Le relazioni di amicizia nella storia politica del comune di Ascoli nel XIV secolo.



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Le relazioni di amicizia nella storia politica del comune di Ascoli nel XIV secolo. Maria Elma Grelli Il Quinternone è il libro pubblico che registra gli atti più importanti della vita politica ascolana dall XI al XIV secolo. G. Borri, curatore dell edizione critica del testo, lo definisce: «una raccolta di documenti selezionati e rispondenti alla realtà politica del momento della compilazione: il codice dove le autorità hanno fatto copiare «le prove scritte delle ragioni formali o giuridiche della vita del Comune», cioè i documenti attestanti la sovranità del comune sul territorio, i suoi iura, le sue prerogative politiche e giurisdizionali». La registrazione nel Quinternone dell'atto di vendita del castello di Belvedere (16 marzo 1301), stipulato con il comune di Ascoli dai dinasti «de Belvedere», e i documenti che protocollano l'acquisto da parte del Comune del castello di Montecalvo (12 novembre 1301), per otto mila libre di volterrani e ravennati, rendono ragione di una trasformazione socio-politica-economica e culturale iniziata nella seconda metà del XIII secolo (1249), con l ingresso in città dei nobili di Monte Passillo, Comunanza, Monte Fortino, Monte Monaco e di altre numerose dinastie, in seguito ai cambiamenti di rapporti e di interessi determinati in città dalla parentesi federiciana, e continuata fino ai primi anni del XIV secolo. I discendenti dei «domini loci» di antica stirpe, già proprietari di castelli e di beni situati nei luoghi srategici del territorio cittadino, per lo più nelle zone di confine, di fronte alla crisi ormai evidente delle istituzioni universalistiche di papato e impero, dinanzi all'affermazione delle autonomie locali, constatata l'intraprendenza delle iniziative imprenditoriali e mercantili, superata un'economia di tipo esclusivamente agro-silvo-pastorale, pensarono che inurbarsi fosse la scelta più conveniente da adottare. Per questo motivo, pochi anni dopo aver assunto la cittadinanza ascolana, essi decisero di vendere al «Commune» parte dei beni e dei diritti sul territorio: «castra, turres, burgos, iura, vassallos, actiones, mansos, benefitia, ecc.», decisi a «facere communia» e a stringere relazioni di amicizia con i nuovi centri di potere, con i maggiorenti della città, assumendo incarichi di responsabilità, divenendo protagonisti della gestione della cosa pubblica, forti di cospicue risorse di denaro contante e di una sperimentata destrezza militare. Per quanto riguarda i primi anni del XIV secolo, nel Quinternone sono inserite le carte che registrano i versamenti delle tasse di affitto fatti dal comune di Ascoli a favore della Chiesa di Roma, durante il pontificato di Bonifacio VIII, e depositati nelle mani dei tesorieri della Marca Anconitana, per lo più di origine fiorentina, incaricati dal rettore Pietro Caetani, nipote del papa. Molti magistrati e notai «de Florentia» rogano atti notarili riguardanti il comune ascolano o vi assistono come testimoni e si costituiscono procuratori e garanti di affari pubblici e privati. Tali documenti sono a riprova del sostegno accordato da papa Bonifacio VIII ai suoi familiari, e a conferma degli interessi economici e commerciali che legarono compagnie di mercanti, banchieri fiorentini e città toscane al suo papato; i fiorini «boni et puri auri» erano la moneta di conto. La progressiva ascesa economica e l'affermazione dei banchieri fiorentini furono incentivate anche da papa Benedetto XI che, nel suo pur breve pontificato, continuò tuttavia ad incaricarli della riscossione dei censi. Nella realtà politica ed economica della Marca Anconitana anche il comune ascolano seguitò a versare le tasse annuali nelle mani di un tesoriere «de Florentia», un esattore incaricato dal nuovo rettore «in Anconitana Marchia». Nel 1308, nel vivo dell'inchiesta pontificia inquisitoria contro l'ordine del Tempio, nel delicato clima di vari altri disordini che minacciavano gli stati della Chiesa, il comune ascolano, confederato in «sotietate et lega habita una cum civitate Anconitana et eorum sequatium», in tutto trentacinque luoghi e città della Marca Anconitana, sotto la guida militare del nobile capitano romano Poncello «de filiis Ursi», figlio di Bertoldo Orsini, e del suo marescalco Lorenzo di Giovanni di Stazio, tentarono di «scuotere il gioco del potere pontificio», due anni dopo il trasferimento della Santa Sede in Francia, avvenuta per decisione dell ex arcivescovo di Bordeaux, Bertand de Got, papa Clemente V. Nel 1309, il ritorno di Ascoli sotto l egida del papa, preoccupato della «reformatione et

conservatione pacis in Marchia et iurium et iurisdictionum Romane Ecclesie protectione», per la città significò vedere assegnata la podesteria e la capitaneria dei primi sei mesi dell anno a Giacomo Colonna, detto Sciarra, nipote del cardinale suo omonimo, figlio di Giovanni Colonna, che era stato nominato rettore della Marca nel 1288 da papa Nicolò IV. In una lettera a frate Gentilesco da Fermo, proprio lo zio, il cardinale Giovanni Colonna, esprimeva l'auspicio che Ascoli tornasse «ad statum pacificum» e manifestava tutto il suo compatimento per le misere condizioni in cui versava la città. Certamente la commiserazione, pur così enfatizzata, non era dettata da amorevole e paterna indulgenza, se si valutano i rapporti che i Colonna avevano avuto con il pontefice ascolano, Nicolò IV, il loro ruolo nell ambito delle terre del Patrimonio al tempo del suo papato, nonché l indubbia inimicizia della famiglia Colonna nei confronti degli Orsini. Il risentimento e la veemenza di Clemente V nei confronti dell insurrezione emergono evidenti se si calcolano le condanne di scomunica e di interdetto comminate agli insorti, su suo mandato, dai vicari generali Vitale Brost e Guglielmo da Tolosa e dal nunzio apostolico Ugolino da Marsciano, trasformate, per successive mediazioni, in pesantissime pene pecuniarie. Esse furono inferte ai protagonisti della rivolta nelle città e nelle località ribelli alla «Romana Ecclesia»: podestà, capitani, rectori, priori, anziani, capitani delle arti, consiglieri, ufficiali e ai loro seguaci. Ascoli fu la città multata con l ammenda più alta: diecimila fiorini d oro. Nei vari documenti, come capi della sommossa ascolana, sono nominati, in primis, i cittadini: «Leonardus Bartholomei de Thebaldis, Iohannes Bonepartis, Amatus Iacobi milites e Parisanus de Castiniano», che «rebellionum, excessuum huiusmodi actores fuisse precipui dicebantur». Ad espiazione della colpa fu data loro la possibilità di scegliere tra la visita alla tomba di Pietro, o a quella di S. Giacomo apostolo o la crociata in Terra Santa «ad partes ultra marinas [...] in subsidium Terre Sancte [...] in servitium crucifixi». L'ordine di condanna espresso dal papa fu prontamente recepito da Arnaud de Pellegrue, cardinale diacono dal titolo di S. Maria in Portico e legato della sede apostolica. Il pontefice intimò anche il recupero dei beni e dei diritti della Chiesa Romana, dispersi da Gerardo de Tastis, «miles Marchie Anconitane in temporalibus vicarius generalis», perché concessi imprudentemente a comunità, baroni e nobili. In un documento del 24 dicembre 1311, con il quale si dichiarava evaso il pagamento di diecimila fiorini per la pena inflitta alla città di Ascoli per la ribellione alla Chiesa, a conferma del ruolo svolto nell insurrezione da «Parisanus de Castiniano, Leonardus Bartholomei de Thebaldis, Iohannes Bonepartis, Amatus Iacobi milites», sono nominativamente elencati i seguaci degli ascolani nella sommossa: gli abitanti di Offida, di Castignano, di Force, di Patrignone e di Morta, in particolare sono menzionati anche «Iacobuctius [fratello di Parisano], dominus Cicchus, Riccarductius, Vannuctius et Nicoluctius filii dicti domini Parisani, Franciscus, Gualterius, Raymundus famuli eiusdem domini Parisani», i figli di Saladino di Belvedere, «Iacobus de Belvedere» e tutta una serie di personaggi ad essi collegati, destinati ad assumere un ruolo preminente nelle alterne vicende della vita cittadina nel corso del '300. Si evidenzia in tal modo un dato costante delle dinamiche socio-politiche del comune ascolano nel XIV secolo: l esistenza di gruppi familiari leader, consorterie, nuclei di potere emergenti, per lo più nobili, ex abitanti del contado, animati da mire egemoniche in città, capaci di aggregare adepti dal territorio, creando amicizie, vincoli di solidarietà ideologica in funzione pro o antipapale, a seconda delle convenienze. Fin dall'inizio del secolo le loro ambizioni furono senza dubbio agevolate dalla lontananza del papa e dalle difficoltà dei suoi vicari di imporre una politica di accentramento, furono incentivate dall'allargamento della loro sfera di influenza oltre i confini cittadini e furono garantite dalla realizzazione di una fitta rete di alleanze e di amicizie con famiglie e personaggi altrettanto influenti di altre città sottoposte al dominio papale, animati dalle stesse mire e guidati dagli stessi interessi. Un apporto significativo in tal senso fu fornito, per dirla con lo storico ascolano F. A. Marcucci: «dall'allor costume delle cospicue città di mandar per l'italia de' messi per far le note de' cospicui soggetti in arme e valore, affin poi di eleggerli in podestà o in capitani del popolo». Lo storico ascolano si esprime così proprio per riferire il fatto della scelta dei perugini di nominare come loro capitano del popolo Giorgio de' Tibaldeschi: «Georgius

Boniiohannis de Theballensis de Esculo». Egli ricoprì tale carica da maggio ad ottobre 1313; nel 1314 fu podestà di Fano e nel primo semestre del 1326 fu invece nominato podestà di Bologna; dal novembre 1326 all'aprile 1327 e dal settembre 1337 al febbraio1338 fu di nuovo capitano del popolo di Perugia. Il figlio, «Nicola Georgii de Thebaldischis de Esculo», fu, a sua volta, podestà di Perugia dal novembre 1335 all'aprile del 1336. Allo stesso modo, «Franciscus domini Parisani de' Parisanis de Castagnario sive Castagnano miles» ricoprì la carica di capitano del popolo a Firenze da novembre 1336 a maggio 1337. Questi due riferimenti sono riportati a solo titolo dimostrativo, perché l'elenco dei «milites» ascolani, annoverati tra i nobili atti ad assumere le magistrature comunali per prestigio economico e valore militare, e che di fatto le ricoprirono, è costituito da un numero notevole di soggetti. Gli esempi evidenziano che in molti casi gli incarichi, a turno, furono riassegnati alle stesse persone o a persone della stessa famiglia, cosa che emerge anche dall'elenco dei podestà eletti ad Ascoli nel XIV secolo. Da ciò è facile supporre che la reiterata frequentazione e il ripetuto incontro di ambienti e persone avessero creato allora tra alcune città un clima politico e culturale di vivace intesa e di condivisione di idee, quindi, come si vedrà, non sarebbe stato a loro difficile, ad un certo punto, tentare di modificare gli assetti politici tradizionali (si veda infra). C'è da aggiungere che in questo periodo in molti casi si assistette anche ad un incredibile trasformismo: venute meno le grandi idealità che avevano animato e visto fronteggiarsi le opposte fazioni di guelfi e ghibellini, le aggregazioni spesso si costituirono più in vista di immediati scopi contingenti e in previsione di facili guadagni materiali, piuttosto che per astratte idealità politiche di parte. Dell'antica funzionalità delle divisioni di parte, dell'originario significato della loro stessa denominazione si perdevano progressivamente il senso e la ragione, ormai gli scontri intestini nelle città si dovevano ricondurre alle divisioni locali pure e semplici; anche se va osservato che il cambio di orientamento e di scelte fu certamente influenzato dalle prese di posizione, dagli interessi e dalle determinazioni dei vari pontefici e, in loro assenza, dalle scelte dei loro delegati. La documentazione del Quinternone relativa all'ultimo biennio del pontificato di Clemente V (1312-1314) si compone quasi esclusivamente di atti che rendono conto di pagamenti versati dal camerario e sindaco del comune ascolano, il «nobilis vir dominus Ioannes Nicolai», ai tesorieri e ai rettori della Marca, a causa di multe, tasse e tangenti, o ai podestà e ai capitani del popolo, per gli uffici da loro prestati in città. Il sindaco, ambasciatore e camerario «Ioannes Nicolai» era un cittadino titolato, e per questo fu scelto per incarichi particolarmente delicati che lo misero in relazione con personalità influenti e, come attestano le fonti, egli assunse l'incarico di capitano del popolo di Perugia nel 1316 e quello di Parma nel 1322. In un atto, datato 17 agosto 1317, «domino Iohanne Nicolai, domino Iohanne Bonepartis, domino Georgio de Teballensis, domino Amato Iacobi militibus» sono registrati come testimoni in «palatio populi» di Ascoli, alla stipula dei patti di sottomissione del castello di Cossignano alla città di Ascoli.. La loro presenza è segno di una loro incisiva e stretta collaborazione con gli uomini «de regimine» e, se si tiene conto del fatto che Georgio de Teballensis fu eletto capitano del popolo di Perugia nel 1313 e Iohanne Nicolai nel 1316, e se vale quanto detto sopra, è facile supporre che tra il comune di Ascoli e il comune di Perugia si fosse già stabilita una tale intesa e una tale uniformità di intenti per cui, alla richiesta di aiuto dei perugini al servizio della Chiesa, nel 1319, contro gli spoletini (ghibellini), gli ascolani avrebbero deciso senza indugio di intervenire in loro soccorso. Essi avrebbero sceltoscelto, invece, di non unirsi al tumulto antipapale delle città della «liga terrarum amicarum de Marchia» (detta anche «liga ghibellinorum Marchiae») di Fano, Osimo, Recanati, ecc. nel 1320, adottando una politica di riavvicinamento nei confronti del nuovo papa Giovanni XXII, sebbene in evidente contraddizione con quelle che erano state le scelte che avevano fatto considerare «Leonardus Bartholomei de Thebaldis, Iohannes Bonepartis, Amatus Iacobi milites e Parisanus de Castiniano» capi della rivolta della lega antipapale nel 1308 (vedi supra). Giovanni XXII, il 13 maggio 1323, riconoscente per «constantiam et multa et devota servitia» che gli erano stati forniti in precedenza ma, ancor di più, per gratificare il coinvolgimento di Ascoli contro Fermani e Fabrianesi, che avevano mosso guerra al rettore della Marca, concesse al comune

ascolano, «ad opus et utilitatem», il permesso di costruire, «iure feudi [ ] unum bonum portum et sufficientem», nei limiti territoriali segnati dal torrente Ragnola fino alla foce del fiume Tronto, «pro indiviso», tra Chiesa Romana e Comune, «perpetuis futuris temporibus retinendus et etiam possidendus». E evidente che il papa utilizzò la formula «iure feudi» per rievocare e ribadire i caratteri di quel vincolo di sudditanza e di omaggio vassallatico che nella società feudale avevano legato il concedente un beneficio a un ricevente. Il privilegio perciò va letto e contestualizzato in coerenza con il progetto del nuovo pontefice, «antico cancelliere di Carlo II e di Roberto d'angiò, energico vecchio, esperto di affari amministrativi e politici», che nulla giudicava tanto urgente, per un ordinato governo della cristianità, «quanto il riassetto politico dell'italia per mezzo di forze fedeli al papato». Egli aveva deciso di rimpinguare le casse del fisco con un rinnovato «sfruttamento di benefici ecclesiastici: decime, servizi comuni, annate «fructus primi anni», sedi vacanti, diritto di spoglio «ius spolii», sussidi caritativi, diritti di cancelleria e sulle tasse imposte ai vescovi (visite, procure)», le cui somme furono di nuovo riaffidate in gestione alle case di commercio e alle succursali delle più grosse compagnie fiorentine (Scala, Bardi, Peruzzi, Acciaiuoli, Bonaccorsi). Guidato dalla stessa logica di conservare alla Chiesa «bona et iura», su cui esercitare balzelli, Giovanni XXII, infatti, emise due bolle pontificie dirette al vescovo aprutino Niccolò degli Arcioni, perché non permettesse ai feudatari della Chiesa ascolana nel Regno di vendere i loro beni senza il consenso del Capitolo. Gli ascolani, tuttavia, interpretarono anche troppo alla lettera la comunicazione con cui il papa li esortava a perseverare, «provide et ferventer», nel fedele servizio alla guerra contro i loro "hostes", «contra firmanos, Ecclesie Romane rebelles», ed esprimeva la sua profonda soddisfazione per il fatto che essi avessero sottratto a Fermo nove castelli. Ascoli infatti approfittò dell'incoraggiamento del pontefice per sferrare un attacco feroce e un saccheggio indiscriminato contro la storica rivale "nemica" Fermo, la quale, sicuramente, non aveva accolto di buon grado il privilegio della costruzione di un porto concesso dal papa agli ascolani, dato che, già a suo tempo, la concessione fatta agli stessi da Federico II, nel 1245, era stata causa di lunga discordia. È interessante seguire gli sviluppi successivi della vicenda attraverso la corrispondenza che Giovanni XXII intrattenne con il comune di Ascoli, con il rettore della Marca Anconitana, con il doge e la città di Venezia, tra il 1324 e il 1325. Essa rivela la straordinaria abilità politica e la consapevole esperienza diplomatica del pontefice: da un lato egli ripeteva ai primi la sua soddisfazione per il fattivo contributo offerto contro «rebelles, presertim firmanos perfidos» e li esortava a perseverare, dando sostegno al rettore della Marca, sicuri del fatto che un'eventuale pacificazione con i fermani non li avrebbe sfavoriti; al rettore suggeriva i piani da adottare per possibili trattative di pace con i fermani; nel frattempo informava i veneziani che gli ascolani si accingevano a «construere et edificare portum sub arce Montis Critaccii» e li esortava a trattarli benignamente, «amicabiliter et mansuete», a favorirli e a difenderli, per la sincera devozione e i meriti acquisiti nei confronti della Chiesa, e ad annotarli nei registri dei commercianti, come già era stato fatto per gli anconetani e i fermani. L'appello del papa ai Veneziani, perché concludessero un accordo amichevole con gli ascolani, rivela la valenza politica ed economica che il termine «amicizia» assunse nei suoi programmi: l'amicizia tra le due città, auspicata dal papa, fu chiaramente in previsione di proficui traffici di scambio e di redditizie relazioni commerciali, di cui anche il fisco papale avrebbe goduto i proventi, visto che le entrate, i frutti e i redditi del porto ascolano, secondo le clausole previste dal privilegio, sarebbero stati condivisi. Il richiamo del papa all' amicizia, tuttavia, si spiega ancor di più se si tiene conto del testo integrale del documento conservato a Venezia, già pubblicato da G. Luzzato, e riproposto da A. De Santis, con il quale il 4 luglio 1326 Ascoli stipulava un trattato di libero, franco e vicendevole commercio con Venezia: in premessa all'atto, infatti, il notaio enuncia espressamente che per esso si adotta la prassi consona a «conventiones et pacta aliqua inter aliquos inimicos ad informationem lucidam presentium et memoriam futurorum». Nel 1334, alla morte di Giovanni XXII, Ascoli, «mettendosi in stato di repubblica indipendente», decise di non assoggettarsi al nuovo pontefice Benedetto XII, che non ebbe miglior sorte nel far rispettare l'autorità della Chiesa in Italia settentrionale, nelle province della Romagna e nel resto

della Marca d'ancona. In questa condizione il comune ascolano stabilì rapporti sempre più stretti con le città dello stato ecclesiastico, in particolare con Firenze e con Perugia, e cercò di consolidare la sua influenza sul territorio, attraverso accordi con il vicino Regno di Napoli, con i castelli di Rotella, di Arquata, di Montalto, di Cossignano e di Ripatransone. Il trattato con Ripatransone rappresentò un indubbio successo strategico della città, trattandosi di un presidio sicuro che essa si procacciò contro Fermo nella zona di confine. L'accordo rispondeva alle aspirazioni di entrambi i contraenti di contrastare l'invadenza economica e commerciale della comune «nemica» Fermo, in un patto di «amicizia» di cui sono eloquenti le dichiarazioni registrate nel documento: «et homines de Ripatransone tenebunt, vocabunt, nominabunt, habebunt, verbaliter, realiter, amicos civitatis Esculi pro eorum amicis, et inimicos ipsius civitatis Esculi, pro eorum omnium de Ripatransone inimicis, omni tempore et in perpetuum». Il significato della clausola dell amicizia, contenuta nel documento, si chiarisce e si giustifica alla luce di una precisa convenzione giuridica: si tratta di un patto di stabilità che nasce da un istituzione che vanta il diritto di giurisdizione, per cui Ascoli può dettare le sue condizioni. Tuttavia, nonostante le misure cautelative, approfittando anche della peste e di altre calamità, Fermo, dopo alcuni tentativi, nell'aprile 1348, riuscì nell'impresa di distruggere il porto ascolano, per cui, come recitano le cronache, a maggio, «Messer Galoto di Malaesti da Rimini ebbe il dominio della città di Ascholi in la Marcha d'ancona con la pacifica volontate de tuti li citadini de quella, i quali fecero grandissima festa». Ad offrirgli il generalato delle milizie per la guerra fermana, furono inviati due illustri «milites» che vantavano una pregressa e collaudata esperienza diplomatica, provata nell'esercizio di incarichi di podestaria e di capitaneria del popolo in città destinate a diventare protagoniste nel tumultuoso giuoco di leghe ed alleanze, guidate da interessi espansionistici: Pietro da Monte Moro («Petrus Jacobi Assalonis Iacobi Iohannis de Montemoro») e Francesco Camporini («Franciscus domini Berardi de Camporinis»). Forte della presenza di Galeotto e del suo seguito militare, Ascoli continuò contro Fermo una guerra senza tregua, contrassegnata da reciproci ripetuti attacchi, saccheggi, rapine, requisizioni di castelli, assedi, atti di violenza, con il coinvogimento di comunità del territorio diversamente schierate. Nel 1351, intenzionato a far valere la sua influenza, per contrastare la politica espansionistica dei Malatesta sulla Marca, ai quali, di fatto, ormai mancava solo di assoggettare Fermo per consolidare lo sviluppo di un sistema politico incardinato sullo stato signorile su base regionale, l'arcivescovo Giovanni Visconti, signore di Milano, tentò la riconciliazione tra le due irriducibili nemiche. A Monterubbiano furono stesi sedici articoli come preliminari del trattato di pace, che poi fu sottoscritto a Rimini, nel palazzo dei Malatesta. Tra le condizioni della tregua fu espressamente sancito il fatto che Fermo dovesse riconoscere ed accettare il porto di Ascoli. Così fu ratificato, ma il comune ascolano probabilmente continuò a nutrire qualche timore circa l'affidabilità del patto, per cui cercò di garantirsi il sostegno degli alleati nelle zone di confine. Il 20 maggio 1359, nell atto di sottomissione ad Ascoli degli abitanti del castello di Montevecchio, come già per Ripatransone (vedi supra), tra le clausole dell accordo era specificato: «quod homines dicti castri perpetuo tenebunt, tractabunt et reputabunt et habebunt amicos comunis civitatis predicte pro amicis et inimicos pro inimicis prout commune predictum faciet de cetero et inimicos ipsius non receptabunt in castro predicto et eius distripto». Anche in questo caso, il richiamo alla condivisione dei comportamenti nei confronti degli amici e dei nemici, in un trattato che il comune di Ascoli stipulava con un castello situato nella valle del Tronto, a guardia del confine con Fermo, rappresentava una misura precauzionale assunta dalla città nei confronti della temuta rivale. Va osservato inoltre che l'uso del termine amicizia è assolutamente nuovo rispetto ad analoghi atti di alleanza o sottomissione stipulati nel XIII secolo; in questo caso non si tratta dell'amicizia come di un rapporto privato, ma di una situazione codificata e quasi istituzionale, quindi è amicus del comune ascolano chi ha scelto di collocarsi sotto l'ala protettrice della città. L'amicizia ha appunto lo scopo di garantire il comune interesse attraverso scambievoli servizi e reciproca «utilitas». Certamente di altro tenore il richiamo alla «fidelitas» nei confronti della Chiesa Romana, esaltata con fervore dal cardinale Egidio Albornoz, vicario e legato di papa Innocenzo VI nella Marca Anconitana, il 9 settembre 1365. Giunto in città, egli comunicò al comune di Ascoli alcuni

provvedimenti perfettamente coerenti con il suo programma, già ampiamente svolto, di «liberazione delle città dai tiranni, per il ritorno delle stesse sotto il dominio del papa». A nove anni di distanza dal trattato di pace che, dopo la «tirannide domini Galiocti», e l'ultraventennale «stato popolare», aveva riportato la città nell'alveo dell'autorità pontificia, dopo la breve parentesi della signoria del «dampnate memorie Filippi de Massa [Filippo di Massa dei Tibaldeschi] qui dapnabiliter occupavit civitatem», dopo il fallito tentativo di Giovanni di Massa e il raggiungimento dell'assoluzione dall'interdetto, l'albornoz precisava che le concessioni erano indirizzate ai fedeli ascolani «dilectis in Christo», per provvedere alla pace, alla tranquillità e al buono stato della città, in virtù della loro perseveranza «in fidelitate ac devotione Romane Ecclesie». In realtà, proprio tenendo conto delle «Costituzioni Egidiane», e delle condizioni sancite nel trattato di pace del 1356, le disposizioni contenute nel documento erano finalizzate ad un maggiore controllo in città del civile, del criminale, dei danni dati, della riscossione «per offitiales ibidem per romanam Ecclesiam deputatos» e per un maggior controllo delle gabelle fissate dalla camera apostolica «in volumine statutorum civitatis». Esse erano, di fatto, il richiamo ad una «fidelitas» sottomessa e riverente e non certamente a un rapporto bilaterale tra pari, cui si aggiungeva un monito severo contro ogni tentativo di ribellione. La riconquista delle «terrae Ecclesiae» ebbe in questa strategia la sua mossa vincente, in quanto l'albornoz, nella sua attività di restaurazione, cercò di operare senza aggravio per la Chiesa, richiedendo a città e potentati un apparentemente generico atto di sottomissione ad essa, per solito accompagnato dall'assoluzione dalla scomunica, ma con una particolare attenzione a garantirle qualche vantaggio fiscale in più. Proprio in considerazione del grande impegno mostrato «in recuperatione et defensatione terrarum S.R.E.» dal cardinal legato, il 2 luglio 1366, Urbano V con lettera pontificia nominò il «miles Gometius de Albornotio [Blasco Gomez Albornoz, nipote di Egidio], vicarius, rector et gubernator in temporalibus generalis» di Ascoli e del suo «comitaus et districtus», con l'autorità di costituire e creare giudici e ufficiali per le questioni civili e criminali e con la facoltà «colligendi et percipiendi ac suis usibus applicandi omnia consueta telonea, pedagia, emolumenta, fructus, redditus», ribadendo la spettanza della città, «pleno iure», alla Santa Romana Ecclesia. Le cronache riferiscono che al suo arrivo in città egli fu salutato da tutto il popolo con letizia e con palme di ulivo sventolanti, al grido:«viva lo signore!». Per avere un'idea della gestione del vicariato da parte di Gomez, del suo ossequio alle consegne ricevute dal papa e della sua ottemperanza a quella minuziosa organizzazione finanziaria e fiscale descritta in modo organico e quasi perfetto nella «Descriptio Marchiae Anconitanae», credo siano sufficientemente eloquenti alcuni documenti contenuti nel Quinternone. Il 17 aprile 1372, a Bologna, Gomez Albornoz versò duemila ducati d oro da parte della città e del comune di Ascoli per il sussidio dovuto alla Chiesa e li assegnò a «Simone de Baroncellis de Florentia» depositario generale della camera della Chiesa Romana dimorante a Bologna. L 8 aprile 1374, a Fermo, Pietro, vescovo di Cuenca, e rettore «in spiritualibus» della Marca Anconitana, diede mandato a Bartolomeo di Novalia, giudice dei malefici della Marca Anconitana, di recuperare beni, terre e boschi dal mare e dal fiume Tronto e i castelli di Monteprandone, Spinetoli e Monsampolo, sottratti alla Chiesa e ad Ascoli dal giustiziere aprutino Pietro di Filippo degli Albizi di Firenze, e dai fratelli Amelio e Giovanni di Agoto (italianizzazione di De Got), figli del fu Aloisio De Got, e di riporre nel possesso Gomez e il comune di Ascoli. Il 2 dicembre 1374, il tesoriere generale della Marca Anconitana riceveva a nome di Gomez il pagamento dell'affitto di otto anni, dal 1367 al 1374, dovuto alla Chiesa romana dalla città di Ascoli e da diversi castelli. Lo stesso pagamento di affitto fu saldato il 25 aprile del 1375. È evidente che Gomez fu un vicario garante soprattutto della superiore autorità ecclesiastica, per la salvaguardia di imposte, taglie e collette e per il recupero di diritti e proprietà, a difesa e tutela della sottomissione di Ascoli alle chiavi di Pietro, «tanquam fidelis servitor et zelator status domini pape sancte Romane Ecclesie». Era pertanto inevitabile che, verso un papato molto impegnato nella costruzione di una sua potenza politica e terrena, insoddisfazioni e risentimenti serpeggiassero anche tra gli ascolani. Essi non avrebbero esitato di lì a poco ad accogliere l'invito alla rivolta sollecitato dai fiorentini, gravemente

sdegnati contro il legato papale Guglielmo Noëllet, che non aveva voluto concedere loro di estrarre del grano da Bologna per sopperire alla grave carestia che li aveva colpiti. L'esortazione fu estesa dai fiorentini a tutte le città e ai signori d'italia, con lo scopo di concludere una lega di libertà per sottrarsi al governo della Chiesa, favorita dal fatto che il papa, dopo la breve parentesi del ritorno a Roma, voluta da Urbano V, durata appena tre anni (1367-1370), si era di nuovo trasferito ad Avignone. Il 1375 segnò il principio della cosiddetta Guerra degli Otto Santi, dell «Italica sacra Lega», la guerra tra Firenze e il nuovo Papa Gregorio XI, nella quale sarebbero stati coinvolti anche il comune di Ascoli e il comune di Fermo. Il 24 luglio 1375 Firenze stipulò un accordo di collaborazione con Bernabò Visconti, signore di Milano, animato dalle stesse mire egemoniche ed espansionistiche sull'italia che avevano guidato lo zio, l'arcivescovo Giovanni Visconti (vedi supra). Attraverso ambasciatori e una fitta corrispondenza, redatta dal noto cancelliere fiorentino Coluccio Salutati, «facto vexillo in quo solum magnis literis descripta LIBERTAS», ai colleghi italici fu rivolto l'invito di riscoprire «la forza della tradizione italica, scrollandosi di dosso il giogo della sudditanza servile». Alla sollecitazione del segretario fiorentino risposero ben ottanta città, che entrarono a far parte della lega. In molte di esse l'insurrezione fu rabbiosa e devastante, come a Firenze, dove la ribellione assunse toni violenti, sotto l'azione degli otto Livellari dei preti e il comando degli otto della Gilda, poi appellati per «uno universale consentimento del popolo fiorentino Otto Santi». La partecipazione alla lega tuttavia non fu simultanea: nel novembre 1375, aderirono per prime Città di Castello, Montefiascone, Narni e Viterbo; a dicembre dello stesso anno, Perugia, Spoleto, Assisi, Gubbio, Urbino, Fermo; nel 1376, Civitavecchia, Ravenna, Cagli, Imola, Cesena, Faenza, Forlì, Camerino, Macerata, Fabriano, Bologna, Ascoli e molte altre città. Il conte Gomez, avuta notizia della sollevazione della lega, allertò la regina Giovanna e i generali pontifici per avere in suo soccorso un distaccamento di brettoni e di milizie aprutine nelle vicinanze del Tronto. Il tumulto di Ascoli contro di lui fu preparato nel gennaio del 1376, attraverso una segreta trattativa diplomatica con Perugia, Fermo e Firenze, di cui ci rende conto Coluccio Salutati. A nome della Repubblica di Firenze, con lettera datata Firenze 9 febbraio 1376, egli scrisse agli ascolani, definiti nella «salutatio» amici carissimi, per informarli che i fiorentini avevano ricevuto il loro "caro nobile concittadino Boffo di Massa", di cui avevano prontamente accolto le richieste, in quanto impegnato nella liberazione della città, per cui lo raccomandavano cordialmente alla loro amicizia, come amico della loro libertà e devoto figlio di tutta la lega. Lo stesso encomio di Boffo fu espresso nella lettera che Coluccio spedì, lo stesso giorno, al «magnifico domino, fratri et amico carissimo» Rinaldo da Monteverde, che si era mosso in difesa di Fermo; egli era figlio o parente del «nobilis vir capitaneus» Mercenario da Monteverde che, fino al 1340, era stato signore di Fermo e condottiero delle sue truppe, «imperii fidelis dilectus», dichiaratamente ostile al papa, militante con Lino di Massa e Tebalduccio di Camporo al servizio del vescovo di Arezzo, Guido Tarlati, capo dei ghibellini italiani. Nella lettera, a Rinaldo fu raccomandato di tutelare e di preservare «molto affettuosamente» da ogni offesa Boffo, «singolarissimo zelante sostenitore della santissima confederazione», per i meriti e le imprese compiute con fedeltà in favore della liberazione di Ascoli. Il 27 febbraio, di notte, ricevuta conferma dell'aiuto di Fermo e Perugia, gli ascolani insorsero e costrinsero il conte Gomez a rifugiarsi «cum muliere et filiis et multis militibus strenuis in arcem». I fermani intervennero a favore degli ascolani sulle rive del Tronto, guidati da Rinalduccio da Monteverde, mentre questi stavano per capitolare dinanzi alle truppe schierate di brettoni e aprutini. Gomez rimase nella cittadella dieci mesi. Attraverso le epistole di Coluccio è possibibile individuare gli scenari strategici che avrebbero portato alla definitiva capitolazione di Gomez. Il 6 marzo 1376 i fiorentini scrissero alla regina Giovanna per giustificare il tumulto e l'oltraggio contro Gomez, definito: «monstrum italici nominis et sanguinis inimicum, quod in sue crudelitatis furore omnem Esculanae civitatis nobilitatem exhausit, cruorem effudit, mortibus innocentium et multa pessimi exempli tirannica saevitate patravit». Giovanna, pur essendo entrata nella lega, ne era uscita, probabilmente per timore di un coinvolgimento dei suoi sudditi nella sollevazione. Il 9 marzo, Coluccio informò Bernabò Visconti

dell'esito dell'attacco a Gomez, avvenuto il 26 febbraio, «hora secunda noctis», e del suo indicibile spavento. Il 13 marzo 1376, dalla cancelleria fiorentina uscirono due lettere: una fu spedita al «fratello e amico carissimo domino Rainaldo», l'altra al «nobile amico carissimo Boffo di Massa». Si evince chiaramente che tra i due c'era una vertenza in corso e che ai fiorentini premeva assolutamente risolverla, per cui a Rinaldo fu ricordato che c'era una causa superiore in ballo per superare le ostilità e che a Boffo era stato scritto «prout [si riteneva] ad amicitiam pertinere», nella convinzione che il suo riscontro sarebbe stato fraterno ed amichevole. A Boffo, invece, fu rimproverato un suo presunto tentativo di sobillazione di alcuni abitanti e nobili del fermano contro Rinaldo, cosa assolutamente ingiuriosa, se vera, perché si sarebbe trattato di una macchinazione contro l'unità della lega, tenuto anche conto dei capitoli stipulati e decisi con lui e riservati a lui proprio per evitare ogni pregiudizio a qualsiasi altro collega, per cui gli era sollecitata una necessaria, serena composizione della contesa. Il 21 giugno, la Signoria fiorentina incaricò Bartolomeo Smelducci di San Severino di assoldare per il comune di Firenze dieci cavalieri e duecento fanti, per condurli all'assedio della cittadella di Ascoli, dove si era rifugiato Gomez. Il 25 agosto, Coluccio fece appello ai Perugini con la precisazione che la libertà ascolana era preludio alla libertà di tutta la «Marchia». Il 16 ottobre, il cancelliere, a nome degli Otto Ufficiali della Balìa del comune di Firenze, scrisse di nuovo al «magnifico militi domino Bartolomeo [Smelducci] de Sancto Severino amico reverendissimo» per proporgli l'incarico di capitano generale nella guerra di Firenze, «in partibus Marchie et specialiter Esculani belli», per tre mesi, con il compenso di 1300 fiorini d'oro mensili, da pagarsi da Firenze, Perugia, Fermo e Ascoli, con l'invito alla salvaguardia delle terre di Rodolfo da Varano e «aliquorum aliorum colligatorum», con la specifica del contingente di cui doveva essere provvisto: «duos consiliarios sive socios, unum iudicem, duos cancellarios, septem domicellos, unum dextrerium, unum curserium et unum palafrenum, tres mulos e triginta lanceas equestres, intelligendo lanceam de uno caporali et uno piacto armatis, uno paggio cum tribus equis bonis et sufficientibus ut est moris et quinquaginta famulos inter quos sint duo comestabiles et decem balistarii bene muniti». Muovendosi su un altro fronte Coluccio, il 20 novembre dello stesso anno, «in nome dell'amore e della sincerità degli amici», rivolse un accorato appello al «magnifico concittadino Nicola Acciaiuoli», siniscalco del Regno di Sicilia, rammentandogli che il «bellum esculanum» era iniziato grazie agli aiuti e agli auspici del comune fiorentino, che, in nome della sua condizione, della dignità e fedeltà alla patria, egli era chiamato «ad liberationem Italiae», mostrandosi favorevole agli oratori fiorentini che erano ad Ascoli, negando invece aiuto ed accoglienza al signor Gomez, pubblico nemico dell'italico nome, per convincerlo così a desistere dal pertinace proposito, facendogli capire che «omnes florentinos patriae liberationi congruere». Il 7 dicembre, dopo dieci mesi di assedio, mentre Gomez era ancora asserragliato nella cittadella ascolana, i fiorentini scrissero lettere di ringraziamento e supplica a Rinaldo da Monteverde e ai Fermani, per sollecitare il loro intervento. Il tono delle missive rivela una sincera preoccupazione rispetto agli esiti della situazione. Al «magnifico miles, amico carissimo Reinalduccio», ricordando l'ingiusto esilio comminato a molti uomini di sangue italico dall'infedeltà di barbari, «sub colore Status Ecclesie», era espressa la soddisfazione di averne richiamati molti al natio suolo, fra cui lui, di aver procacciato in tal modo alla repubblica fiorentina «novas amicitias semperque duraturas» e di averne riaccese «veteres iam sopitas in pristinum vigorem»; tuttavia, «pro statu suo [...] et totius ligae exaltatione», era sollecitata l'attenzione di Rinaldo ad «esculanum bellum», perché «si prospero terminetur eventu totam provinciam Marchiae» sarebbe stata «confirmatam et pacatam», perciò erano richiesti aiuti al comune di Fermo «ut hostium insolentia deprimatur, et tanta civitas [Ascoli] de ferventis belli faucibus erepta, [...] sacrae Ligae incipiat esse comodo» dopo essere stata di «tanto periculo et labori» a Firenze e a lui. Ai «fratelli fermani, amici carissimi», dopo aver rammentato il prezioso contributo offerto da loro al popolo ascolano, attonito, debole e già disperante della liberazione, durante l'assedio della cittadella che si era trascinato oltre il previsto, con l'offerta di forti e copiosi sussidi di soldati, cavalieri e fanti, dopo aver ribadito che era da ascrivere a loro merito il fatto di essere stati i più importanti promotori dell'iniziativa per la salvezza della patria e per l'onore della sacra lega, di cui essi erano tra i più forti esponenti, li

sollecitava a fornire il supporto finale di aiuti per la liberazione definitiva di Ascoli, fatto che sarebbe stato degno di debita riconoscenza. Di fatto l'intervento ci fu, e con il supporto anche dell'esercito dei perugini, convenne alla fine a Gomez di capitolare, il 13 dicembre del 1376, e di lasciare la città con tutta la sua famiglia. Il tiranno fu costretto alla resa, ma l'entità dei danni subiti dalla città, dai castelli e dalle campagne fu tale che Marcucci sostiene che «fu avuto del riguardo alle devastazioni sofferte da Ascoli, per le continue scorrerie de' Brittoni; essa perciò il 31 maggio del 1377 dai fiorentini, che avevano stabilito un riparto del tangente di 25000 fiorini delle città collegate, fu tassata di soli seicento fiorini», rispetto ai novemila imposti a Bologna, ai quattromila a Perugia o ai tremila a Siena ecc.. A conferma delle rovine subite dai «dilettissimi amici [ ] il popolo ascolano e il comune», il 31 luglio del 1377 Firenze ricordava «ai carissimi fratelli Perugini», che avevano intentato delle rappresaglie e un ricorso contro gli ascolani per un salario insoluto dovuto al nobile Angelo di Leggerio di Andreotto, per un suo ufficio al tempo della «tirannide ecclesiastica», che la città non avrebbe potuto dimostrare nulla, perché «vessata ed esausta [ ] da innumerevoli disfatte, perché erano stati distrutti dall'incendio tutti i documenti pubblici [ ] e perché il popolo ascolano era logorato da un anno di guerra che si era combattuto non nei campi di battaglia ma dentro le mura della città», pertanto si faceva appello alla fraternità dei perugini per evitare di gravare i comuni fratelli ascolani, che per la loro fedeltà e l'incrollabile proposito avrebbero invece meritato solo benefici. L'obiettivo della rivolta comunque era stato raggiunto e, come osserva F. A. Marcucci: «Or quale stretta confederazione passasse allora tra le repubbliche di Firenze, di Perugia, di Fermo e di Ascoli può di leggieri ognuno idearlo. Certo è che i nostri cittadini rimunerarono Bartolomeo Smeducci da San Severino, capitano della Lega comune, col donargli il castello di Monte Adamo (che poi si ricomprò la città nel 1383, sborsando mille fiorini d'oro) e si dichiararono debitori a Firenze, Fermo e Perugia della libertà». La valutazione proposta dallo storico ascolano conferma quanto già sottolineato a proposito della sinergia sociopolitica, economica e culturale che, fin dall'inizio del secolo, si era stabilita tra le suddette città per l'interazione di uomini dediti al commercio, alle armi, ma ancor di più, certamente, alle lettere, alle arti e in particolare all'esercizio del diritto. Miles, notai, funzionari, uomini che fecero una buona carriera negli uffici pubblici cittadini, mantenendo posizioni di prestigio nell'amministrazione del comune, provenienti da famiglie eminenti e dotate di risorse patrimoniali e che, in qualità di podestà e capitani del popolo o di giudici e funzionari, a loro aggregati, riuscirono a stabilire contatti ed autorevoli amicizie personali. A titolo di esempio, le fonti tramandano che negli anni della "Lega" il miles ascolano «Ioannes Corradutii» fu eletto capitano del popolo di Perugia nel 1375, da dicembre 1376 a giugno 1377 fu scelto come capitano del popolo di Firenze, mentre ad Ascoli era podestà il fiorentino Cipriano de Tornaquintiis, da luglio a dicembre 1377 fu podestà di Perugia. Da febbraio ad agosto 1378, inoltre, «dominus Franciscus domini Napoleonis de Parisanis de Esculo» fu nominato esecutore degli ordinamenti di giustizia di Perugia, mentre il padre, l'«excellentissimus vir dominus Napoleon de Parisanis», ricopriva la carica di rettore dello «Studium» fiorentino. In riferimento a questi nomi di ascolani illustri e a proposito degli intrecci esistenti in questi anni tra "amicizia" e politica, l epistolario di Coluccio permette di verificare un altro aspetto. Venuto a conoscenza di una controversia sorta tra Boffo di Massa de' Tibaldeschi e i nobili Parisano e Francesco di Napoleone de' Parisani, il 31 luglio 1377, in una lettera, a nome della Repubblica, Coluccio implorava «molto affettuosamente l'amicizia di Boffo perché dirimesse la disputa, rispondendo al «magnifico milite, dilettissimo figlio e amico dominus Bartolomeo di San Severino», incaricato di valutare le responsabilità. L'epistola dimostra chiaramente che i Fiorentini avevano con i Di Massa e i Parisani una stretta confidenza e una sperimentata condivisione di idealità e relazioni politiche, consolidatesi nel tempo; si tratta di personaggi di famiglie ascolane già note per i loro tentativi di rivolta e di modifica dell'ordine costituito e che, fin dai primi anni del secolo, erano stati scelti a Firenze e a Perugia per ricoprire le più alte magistrature comunali (vedi supra). Con Coluccio Salutati ci si è addentrai ancora di più nel tema di questo convegno, perché

attraverso l analisi di una silloge significativa delle lettere del suo Epistolario, relative al triennio 1375-1378, è sato possibile: 1. conoscere fasi e personaggi di Ascoli e del Piceno coinvolti nella guerra degli Otto Santi; 2. comprendere le dinamiche dei rapporti personali e le motivazioni politiche dei comuni Collegati nel Piceno; 3. interpretare il valore che Coluccio attribuiva ai concetti di amicitia, fraternitas, fidelitas tra i Collegati. E evidente che l epistolario di Coluccio permette di verificare un altro aspetto della sua straordinaria abilità culturale e politica, il suo impegno civile ed ideologico e di avere ulteriori elementi chiarificatori per comprendere il senso di quel programma culturale che siamo soliti definire umanesimo civile. Si è detto molto circa l accezione che egli attribuì alle parole «libertas» e patria. Dalle epistole non è difficile rilevare l ardore e la passione delle sue convinzioni politiche. Con la documentazione passata in rassegna, tuttavia, si possono analizzare anche il significato e il valore che assunse per lui e per i suoi interlocutori il concetto di amicizia. Egli infatti interpretò in maniera significativa lo storico e definitivo passaggio dall «hominium» e dalla «fidelitas» feudale, che presupponevano un rapporto gerarchico, alla valorizzazione della lega tra «comites carissimi», vincolati da rapporti bilaterali di relazioni reciproche. Tutto il suo epistolario, relativamente alla corrispondenza di questi anni, conferma la grande ammirazione per Cicerone, da lui inteso come modello ideale di vita politica e culturale, perfetta sintesi di «humanitas, ars e ingenium». Il concetto di amicizia, espresso da Salutati, è esattamente la trasposizione dell ideale di amicizia politica, così come è enunciato nel «Laelius de amicitia» di Cicerone, testo che Coluccio certamente conosceva, e che forse aveva trascritto e faceva parte della sua ricca biblioteca di codici: "amicizia" non nel gretto senso di fazione, in cui la società romana era abituata a conoscerla; bensì "amicizia" non più subordinata al gioco dei raggruppamenti personali, o ridotta a un rapporto esclusivamente privato: inserita piuttosto, a pieno diritto, nel vastissimo intreccio delle relazioni di una società complessa. Il «consensus dei boni» fondato su amicizie rette da valori etici, e non esclusivamene utilitaristici, scongiura il pericolo dei tiranni. «Dulcissima res amicitia est, sed onerosa, sed quotidianis obnoxia, et subiecta servitiis. Non enim sufficit, si tuis et etiam amicorum amicis geras, sed instant amicorum benevoli, quodque latius patet, instant et noti» scriveva Coluccio a Ser Guido di Pietra Santa, chiedendogli un favore per la risoluzione di una controversia dell'amico di un amico, sottolineando però che non gli domandava di venir meno alla rettitudine della giustizia, gli chiedeva piuttosto che la «ratio» cedesse il passo alla coscienza. Nella «salutatio» delle epistole analizzate, i destinatari: i cittadini di Fermo, Perugia, Siena, Viterbo, Ascoli, Foligno, Arezzo ecc. o i personaggi di rilievo, sono appellati: «fratres carissimi, magnifici fratres carissimi, amici carissimi, fratres et amici carissimi, magnificus miles, amicus carissimus, nobilis amicus carissimus, magnificus et excelsus dominus frater et amicus carissimus, nobilissimus dominus amicus singularissimus», il termine «amicitia» è variamente ricorrente nelle «narratio, petitio, conclusio» accanto alle «benevolentiae captatio». La struttura delle epistole è improntata alla più sofisticata «ars dicendi», Coluccio, cultore appassionato della cultura classica, non disdegna, per essere più efficace, di riferire citazioni dotte di Senofonte, Aristotele, Plutarco, Seneca, Ovidio, Dante e Petrarca, o di inserire stralci testuali. Un aspetto è comunque ribadito con forza: gli «amici carissimi» non devono venir meno ai patti stabiliti. Il cancelliere fiorentino, nelle lettere, sostiene con veemenza la necessità di abbattere il tiranno che nello specifico è il papa, tuttavia «non nella sua veste di Santo Padre, perché siamo tutti cattolici, ma come capo politico di uno stato, che egli fa governare da rappresentanti avidi e rapaci, mostri di violenza e prevaricatori senza scrupoli». La guerra «degli Otto Santi», o meglio gli scenari di guerra, combattuti su più fronti, e tutti gestiti con abile sapienza strategica su più tavoli, anche con la redazione quotidiana di una fitta corrispondenza, per comporre le mosse strategiche in un puzzle coerente, hanno nel notaiocancelliere del comune di Firenze non solo il redattore-dettatore, ma l'esperto di scienze giuridiche e di retorica, ossia delle tecniche del discorso persuasivo e delle relazioni umane, la mente

coordinatrice, l eminenza animata da lucida coscienza critica, da sagacia politica, da straordinaria memoria storica, da valutazione realistica e senso dell opportunità. L invito rivolto ai colleghi italici, perché riscoprissero la forza della tradizione patria, scrollandosi di dosso il giogo della sudditanza servile, fece sì che gli esperti di diritto si mettessero all opera, per dare dignità giuridica e dottrinale al nuovo stato di cose. Ad Ascoli, più che altrove, la competente esperienza dottrinale del diritto, elaborata alla scuola del grande Baldo degli Ubaldi, fece maturare in quello che la tradizione ricorda come il «priore dell università niccolina», Ciuffetto o Ciuffuto di Nuccio, la coscienza che per la repubblica ascolana appena realizzata fosse necessario un codice normativo di riferimento. Il dottore di legge «dominus Ciuffutus» di Nuccio de' Ciuffuti, de' Cauzi, era figlio di Giovanni o Giovannuccio, Nuccio de' Cauzi o de' Kauti, che aveva ricoperto la carica di ambasciatore ascolano con Filippo Bastoni presso il comune di Firenze nel 1376, durante la delicata fase dei tentativi compiuti per cacciare l'albornoz e per aderire alla lega delle città collegate alla guerra fiorentina. Lo spirito che anima la redazione dello Statuto ascolano è espressa nelle parole della premessa dell edizione latina, conclusa il 5 marzo del 1377, a pochi mesi dalla cacciata di Gomez: «Ad honorem, triumphum et exaltationem felicis leghae Italicae libertatis, cunctorum colligatorum et maxime magnificorum communium civitatum Florentiae et Perusiae. Ad conservationem perpetuae libertatis et partis guelfae, et popularis status dictae civitatis, et ufficiorum dominorum Antianorum et Confalonierorum libertatis dictae partis guelfae dictae civitatis». Vale qui la pena di sottolineare che la versione latina dello stesso testo, che ho trovato in un libro delle Riformanze del 1476 è così modificata: «Ad honorem, triumphum et exaltationem felicis leghae ecclesiastice libertatis et eorum colligatorum et maxime magnificorum communium civitatum Florentiae et Perusiae. Ad conservationem perpetuam libertatis et status ecclesiastici, et popularis status dicte civitatis, et ufficiorum dominorum Antianorum et Confalonierorum libertatis dicti status ecclesiastici dictae civitatis». Nella versione volgare degli Statuti, stampata nel 1496, lo stesso testo è tradotto: «Ad honore, triumpho et exaltatione de la felice legha della italica libertà et de tucti l'altri colligati et maxime de li magnifichi comuni de le ciptà de Fiorenza et de Perusia et ad conservatione de la perpetua libertà de lu stato ecclesiastico, et de lu populare stato de la dicta ciptà, et de lu offitio de li signori Antiani et Confaluneri de la libertà de lu dicto stato ecclesiastico de la dicta ciptà». La sostituzione dei termini «partis guelfae», usate nella redazione del 1377, con le espressioni «stato ecclesiastico» nelle redazioni del testo del 1476 e del 1496 provano come dietro queste rielaborazioni linguistiche ci siano complesse vicende socio-politiche e riflessioni ideologico-giuridiche. Esse sono indubbiamente espressione di un articolato dinamismo storico politico, di una complessa serie di «rerum gestarum», a ulteriore conferma dello stretto nesso esistente tra le parole e la memoria, le parole e la storia. Il ritorno del Papa a Roma, in particolare l'elezione di Urbano VI, mise fine alla parentesi indipendentistica dei Collegati. Il 7 agosto del 1378, le città della Lega furono informate da Coluccio che alcuni ambasciatori di Firenze avevano concluso definitivamente la pace con il pontefice e che come «colligati adherentes et sequaces Summi Pontificis» dovevano inviare commissari a Roma. Si trattò di una pace difficile, ottenuta con trattative e complessi accordi diplomatici, cercando l'intervento di amici influenti. Ascoli il 28 e 29 luglio, nel chiostro di Tivoli, alla presenza del papa stipulò lo strumento di pace con la definizione delle condizioni e dei patti per la resa; come oratori e procuratori furono inviati il «doctore de lege» Giovanni di Nello di Stolto (Guiderocchi) e Ser Vanni de' Ciuffuti, fratello del dottore di legge «dominus Ciuffutus» figlio dell'ambasciatore Giovanni (vedi supra). Essi dichiararono che gli ascolani erano confessi e pentiti per aver gravemente mancato di rispetto alla Chiesa, ai suoi pontefici e ai loro rettori nelle Marche, per cui ne chiedevano perdono e assoluzioni. Il mese di dicembre del 1379 Ascoli stabilì una lega con Fermani, Anconetani, Recanatesi e Camerinesi, ma questa volta contro un ex «carissimo amico»: Rinaldo da Monteverde. Era stato uno dei capi della lega di Fermo con i Fiorentini e il suo intervento fu decisivo per Ascoli ma, terminata la guerra, egli aveva imposto la sua tirannia sulla città di Fermo, macchiandosi di gravi misfatti e soprusi. Ascoli non esitò a correre in soccorso di Fermo per catturare Rinaldo e consegnarlo al boia

con i figli, condannandolo ad una morte miserevole. Negli ultimi decenni del secolo, secondo F. A. Marcucci, «gli Ascolani si occuparono a rimettter su la mercatura delle lane, sete e canape e il commercio nel porto e, nel maggio del 1380, [fu emesso] un diploma reale dalla scismatica Giovanna I, regina di Napoli, in cui si accordava loro il libero trasporto in Regno e l'estrazione delle loro mercanzie». In questo contesto, tra Ascoli, Perugia, Firenze e altre città toscane i rapporti continuarono ad essere solidi e proficui, con scambi commerciali, culturali e politici, come si evince anche dagli Statuti municipali che erano stati appena redatti. Nicola de' Carboneschi, nel 1393, fu podestà di Firenze e si distinse per la sua integrità morale. Nel 1395, a diciotto anni dall'instaurazione del «popularis status», ci fu un tentativo riuscito di conquista di Ascoli ad opera del duca d'atri Matteo Andrea Acquaviva; tra i partitanti, principali fautori del successo dell'impresa, le cronache riferiscono del contributo determinante offerto da Giovanni Maxii (di Massa de' Tibaldeschi), irriducibile antagonista del restaurato governo papale, di Marino Lucarelli (discendente dei Nobili di Monte Passillo, vedi supra), nonché di Petrocco Sgariglia, del Senato, Consiglio e Popolo ascolano. F. A. Marcucci riferisce che il 24 aprile 1396 il duca emise una carta di privilegio in favore «viri nobilis Aduardi Cicchi de Esculo amici nostri carissimi», a vantaggio cioè del «capo guelfo» Odoardo di Cecco, passato al suo seguito e che, nell'autunno, il pontefice Bonifacio IX cercò di vanificare gli sforzi dell'acquaviva, rimunerando amichevolmente Giovanni Tibaldeschi con il feudo del castel Folignano e Petrocco Sgariglia con le esenzioni dei dazi nella sua dinastia del Campo. In questo caso, l'"amicizia", esaltata espressamente dal duca, in ricoscenza del supporto offertogli dall'odoardi, e proposta indirettamente dal papa al Tibaldeschi e allo Sgariglia, per il loro cambio di orientamento, era ben lontana dalle idealità che avevano infiammato le parole dei testi delle epistole di Coluccio: la finalità utilitaristica dell'amicizia, tanto contestata dal cancelliere fiorentino, diventava l'obiettivo principale delle relazioni amicali e svelava ed anticipava scenari politici destinati ad avere seguito ad Ascoli nell'endemico trasformismo delle parti per la gestione del potere.