Alcune riflessioni sulla detraibilità Iva per i soggetti esenti

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Pubblicata su FiscoOggi.it (http://www.fiscooggi.it) Attualità Alcune riflessioni sulla detraibilità Iva per i soggetti esenti Il filone contenzioso riguarda soprattutto gli operatori sanitari e sorge in merito alle richieste da questi avanzate volte a ottenere il rimborso dell'imposta loro addebitata sugli acquisti La questione Da qualche tempo sono al vaglio dei giudici tributari liti instaurate a seguito di rifiuto espresso o tacito del rimborso dell'iva relativa a operazioni di acquisto di beni destinati all'esercizio di attività esenti. L'istanza di rimborso e il successivo ricorso vengono proposti assumendo che non sarebbe stato correttamente recepito dal legislatore nazionale l'articolo 13, parte B, lettera c), della direttiva n. 77/388/Cee, che prevede l'esenzione dall'imposta sul valore aggiunto delle "forniture di beni destinati esclusivamente ad un'attività esentata a norma del presente articolo o a norma dell'articolo 28, paragrafo 3, lettera b), ove questi beni non abbiano formato oggetto di un diritto a deduzione, e le forniture di beni il cui acquisto o la cui destinazione erano stati esclusi dal diritto alla deduzione conformemente alle disposizioni dell'articolo 17, paragrafo 6". La richiamata disposizione comunitaria, in sostanza, prevede che la rivendita dei beni già acquistati per essere destinati a una attività esente e per i quali non è stato possibile detrarre l'imposta pagata all'atto dell'acquisizione, avvenga in regime di esenzione. Alcuni contribuenti, interpretando la suddetta disposizione comunitaria nel senso che devono essere esentati da Iva tutti gli acquisti di beni effettuati da un soggetto che pone in essere operazioni esenti, hanno chiesto il rimborso dell'iva non detratta sugli acquisti a causa del prorata di indetraibilità totale. Le motivazioni espresse nei ricorsi si fondano sulla circostanza che la citata sesta direttiva, come anche la giurisprudenza della Corte di giustizia che citeremo più avanti, fanno riferimento al termine "forniture", piuttosto che "cessioni", lasciando ipotizzare che la previsione di esenzione si riferisca all'acquisto di beni che entrano nel ciclo dell'attività produttiva. Da qui la tesi secondo cui la richiamata direttiva comunitaria avrebbe imposto l'esenzione per le operazioni di acquisto di beni da parte di soggetti che svolgono attività esenti. Altra argomentazione addotta a sostegno della riferita tesi è che a voler negare l'esenzione sulle forniture, il soggetto passivo di diritto verrebbe a trovarsi nella condizione di soggetto passivo di fatto (consumatore finale) e tale ipotesi violerebbe il principio generale di neutralità dell'iva. In particolare, i ricorrenti traggono spunto dalla sentenza della Corte di giustizia del 25 giugno 1

1997, adottata nel giudizio C 45/95, con la quale l'italia è stata condannata per non aver previsto nel proprio ordinamento interno una norma che recepisse il suddetto articolo 13, parte B, lettera c). La normativa nazionale, in effetti, fino al 31 dicembre 1997 non disponeva in senso conforme. In tale occasione, la Corte ha sottolineato che l'italia, ai sensi della lettera h) dell'articolo 2 del Dpr 26 ottobre 1972, n. 633 - nel testo applicabile ratione temporis nel caso deciso con la sentenza - non considerava cessioni di beni, e quindi reputava escluse dal campo di applicazione dell'iva, le cessioni che avessero per oggetto beni acquistati o importati dal cedente senza poter detrarre la relativa imposta. A seguito della sentenza di condanna, lo Stato italiano si è adeguato alla direttiva comunitaria attraverso l'inserimento del numero 27-quinquies) nell'articolo 10 del Dpr n. 633 del 1972, ai sensi del quale sono esenti "le cessioni che hanno per oggetto beni acquistati o importati senza il diritto alla detrazione totale della relativa imposta ai sensi degli artt. 19, 19-bis1 e 19-bis2". La sentenza n. 81 del 7 ottobre 2004 della Commissione regionale di Roma, sezione VII La sentenza della Commissione regionale di Roma, accogliendo le doglianze della parte ricorrente, attribuisce alla stessa il diritto del rimborso dell'iva non detratta. I giudici, trattando la questione nel merito, ritengono che "la regola da applicare è la seguente: sono esenti da Iva le cessioni ad un'impresa di beni, destinati poi alla sua attività esente da Iva. Se, perciò, non ha possibilità di portare in detrazione dell'iva da essa dovuta quella assolta per l'acquisizione dei beni in parola, dalla quale era esente, l'impresa ha titolo alla restituzione dell'indebito così formatosi". Dalla sentenza pubblicata, emergono degli spunti degni di nota che andiamo a illustrare. Il primo fa riferimento al problema della carenza di legittimazione - da parte dell'acquirente (cessionario) - alla proposizione dell'istanza di rimborso. Nel caso in questione, infatti, la richiesta di rimborso dell'iva pagata al momento del trasferimento del bene, non è stata formulata dal soggetto passivo d'imposta, bensì dall'acquirente. Invero, il soggetto legittimato a richiedere la restituzione dell'iva ritenuta indebitamente versata all'erario non è il cessionario, che paga l'imposta applicata per rivalsa, bensì il cedente, che è obbligato al versamento dell'imposta medesima. Ciò si riflette anche sul piano della tutela giurisdizionale; il cessionario, infatti, nel caso in cui ritenga che l'acquisto del bene non doveva essere assoggettato a Iva, non è titolare dell'azione nei confronti dell'amministrazione finanziaria, ma può solo agire, in sede civile, nei confronti del cedente. Quest'ultimo, invece, è il solo soggetto che, attraverso la giurisdizione tributaria, può instaurare un giudizio nei confronti dell'amministrazione medesima volto a ottenere una sentenza di condanna al rimborso dell'imposta indebitamente versata. Sul punto è intervenuta la Corte di cassazione a Sezioni unite con la sentenza n. 5733 del 10 giugno 1998, secondo cui "Il d.p.r. n. 633/1972 dispone: che l'iva è dovuta dal cedente, il quale è quindi il contribuente di diritto (art. 17); che lo stesso deve rivalersi sul cessionario, il quale quindi è il contribuente di fatto (art. 18); che quest'ultimo, se a sua volta soggetto d'iva può portare in detrazione l'iva da lui pagata in rivalsa al cedente (art. 19). L'operazione imponibile cioè da luogo a tre distinti rapporti: uno di diritto tributario tra il cedente e l'amministrazione finanziaria in ordine al pagamento dell'imposta; uno di diritto tributario tra il cessionario e l'amministrazione finanziaria in ordine alla detrazione dell'imposta assolta in via di rivalsa; uno di diritto privato tra il cedente e il cessionario in ordine alla rivalsa". 2

Da ciò, la Corte trae le seguenti conseguenze: "...le tre azioni sono autonome...e quindi non interferiscono tra loro, con le conseguenze: che l'amministrazione non potrebbe opporre al cedente che agisca per il rimborso il fatto che costui si sia rivalso sul cessionario; che il cedente non potrebbe opporre al cessionario che agisca in restituzione il fatto che esso (cedente) abbia pagato l'imposta all'amministrazione; che il cessionario non potrebbe opporre all'amministrazione che escluda la detrazione né il fatto che lui abbia pagato in via di rivalsa al cedente né il fatto che costui abbia pagato l'imposta". Tale chiaro orientamento è stato ribadito più volte; fra le altre, si richiama la sentenza n. 208 del 14 maggio 2001 delle stesse Sezioni unite e, più recentemente, la sentenza n. 3306 del 19 febbraio 2004 della Sezione tributaria. Quest'ultima pronuncia, in particolare, ribadisce che "nel sistema dell'iva, soggetto passivo del tributo, e quindi legittimato a richiederne il rimborso, ove il pagamento non sia dovuto, è - ai sensi dell'art. 17 del d.p.r. n. 633 del 1972 - il cedente del bene o il prestatore del servizio, non già il cessionario od il committente, i quali ultimi, quali semplici soggetti d'iva, cioè soggetti solo economicamente incisi e consumatori finali, rimangono estranei al rapporto con l'amministrazione finanziaria". Passando ora all'esame del merito, pur ammettendo che la versione italiana della disposizione comunitaria non sia di immediata lettura, si ritiene non corretta la tesi esposta dai giudici nella sentenza in esame per i motivi di seguito esposti. Infatti, la disposizione di cui all'articolo 13, parte B, lettera c), della VI direttiva, include tra le operazioni esenti "le forniture di beni destinati esclusivamente ad un'attività esentata...". Tale espressione, tuttavia, non può che essere riferita alla successiva rivendita di quei beni per i quali, al momento dell'acquisto o dell'importazione, non si è potuta detrarre l'iva pagata; questa impostazione trova conferma nel contenuto della disposizione in esame, che prevede espressamente che l'esenzione spetta "ove questi beni non abbiano formato oggetto di un diritto a deduzione", dal che può agevolmente desumersi che trattasi della rivendita di beni in precedenza acquistati. Ciò emerge con maggiore chiarezza ove si faccia riferimento ad altre versioni linguistiche della disposizione, come ad esempio quella francese, in cui si legge che deve trattarsi di beni che sono (già) stati destinati a un'attività esente. Nel testo redatto in lingua francese, infatti, è utilizzata l'espressione "biens qui étaient affectés exclusivement à une activité exonérée" (beni che erano destinati esclusivamente a un'attività esente), rendendo così palese che la previsione di esenzione si riferisce alla fase della rivendita dei beni che sono stati utilizzati per l'esercizio di attività esenti da Iva e non alla fase di acquisto di tali beni da parte del soggetto che pone in essere le operazioni esenti. Peraltro, se la ratio della norma comunitaria fosse quella di non far corrispondere l'iva "a monte" ai soggetti che, in virtù dell'attività esercitata, non possono operare la detrazione della stessa, non risulterebbe coerente che la disposizione si riferisca solo ai beni e non anche all'acquisizione di servizi e alle importazioni, atteso che l'articolo 2 della sesta direttiva individua l'elemento oggettivo dell'imposta menzionando distintamente le cessioni dei beni, le prestazioni dei servizi e le importazioni. Si evidenzia inoltre come l'interpretazione sostenuta dal ricorrente e sposata dalla Commissione tributaria regionale di Roma mal si concilia con il chiaro disposto dell'articolo 17 della direttiva 77/388/Cee, che consente la detrazione dell'imposta pagata al momento dell'acquisto o 3

dell'importazione di beni e servizi solo nella misura in cui tali beni e servizi siano impiegati "ai fini di sue operazioni soggette ad imposta" (nell'ordinamento interno articolo 19 del DPR n. 633 del 1972), nonché con l'articolo 19 della direttiva medesima, che detta le modalità di calcolo del pro-rata di detrazione dell'iva pagata per le operazioni passive imponibili proprio in rapporto alle operazioni attive esenti dall'imposta. Ancora va notato che i giudici hanno ritenuto, al punto 12.1 della sentenza in esame, che anche l'amministrazione finanziaria abbia già adottato la tesi secondo la quale alla ricorrente spetta il rimborso dell'imposta che non ha potuto detrarre. In particolare, la sentenza riporta un passo della circolare del ministero delle Finanze n. 328 del 24 dicembre 1997, e precisamente il paragrafo 11.1.2, il quale espressamente chiarisce che "Per effetto della soppressione della lettera h) del terzo comma dell'articolo 2, disposta dall'articolo 1, comma 1, lettera b) del D.Lgs. n. 313 del 1997, e della concomitante introduzione del n. 27- quinquies) all'articolo 10, le cessioni di beni il cui acquisto è caratterizzato dalla indetraibilità totale dell'imposta, ai sensi del previgente articolo 19, secondo comma, saranno esenti e non più escluse dal campo di applicazione dell'imposta". La menzionata circolare è stata emanata dal ministero delle Finanze in occasione proprio della modifica normativa apportata dal decreto legislativo n. 313 del 1997, attraverso la quale, con l'inserimento del numero 27-quinquies) nell'articolo 10 del Dpr n. 633 del 1972 e la contestuale abrogazione della lettera h) contenuta nel comma 3 dell'articolo 2 dello stesso decreto, sono state considerate esenti da Iva e non più non imponibili le cessioni di quei beni per i quali non è stata possibile la detrazione dell'imposta pagata. Ad avviso di chi scrive questo passo della circolare non fa che confermare che la norma europea alla quale lo Stato italiano si è adeguato impone di considerare esenti dall'imposta "le cessioni di beni il cui acquisto è caratterizzato dalla indetraibilità totale dell'imposta". E' evidente che dall'esame della sentenza dei giudici romani non emerge alcunché della disanima ora affrontata, né per quanto riguarda la legittimazione passiva, che dovrebbe essere problema noto in quanto più volte affrontato dalla Corte di cassazione, né più specificamente nel merito. Occorre evidenziare, inoltre, che la norma introdotta nell'articolo 10 del Dpr n. 633 del 1972 con il numero 27-quinquies) proprio a seguito della sentenza della Corte di giustizia del 25 giugno 1997 è stata vagliata dalla Ue e non ha dato luogo all'apertura nei confronti dell'italia di una procedura d'infrazione, come, invece, sarebbe accaduto nel caso di non idoneità della disposizione in esame a colmare la deficienza dell'ordinamento interno. Ordinanze delle Commissioni tributarie alla Corte di giustizia europea Oltre alla sentenza analizzata, si sta formando un nuovo filone giurisprudenziale che affronta la questione in modo totalmente diverso. Infatti, che quanto fin qui affermato abbia necessità di autorevoli chiarimenti, ha indotto alcuni giudici a emettere ordinanze che rimettono la questione alla Corte di giustizia europea. In particolare, si segnala l'ordinanza n. 426 emessa il 18 dicembre 2003 dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli, con la quale sono state formulate le seguenti domande di pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia: 1) Se l'esenzione di cui all'art. 13, parte B, lett. C) della VI Direttiva del Consiglio 17 maggio 1977 n. 77/388/CEE si riferisca all'imposta sul valore aggiunto pagata a monte per l'acquisto di beni destinati ad operazioni esenti ovvero alle fattispecie in cui il soggetto che abbia acquistato beni destinati al compimento di tali operazioni provveda successivamente a cedere i detti beni ad altri 4

soggetti; 2) Se la medesima disposizione contenga, o meno, norme incondizionate e sufficientemente precise, perciò di immediata applicazione nell'ordinamento nazionale; 3) Quale rilevanza abbia, ai fini dell'immediata applicabilità della direttiva, la previsione dell'art. 13 n. 1 cit., per cui gli Stati membri, nel dare attuazione alla norma (punto B, lett. C)), devono stabilire le condizioni "per prevenire ogni possibile frode, evasione ed abuso". La Corte di giustizia delle Comunità europee ha assegnato a tale causa il numero C-18/05. In questo modo si è finalmente riportato il problema di fronte allo stesso organismo che, suo malgrado, ha generato questo vero e proprio filone di contenzioso. Ovviamente, sia gli operatori del settore che l'agenzia delle entrate, nonché i giudici delle Commissioni tributarie chiamati a pronunciarsi, attendono un chiarimento sulla effettiva portata della disposizione comunitaria che, ci si auspica, porrà fine a questa storia infinita. Armando Sappino pubblicato Venerdì 18 Novembre 2005 5