La nuova disciplina in materia di oneri di sicurezza aziendali al vaglio della Corte di Giustizia

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La nuova disciplina in materia di oneri di sicurezza aziendali al vaglio della Corte di Giustizia Tar Basilicata ordinanza n. 525 del 25 luglio del 2017 Il Tar Basilicata ha posto alla Corte di Giustizia il seguente quesito: Se i principi comunitari di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, unitamente ai principi di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui al Trattato sul Funzionamento dell Unione Europea (TFUE), nonché i principi che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza, di cui alla direttiva n. 2014/24/UE, ostino all applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana derivante dal combinato disposto degli artt. 95, comma 10, e 83, comma 9, del D. Lg.vo n. 50/2016, secondo la quale l omessa separata indicazione dei costi di sicurezza aziendale, nelle offerte economiche di una procedura di affidamento di appalti pubblici, determina, in ogni caso, l esclusione della ditta offerente senza possibilità di soccorso istruttorio, anche nell ipotesi in cui l obbligo di indicazione separata non sia stato specificato nell allegato modello di compilazione per la presentazione delle offerte, ed anche a prescindere dalla circostanza che, dal punto di vista sostanziale, l offerta rispetti effettivamente i costi minimi di sicurezza aziendale. 1) L ordinanza di rimessione

Sembrava che l intervento legislativo dell aprile 2016 avesse posto fine all annosa questione relativa all obbligo di indicazione a pena di esclusione dei costi di sicurezza aziendali, alimentata da diverse pronunce giurisprudenziali. Il Tar Basilicata, invece, con ordinanza n. 525 del 25 luglio del 2017, ha sollevato molteplici censure avverso il dettato del Nuovo Codice degli Appalti in tema di costi di sicurezza aziendali, sollevando una nuova questione di compatibilità tra la disciplina nazionale e i principi eurounitari. Nel caso preso in analisi dal Tar Basilicata, l impresa Olympus Italia S.r.l lamentava l aggiudicazione della gara alla Crimo Italia S.r.l. sotto diversi profili e, in particolare, per quello che qui interessa, sotto quello della mancata indicazione degli oneri di sicurezza aziendale; nel caso di specie la stazione appaltante non aveva previsto nel modulo di gara la voce relativa all indicazione dei costi di sicurezza aziendali, pertanto, consentiva alla Crimo S.r.l di regolarizzare la sua posizione tramite il ricorso al all istituto del soccorso istruttorio. Rispetto a tale censura proposta da parte ricorrente, il Tar ha ritenuto di dover sospendere il giudizio e di rimettere la questione alla Corte di Giustizia evidenziando possibili profili di contrasto tra normativa nazionale e principi eurounitari. 2) I termini della questione e il quesito finale Le ragioni sottese all ordinanza di rimessione sono legate alla natura particolarmente gravosa per l operatore economico della nuova disciplina del Codice degli Appalti La disciplina nazionale, infatti, è ora fornita dal combinato disposto degli artt. 95 comma 10 e 83 comma 9 del d.lgs 50/2016 per cui l operatore, nell offerta, deve indicare i propri costi aziendali concernenti l adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro a pena di esclusione attesa l insanabilità delle delle carenze essenziali della domanda di partecipazione afferenti all offerta tecnica e all offerta economica.

Contrariamente alla disciplina previgente [1][2], il nuovo codice ha sancito la natura doverosa dell inserimento di tali costi aziendali per l operatore economico, pena l esclusione dalla gara e senza possibilità per l offerente di attivare il soccorso istruttorio.. Una disciplina siffatta, osserva il Tar Basilicata, potrebbe entrare in aperto contrasto con i principi eurounitari di concorrenza, favor partecipationis e legittimo affidamento. Il Tar sottolinea come, dopo la novella legislativa, la giurisprudenza di merito sia stata particolarmente rigorosa laddove ha qualificato come ineludibile l obbligo per l operatore economico di indicare nell offerta gli oneri di sicurezza, precisando come una tale mancanza non sia sanabile attraverso il ricorso all istituto del soccorso istruttorio (v. T.A.R. Reggio Calabria, 25 febbraio 2017, n. 166; C.S., V, ord. 15 dicembre 2016, n. 5582; T.A.R. Molise, 9 dicembre 2016, n. 513; T.A.R. Campania, Salerno, 6 luglio 2016, n. 1604). L applicazione rigorosa della legge italiana, quale interpretata dalle richiamate pronunce, nel non ammettere la possibilità del c.d. soccorso istruttorio rischia, ad avviso del Tar rimettente, di condurre ad un risultato applicativo in distonia con i principi di euro-unitari, di matrice giurisprudenziale, della tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, unitamente ai principi di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui al Trattato sul Funzionamento dell Unione Europea (TFUE), nonché con i principi che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza, di cui alla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 sugli appalti pubblici n. 2014/24/UE. E invero, essa potrebbe condurre all esclusione di un concorrente sostanzialmente in possesso del requisito ma colpevole di non averlo contemplato in sede di offerta perché il modulo predisposto dalla stazione appaltante era silente sul punto. Secondo questa impostazione di particolare rigore, infatti, l operatore economico avrebbe dovuto comunque indicare i costi aziendali e, quindi, eterointegrare il

modulo dell amministrazione perché è la stessa normativa primaria (art. 95 comma 10 d.lgs 50/2016), ancor prima dell eventuale completa predisposizione del modulo di gara dalla stazione appaltante, a prevedere come necessaria l indicazione degli oneri di sicurezza aziendali; sicché l impresa andrebbe esclusa senza possibilità di sanatorie successive e a prescindere dal possesso sostanziale del requisito. Per tale motivo il Tar Basilicata ha posto alla Corte di Lussemburgo il quesito che segue: Se i principi comunitari di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, unitamente ai principi di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui al Trattato sul Funzionamento dell Unione Europea (TFUE), nonché i principi che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza, di cui alla direttiva n. 2014/24/UE, ostino all applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana derivante dal combinato disposto degli artt. 95, comma 10, e 83, comma 9, del D. Lg.vo n. 50/2016, secondo la quale l omessa separata indicazione dei costi di sicurezza aziendale, nelle offerte economiche di una procedura di affidamento di appalti pubblici, determina, in ogni caso, l esclusione della ditta offerente senza possibilità di soccorso istruttorio, anche nell ipotesi in cui l obbligo di indicazione separata non sia stato specificato nell allegato modello di compilazione per la presentazione delle offerte, ed anche a prescindere dalla circostanza che, dal punto di vista sostanziale, l offerta rispetti effettivamente i costi minimi di sicurezza aziendale. 3) Le utili indicazioni dei precedenti giurisprudenziali ante d.lgs 15/2016 Un punto di partenza utile per lumeggiare la questione è la recente decisione della C.gue pronunciatasi sulla stessa materia nella vigenza del Codice previgente. sez. VI, 10.11.2016 n. C-140/16, che fornisce utili spunti di riflessione sulla questione posta dal Tar Basilicata. In tale pronuncia la Corte sembra aver anticipato la risposta al quesito del Tar remittente laddove aveva già stabilito che ostano all esclusione di un offerente

dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito dell inosservanza, da parte di detto offerente, dell obbligo di indicare separatamente nell offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con l esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì emerge da un interpretazione di tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con l intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le lacune presenti in tali documenti. I principi della parità di trattamento e di proporzionalità devono inoltre essere interpretati nel senso che non ostano al fatto di concedere a un tale offerente la possibilità di rimediare alla situazione e di adempiere detto obbligo entro un termine fissato dall amministrazione aggiudicatrice. La Corte di Lussemburgo, con la pronuncia citata, ha espressamente stigmatizzato l esclusione di un offerente a seguito dell inosservanza, da parte di detto operatore economico, dell obbligo di indicare separatamente nell offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, ove tale obbligo non risulti espressamente dai documenti di gara o dalla normativa nazionale. Il caso sottoposto al vaglio della Corte di Giustizia si collocava temporalmente sotto la vigenza del vecchio codice che non prevedeva perentoriamente l obbligatorietà dell indicazione dei costi di sicurezza aziendali; una tale sanzione era stata introdotta, per via giurisprudenziale, dal rigoroso orientamento fornito sentenza dell Adunanza Plenaria n.9 del 2015[3]. Tale restrittivo approdo interpretativo stimolò la rimessione della questione alla Corte di Giustizia da parte del Tar Molise[4] che censurava proprio il dato che l obbligo di contemplazione degli oneri di sicurezza aziendale fosse previsto solo dal diritto vivente. Va, per altro, evidenziato che quanto affermato dalla Corte di Lussemburgo in tale decisione non è altro che la declinazione alla materia degli oneri di sicurezza del più generale principio espresso in una sua precedente decisione (sul diverso tema della possibile esclusione di un impresa per il mancato pagamento del con- tributo all Autorità di Vigilanza dei contratti pubblici ai sensi della legge n. 266/2005) per cui i principi eurounitari ostano all esclusione automatica di un impresa quando un determinato obbligo non sia previsto dal bando o dal diritto

vigente ma solo da una particolare interpretazione giurisprudenziale o dei documenti della procedura di gara[5]; sicché deve essere consentito all operatore economico di sanare la propria posizione di adempiere a tale obbligo entro un termine. Da entrambe le decisioni citate della Cgue si evince un principio di carattere generale ovvero il principio di tassatività delle cause di esclusione per cui esse devono essere e trovare necessariamente un appiglio normativo sicché giammai l effetto escludente può essere ancorato ad un interpretazione giurisprudenziale della normativa vigente. A rigore, quindi, con l entrata in vigore di una disciplina che tassativamente richiede agli operatori economici di indicare i costi di sicurezza aziendali, tale mancanza non potrebbe che comportare l esclusione automatica dell operatore economico. L offerente, in tal caso, non potrebbe neanche opporre la mancata indicazione nei moduli da parte della stazione appaltante della voce relativa ai costi aziendali, in quanto l obbligo discenderebbe direttamente dalla normativa primaria senza che possa valere più il principio di affidamento. Né a fronte di una precisa scelta legislativa non potrebbero trovare spazio meccanismi di sanatoria postumi. Ciò in quanto l art. 83, comma 9, d.lvo n. 50/2016, prevede che l esercizio della facoltà di integrazione da parte dei concorrenti è ammissibile solo relativamente alle carenze di qualsiasi elemento formale della domanda (mentre, nella specie, viene in rilievo la carenza di un elemento sostanziale, perché attinente al contenuto dell offerta economica) e comunque al fine di emendare la mancanza, l incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all articolo 85, con esclusione di quelle afferenti all offerta tecnica ed economica (laddove l indicazione degli oneri di sicurezza cd. aziendale attiene direttamente, ai sensi del citato art. 95, comma 10, d.lvo n. 50/2016, all offerta economica)[6]; La citata decisione della Corte di Giustizia, quindi, ha già dato un indicazione relativa al caso che qui interessa nel senso di ammettere l esclusione qualora l obbligo di allegazione degli oneri di sicurezza sia espressamente previsto

dal legislatore o dal bando di gara. E evidente, infatti che il legislatore rispetto alla previgente e più incerta normativa e in considerazione anche delle pronunce giurisprudenziali sul punto, ha preso una posizione netta nel prevedere come obbligatoria l indicazione dei costi di sicurezza aziendali. 4)Possibili soluzioni La scelta di campo operata dal legislatore non vale ad escludere le possibili frizioni con i principi eurounitari invocati dal Tar Basilicata. In effetti, alla luce di tale normativa potrebbe essere sanzionata con l esclusione un operatore economico munito del possesso sostanziale del requisito ma indotto in errore dall assenza sul modulo predisposto dalla p.a.. La Corte di Lussemburgo si trova di fronte a due possibili strade. Potrà ripetere quanto già affermato nella decisione precedente all entrata in vigore della novella legislativa, per cui è possibile escludere l operatore economico che abbia omesso di indicare i costi di sicurezza aziendali quando, come nel caso di specie, ciò sia espressamente previsto dalla normativa statale e anche se il modulo predisposto dalla stazione appaltante nulla preveda sul punto; oppure potrà decidere di ampliare le maglie del suo orientamento espresso nella decisione n. n. C-140/16 di ampliare ulteriormente, nel rispetto dei principi di tutela della concorrenza, della parità di trattamento e dell affidamento, censurando la normativa nazionale laddove non prevede il ricorso al soccorso istruttorio qualora la modulistica predisposta dalla stazione appaltante, non preveda l indicazione separata, nell ambito dell offerta economica, degli oneri di sicurezza aziendale; ciò anche in considerazione del dato che il precetto normativo nel rivolgersi agli operatori economici dà sicuramente un indicazione precisa anche alle stazioni appaltanti sulle quali, quindi, grava l obbligo di predisporre un modulo di gara che tenga conto della voce relativa agli oneri di

sicurezza; sicché una tale mancanza apre sicuramente margini di incertezza per l operatore economico che potrebbero essere concretamente lesivi del principio di affidamento. Tale ultima soluzione rispetterebbe maggiormente il trend sostanzialista seguito dalla Corte di Lussemburgo volto a tutelare quegli operatori economici sostanzialmente possessori dei requisiti richiesti dalla legge e dal bando di gara, di modo che non subiscano l esito infausto dell esclusione dalla gara per meri formalismi e senza la possibilità di poter regolarizzare la propria offerta. [1] art. 86 comma 3-bis. d.lsg 163/2006: Nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture. Ai fini del presente comma il costo del lavoro è determinato periodicamente, in apposite tabelle, dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali. In mancanza di contratto collettivo applicabile, il costo del lavoro è determinato in relazione al contratto collettivo del settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione. [2] art. 84 comma 4: Non sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza in conformità all art. 131, nonché al piano di sicurezza e coordinamento di cui all articolo 12, decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 494 e alla relativa stima dei costi conforme all articolo 7, d.p.r. 3 luglio 2003, n. 222. Nella valutazione dell anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell offerta e risultare congrui rispetto all entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture.

[3] Adunanza Plenaria n.9 del 2016:«Non sono legittimamente esercitabili poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, anche per le procedure nelle quali la fase di presentazione delle offerta si è conclusa prima della pubblicazione della decisione dell Adunanza Plenaria n. 3 del 2015». [4] Tar Molise, sentenza n. 77/2016 [5] Tale principio è quello seguito anche dall Adunanza Plenaria che nel smussare il rigore dell orientamento espresso con sentenza n.5/2016, ha precisato che qualora la lex specialis nulla dica in punto di indicazione o meno di oneri aziendali in sede di offerta e dal punto di vista sostanziale l offerta rispetti i costi minimi. In tali casi, la stazione appaltante dovrà effettuare un vaglio sostanziale sulla sussistenza dei costi aziendali nell offerta a prescindere dall indicazione formale della stessa nei moduli di presentazione, e solo in caso in cui accerti che l operatore economico non abbia computato tali costi, potrà disporre l esclusione automatica dell impresa. [6] TAR Campania Salerno, Sez. I, con la sentenza n. 34 del 5 gennaio 2017 Concorso magistratura 2017: Traccia svolta diritto amministrativo Concorso in magistratura 2017 Traccia di diritto amministrativo[1] 12 luglio 2017

Premesso un inquadramento sistematico sul regime dei beni pubblici, tratti il candidato, in particolare, dei beni patrimoniali indisponibili con particolare riguardo all acquisto e alla perdita dell indisponibilità. 1. I beni pubblici rappresentano l insieme delle cose (in senso giuridico), mobili e immobili, appartenenti allo Stato o altra p.a., a titolo dominicale o ad altro titolo, idoneo ad assicurarne la disponibilità ed il godimento, identificabili in base a specifiche caratteristiche fissate dalla legge ovvero in ragione della destinazione ad uno scopo pubblico cui ne viene fatta (V. CERULLI IRELLI). Più in generale, i beni pubblici possono essere definiti come quei beni di cui si avvalgono le pubbliche amministrazioni per la realizzazione degli scopi e delle funzioni ad esse affidati. La rilevanza dei beni pubblici è sempre stata distinta da quella dei beni appartenenti a soggetti privati in virtù del vincolo che la legge pone tra il bene medesimo e una specifica utilizzazione per il perseguimento di fini pubblici. L ordinamento pone un nesso strumentale tra bene pubblico e scopo pubblico, introducendo, di conseguenza, un particolare regime giuridico che investe il profilo del possibile godimento del bene, quello della sua circolazione giuridica e quello relativo alla sua tutela (M.SANTISE). Questa differente disciplina rispetto ai beni privati è giustificata sul piano costituzionale dall art. 42 Cost. il quale prevede che «la proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati». Su questa norma si fonda la possibilità di prevedere un particolare regime giuridico per la proprietà pubblica e, perciò, indirettamente per tutti i beni di appartenenza alla p.a. Questa differenziazione di disciplina, infatti, come si vedrà subito dopo, riguarda anche quei beni disponibili in quanto appartenenti alla p.a., pur non qualificabili come beni pubblici in senso stretto. 2. La tradizionale nozione dei beni pubblici è, però, destinata a mutare con due sentenze delle sezioni unite della Corte di Cassazione (le nn. 3665 e

3811/2011) che hanno fornito una chiave di lettura innovativa e costituzionalmente orientata sulla natura pubblica e demaniale dei beni, prescindendo dal mero dato dominicale di appartenenza, pubblica e privata, e valorizzando appunto il ruolo della Costituzione nell identificazione dei beni pubblici o demaniali. Secondo le sezioni unite i beni pubblici vanno presi in considerazione in relazione alla loro funzione sociale, riconducendone la titolarità allo Stato-collettività e non allo Stato-apparato, il quale assurgerebbe a mero «ente esponenziale e rappresentativo degli interessi della cittadinanza (collettività) e quale ente preposto alla effettiva realizzazione di questi ultimi». Ciò in quanto, diversamente ragionando si finisce per appiattirsi sulla sola, e ormai antiquata, dicotomia beni pubblici-beni privati, «tralasciando l ineludibile dato della classificazione degli stessi in virtù della relativa funzione e dei relativi interessi a tali beni collegati». Attraverso quest orientamento si giunge a ritenere che un bene immobile, a prescindere dalla titolarità, per le sue caratteristiche intrinseche funzionali agli scopi dello Stato sociale come delineati dalla Costituzione repubblicana, che pone al centro del sistema la persona ed i suoi interessi primari, tra cui anche l ambiente ed il paesaggio è da considerarsi, «al di fuori dell ormai datata prospettiva del dominium romanistico e della proprietà codicistica», bene comune a prescindere dal titolo di proprietà, funzionale alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini. 3. Ciò premesso, la categoria dei beni pubblici può essere suddivisa in due sottocategorie: a) beni pubblici in senso stretto, che appartengono allo Stato o ad altro ente pubblico; b) beni di interesse pubblico, che, pur appartenenti ai privati, sono sottoposti ad un regime giuridico derogatorio rispetto a quello di diritto comune, in virtù della peculiare rilevanza riconosciuta agli stessi da parte della collettività. Appartengono alla prima categoria, secondo la distinzione accolta dal Codice civile (art. 822 e ss.), i beni c.d. demaniali e quelli appartenenti al patrimonio indisponibile, che restano distinti rispetto ai beni patrimoniali c.d. disponibili e cioè quei beni che, pur appartenendo a soggetti pubblici, sono tendenzialmente sottoposti al diritto comune dei privati e per questo motivo definibili beni privati

sia pure in titolarità pubblica. In realtà, anche per i beni del patrimonio disponibile, il legislatore introduce una disciplina particolare quanto al loro godimento (ciò accade ad esempio per la disciplina dei contratti di locazione stipulabili con i terzi in cui la p.a. resta pur sempre vincolata alla destinazione, sia pur strumentalmente e, però, indirettamente, del bene alla realizzazione dell interesse pubblico) oppure alla relativa circolazione giuridica (affidando, ad esempio, al Ministro competente per materia il potere regolamentare e, perciò, normativo per elaborare schemi tipo di contratti di vendita verso terzi, come nel caso dei beni culturali in cui è preminente l interesse pubblico alla salvaguardia delle caratteristiche storicoartistiche di un bene immobile locato o comunque trasferito a terzi; ciò significa che pur essendo sottoposti in via generale al diritto comune si connotano pur sempre di una specialità di disciplina. Alla luce di tali rilievi, si è ritenuto di ravvisare quale ratio giustificativa di questa specialità proprio questo nesso di strumentalità tra il bene e gli scopi istituzionali dell ente pubblico proprietario. La distinzione tra i beni disponibili rispetto a quelli propriamente pubblici, sarebbe rappresentata dal carattere diretto o soltanto indiretto di questa specialità. Più precisamente, per i beni pubblici in senso stretto, il nesso è posto chiaramente dalla legge, ed è quindi diretto; con la conseguenza che l ente pubblico non può adibire quel bene ad una destinazione pubblica diversa da quella tipizzata dal legislatore. Per i beni privati o disponibili, invece, questo nesso non è posto espressamente dalla legge, ma lo si ricava in via interpretativa dai limiti che il legislatore pone al loro godimento ed alla relativa circolazione giuridica; ciò quantomeno per garantire il principio di economicità della attività amministrativa complessivamente intesa, visto che, sia per il loro godimento che per la circolazione giuridica, l ente pubblico titolare percepisce corrispettivi da iscrivere in bilancio secondo le leggi di contabilità pubblica. Il nesso strumentale di questi beni, pertanto, si dice indiretto perché solo attraverso l incremento delle poste di bilancio si consente all ente il perseguimento degli scopi pubblici istituzionali. In tal caso, la p.a. può scegliere discrezionalmente l utilizzazione del bene rispetto ai

suoi scopi, a ciò non essendo vincolata dalla legge, come invece avviene per i beni pubblici in senso stretto. Al di fuori di questi limiti, secondo l impostazione tradizionale, ai beni disponibili torna ad applicarsi il regime di diritto comune e, quindi, la distinzione rispetto ai beni propriamente pubblici torna ad essere rilevante, ad esempio ai fini della tutela. 4. I beni pubblici sono normativamente disciplinati a diversi livelli e, nell insieme, in modo alquanto a-sistematico. La Costituzione, come anticipato, anche se non contiene un espressa definizione dei beni pubblici, né una loro classificazione, stabilisce alcuni richiami che risultano comunque assai importanti per la definizione del sistema. Tradizionalmente, la norma costituzionale di riferimento in tema di beni pubblici risulta essere, come detto, quella dell art. 42 secondo cui la proprietà «è pubblica o privata», riconoscendo implicitamente una diversità di fondo tra i due tipi di proprietà. A tale norma, secondo il recente orientamento delle Sezioni Unite, occorre affiancare ulteriori dati normativi di rilievo costituzionale altrettanto significativi in tema di beni pubblici. Innanzitutto, gli artt. 2 e 9 Cost. che, letti in combinato disposto con il citato art. 42, esprimono un principio di tutela della personalità umana e «del suo corretto svolgimento nell ambito dello Stato sociale, anche con riferimento al paesaggio, con specifico riferimento non solo ai beni costituenti, per classificazione legislativa codicistica, il demanio e patrimonio oggetto della proprietà dello Stato ma anche riguardo quei beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per la loro intrinseca natura o finalizzazione risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività». Sempre a livello costituzionale, secondo questo indirizzo interpretativo, va richiamato l art. 118 Cost. che, al III co., dispone della legge statale disciplina le «forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali»; analogamente va citata la riforma del riforma del titolo V della Costituzione con cui è stata prevista la competenza esclusiva dello Stato per la tutela

dell ambiente, e dell ecosistema e dei beni culturali, oltre ad una competenza concorrente tra lo Stato e le Regioni per ciò che concerne la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali. Il Codice civile, poi, detta una disciplina organica che tenta, sia pur in modo eccessivamente formalistico, di dare una classificazione alle diverse categorie di beni. Agli artt. 822 e s. si occupa del demanio pubblico e del relativo regime giuridico; dall art. 826 in poi, si occupa, invece, dei beni appartenenti al patrimonio indisponibile e della relativa disciplina. I beni pubblici vengono, poi, disciplinati anche da altre leggi speciali di settore come ad esempio il Codice della navigazione di cui al r.d. n. 327/1942, la normativa sui beni e le attività culturali oggi confluita nel Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. n. 42/2004, la legge sulla fauna selvatica di cui alla legge n. 157/1992. La nozione di demanio pubblico è prevista anche dalla normativa sull amministrazione e contabilità dello Stato di cui al r.d. n. 2440/1923, che prevede, per tali beni, la compilazione di particolari inventari, che hanno mera natura dichiarativa e non sono pertanto idonei a costituire la natura demaniale o comunque pubblica del bene in mancanza dei requisiti naturali e giuridici richiesti a tal fine dall ordinamento ma oggetto), mentre quelli appartenenti al demanio c.d. naturale sono pubblici in sé, in quanto dotati di particolari ed intrinseche caratteristiche. Come indicato anche dall art. 823 c.c., i beni che rientrano nel demanio pubblico sono, tra l altro, inalienabili, impignorabili, non espropriabili e non possono formare oggetto di diritti su cosa altrui se non nei limiti previsti da norme di diritto pubblico che li riguardano. Attraverso una serie di interventi normativi (solo a titolo di esempio si ricordano i seguenti interventi normativi di sdemanializzazione: legge n. 210/1985 con cui si è proceduti alla sdemanializzazione delle strade ferrate con vincolo di destinazione al servizio pubblico ferroviario; D.P.R. n. 283/2000 in tema di demanio storico ed artistico che ha riconosciuto la deroga alla loro inalienabilità e diritto di prelazione del Ministero dei beni e delle attività culturali., primari e secondari) si è riconosciuto ed avviato un processo di c.d. sdemanializzazione, che consente per il tramite di un apposito iter procedimentale di volta in volta previsto, di affrancare il bene demaniale da tale sua qualità, prodromica alla possibilità di poterlo alienare ovvero espropriare per pubblica utilità o pubblico

interesse 5. Fanno parte del patrimonio indisponibile, ai sensi dell art. 826 c.c., invece, tutti quei beni, sia immobili che mobili, appartenenti alle p.a., che non rientrano tra quelli demaniali sopraindicati, in quanto destinati «in forza di un atto di volontà amministrativa concretamente attuato, a svolgere un servizio pubblico» (T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 30 ottobre 2012, n. 1757). Vi rientrano le acque minerali e termali, le cave e le torbiere, le cose di interesse archeologico, paleontologico ed artistico che una volta scoperte, da chiunque ed in qualsiasi modo, entrano a far parte del patrimonio indisponibile dello Stato, nonché la fauna selvatica. L elencazione fatta dalla norma dal Codice non è tassativa stante la clausola generale prevista dall ultima parte dell art. 826 c.c. Anche per questa categoria di beni pubblici occorre distinguere tra quelli per cui la proprietà pubblica è collegata alle caratteristiche e qualità proprie della cosa, ritenute dalla legge idonee di per sé a realizzare esigenze pubbliche (con la conseguenza che un eventuale atto amministrativo che qualifichi come tale il bene risulterà di natura solo ricognitiva), da quelli per cui l appartenenza al patrimonio indisponibile della p.a. dipende da un atto o da un fatto dell ente che concretamente li assegna ad un pubblico servizio (N. CENTOFANTI). In giurisprudenza è stato affermato che «affinché un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili perché destinati ad un pubblico servizio, ai sensi dell art. 826, comma 3, c.c. deve sussistere un doppio requisito: la manifestazione di volontà dell ente titolare del diritto reale pubblico, e perciò un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell ente di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio, e l effettiva ed attuale destinazione del bene al pubblico servizio» (Cass., Sez. II, 16 dicembre 2009, n. 26402 e, da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 04/05/2017, n. 2034). Seguendo questo orientamento, poi, la Cassazione ha ritenuto che l appartenenza al patrimonio indisponibile di un bene «va esclusa quando il tempo che intercorre tra la destinazione ad uso pubblico del bene e l inizio del periodo utile a fini di usucapione (oltre dieci anni) trascorre senza che sia stato posto in essere alcun atto concreto di utilizzazione del fondo a fini di pubblica utilità».

Queste conclusioni traggono spunto dall impostazione delle Sezioni Unite della Cassazione secondo cui «un bene, in tanto può considerarsi appartenente al patrimonio indisponibile per essere destinato a pubblici servizi a norma del comma 3 dell art. 826 c.c., in quanto abbia una effettiva destinazione a quel servizio, non essendo sufficiente la determinazione dell Ente pubblico di imprimere al bene il carattere di patrimonio indisponibile» (Cass., SS.UU., 23 giugno 1993, n. 6950). Secondo l art. 828 c.c. i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato non possono essere sottratti alla loro destinazione se non attraverso le modalità stabilite dalla legge che li riguarda. Detti beni, perciò, sono in astratto commerciabili, salvi gli specifici divieti recati dalle disposizioni legislative di settore, ma sono gravati da uno specifico vincolo di destinazione all uso pubblico. Le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che «i beni patrimoniali indisponibili, al pari di quelli demaniali, attesa la comune destinazione dalla soddisfazione di interessi pubblici, possono essere attribuiti in godimento a privati soltanto nella forma della concessione amministrativa, la quale, anche quando si configuri come concessione-contratto vale a dire come combinazione di un negozio unilaterale autoritativo (atto deliberativo) della p.a. e di una convenzione attuativa (contratto), implica sempre l attribuzione dal privato di un diritto condizionato, che può essere unilateralmente soppresso dall amministrazione stessa con la revoca dell atto di concessione, in caso di contrasto con il prevalente interesse pubblico, con la conseguenza che, emesso il relativo provvedimento amministrativo, con l intimazione della restituzione del bene, la posizione del privato stesso degrada ad interesse legittimo ed è suscettibile di tutela davanti al giudice amministrativo e non in sede di giurisdizione ordinaria»» (Cass., SS.UU., 23 giugno 1993, n. 6950). Diversamente dai beni demaniali, quelli indisponibili sono espropriabili e soggetti ad usucapione entro i limiti della loro destinazione, a condizione cioè che lo scopo pubblico risulti comunque servito dal bene così come destinato dalla p.a. Così è stato affermato in giurisprudenza per ciò che concerne l espropriazione forzata per debiti, ritenuta ammissibile per i beni indisponibili sempre che la vendita forzata risulti compatibile con la permanenza del vincolo di destinazione pubblica. Sotto quest ultimo profilo, particolarmente problematico è stato l inquadramento del danaro delle p.a. che inizialmente veniva ritenuto bene indisponibile non

pignorabile per effetto dei c.d. vincoli di bilancio in cui era contabilizzato, idonei ad imprimergli una destinazione pubblicistica preclusiva all espropriazione ai sensi degli artt. 2740 e 2741 c.c. Questa tesi, però, è stata sconfessata dalla Corte Costituzionale che, attraverso una sentenza interpretativa di rigetto della questione di legittimità costituzionale degli artt. 823, 828 c.c. e 514 c.p.c., ha affermato che «la mera iscrizione nel bilancio preventivo delle P.A. di somme di danaro o di crediti pecuniari traenti origine da rapporti di diritto privato non li trasforma di per sé in beni patrimoniali indisponibili in quanto la natura fungibile e strumentale delle somme di danaro non vale a determinarne la indisponibilità, a meno che esse non siano destinate immediatamente, nella loro individualità, ad un fine pubblico» (Corte Cost., 21 luglio 1981, n. 138). L affermazione della pignorabilità del danaro delle p.a., per gli inconvenienti pratici che possono verificarsi a causa del notorio stato di deficit in cui normalmente versano gli enti pubblici, ha indotto il legislatore ad intervenire normativamente sul punto dichiarando la non assoggettabilità ad esecuzione forzata di determinate somme di danaro degli enti in ragione della loro destinazione come, ad esempio, per retribuzioni lavoratori dipendenti, oneri previdenziali, servizi essenziali ed altre ipotesi tassativamente, di volta in volta, indicate. Per espressa previsione di legge, infine, i beni pubblici indisponibili possono formare oggetto di diritti reali in favore di terzi, ove ciò sia compatibile con la loro specifica destinazione pubblica. Si potrebbe allora ritenere compatibile con la ratio del Codice civile la possibilità che possa essere rimosso il vincolo di destinazione per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile, attraverso il previo esperimento di procedimenti amministrativi a ciò previsti dalle singole leggi di settore, così permettendone la libera circolazione. Questa impostazione trae fondamento dalle ipotesi in cui il legislatore ha espressamente vietato la circolazione di detti beni, disponendone apertamente l assoluta inalienabilità. In ogni caso, gli atti dispositivi di detti beni contrastanti con la destinazione pubblica del bene saranno invalidi. Più precisamente, si tratterebbe di atti annullabili in quanto ci si troverebbe pur sempre in presenza di autolimiti di un potere pubblico pur sempre attribuito dalla legge. Secondo un altra impostazione,

però, ormai prevalente, sarebbe configurabile una nullità in quanto l interesse tutelato è di natura generale e non particolare. [1] Pubblichiamo uno schema di elaborato svolto tratto, per ampie parti, dal testo di M.SANTISE, Coordinate ermeneutiche di diritto amministrativo, 2017, III edizione, pp. 118 e ss. Principio di trasparenza, forme di accesso agli atti, ai dati e alle informazioni, contro limiti e tutela processuale Il termine trasparenza viene dal latino trans parire, guardare attraverso, il concetto applicato all attività amministrativa implica la conoscibilità e la comprensibilità dell organizzazione, nonché, dei meccanismi di funzionamento della PA. Turati, nel 1908, si auspicava che la casa della PA divenisse di vetro. Oggi quel monito può dirsi realizzato. La trasparenza rientra tra i principi cardini della PA e costituisce obiettivo perseguito e sempre più rafforzato dal legislatore. L importanza di tale principio deriva da una rivoluzione copernicana del diritto amministrativo e, in particolare, del modo di intendere il rapporto tra soggetto pubblico e cittadini. Ante legge 241 del 1990, si registrava, al contrario, una totale chiusura della PA verso i privati, del tutto estromessi dalla gestione della macchina pubblica. Ciò era dovuto anche ad un estrema fiducia nella PA, cui si aggiungeva una più rigida predeterminazione dell interesse pubblico da perseguire. Il sistema incominciò a mostrarsi poco compatibile con i principi costituzionali.

Era ipotizzabile una violazione dell art. 97 Cost che, imponendo l imparzialità e il buon andamento, implica un confronto con i destinatari dell attività amministrativa; dell art. 98 Cost., secondo cui i pubblici dipendenti sono all esclusivo servizio della Nazione; dell art. 21 Cost., che riconosce il diritto all informazione. Il privato, inoltre, non potendo accedere agli atti della PA, neppure a quelli che lo riguardavano, era costretto a proporre ricorsi al buio, con palese violazione degli artt. 24 e 111 Cost. Il quadro di riferimento inizia a mutare con la legge sul procedimento amministrativo e, ancor più incisivamente, con la riforma del 2005 che introduce la trasparenza tra i principi generali dell attività della PA (art. 1, comma 1, legge 241/1990). Disposizioni di analogo tenore si rinvengono anche in settori speciali, quali, ad esempio, quello dei contratti pubblici. Innanzitutto, si garantisce al privato la partecipazione nel procedimento amministrativo che lo vede coinvolto. Si rafforzano, in tal modo, i principi d imparzialità e buon andamento che impongono un raffronto tra tutti gli interessi coinvolti e l adozione della soluzione funzionale all obiettivo perseguito che comporta la minore compromissione delle posizioni antagoniste. Emerge già da questo dato lo stretto collegamento della trasparenza con gli altri principi fondamentali dell attività amministrativa. Altra importante novità riguarda l obbligo di motivazione ex art. 3, legge 241/1990, dei provvedimenti: il privato è, così, in grado di conoscere le ragioni che hanno portato all adozione di quell atto. La motivazione è importante anche per il giudice, perché fornisce un criterio interpretativo della scelta della PA, e per la collettività, quale forma di controllo democratico sulla gestione della res publica. Ancor più significativa risulta l introduzione del diritto di accesso, di cui agli artt. 21 e ss, legge 241/1990. L accesso è concepito in questa fase in chiave essenzialmente difensiva, quindi, risponde ad un interesse privatistico, più che di carattere pubblicistico. Esso serve a bilanciare il rapporto tra privato e PA: la ragione è da individuarsi in una soggezione di diritto, dovuta all esercizio da parte della PA di poteri autoritativi, cui si aggiunge una soggezione di fatto, quanto all attività di gestione ed erogazione dei servizi pubblici. Risulta evidente la ratio analizzando la legittimazione attiva riservata a chi abbia

un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridica collegata al documento di cui si richiede l ostensione. L art. 24, comma 4, legge 241/1990 ribadisce che l accesso non è finalizzato ad un controllo generalizzato dell attività amministrativa, ma deve risultare funzionale alla protezione di una specifica situazione giuridica dell istante. La giurisprudenza ha progressivamente ampliato il novero delle posizioni giuridiche tutelabili, ricomprendendo, ad esempio, anche gli interessi procedimentali, le aspettative di diritto, purché non si tratti di un mero interesse di fatto. È sufficiente un pregiudizio anche solo potenziale, infatti, non va confusa l attualità dell interesse con quella della lesione. L accesso, inoltre, non necessariamente deve collegarsi alla tutela processuale, potendo anche essere finalizzato a sollecitare l autotutela o la proposizione di un ricorso amministrativo. L importante è che ci sia un collegamento tra il documento che si richiede e la posizione che s intende tutelare. Può avere ad oggetto solo documenti già formati, non anche semplici dati o informazioni, onde non aggravare eccessivamente il carico di lavoro della PA. Il legislatore, confermando la tesi già seguita in giurisprudenza, ha poi espressamente riconosciuto l accessibilità agli atti interni, nonché, a quelli di pubblico interessi, seppur concernenti un attività privatistica. L istanza di accesso può avere, inoltre, quale legittimato passivo un soggetto formalmente privato, ma svolgente un attività di rilievo pubblico. Individuare i documenti di rilievo pubblicistico si mostra, però, operazione poco agevole, basti pensare al problema dell accesso esercitato dal dipendente di una società erogatrice di un servizio pubblico sul quale si è di recente pronuncia l Adunanza Plenaria (sentenza n. 13 del 2016). La ratio del diritto di accesso nell impianto della legge 241/1990 ne ha influenzato le modalità di esercizio: occorre un istanza motivata in cui si dia atto della strumentalità del documento richiesto rispetto alla posizione giuridica di cui si è titolari. Quel controllo generalizzato sull attività della PA, espressamente vietato dall art. 24 cit., viene garantito dal legislatore del 2013 con l introduzione di una nuova forma di accesso. Si allude al cd. accesso civico previsto dal d. lgs. 33/2013.

Cambia la prospettiva della trasparenza, non più legata ad un interesse privatistico, bensì della collettività che deve poter verificare come le risorse pubbliche vengano impiegate. Il mutamento di rotta si spiega alla luce dei sempre più numerosi episodi di corruzione, nonché dei fenomeni di mala gestio, che vanno ad intaccare quel sentimento di fiducia nella PA, sulla base del quale, in passato, si tollerava la chiusura verso l esterno della macchina pubblica. Non a caso, infatti, il nuovo istituto è stato introdotto nell ambito del cd pacchetto anticorruzione. L art. 1, d. lgs. 33/2013, definisce la trasparenza quale accessibilità totale ai documenti, ai dati della PA. Tuttavia, quest apertura totale, almeno fino al 2016, non è stata reale, dal momento che il legislatore ha selezionato le informazioni da pubblicare sui siti istituzionalizzati. Il dato particolarmente rilevante è che l obbligo di pubblicazione deriva dalla legge e prescinde da un apposita istanza di parte. In caso di omissione, chiunque può, senza necessità di motivazione e costi di sorta, richiederne la pubblicazione. Per rafforzare il sistema si è prevista l istituzione di un responsabile della trasparenza (art 43); sono, inoltre, applicabili sanzioni a carico della PA inadempiente (artt. 46 e 47). Rispetto alla legge 241/1990, l impianto dell accesso civico è profondamente diverso: la finalità non è difensiva, ma di controllo; la legittimazione è riconosciuta a chiunque, senza necessità di motivazione; l oggetto è più ampio, non essendo limitato alle sole informazioni già contenute in documenti; differenti sono, altresì, le modalità, sussistendo un obbligo ex lege di pubblicazione. L accessibilità totale cui fa riferimento l art. 1 del d.lgs. 33/2013 viene realizzata dal legislatore con il d.lgs. 97/2016, emanato in attuazione della cd. riforma Madia. Come nel F.O.I.A. di origine anglosassone, viene riconosciuta la facoltà di accedere ad ogni dato, documento o informazione della PA, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione. Nell accesso civico semplice l istanza è richiesta solo in via successiva per le ipotesi di inadempimento della PA, mentre in quello generalizzato è sempre necessaria: si passa da una trasparenza proattiva a una reattiva, in cui c è sollecitazione del privato. L accesso generalizzato risulta molto differente da quello della legge 241/990,

sebbene in entrambi ci sia una richiesta del soggetto interessato: basti pensare che, sotto il profilo soggettivo, la legittimazione è riconosciuta a chiunque e, quanto all ambito oggettivo, può trattarsi anche di semplici dati o informazioni. Il Consiglio di Stato, nel parere al d.lgs. 97/2017, fornisce importanti indicazioni per la comprensione del nuovo istituto. La trasparenza è, ormai, un valore fondamentale per l attività amministrativa, ma bisogna evitare che la stessa si tramuti in eccessivi e, quindi, controproducenti oneri per la PA (la cd. burocratizzazione della trasparenza). L accesso generalizzato serve a ricostruire la fiducia, ormai smarrita, della collettività nei soggetti pubblici, dopo i numerosi casi di corruzione, mala gestio e inerzia. Il Consiglio di Stato, sempre in sede consultiva, individua uno stretto collegamento tra trasparenza e l art. 17 bis, legge 241/1990: la PA non deve essere inerte, in tal caso l ordinamento reagisce con la più severa delle sanzioni, ossia la perdita del potere di dissentire in ritardo. La ratio di questa accessibilità totale si rinviene anche nel fatto che l interesse pubblico, a differenza del passato, non è più rigidamente predeterminato dal legislatore, ma è il risultato di un dialogo con i soggetti privati, da qui la necessità di poter conoscere le varie fasi del procedimento amministrativo. La trasparenza, per quanto sia un valore fondamentale, necessita di essere bilanciata con altri interessi altrettanto meritevoli di tutela. La legge 241/1990 consente un accesso più profondo, dato che il privato agisce per proteggere una specifica posizione giuridica di cui è titolare; l accesso civico, semplice o generalizzato, ha portata più estesa, essendo riconosciuto a chiunque, ma, al tempo stesso, è meno profondo, difettando una precisa esigenza difensiva. Tale aspetto emerge dalla disciplina dei controlimiti. L art 24, legge 241/1990, prevede divieti assoluti e relativi. In particolare, va valutato l interesse alla riservatezza dei soggetti implicati nei documenti di cui è richiesta l ostensione. L accesso deve, in ogni caso, essere consentito ove la conoscenza sia necessaria per curare o difendere un proprio interesse giuridico. Il livello di tutela della riservatezza dipende dal tipo di dato considerato. Per i dati ordinari è lo stesso legislatore a stabilire la prevalenza dell esigenza difensiva, senza che la PA possa verificare la fondatezza della pretesa e senza che sia

necessaria la sussistenza di un azione giudiziaria già in atto. Per i dati sensibili, invece, è richiesta l indispensabilità della conoscenza che la PA dovrà valutare. Rigore ancora maggiore è previsto per i dati sensibilissimi, ossia quelli idonei a divulgare lo stato di salute e la vita sessuale di terzi: in tal caso, a norma dell art 60, d.lgs. 196/2003 cui si rinvia, è necessario che l accesso sia funzionale alla tutela di una posizione giuridica di pari rango. In ogni caso va fatta applicazione del principio di proporzionalità, per cui l accesso non va negato ove sia possibile tutelare adeguatamente l interesse altrui con cancellazioni o omissis. Il d.lgs. 33/2013 richiama i limiti della legge 241/1990 che, però, vanno adattati a questa differente forma di accesso, nella consapevolezza che la pubblicazione dei dati su siti a chiunque visibili rende più probabile una lesione della riservatezza. Su tali basi, i dati ordinari sono pubblicabili; per quelli sensibili è richiesto il requisito dell indispensabilità da valutarsi in rapporto all esigenza di controllo sull attività amministrativa; per i dati sensibilissimi, è opinione condivisa che ne vada esclusa la pubblicazione, in quanto non avrebbe senso verificare la sussistenza di un controinteresse di pari rango, considerando che il dato è conoscibile da chiunque. Anche il d.lgs. 97/2016, come la legge 241/1990, distingue tra divieti assoluti e relativi, posti a tutela di interessi tanto di carattere pubblicistico che privatistico. Tra questi ultimi, quella che desta maggiori interessi è l esigenza di tutela dei dati personali: l accesso deve essere negato ove gli stessi possano subire un concreto pregiudizio. Mancando un obbligo di pubblicazione stabilito a monte dal legislatore, si riconosce una maggiore discrezionalità della PA chiamata a verificare, se e in che misura, l esigenza di controllo sull attività amministrativa possa dirsi prevalente rispetto ai controinteressi individuati. In linea di massima, dovrebbero ritenersi non ostensibili i dati sensibili e sensibilissimi, limitando l istituto ai soli dati ordinari. Anche l ANAC protende per tale soluzione, pur rimarcando la necessità di analizzare le peculiarità di ciascuna richiesta di accesso. Il legislatore con una disposizione che non trova rispondenza nella legge 241/1990, né nel d.lgs. 33/2013, dà rilievo in sede procedimentale, ancor prima che processuale, alla posizione di eventuali controinteressati individuati dalla PA. Questi possono, ricevuta apposita comunicazione, presentare una motivata