga») e spaziale («da mare a mare, fino ai confini della terra»). La sua regalità universale sarà omaggiata dai tributi e dai doni che affluiranno alla sua corte come segno di sottomissione da parte di tutte le genti (cfr. Is 60,6.9-10.14). Tuttavia, l'impegno principale del re non consiste nell'accumulare tesori e riconoscimenti, ma nel chinarsi sul misero e sul povero, che si rivolgono a lui per ottenere ciò che altri negano loro: l'aiuto e la salvezza. La straordinaria e singolare novità della rivelazione cristiana consiste nell'estensione dell'offerta della salvezza a tutte le nazioni. Non si tratta più di un dono riservato a un popolo, Israele, ma è concesso anche ai gentili in virtù di Gesù Cristo. Non è un privilegio per tutti, ma una vocazione che interpella tutti. Il brano della seconda lettura odierna appartiene alla lettera agli Efesini, la cui paternità è attribuita, quasi unanimemente dagli studiosi, a un discepolo di tradizione paolina che, intorno all'80 d.c., compose uno scritto destinato a essere proclamato nelle comunità dell'asia Minore evangelizzate dall'apostolo Paolo. La pericope proposta all'ascolto dell'assemblea liturgica è inserita nel quadro della sezione più ampia dedicata alla descrizione dello statuto ministeriale paolino in relazione alla comunità ecclesiale (Ef 3,1-12). Paolo e il ministero della grazia. L'affermazione del v. 2 lascia intendere che i destinatari della lettera non abbiano in contrato personalmente l'apostolo; s'ipotizza, tuttavia, che essi siano informati in merito al suo ministero che egli ha svolto tra i gentili (3,1), divenuti «concittadini dei santi e familiari di Dio» per mezzo del sangue di Cristo (2,19). La missione paolina tra i pagani è descritta come «ministero della grazia di Dio»; il termine oikonomía ricorre in un contesto analogo in Col 1,25 ed esprime il senso di «amministrare», «dispensare». Il ministero che Paolo è stato chiamato a svolgere tra i gentili è, anzitutto, dono della grazia (cháris) che Dio gli ha affidato (cfr. 1 Cor 9,17); ma esso stesso è fonte di grazia, perché comunica la buo na notizia della salvezza anche ai gentili. 6

Il mistero rivelato. Al v. 3 si esplicita il contenuto della grazia di cui Paolo è divenuto depositario e banditore per mezzo di una rivelazione divina: il termine mystérion fa riferimento non ad una realtà misteriosa e inafferrabile, bensì al disegno di Dio (1,9-10) e alla sua insondabile sapienza (3,10). Il contenuto del mistero divino, tenuto nascosto agli uomini delle precedenti generazioni, è stato manifestato agli apostoli e ai profeti (cfr. Col 1,26), tra cui Paolo colloca se stesso, su precisa disposizione divina, come conferma la duplice ricorrenza del verbo ghnōrízō in forma di passivo divino ai vv. 3 e 5 e il riferimento all'azione efficace dello Spirito Santo. L'apostolo non è interessato a chiarire le motivazioni dell'agire divino; nella sua insondabilità, Dio è libero di agire in maniera sovrana, stabilendo i tempi e le circostanze che segnano il corso della historia salutis. La possibilità della salvezza per tutti. L'oggetto del mistero rivelato a Paolo è esplicitato al v. 6: coloro che erano ritenuti estranei e lontani (2,12-13), i gentili, hanno ottenuto la possibilità di accedere alla salvezza. Non si tratta di una giustapposizione che tende a rimarcare la marginalità dei pagani rispetto ai giudei; a tal proposito, l'autore della lettera allinea tre predicati differenti che esprimono lo stesso concetto già espresso in 2,13-22: nel sangue di Cristo Gesù e per mezzo dell'annuncio del suo evangelo, essi sono divenuti «coeredi», «concorporati» e «compartecipi». Pertanto, le genti sono chiamate a condividere già nel tempo presente i beni salvifici (synklēronóma); l'inserimento a pieno titolo nel corpo ecclesiale è segnalato dall'uso del neologismo sýnsōma, con il quale s'intende ribadire che giudei e gentili formano «una cosa sola» (2,14), «un solo uomo nuovo» (2,15), «un corpo solo» (2,16). Le due entità etniche condividono (synmétocha), infine, la medesima promessa di salvezza, che perviene al suo compimento nella morte e risurrezione di Cristo. Delineiamo il percorso proposto dalle letture: I "magi" che si presentano a Betlemme precisano lo scopo che li ha spinti fin lì con queste parole: «siamo venuti per adorarlo». Il bambino Gesù viene da loro riconosciuto come l'atteso: egli è la "terra promessa" dove i rappresentanti dell'umanità approdano con gioia. Alla vista del bambino e di sua madre essi si prostrano: è l'atteggiamento con il quale i supplici e gli apostoli si rivolgono a Gesù, riconoscendo in lui la presenza di Dio. II vangelo della "epifania" di Gesù, ossia della sua manifestazione, ricorda a tutti i credenti chela fede è un cammino: il Signore è sempre all'opera nella storia umana e indica il percorso da seguire per incontrarlo. A noi è chiesta attenzione e disponibilità. Nella prima lettura la città santa, simbolo dell'umanità, è invitata a levare in alto lo sguardo per contemplare il pellegrinaggio delle nazioni verso la loro salvezza. La seconda lettura presenta la missione di Paolo, apostolo delle genti, come «ministero della grazia di Dio»: la salvezza infatti non è conquista dell'uomo, ma dono. 7

Commento al vangelo: Epifania vuol dire 'inanifestazione' e la parola di Dio in questa solennità è tutta incentrata su Gesù messia, re e salvatore universale dei popoli. Egli non è venuto solo per Israele, ma anche per i pagani, cioè per tutta la famiglia umana. La venuta dei Magi è l'inizio dell'unità delle nazioni, che si realizzerà pienamente nella fede in Gesù, quando tutti gli uomini si sentiranno figli dello stesso Padre e fratelli tra di loro. I Magi, quali primi uditori e testimoni del Cristo, sono tipo e preludio di una più grande moltitudine di 'veri adoratori', che costituirà la messe spirituale del tempo messianico. Gesù è il seminatore, che ha portato il buon seme della Parola per tutti; lo Spirito ha fatto maturare il seme e la Chiesa è invitata a raccogliere il frutto abbondantemente seminato con la rivelazione di Gesù e fecondato con la sua morte. Come dalla vita di comunione e di amore tra il Padre e il Figlio è derivata la missione di Gesù, così dall'intimità tra Gesù e la Chiesa scaturisce la missione dei discepoli, che è quella di creare l'unità tra razze, popoli e lingue. È la Parola che crea l'unità nell'amore tra i credenti di tutti i tempi. Per mezzo di essa nasce la fede e si stabilisce nel cuore dell'uomo aperto alla verità un'esistenza vitale in Dio, che rende l'uomo contemporaneo appartenente a Cristo. A coloro che lo cercano con cuore sincero, Gesù offre unità nella fede e nell'amore. In questo ambiente vitale 'tutti' diventano 'uno' nella misura in cui accolgono Gesù e credono alla sua parola: «Saremo una cosa sola non per poter credere, ma perché avremo creduto» (SANT'AGOSTINO). In Gesù tutti possono essere una cosa sola e scoprire che la pienezza di vita è donarsi al Cristo e ai fratelli, e questo è amare nell'unità. O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che già ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria. 8

Battesimo del Signore 13 gennaio 2019 Il mistero del Natale non si esaurisce nell'incanto del Figlio di Dio che si fa volto tenero e carne indifesa in Gesù di Nazaret, ma invita a contemplare l'opera salvifica del Padre che raduna i suoi figli dispersi, come fa un pastore con il suo gregge, e dona loro consolazione. L'attività profetica del Deutero-Isaia (Is 40-55) si colloca nel VI secolo a.c., tra la fine del dominio babilonese e l'ascesa del regno persiano guidato da Ciro. È possibile che il profeta abbia vissuto tra gli esiliati in terra di Babilonia, contribuendo a diffondere il messaggio di consolazione che Dio rivolge agli esuli affinché non perdano la speranza di rientrare in patria. Consolate. Il brano rappresenta l'inizio del libro della consolazione: se negli oracoli della sezione precedente (Is 1-39) prevale un tono di condanna e di minaccia nei confronti del popolo, che ha abbandonato Dio per volgersi alle divinità straniere (Is 1,4), e anche di Gerusalemme, che da città fedele si è mutata in un covo di assassini (1,21), la nuova sezione si apre con un appello pressante da parte di Dio a recare consolazione al suo popolo (40,1). Il verbo nḥm denota l'atto di consolare, esprimere vicinanza e solidarietà nei confronti di chi sperimenta il dolore e la sofferenza, di ordine fisico o morale, e cerca un senso per la sua vita. In Is 12,1 è Dio stesso che consola il suo popolo e dona salvezza, dopo che la sua collera si è placata. Parlare al cuore di chi soffre. Gli interlocutori a cui YHWH si rivolge sono invitati a parlare al cuore (léb) di Gerusalemme (Is 9 40,2): il registro della tenerezza non è sdolcinato afflato amoroso, ma desiderio di far conoscere all'amata (Is 49;51-52;54) che il tempo della sofferenza è ormai terminato. Le conseguenze della sua colpevole trasgressione ('āwōn) sono state scontate, così come il vassallaggio ( ṣābā) nei confronti del popolo che l'opprimeva come schiavo è ormai un ricordo passato. Si intuisce che la sofferenza patita dagli israeliti è conseguenza dei peccati commessi contro il Signore. Una voce nel deserto. Una voce, probabilmente quella del profeta (cfr. Is 1,20; 30,2; 58,14), riceve l'incarico di recare l'annuncio dell'imminente salvezza operata da Dio (Is 40,3): nel deserto va preparata la via (derek) al Signore e spianata nella steppa la strada (m e sillāh) per il passaggio

di Dio. Occorre che ogni valle sia innalzata, i monti e i colli siano abbassati, mentre il terreno accidentato sia reso percorribile (v. 4): bisogna creare le condizioni necessarie da un punto di vista spaziale e spirituale perché YHWH possa condurre il suo popolo alla salvezza. Le immagini del deserto e della steppa evocano il cammino che i deportati hanno dovuto percorrere abbandonando tra le lacrime la loro patria; tuttavia, costituiscono anche un richiamo alle tappe che hanno preceduto l'arrivo degli israeliti nella terra promessa. Quello descritto da Isaia è un nuovo esodo: se l'uscita dall'egitto era stata contrassegnata da segni prodigiosi operati da Dio, come il passaggio del Mar Rosso (Is 11,15-16; 43,16-21; 51,10; 61,11-13), l'acqua miracolosa (48,21), la nube luminosa (52,12), compiuti da Dio alla presenza degli ebrei e degli egiziani, ora la gloria del Signore si paleserà al cospetto di tutti gli uomini (Is 40,5). La buona notizia della liberazione imminente. Il profeta è inviato in qualità di araldo di buone notizie (v. 9), destinate a rallegrare il cuore di Sion, il monte dove si celebrerà il banchetto messianico (1s 25,6-12), di Gerusalemme, la città forte che Dio ha scelto per manifestare la sua salvezza (Is 26,1-6), di Giuda. Il verbo ebraico bāśār, «recare notizia», «informare», è tradotto nel testo dei LXX con euanghelízomai, «diffondere notizie buone»: è una buona notizia che va annunciata con tono forte e solenne, senza temere la minaccia degli avversari perché il Signore viene con potenza e il suo braccio destro instaura un nuovo dominio che non potrà essere contrastato (v. 10). Il pre mio è la liberazione del suo popolo oppresso in catene; la ricompensa è il ritorno trionfale in patria. La sollecitudine di Dio. Al simbolismo bellico del v. 10 corrisponde quello pastorale nel v. 11: la sollecitudine premurosa con la quale Dio si è fatto carico di riportare gli ebrei in patria è paragonabile alla cura che il pastore (rō eh) profonde nel pascolare il suo gregge, radunandolo con il suo braccio. L'immagine degli agnellini e delle pecore madri è il segno della benevolenza divina nei confronti dei più deboli e indifesi. Salmo Responsoriale Sal. 103(104) Benedici il Signore, anima mia. Israele eleva il suo inno di lode a Dio (Sal 103), creatore dell'universo e signore della storia. È una preghiera che nasce dalla contemplazione della grandezza di Dio, che si riflette nel creato, e approda alla lode gioiosa che forante intende rivolgere a Dio durante la sua intera esistenza. Il Salmo 103 inizia con una preghiera di lode e di ringraziamento al Signore, descritto nelle sue prerogative regali, simboleggiate dagli abiti che indossa. 1 richiami alla luce, ai cieli e alle acque creano un effetto di eco con il racconto della creazione primordiale: la regalità di Dio si rivela a partire dalla sua opera creatrice, che introduce armonia in luogo del caos. Le nubi, i venti e i lampi sono descritti come i suoi ministri, incaricati di garantire la sussistenza della terra attraverso il dono dell'acqua.il salmista è ammirato dall'opera che Dio ha disposto con sapienza: la terra è abitata da creature che sono state da lui concepite secondo un disegno armonico e provvidenziale. Allo stesso modo, le acque del mare, tradizionalmente simbolo delle forze caotiche, sono popolate da rettili e pesci che non rappresentano più una minaccia per l'uomo.dio è la fonte della vita: per questa ragione non v'è creatura che non attenda da lui il sostegno necessario nel tempo stabilito. Al gesto divino (provvedere, aprire la mano) corrisponde la reazione 10

delle creature (raccogliere, saziarsi di beni): non si tratta di un'assistenza a senso unico, ma di un dialogo che è trasmissione di vita. Difatti, se il Signore nasconde il suo volto, non v'è più speranza di vita; terrorizzate dalla sua assenza, le creature sono destinate a perire. Se invece egli concede il suo spirito, tutto riprende vita e la terra si rinnova per opera sua. Natale è tempo di doni da scambiare e scartare; eppure, il regalo più grande e prezioso è quello che Cristo ci ha offerto con la donazione di se stesso in vista della nostra redenzione. Per mezzo suo, il Dio misericordioso ci ha rigenerati nelle acque del battesimo, fonte di vita nuova per ogni credente. La lettera a Tito fa parte della corrispondenza epistolare che la tradizione ecclesiale attribuisce a Paolo, anche se la presumibile datazione degli scritti, poco prima della fine del i secolo d.c., lascia intendere che l'apostolo sia già morto. Le epistole indirizzate a Timoteo (1-2 Tm) e a Tito (Tt) sono anche definite lettere pastorali perché rivolte a due collaboratori dell'apostolo, impegnati nella guida delle comunità. In esse sono contenute indicazioni attribuite all'autorità di Paolo con lo scopo di riproporre e attualizzare il suo messaggio, preservandolo da derive eterodosse che potrebbero rivelarsi distruttive per la vita delle chiese locali. Il brano proposto dalla liturgia odierna abbina due passaggi, Tt 2,11-14 e 3,4-7, che presentano numerose corrispondenze sotto il profilo lessicale e contenutistico: alla manifestazione della grazia (2,11) si ricollega l'epifania della benevolenza di vina (3,4) intese come eventi salvifici (2,11.13; 3,4.6); nell'atte sa che si compia la speranza di entrare nella vita eterna (2,13; 3,7), i credenti, giustificati non in base alle opere legali (3,4), ma riscattati dal peccato (2,14) in virtù della compassione divina (3,5), sono esortati a disporsi a compiere le opere buone secon do i principi e le direttive che essi hanno appreso nel Vangelo. La pedagogia della grazia divina. La grazia divina (2,11) rivelata agli uomini nella pienezza dei tempi non è una realtà trascendente, eterea, ma si fa carne ed evento salvifico in Gesù Cristo per tutti gli uomini. Essa assolve anche una funzione pedagogica (v. 12), con lo scopo di orientare il cuore dei credenti a operare una netta rottura con l'empietà (asébeia), intesa come idolatria e immoralità, e con i desideri mondani (epithymíai), che inclinano il cuore dell'uomo a soddisfare esclusivamente la sua concupiscenza. Il credente invece è chiamato a esprimere, nel tempo presente, uno stile di vita improntato alla prudenza e alla giustizia nelle relazioni con se stesso e con gli altri, coltivando un atteggiamento di sincera adesione alla volontà di Dio. Accogliere la beata speranza. La pedagogia divina lo spinge, pertanto, a non conformarsi all'empietà, bensì ad accogliere la «beata speranza», espressione con la quale s'identifica Cri sto stesso che ritornerà nel tempo stabilito per manifestare in pienezza la gloria di Dio (v. 13). Egli, inoltre, redento da Cristo che ha dato se stesso per riscattare il genere umano dalla schiavitù del peccato, è inserito nel popolo della nuova alleanza che esprime nella pratica delle opere buone la sua adesione piena e incondizionata al Vangelo. La formula cristologica richiama il senso dell'esistenza nella linea del dono e del riscatto: la croce è il punto più alto della donazione che Cristo fa di se stesso al Padre ed è salvezza per l'intera umanità. La filantropia di Dio. La salvezza è anche concepita come la benevola disponibilità divina nei confronti degli uomini (Tt 3,4): in maniera originale Dio è descritto come un «filantropo» che si prende a cuore la sorte degli uomini e, in Gesù Cristo, opera la redenzione non in base alle opere giuste praticate se condo la giustizia umana, ma per un atto di pura misericordia (éleos) divina (3,5a). Segue la descrizione della portata salvifica della 11

compassione: l'acqua che rigenera nello Spirito Santo è un riferimento alla prassi battesimale che decreta il passaggio alla vita nuova nella comunità dei credenti (3,5b). Lo Spirito è dono effuso dal Padre con abbondanza per mezzo del suo Figlio (3,6; cfr. Gv 3,5): esso è fonte di salvezza e consente all'uomo di vivere il tempo presente riconciliato con Dio, nell'attesa di essere ammesso alla comunione piena con lui nella vita eterna (3,7). Delineiamo il percorso proposto dalle letture: II "mistero" del Natale non si ferma alla contemplazione del fragile Bambino del presepe, ma conduce a riflettere sulla missione del Figlio inviato dal Padre a salvare l'umanità. L'inizio della vita pubblica di Gesù di Nazaret, nel battesimo al Giordano, apre la strada alla conoscenza del mistero della "incarnazione": il Figlio si è fatto uomo soltanto per amore. In lui, Figlio amato, il Padre rivela il suo amore per tutti i figli amati della umanità, e attraverso di lui ristabilisce di continuo il "dialogo" che viene pure di continuo rotto con il loro peccato. Gesù viene battezzato da Giovanni: il vangelo sottolinea la solidarietà di Gesù con l'umanità peccatrice. II frutto di questa permanente solidarietà sarà possibile anche per noi solo se si radicherà in una solidarietà con Dio, vissuta nella fede battesimale. La prima lettura racconta di un popolo che torna dall'esilio e vive una seconda liberazione. Perfino il deserto diventa luogo in cui si sperimenta la consolazione di Dio, che si traduce in vicinanza e guida. Della 'filantropia" di Dio parla pure la seconda lettura: in essa il battesimo cristiano è presentato come «un'acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo». Attraverso questacqua siamo resi giusti, per diventare nella speranza «eredi della vita eterna». Commento al vangelo: La missione principale della Chiesa nel mondo di ieri e d'oggi è quella di annunciare la 'buona novella' di Gesù: è l'evangelizzazione (cfr. Mc 16,15-18). La situazione particolare e del tutto imprevedibile in cui il mondo e la Chiesa si trovano, ma in particolare le nuove esigenze che in questo terzo millennio sempre più urgono, fanno sì che la missione evangelizzatrice della Chiesa richieda un progetto di pastorale originale e organico per rispondere alle sfide dell'uomo moderno. In ogni caso, tuttavia, il cuore dell'evangelizzazione rimane l'annuncio chiaro e completo della persona e della vita di Gesù, della sua dottrina e del Regno che egli annuncia con il suo mistero pasquale: Gesù Cristo crocifisso, morto e risorto. Il volto di Gesù che ogni cristiano deve annunciare con la parola e con la vita è il volto umano del Figlio di Dio e il volto divino dell'uomo Gesù. L'incontro personale con il Signore produce sempre segni di grande rinnovamento spirituale e umano, per cui ci si sente spinti a partecipare, condividendola, e a donare agli altri l'esperienza di questo incontro esaltante. La testimonianza di vita poi produce quasi sempre un incontro ulteriore, perché anche altri incontrino personalmente Gesù e la sua Parola. Il Signore rimane il Vivente nella vicenda umana, l'unico Salvatore di tutto l'uomo e il Signore della storia che agisce con il suo Spirito di vita. Per tutti incontrare Cristo è accogliere il suo amore gratuito, aderire al suo progetto, abbracciare il suo destino e annunciare il regno di Dio, specie ai poveri e a coloro che non hanno speranza in un futuro: per costruire così una società giusta e solidale. Padre d'immensa gloria, tu hai consacrato con potenza di Spirito Santo il tuo Verbo fatto uomo, e lo hai stabilito luce del mondo e alleanza di pace per tutti i popoli; concedi a noi che oggi celebriamo il mistero del suo battesimo nel Giordano, di vivere come fedeli imitatori del tuo Figlio prediletto, in cui il tuo amore si compiace. 12

II Domenica del tempo ordinario 20 gennaio 2019 Per cogliere il significato della prima lettura occorre anzitutto ricostruire, almeno a grandi linee, il contesto storico-letterario in cui tale brano è stato composto. L'autore della pericope è comunemente identificato dagli esegeti come «Terzo-Isaia», un profeta che, nel solco della tradizione isaiana, operò e scrisse a Gerusalemme nel periodo post-esilico (probabilmente tra il 639 e il 460 a.c.). I trattati di storia insegnano che non dovette trattarsi di un tempo facile. Dopo l'entusiasmo iniziale, i rimpatriati nella terra di Giuda si trovarono costretti a fare i conti con gli abitanti che nel frattempo si erano insediati al loro posto e, soprattutto, con la pratica di un culto ridotto a riti esteriori non esenti da influssi pagani, il tutto condito da notevoli discriminazioni e ingiustizie sul piano sociale.dinanzi alla tentazione dello scoraggiamento e della sfiducia, il messaggio del «Terzo-Isaia» suona come un poderoso invito alla speranza e all'ottimismo. L'esperienza dell'esilio aveva infatti costituito un vero e proprio enigma per il popolo (cfr. Is 54,7), provocando non poco turbamento. Il profeta perciò esulta nell'annunciare che il Signore è uscito dal suo silenzio, manifestando ancora una volta il suo amore misericordioso nei confronti del popolo eletto. Di conseguenza, quella che a motivo dell'infedeltà di Israele era divenuta una terra «abbandonata» e «desolata», ora è di nuovo «sposata», oggetto del compiacimento di Dio che la chiama con un nome nuovo e la contempla come un diadema regale nella sua mano. La metafora sponsale non è nuova nella letteratura profetica. Anche Osea (l; 3), il Primo Isaia (5,1-7), Geremia (3,1-2), Ezechiele (16; 23) ne fanno ampiamente uso, prevalentemente con una sfumatura negativa, per denunciare il tradimento idolatrico di Israele. L'elemento di novità è dato dal fatto che il messaggio del Terzo-Isaia è permeato da un notevole ottimismo: grazie all'amore e alla fedeltà di Dio, la sposa è sorprendentemente ristabilita nella sua purezza e verginità originarie, oggetto della delizia e della gioia dello sposo divino. L'ottimismo del messaggio profetico sfocia inevitabilmente in un'esclamazione di gioia: «sarai chiamata Mia Gioia... come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te». Ovviamente non si tratta di un sentimento superficiale, ma di una gioia profonda, espressione dell'amore di Dio che, unico, è in grado di riportare vita e speranza là dove sembravano regnare morte e disperazione. «Novità», «gioia», «amore sponsale» sono pertanto i t emi dominanti di questa splendida pagina dell'antico Testamento, temi che troveranno una singolare applicazione proprio nel racconto delle nozze di Cana, contenuto del vangelo dell'odierna liturgia. 13

Salmo responsoriale S a l 9 5 ( 9 6) Annunciate a tutti i popoli le meraviglie del Signore. Il Salmo 95 è un inno alla regalità di Dio. Si tratta di una composizione unitaria, sebbene raccolga espressioni che ricorrono in altre preghiere più antiche (ad es., Sal 33,3; 98,2; 105,1; 29,1-3). Probabilmente il salmo venne composto nel periodo post-esilico e quindi si rivela particolarmente adatto ad esprimere i sentimenti di gioia e gratitudine per la liberazione e la salvezza ritrovate. Il salmo si apre con un ripetuto invito alla lode, di cui si sottolinea la «novità»: innegabili, a questo proposito, sono gli echi tipici del Secondo-Isaia (cfr. ls 42,10), laddove il profeta invita il popolo a celebrare la salvezza messianico-escatologica ottenuta grazie al sacrificio del Servo del Signore (cfr. Is 42,1 ss.). Nella seconda strofa del salmo è bene notare la sequenza dei verbi «annunciare» «narrare» «dire»: la lode scaturisce dall'esperienza storica della liberazione e si esprime anzitutto nel raccontare le azioni salvifiche di Dio, di cui Israele ancora una volta è stato beneficiario (cfr. Is 40-55; Sal 126). Particolarmente significativo è il verbo «annunciare», la cui radice ebraica b g r viene tradotta nei Settanta con euanghelizesthai. È importante rilevare che destinatari di questo lieto annuncio non sono solo gli israeliti, ma tutti i popoli, coerentemente con la prospettiva universalistica di Is 18,7; 66,18-19. Nella terza e quarta strofa, dopo aver celebrato l'universalità dell'agire salvifico di Dio nei confronti dell'umanità intera, ne viene particolarmente esaltata la provvidenza che sorregge il mondo (versetto omesso dalla liturgia, ma molto importante per la teologia!) e la giustizia («giudica le nazioni con rettitudi- ne»). È certamente difficile spiegare in poche parole il concetto di «giustizia». Possiamo però affermare, anche alla luce della prima lettura, che «giustizia» indica una situazione di benessere che si viene a creare in virtù della grazia rigenerante di Dio. Nei capitoli 12-14 della prima lettera ai Corinzi, Paolo affronta il delicato problema della diversità dei carismi all'interno della comunità cristiana. Con molta probabilità i neo-convertiti di Corinto si erano lasciati entusiasmare oltremodo dalla molteplicità e dalla ricchezza delle manifestazioni dello Spirito, attribuendo eccessiva importanza a quelle più appariscenti e ricercando spesso il proprio vantaggio personale. Paolo è perciò costretto a intervenire per fare chiarezza e riportare ordine in una situazione che, paradossalmente, avrebbe inasprito le divisioni già presenti anziché sanarle. Analizzando più da vicino i vv. 4-11, occorre anzitutto notare la distinzione, al v. 4, tra «carismi», «ministeri» e «attività». I «carismi» sono doni di grazia legati all'azione dello Spirito; i «ministeri» sono invece espressione del servizio che deve caratterizzare i rapporti tra i membri della comunità, sul modello di Gesù che è venuto per servire 14

e non per essere servito (cfr. Mt 20,28; Mc 10,45; Lc 22,27); infine, le «attività» rimandano all'azione operosa ed efficace, riflesso dell'opera creatrice del Padre. Paolo individua così l'origine dei diversi doni non nei membri che compongono la comunità, ma nel mistero di Dio Uno e Trino. Forse, più che di «diversità», sarebbe meglio parlare di una «complementarità» che scaturisce direttamente dalla libera volontà di Dio, come suggerisce il v. 11, dove leggiamo: «distribuendole a ciascuno come vuole». Sarebbe però un errore ritenere che Dio operi discriminazioni all'interno della comunità (cfr. l'ulteriore sottolineatura al v. 6b: «è lo stesso Dio che opera tutto in tutti»). La molteplicità dei carismi è piuttosto da intendersi in funzione dell'edificazione reciproca, come ribadisce il v. 7: «a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune», dove per bene comune si intende il bene della comunità ecclesiale. I diversi carismi. Nei vv. 7-10 abbiamo un'esemplificazione dei diversi carismi presenti all'interno della comunità di Corinto. Li commentiamo brevemente. Anzitutto Paolo menziona il «linguaggio di sapienza» e il «linguaggio di conoscenza» (v. 8): le due espressioni possono essere considerate sinonime e alludono all'ispirazione dello Spirito di Dio, il quale consente di penetrare nel mistero di Dio (conoscenza) e di comunicarlo ai fratelli (sapienza). Per quanto riguarda la fede (v. 9), l'apostolo non intende certo riferirsi all'accoglienza del Vangelo possibilità data a tutti ma, con tutta probabilità, intende quella fede capace di operare miracoli (cfr. 1 Cor 13,2b: «... se possedessi tanta fede da trasportare le montagne»; cfr. Mc 11,23; Mt 17,20), come conferma il prosieguo del versetto, dove si parla appunto del «potere di fare miracoli», da intendersi come capacità di guarire i malati nel corpo e nello spirito. Paolo parla poi del carisma della profezia che, come mostrerà il cap. 14, non allude alla capacità di predire il futuro, ma alla forza e alla credibilità con cui alcuni membri della comunità sono chiamati ad esortare, scuotere, confortare i fratelli in Cristo. Considerato l'interesse dedicato nei paragrafi precedenti ai fenomeni estatici, cui, come abbiamo già ricordato, i Corinzi rischiavano di attribuire eccessiva importanza, non stupisce che l'apostolo annoveri tra i carismi il «discernimento degli spiriti», ovvero l'arte di smascherare le false manifestazioni erronea mente attribuite allo Spirito di Dio. Infine viene menzionata la glossolalia, carisma che doveva affascinare maggiormente i cristiani di Corinto. Dalla lettura globale della prima lettera ai Corinzi si evince che Paolo non attribuiva grande valore a tale carisma, soprattutto perché la maggior parte dei membri della comunità non ne traeva alcun profitto in termini di comprensione e edificazione (cfr. 1 Cor 14,2: «chi infatti parla con il dono delle lingue non parla agli uomini, ma a Dio poiché, mentre dice per ispirazione cose misteriose, nessuno comprende»). Questo è anche il motivo per cui Paolo inserisce, tra i doni dello Spirito, anche l'arte di «interpretare le lingue», un dono connesso in maniera inscindibile alla glossolalia, poiché ne consente la decifrazione a beneficio dell'intera comunità (cfr. 14,5). Al termine dell'elenco esemplificativo l'apostolo ribadisce che una sola è la sorgente divina dei carismi, i quali vengono distribuiti da Dio a ciascuno «come vuole». Come abbiamo già avuto modo di ricordare, viene sottolineata la totale libertà di azione dello Spirito, che ripartisce i doni secondo gli imperscrutabili disegni della volontà del Padre: «in una parola, più carismi in più beneficiari; molteplici carismi in molteplici possessori. Certo, il testo presenta anche il motivo della pluralità e diversità, ma in primo piano c'è quello della ripartizione più larga. Paolo intende opporsi a ogni tentativo di monopolizzare da parte di pochi privilegiati, con conseguente rivendicazione di posizioni di superiorità all'interno della chiesa» (G. Barbaglio). 15

Delineiamo il percorso proposto dalle letture: Il primo del "segni" che accompagnano la missione di Gesù è stato compiuto in un contesto gioioso di una festa di nozze. A Cana di Galilea Gesù offre un assaggio del regno di Dio che egli annuncia: la trasforma-'ione dell'acqua in vino allude, in un linguaggio chiaramente simbolico, alla "novità" che lui è venuto a portare, e alla gioia di una liberazione. La Legge viene superata dalla Grazia, il tempo messianico della salvezza annunciata trova in lui il suo compimento: nella gioia nasce una nuova comunità! Il racconto del "segno" avvenuto a Cara, secondo il vangelo, vede i discepoli come spettatori dell'evento. Ad essi Maria, la madre, suggerisce: «qualunque cosa vi dica, fatela». È il messaggio che interpella anche noi di fronte a Gesù. Tutto avviene in un clima di gioia pure nella prima lettura, che anticipa il vangelo e dove l'immagine del rapporto tra sposi è usata per descrivere l'amore di Dio: questa relazione sponsale è l'unica in grado di riportare vita e speranza anche là dove sembrano regnare morte e disperazione. Nella seconda lettura Paolo ricorre all'immagine del "corpo" per presentare l'identità vera della comunità cristiana: essa è corpo di Cristo, da lui resa ricca di molti e differenti doni. Commento al vangelo: Tutti i testi di oggi ci parlano della straordinaria novità apportata da Gesù con la sua presenza e la sua azione messianica. Nel `segno' di Cana egli elargisce il vino migliore e inaugura simbolicamente i tempi nuovi voluti da Dio e annunciati dai profeti (cfr. Is 62,15). La grande novità portata da Gesù nel mondo, come attestano i vangeli, è la donazione del suo Spirito, di cui ognuno nella comunità ha una manifestazione a servizio del bene comune, come ci ricorda Paolo. Lo Spirito di Gesù è la fonte viva dell'amore filiale verso Dio e dell'amore fraterno verso gli altri. E questo amore è l'antitesi dell'egoismo che ci rinchiude in noi stessi e ci porta a considerarci il centro dell'universo. Questa è la convinzione evangelica confermata dall'esperienza: senza lo Spirito che ci comunica Gesù noi siamo incapaci di uscire da noi stessi e di aprirci a Dio e agli altri. Siamo perciò vecchi, nel senso evangelico del termine, e rimaniamo ancorati al peccato e alla morte. Come ricorda la Gaudium et spes, chi ci fa 'nuovi' cioè capaci di amare disinteressatamente gli altri è lo Spirito che Dio infonde, mediante Cristo risorto, nel cuore di ogni uomo di buona volontà (GS 22 e 38). Egli ci fa nuovi nel cuore, centro più profondo del nostro essere, adempiendo così le antiche profezie (cfr. Ez 11,19; 36,26). O Dio, che nell'ora della croce hai chiamato l'umanità a unirsi in Cristo, sposo e Signore, fa' che in questo convito domenicale la santa Chiesa sperimenti la forza trasformante del suo amore, e pregusti nella speranza la gioia delle nozze eterne. 16

III Domenica del tempo ordinario 27 gennaio 2019 L'esperienza della conquista di Gerusalemme e della distruzione del tempio ad opera dei Babilonesi (587 a.c.) con la conseguente deportazione della corte regale, dell'aristocrazia e dei sacerdoti costituì un vero e proprio trauma per il popolo di Israele, non solo sul piano politico, ma anche su quello religioso. Tale crisi sollevò una questione assai delicata: essendo venute meno le principali istituzioni, chi avrebbe guidato il popolo lungo le strade della storia, mantenendo salda la sua identità? Alla domanda cerca di rispondere l'autore di 1-2 Cronache e di Esdra-Neemia, altrimenti noto come Cronista. Attraverso una grandiosa sintesi storica, dagli inizi della creazione fino all'editto di Ciro (538 a.c.), il Cronista mostra che, nonostante tutto, il Dio di Israele mantiene salde le redini della storia. Così, dopo la catastrofe dell'esilio, grazie all'editto del re persiano Ciro (538 a.c.), il popolo ebraico poté fare ritorno a Gerusalemme e avviare l'opera di ricostruzione della città e del tempio sotto la guida di Neemia e di Esdra. Neemia, governatore, si occupò principalmente della città e delle sue mura; Esdra, sacerdote, curò maggiormente il ristabilimento del culto del tempio e dell'osservanza della Legge. La prima lettura dell'odierna liturgia, dal cap. 8 di Neemia, narra della "ricostituzione" di Israele sancita dalla proclamazione della Tôrah da parte di Esdra e dei leviti dinanzi al popolo solennemente riunito in devoto ascolto. Per comprendere la centralità riconosciuta alla Legge, non va dimenticato che proprio la Mrah, fedelmente custodita e tramandata dagli esuli in terra straniera, aveva consentito al popolo ebraico di mantenere viva la propria fede e la propria identità culturale e religiosa.dal punto di vista letterario, gli studiosi ritengono che il capitolo 8 di Neemia in origine doveva essere collocato dopo Esd 8,36, laddove si descrive il progetto che i rimpatriati avevano in mente di attuare e che ora, una volta ricostruiti la città e il tempio, trova la sua concreta realizzazione: ridare vita ad uno stato ebraico che abbia nella Tôrah la sua «carta costituzionale» e il suo fondamento stabile. Ciò conduce ad ipotizzare che l'opera dello scriba Esdra avrebbe seguito non preceduto quella del governatore Neemia. Tuttavia, la compenetrazione delle due narrazioni, al di là dell'imprecisione cronologica, lascia trasparire un significato eminentemente religioso: il potere politico, rappresentato da Neemia, e quello religioso, rappresentato da Esdra, sottostanno alla Tôrah, proclamata e interpretata dallo stesso Esdra e dai leviti. Inoltre, va notato che quanto è narrato in Ne 8 pare corrispondere ad una vera e propria liturgia sinagogale, a conferma del 17

fatto che, in epoca post-esilica, la sinagoga era diventata il cuore pulsante della vita religiosa di Israele, luogo privilegiato per la lettura e lo studio della Legge e dei Profeti. La lettura della Legge. Il racconto si apre dunque con la menzione del sacerdote Esdra, inviato in Giudea dal re persiano Artaserse II con il compito di insegnare la Legge di Dio ai rimpatriati dall'esilio babilonese (cfr. Esd 7,14.25-26). Esdra adempie fedelmente il mandato del re, proponendo la lettura di alcune parti fondamentali del Pentateuco, a brani distinti, così da permettere ai leviti di spiegarli al popolo. Probabilmente dovette trattarsi di pericopi adatte alla festa corrente (il primo giorno dell'anno) e all'imminente festa delle Capanne (cfr. Ne 8,13-18). Come è stato notato sopra, nella solenne liturgia della Parola presieduta da Esdra il lettore non fatica a percepire l'eco della lettura sinagogale della Tôórah, il cui scopo è anzitutto quello di riattualizzare l'alleanza sinaitica, come conferma la risposta del popolo: «tutto il popolo rispose: "Amen, amen", alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore» (v. 6). Quindi il narratore prosegue, affermando che «tutto il popolo piangeva mentre ascoltava le parole della Legge». Memoria e pentimento riaffiorano nel cuore degli Israeliti, che da un lato riconoscono la gravità del peccato commesso da loro e dalle generazioni che li hanno preceduti, dall'altro percepiscono ancora una volta la benevolenza e la misericordia di Dio. La solenne proclamazione della parola di Dio consente perciò di sperimentare una vera e propria rinascita, motivo per cui Neemia interviene invitando il popolo a non piangere e a non fare lutto, ma piuttosto a rallegrarsi e a fare festa. L'insegnamento che possiamo trarre da questo racconto ricorda che l'annuncio della parola di Dio infonde nei cuori di chi l'accoglie la forza necessaria per rialzarsi dalle cadute anche le più dolorose e ritrovare la gioia perduta a causa delle miserie e delle infedeltà, come conferma l'esortazione del v. 10: «Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza». Salmo responsoriale Sal 18(19) Le tue parole, Signore, sono spirito e vita. La preghiera di lode contenuta nel Sal 18 scaturisce dalla consapevolezza che Dio si rivela attraverso il creato (vv. 2-7) e il dono della Tôrah (vv. 8-15). La liturgia di questa 3 a domenica del Tempo ordinario propone alla meditazione dei fedeli, in maniera molto opportuna, la seconda parte del salmo (vv. 8-10.15), incentrata sul dono della Legge che, come si è potuto constatare nella prima lettura, a partire dall'epoca post-esilica costituisce il cuore pulsante della fede ebraica. Di fatto si tratta di un vero e proprio inno alla Tôrah, composto secondo una cadenza titanica che contribuisce a mettere in rilievo le caratteristiche essenziali del rivelarsi di Dio. li dono della Legge rinfranca l'anima del credente, confermando che la vera sapienza consiste anzitutto nell'abbandonarsi fiduciosamente alla volontà di Dio, rimanendo in tal modo fedeli alla sua alleanza e vivendo devotamente nel timore del Signore. L'ascolto obbediente della parola di Dio illumina così il cammino dell'uomo e infonde nel cuore quella stessa gioia che il popolo di Israele sperimentò al ritorno dall'esilio, quando riconobbe che, nonostante le tante infedeltà e gli innumerevoli peccati, Dio non era venuto meno alle sue promesse di salvezza. 18

Secondo quanto riferisce il capitolo diciottesimo degli Atti degli apostoli, Paolo fondò la comunità cristiana di Corinto attorno al 51 d.c. Pochi anni dopo compose una lettera per rispondere alle problematiche emergenti che turbavano la giovane comunità. Si tratta perciò di uno scritto occasionale, in cui l'apostolo affronta questioni assai diverse, alle quali risponde sottolineando più volte la centralità del mistero di Cristo per la vita dei singoli e della comunità credente. La lettura odierna risponde ad una difficoltà estremamente delicata: come conciliare tra loro diversità dei carismi e comunione ecclesiale? Evidentemente doveva trattarsi di un problema serio, dal momento che Paolo vi si sofferma per ben tre capitoli (1 Cor 1214). La pericope presa qui in esame riporta l'argomentazione di fondo che servirà all'apostolo per esaltare il primato assoluto della carità su tutti i doni e su tutte le virtù (1 Cor 12,31-13,13). Facendo uso della metafora del corpo, Paolo intende anzitutto sottolineare la solidarietà che necessariamente sussiste tra le diverse membra, anche tra quelle che apparentemente non sembrano essere così importanti o «degne». Si tratta, come dicevamo, di una collaborazione necessaria, anzi vitale, indispensabile per l'armonia e la sussistenza dell'intero organismo. Il culmine dell'argomentazione paolina giunge al v. 27: «Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra». L'affermazione del v. 27 completa quella volutamente lasciata in sospeso nel v. 12: «come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo». Mediante la metafora del corpo composto da molte membra Paolo definisce la realtà soprannaturale della Chiesa in un senso etico e, al tempo stesso, ontologico, come conferma il v. 13, laddove attesta che, in virtù del dono battesimale dello Spirito, tutti appartengono al medesimo corpo di Cristo. Perciò, sebbene all'interno della comunità siano presenti diversi carismi e ministeri (elencati nei vv. 28-30), tutti questi scaturiscono dalla medesima sorgente e non devono assolutamente divenire motivo di contesa o rivalità. Il fatto stesso che si tratti di doni dello Spirito ricorda la loro origine divina e la gratuità con la quale sono stati elargiti. 1 cristiani devono perciò evitare le competizioni e non cedere alla tentazione di sopravvalutare i carismi più appariscenti, come ad esempio il dono di compiere miracoli e guarigioni o il dono della glossolalia. Si noti, a questo proposito, l'ordine gerarchico dei carismi elencati nel v. 28, dove non a caso i carismi più ambiti a motivo della loro spettacolarità sono menzionati per ultimi. Su 19

questa argomentazione, assai persuasiva, si innesta il grandioso inno che Paolo dedica al carisma più grande, al quale tutti devono aspirare e per il quale è lecito gareggiare: la carità (cfr. 1 Cor 12,31-13,13, passo che verrà letto come seconda lettura della prossima domenica), dono e compito primario per l'edificazione e il consolidamento della comunità. Delineiamo il percorso proposto dalle letture: Mediante l'immagine del "corpo" la seconda lettura porta a riflettere sul significato dell'essere comunità: la profonda unione creata dalla fede in Cristo è fondamento anche dei diversi ministeri che in essa si sviluppano e che permettono di porsi gli uni al servizio degli altri. Commento al vangelo: La liturgia richiama la nostra attenzione sul ruolo della Parola, l'ascolto della quale crea comunità. L'ascolto è un atto di fiducia, con il quale ci affidiamo a Colui che riteniamo 'affidabile" nella e per la nostra vita. Per i cristiani è il Padre che Gesù rivela mediante la sua Parola: essa divento la vera parola di Dio, sulla quale possiamo fare affidamento. Essa crea quel legame di comunione, con lui e tra di noi, che ci rende credibili anche di fronte al mondo come suoi testimoni. li vangelo di oggi ci porta nella sinagoga di Nazaret: qui Gesù annuncia!"'oggi" della liberazione, un "oggc che si fa sempre attuale ogni volta che la comunità credente fa memoria di questo evento. Anche il rifiuto di allora ad accettare Gesù come parola di Dio ha forza di provocazione per i cristiani di tutti i tempi. La prima lettura è un brano tra i più suggestivi dellantico Testamento: vi si descrive il popolo di Dio radunato dalla Parola, che viene letta e compresa, e che ispira anche il servizio e guida l'azione di governo nella comunità. Il vangelo di oggi ci mette davanti agli occhi un'attuazione del modello di celebrazione liturgica tracciato dalla prima lettura, in cui il protagonista principale è Gesù stesso. È lui che dà il senso compiuto alle parole profetiche che gli vengono consegnate quale testo da proclamare. Luca così mette in evidenza una delle dimensioni più caratteristiche dell'attività di Gesù nell'adempimento della sua missione messianica: l'opzione per i più bisognosi. Basta uno sguardo anche superficiale ai vangeli per accorgersi che tale opzione presiede l'intero suo agire. Lì dove egli trova qualcuno che è povero, escluso, emarginato, oppresso, tanto dalle malattie o dagli spiriti cattivi quanto dagli altri uomini, lì prende posizione in suo favore. Così nei confronti dei peccatori, 20

degli ammalati, delle donne, degli stranieri, dei bambini... E si spiega perché mai egli agisca così se si tiene presente che il suo cuore, come quello del Padre suo del cielo, è pieno di passione per la vita di tutti, e anzitutto di quelli che di vita ne hanno di meno. Insieme al Padre, anche lui s'intenerisce davanti a coloro che sono lasciati 'mezzi morti' lungo le strade della vita, come l'uomo della parabola del "buon Samaritano" (cfr. Lc 10,30-35), o davanti al figlio che, dopo essersi allontanato insolentemente dalla casa, torna a essa stanco e sfinito (Lc 15,11-24). E dalla commozione egli passa all'azione di tenera e sollecita accoglienza. Questo modo di comportarsi di Gesù ci interpella seriamente. Ci chiama a rivedere il modo in cui noi stessi ci comportiamo come persone e come comunità che dichiarano di essere suoi seguaci. Da alcuni anni un'ondata di pauperismo evangelico sta scuotendo la chiesa. È cresciuta in molti individui e gruppi, comunità piccole e intere chiese continentali la coscienza del richiamo al servizio dei più poveri, degli ultimi. A livello universale siamo stati chiamati a fare nostra come chiesa l'opzione di Gesù per i più bisognosi (cfr. Sollicitudo rei socialis). Ciò è davvero una realtà nella nostra vita personale e comunitaria? Il tutto sfocia davvero in un impegno serio e concreto, come quello di Gesù? Le sue parole devono sempre scuoterci: «Non chiunque mi dice: "Signore, Signore". entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). O Padre, tu hai mandato il Cristo, re e profeta, ad annunziare ai poveri il lieto messaggio del tuo regno, fa' che la sua parola che oggi risuona nella Chiesa, ci edifichi in un corpo solo e ci renda strumento di liberazione e di salvezza. 21