somme risultanti dall'incremento dovuto al rendimento. Fondava la pretesa sull'art. 10 del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, disposizione che sosteneva



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Contributi - Previdenza complementare - Riscatto della posizione individuale in fondo pensione - Clausola statutaria limitatrice della misura della contribuzione riscattabile - Nullità - Esclusione. Corte di Cassazione - 5.6/11.12.2002, n. 17657- Pres. Trezza - Rel. De Matteis - P.M. Napoletano (Conf.) - Checcarelli (Avv.ti Andreoni, Durante) - Fondo Pensione per il Personale delle società parabancarie e interbancarie del gruppo BNL (Avv.ti Flammia, Manca). In tema dì previdenza complementare, le tre opzioni, previste dall'art. 10 D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124 in favore degli iscritti che abbiano cessato il rapporto, senza maturazione del diritto a pensione (trasferimento del capitale accumulato ad altro fondo chiuso, trasferimento a tondo aperto e riscatto), in epoca successiva all'entrata in vigore della legge stessa, si applicano all'intera posizione individuale, comprensiva di tutti gli accantonamenti previsti dall'art 8 stesso decreto, sia del lavoratore, sia del datore di lavoro, effettuati anche nel periodo antecedente all'entrata in vigore del D.Lgs. 124/1993, per i fondi a capitalizzazione preesistenti, anche nel caso in cui gli statuti prevedano modalità di rimborso dei capitali accantonati difformi dalla norma legale. (Massima non ufficiale) FATTO. - Il Dott. Andrea Checcarelli ha lavorato alle dipendenze di società parabancarie del Gruppo BNL dal 1 maggio 1984 al 30 marzo 1997, data di cessazione del rapporto senza maturazione del diritto alla pensione complementare erogata dalla Cassa interaziendale, di previdenza per il personale delle società parabancarie del Gruppo BNL (ora Fondo Pensioni delle Società parabancarie ed interbancarie del gruppo BNL), alla quale era iscritto. Con ricorso dell'8 aprile 1998 ha chiesto al Pretore di Milano di dichiarare il proprio diritto al riscatto, e cioè al rimborso delle quote versate non sole dal lavoratore, pari al 2% della retribuzione lorda, ma anche dal datore di lavoro, pari al 4%, nonché delle maggiori 1

somme risultanti dall'incremento dovuto al rendimento. Fondava la pretesa sull'art. 10 del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, disposizione che sosteneva immediatamente applicabile anche ai fondi integrativi costituiti ed operanti prima dell'entrata in vigore della norma di Legge, attesa altresì la natura retributiva dei contributi versati sia da parte del datore di lavoro sia del lavoratore. La Cassa interaziendale resisteva, sostenendo la natura meramente programmatica dell'art. 10 del D.Lgs. 124/1993. Il Pretore, in parziale accoglimento del ricorso, condannava la convenuta a pagare al ricorrente la somma di L. 79.687.000, pari alla quota del 2% versata dal lavoratore, rivalutata con i rendimenti, oltre alla rifusione delle spese di lite, escludendo così i versamenti effettuati dal datore di lavoro. Avverso la sentenza proponeva impugnazione il ricorrente, che la corte d'appello di Milano respingeva con sentenza 26 ottobre/6 novembre 2000, con motivazione tutta focalizzata sulla interpretazione dell'art. 10 D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124. Tale norma dispone che, ove vengano meno i requisiti di partecipazione alla forma pensionistica complementare, lo statuto del fondo pensione deve consentire, tra le varie opzioni del lavoratore, anche il riscatto della posizione individuale, stabilendone misure, modalità e termini di esercizio. La corte focalizzava la propria attenzione sul termine "misure", interpretandolo come facoltà per lo statuto di determinare la percentuale della posizione individuale suscettibile di riscatto. Così,interpretata la norma a regime, la Corte dichiarava conforme ad essa l'art. 6 del Regolamento Interno, risalente al 1986, sulla cui base il fondo resiste, che al comma 1 così prevedeva: "In caso di cessazione dal servizio senza aver perfezionato il diritto a pensione nell'assicurazione obbligatoria, ai sensi del precedente art. 4, e senza aver raggiunto un'anzianità di servizio di almeno quindici anni, il dipendente ha diritto al rimborso delle quote da lui stesso versate a titolo di contribuzione nonché delle maggiori somme risultanti dalla rivalutazione delle quote stesse; analogo rimborso spetterà al datore di lavoro relativamente alla quota di contributi versata". Diveniva conseguentemente irrilevante per la Corte ogni questione di diritto intertemporale, su cui si era soffermato il primo giudice. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il Checcarelli, con due motivi. La intimata si é costituita con controricorso, resistendo. Entrambi hanno depositato memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.. 2

DIRITTO. - Con il primo mondo di ricorso il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 18 D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124; 1418 e 1419, 2 comma, cod. civ.; omessa e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.) contesta la interpretazione fornita dalla sentenza impugnata del termine "misura". Rileva che il successivo comma 3 bis del medesimo art. 10, aggiunto dall'art. 20 Legge 8 agosto 1995, n. 335, specifica che il trasferimento, e correlativamente il riscatto, deve riguardare l'intera posizione individuale; desume il valore precettivo dall'uso del verbo "deve" e la sua immediata applicabilità ai fondi preesistenti dall'art. 18 D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, il quale, nell'elencare gli articoli che non trovano applicazione alle forme pensionistiche complementari istituite prima dell'entrata in vigore della legge 23 ottobre 1992, n. 421, non menziona l'art. 10 del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124; argomenta sul carattere del fondo, a contribuzione definita ed a capitalizzazione, il che comporta una posizione individuale interamente riscattabile. Con il secondo motivo il ricorrente deduce lesione degli artt. 36.,Cost. e 2099 cod. civ., sul presupposto della natura retributiva dei contributi di previdenza complementare. I due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono fondati, nei limiti di seguito precisati. La interpretazione fornita dalla sentenza impugnata dell'art. 10 D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, contrasta con i criteri ermeneutici indicati dall'art. 12, 1 comma, preleggi. L'art. 10 in esame, nel testo vigente al tempo della sua emanazione, così disponeva: "Ove vengano meno i requisiti di partecipazione alla forma pensionistica complementare, lo statuto del fondo pensione deve consentire le seguenti opzioni stabilendone misure, modalità e termini di esercizio: a) il trasferimento presso altro fondo pensione complementare, cui il lavoratore acceda in relazione alla nuova attività; b) il trasferimento ad uno dei fondi di cui all'art. 9; c) il riscatto della posizione individuale". Sul piano della interpretazione letterale, si deve notare che le opzioni previste dall'art. 10, tra cui il riscatto, e cioè il rimborso delle quote versate, riguardano la posizione individuale, quale risulta dai finanziamenti indicati dal precedente art. 8, e cioè, sia del lavoratore, sia del datore di lavoro. La successiva precisazione dell'art. 3 bis, introdotto dall'art. 10 Legge 8 agosto 1995, n. 335, secondo cui deve trattarsi dell'intera posizione 3

individuale, è, su tale punto, meramente esplicativa, e non innovativa, perché tale norma si limita a consentire il trasferimento della posizione individuale ad altro fondo pensione anche al di fuori delle condizioni di cui ai commi precedenti (e cioè ai fondi c.d. aperti oltre che ai fondi chiusi). E poiché la legge considera le tre opzioni (trasferimento ad altro fondo pensione, trasferimento ad uno dei fondi c.d. aperti di cui all'art. 3 e riscatto) paritetiche e volontarie, il riferimento alla posizione individuale non può che essere sempre intesa come riferimento alla medesima intera posizione individuale. Sul piano della interpretazione funzionale, rileva il profondo mutamento di prospettiva e di ruolo che la legge delega 23 ottobre 1992, n. 421, e la sua successiva à attuazione ad opera della D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, hanno portato nel sistema della tutela pensionistica complessiva, presidiata dall'art. 38 cost., di cui la previdenza complementare viene a fare parte integrante. Come precisato dalla giurisprudenza costituzionale, in ciò seguita dalla dottrina, il raccordo delle varie forme di previdenza complementare con il trattamento pensionistico di base costituisce un momento essenziale della complessiva riforma della materia previdenziale, al fine di assicurare funzionalità ed equilibrio all'intero sistema pensionistico (ord. 12-7-2001 n. 319); la scelta del legislatore, enunciata sin dalla legge 23 ottobre 1992, n. 421 (art. 3 lett. v), diretta ad assicurare livelli più elevati di copertura previdenziale, e confermata, via via, nei successivi interventi (decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, "disposizioni correttive" ad esso immediatamente apportate dal decreto legislativo 30 dicembre 1993, n. 585, legge 8 agosto 1995, n. 335 (artt. 3, comma 25), istituisce un collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare, collocando quest'ultima nel sistema dell'art. 38, secondo comma, della Costituzione (sent. 13-7-2000 n. 393 (1)); sicché, dopo queste leggi, le contribuzioni degli imprenditori al loro finanziamento non possono più definirsi "emolumenti retributivi con funzione previdenziale", ma costituiscono, strutturalmente, contributi di natura previdenziale, come tali estranei alla nozione di retribuzione imponibile agli effetti dell'assicurazione INPS (sent. 6-9-1995 n. 421 (2)). La interpretazione della sentenza impugnata porta alla conclusione, in essa chiaramente esplicitata, che l'art. 10 a regime possa consentire il trasferimento ad altri fondi della sola quota versata dal lavoratore, pari nella specie ad un terzo della posizione individuale, con esclusione della quota versata dal datore di lavoro, e ciò contro, oltre il dettato letterale, la stessa funzione della previdenza complementare, quale sopra cennata. Errata é dunque la interpretazione data dalla sentenza impugnata del termine "misura", 4

nel senso che, attraverso la determinazione della percentuale di trasferimento, con essa lo statuto del fondo sia facultato ad espropriare l'iscritto di una quota della posizione individuale; dovendosi tale termine interpretare con esclusivo riferimento a componenti diverse della posizione individuale, quali ad es. la quota parte degli oneri di gestione, su cui non vi è controversia. Così chiarita la portata normativa dell'art. 10 D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, in esame, è evidente la sua differenza di contenuto precettavo rispetto all'art. 6 del regolamento del fondo. Si pone perciò il problema, eliminato dal Tribunale con la sua interpretazione, e posto con forza dalla controricorrente, della validità temporale dell'art. 10 in esame rispetto ai fondi preesistenti, quale quello in causa. Il problema è risolto per tabulas dall'art. 18 D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, il quale disegna un programma, articolato nel tempo, di conformazione dei fondi preesistenti alla legge delega 421/1992, attraverso la tecnica della indicazione nominativa degli articoli ad applicazione differita; le norme non menzionate entrano in vigore, viceversa, al 15 giorno dalla pubblicazione sulla gazzetta ufficiale, secondo la regola generale dell'art. 10 preleggi ribadita dall'art. 19 del D.Lgs 124/1993. Se ne deduce che l'art. 10 trova applicazione immediata, il che significa che con l'entrata in vigore del D.Lgs 124/1993, gli iscritti ai fondi preesistenti devono poter contare sulla triplice opzione prevista da tale norma, tra cui il riscatto. La norma legale che afferma tale diritto si sostituisce ad eventuali difformi clausole statuarie, ai sensi dell'art. 1339 cod. civ.. È ben vero che le misure, modalità e termini di esercizio del diritto di opzione devono essere stabilite dallo statuto del fondo, ma, non essendo posto alcun termine a tale potestà, si applica il principio quod sine die debetur statim debetur; nel senso che tali modalità di esercizio del diritto di opzione, da stabilire al più presto, retroagiscono al momento in cui la legge riconosce il diritto agli iscritti, ai sensi del combinato disposto degli artt. 10 e 18 del D.Lgs. 124/1993. Peraltro, lo stesso art. 10, comma 3, dispone che gli adempimenti a carico del fondo pensione, conseguenti all'esercizio delle opzioni di cui ai commi 1 e 2, debbono essere effettuati entro il termine di sei mesi dall'esercizio dell'opzione. Opinare diversamente significherebbe consentire ai fondi, con la loro eventuale inerzia nel modificare gli statuti, di disattendere la norma legale, e ciò, ancora una volta, contro il tenore testuale dell'art. 18, che pone termini precisi per le modifiche statutarie, quando necessarie per l'entrata in vigore delle specifiche disposizioni indicate dallo stesso art. 18. 5

Tale conclusione é confortata dal contributo di autorevole dottrina la quale, interrogandosi sul cennato programma dell'art. 18, ritiene problematica l'immediata applicabilità dell'art. 10 ai fondi a ripartizione, date le particolari modalità di funzionamento di questi. Se ne deduce, a contrario che anche la dottrina nulla obietta all'immediata applicabilità dell'art. 10 ai fondi a conti individuali a capitalizzazione, quale quello in causa. In effetti nessun problema di equilibrio finanziario può sorgere dalla destinazione dell'accantonamento ai fini disposti della legge, data la loro originaria finalità di previdenza complementare, posto che comunque il Fondo è tenuto, a norma di statuto, a restituire le somme ricevute (in parte al lavoratore ed in parte al datore di lavoro). Infatti le opzioni previste dall'art. 10 non incidono sul rapporto attuariale contributi - prestazioni, di cui agli artt. 7 e 8 D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124 (dei quali l'art. 18, comma 7, dispone la non applicabilità per i destinatari iscritti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo), in quanto il presupposto per le opzioni è proprio che non sia maturato il diritto alle prestazioni presso il fondo a quo, e l'opzione trasferimento è conferita proprio per consentire che gli accantonamenti trasferiti al fondo ad quem maturino il diritto alla prestazione previdenziale presso tale fondo. In forza di quanto fin qui esposto, la Corte ritiene che una prima conclusione possa essere sicuramente raggiunta, e cioè che le tre opzioni previste dall'art. 10 D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124 trovano immediata applicazione agli accantonamenti effettuati dopo la sua entrata in vigore, anche per i fondi preesistenti, ed anche se difformi le clausole dei relativi statuti. Ciò posto, vi è l'ulteriore problema se analoga regola possa essere enunciata per gli accantonamenti effettuati prima della entrata in vigore del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, o se, come obiettato dalla controricorrente, a ciò osti il principio di irretroattività delle leggi stabilito dall'art. 11 delle preleggi, il quale costituisce un principio generale dell'ordinamento (Corte Cost. sent. 82/1991). Tale principio impone che, ove una nuova legge riconosca un nuovo diritto, sulla base di fatti prolungati nel tempo, avvenuti in parte prima della sua entrata in vigore e in parte dopo, per la maturazione del diritto assumono rilevanza solo i fatti successivi alla sua entrata in vigore, mentre le conseguenze dei fatti anteriori rimangono disciplinati dalla norma precedente. Di tale regola questa Corte ha fatto applicazione, ad es., in tema di diritto alla promozione automatica riconosciuta dall'art. 2103 cod. civ. (ex plurimis Cass. 25-07-1998 n. 7308, 6

secondo cui non assume rilevanza lo svolgimento di mansioni superiori per il periodo anteriore al momento in cui l'art. 2013 c.c. è divenuto applicabile ai dipendenti delle Ferrovie dello Stato, per le quali, in base alla previgente disciplina, non era possibile far derivare i benefici rivendicati dal lavoratore; analogo principio per i dipendenti dell'ente Poste è stato enunciata da Cass. Sez. U., sent. n. 8587 del 05-09-1997). La fattispecie odierna è tuttavia diversa, sia sotto il profilo della sua struttura, sia perché attiene ai poteri della legge statale di incidere sulla previdenza complementare. Sotto il primo profilo, perché il diritto non nasce dal mero trascorrere del tempo, come nell'esempio cennato, dell'art. 2103 cod. civ., ma da un evento, la cessazione del rapporto, accaduto sotto il vigore della nuova legge (D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124). In relazione a tale evento il D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, che ha tra i suoi fini essenziali quello di assicurare la mobilità tra i fondi, imprenscindibile per il decollo ed il funzionamento della previdenza complementare in un mercato di lavoro flessibile quale quello attuale, ha disposto che il capitale accumulato possa essere trasferito ad altro fondo pensione. Poiché tale capitale era già vincolato in favore degli iscritti a fini di previdenza, in forza dell'art. 2117 cod. civ. (Cass. 1-7-1998 n. 6427), rientra sicuramente nei poteri del legislatore nei confronti dell'autonomia negoziale, anche collettiva, introdurre una disciplina che si sovrapponga, nei limiti indicati, ad una regolamentazione di origine contrattuale (Corte Cost. 30-7-1980 n. 141 e 142; Cass. 15-6-1995 n. 6771). E poiché la legge considera le tre opzioni previste dall'art. 10 come paritetiche, nel senso che al lavoratore deve essere garantita la possibilità o di trasferire l'intero capitale accumulato, incrementato dei rendimenti, ad altro fondo pensione, o di riscattarlo, nonostante la profonda differenza tra le prime due e la terza, l'interprete non può limitare il diritto al riscatto della posizione, individuale, ma prendere atto del crescente rilievo che la posizione contributiva individuale va assumendo nella previdenza sia pubblica che complementare, fermo il principio di solidarietà (Corte Cost. 421/1995 cit.). La portata intertemporale così individuata dell'art. 10 D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124 à coerente con la natura dei versamenti del datore di lavoro per il finanziamento di fondi di previdenza complementare, anteriormente alla sua entrata in vigore. Secondo un risalente orientamento, i trattamenti pensionistici aziendali costituiti su base collettiva, essendo erogati a seguito della costituzione di fondi speciali previsti dalla contrattazione collettiva privi di autonoma soggettività, avrebbero avuto natura di debiti di lavoro, anche se esigibili dopo la cessazione del rapporto di lavoro, essendo in nesso di stretta corrispettività con la prestazione lavorativa a causa dell'interdipendenza con la 7

durata del servizio e la misura della retribuzione ricevuta. Ne derivava, stante anche il fatto che l'intero onere del finanziamento, o almeno gran parte di esso, era a carico del datore di lavoro, il corollario della natura di retribuzione differita delle relative prestazioni. pensionistiche e dell'inclusione dei contributi versati al singolo fondo dal datore di lavoro nella retribuzione imponibile ai fini del versamento dei contributi previdenziali, dato il rigido principio di tassatività delle erogazioni escluse dalla retribuzione imponibile ai sensi dell'art. 12 L. n. 153 del 1969 (Cass., 27-4-1994, n. 3995, Id., 5-2-1994, n. 1166; id. 18-5-1991 n. 5610 (3) e 5611, Id., 22-11-1989, n. 5004; Id., 18-4-1989, n. 1381; Id., 5-11--1988, n. 5989; Id., 10-6-1988, n. 3937; Id., 13-10-1987, n. 7564; Id., 8-1-1987, n. 61; Id., 10-5-1986, n. 3121; Id., 13-3-1984, n. 1717; Id., 9-2-1983, n. 1061). In contrasto con tale orientamento, un altro minoritario riteneva che la prestazione pensionistica dei fondi integrativi aziendali non avesse natura di retribuzione differita, ma natura previdenziale, anche se inquadrabile nell'assistenza privata, la cui libertà è garantita dall'art. 38, 5 co., Cost. (Cass., 8-4-1992, n. 4273). Le Sezioni Unite di questa Corte (sent. 1 febbraio 1997, n. 974), nel comporre il contrasto, ne hanno ribadito la natura retributiva, ma, come rilevato dalla dottrina, nell'ambito di una nuova prospettiva contrattuale, nella quale alla funzione strettamente corrispettiva della retribuzione si aggiungono obblighi di corresponsione monetaria del datore di lavoro, appartenenti sì al sinallagma contrattuale, ma con funzione e destinazione a fini pensionistici complementari. Ne deriva che la garanzia dell'art. 2117 cod. civ., se da una parte non impedisce la sospensione temporanea della prestazione, complementare in situazioni di incompatibilità con la sua funzione previdenziale, dall'altra impone un vincolo di destinazione allo scopo pensionistico, con conseguente impossibilità di distrazione definitiva dei versamenti dal fine previdenziale, per il quale il fondo è stato costituito, nelle situazioni in cui tale esigenza si pone, come nel caso presente (Cass. 974/1997 cit.). Il definitivo mutamento di prospettiva si è realizzato, come già cennato, con la legge delega 23 ottobre 1992, n. 421, attuata dal D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124 (Corte Cost. 421/1995 cit.; Cass. 14 maggio 1998 n. 4885), ed è stata ribadita, come rilevato dalla controricorrente, dall'art. 6, comma 1, D.Lgs. 2 settembre 1997 n. 314, che ha espunto i contributi per la previdenza complementare dalla nozione di retribuzione imponibile. Tale prospettiva storica salda le rationes dell'art. 2117 cod. civ. e dell'art. 10 D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, accomunate nella medesima finalità previdenziale. Pertanto, anche in 8

forza della natura retributiva, con funzione previdenziale, di tali accantonamenti e del divieto di distrazione sancito dall'art. 2117 cod. civ., le somme versate dal datore di lavoro sono vincolate alla predetta destinazione, in coerenza con il successivo disposto dell'art. 10 D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124. Sulla base degli esposti principi, il ricorso va accolto; la sentenza impugnata cassata, e gli atti rimessi ad altro giudice, che si designa nella Corte d'appello di Torino, il quale deciderà la controversia attenendosi al seguente principio di diritto: "In tema dì previdenza complementare, le tre opzioni, previste dall'art. 10 D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124 in favore degli iscritti che abbiano cessato il rapporto, senza maturazione del diritto a pensione (trasferimento del capitale accumulato ad altro fondo chiuso, trasferimento a fondo aperto e riscatto), in epoca successiva all'entrata in vigore della legge stessa, si applicano all'intera posizione individuale, comprensiva di tutti gli accantonamenti previsti dall'art. 8 stesso decreto, sia del lavoratore, sia del datore di lavoro, effettuati anche nel periodo antecedente all'entrata in vigore del D.Lgs. 124/1993, per i fondi a capitalizzazione preesistenti, anche nel caso in cui gli statuti prevedano modalità di rimborso dei capitali accantonati difformi dalla norma legale". (Omissis) (1) V. in q. Riv., 2000, p. 981 (2) Idem, 1995, p. 886 (3) Idem, 1991, p. 1222 9