Intervista a Franco Imoda*

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Transcript:

Tredimensioni 5(2008) 269-276 Intervista a Franco Imoda* F ede e psicologia: quali le resistenze (legittime o pregiudiziali) che ancora oggi le sembra di riscontrare nella Chiesa o nelle università cattoliche? E, se possibile, quale è stato il percorso che l'ha avvicinato alla psicoanalisi, pur nell'approccio critico che conosciamo. Credo che in questa questione delle relazioni tra fede e psicologia o psicoanalisi, rimane sempre utile la distinzione di André Godin -in riferimento alla psicologia della religione- tra due esigenze: l esigenza di partecipazione e l esigenza di purificazione. L esigenza di partecipazione è quella di analizzare se una particolare attività umana è o può diventare un canale di espressione religiosa. Come già diceva Eliade nella sua fenomenologia della religione, qualunque realtà umana (sia essa la natura, le stelle, l agricoltura ) è stata vissuta, in un momento o nell altro della storia, come momento di manifestazione del divino e del sacro. L essere umano può partecipare al divino. Un certo numero di domande che la psicologia si fa conducono a chiedersi: lo sviluppo umano, come tutte le realtà umane, come può contribuire ad aprire l Io alla dimensione del divino e della trascendenza? L esigenza di purificazione, forse più nota al grande pubblico, è quello di cercare le possibili componenti meno nobili della motivazione religiosa: per esempio, è possibile che io vada in chiesa per mettermi in mostra, che mi faccia religiosa perché cerco la comunità, che scelga la carriera del sacerdozio perché mi da una presenza forte nella società, e così via. Per assolvere a questa esigenza, c è la necessità di avere non una sola ma diverse chiavi di interpretazione, al fine di non mortificare e ridurre la complessità del reale ad una spiegazione unica. Se mettiamo insieme le due esigenze appare che l esistenza concreta di ogni persona è una realtà che partecipa alla dimensione religiosa ma anche realtà da purificare. Si può, allora, trovare una possibile correlazione fra quanto dice l educatore cristiano («se ti vuoi fare prete è perché vuoi seguire Cristo per un desiderio di perfezione») e lo psicoanalista («lo fai perché tua madre non ti ha voluto abbastanza bene»). Non sempre, le due spiegazioni sono in collisione fra loro. Per metterle in dialogo bisogna passare alla interpretazione che va fatta tenendo conto che nell ambito dell azione umana non c è mai una pura «comprensione» -su base * Fondatore e docente, con p. Luigi Rulla dell Istituto di Psicologia della Pontificia Gregoriana di Roma e già Rettore della stessa. Intervista di Stefano Guarinelli. Trascrizione di Pierpaolo Valli.

strettamente soggettiva o a partire dalle intenzioni- del fatto della storia, e della vita umana, come non c è mai una sola «spiegazione», su base di cause oggettivamente riscontrabili. Che la religione e la fede vengano sottoposte al vaglio interpretativo non è, per loro, una minaccia, ma una ricchezza. Il pericolo, semmai, sta nel riduzionismo (e qui si entra nel campo delle resistenze). Il riduzionismo si realizza quando una scienza pretende di spiegare e interpretare tutto secondo un unico criterio, il suo. È una riduzione che spesso avviene dal basso, cioè dal «biologico» dallo «psicologico» o dal «sociale» («siamo così perché il mondo di oggi ci fa così»). Ma può anche venire dall alto, quando si spiritualizza tutto. Comunque sia, è il ridurre il reale ad uno schema esplicativo unico come se le altre chiavi di lettura non vi entrassero più. Se il Vescovo o il Rettore ha l impressione che l interpretazione psicologica riduca tutto alla psicologia, si allarma («Ah! voi psicologi!») Ma potrebbe essere un modo di costruire i mulini a vento per poi combatterli. L interpretazione non è solo discernimento. Ha anche un risvolto dinamico. Non si ferma a capire, a descrivere, a constatare una realtà, ma la fa evolvere, la mette o rimette in movimento. Quando si fa una diagnosi o si raggiunge una comprensione diversa della situazione, si aprono davanti al soggetto nuove domande e viene rilanciato un processo, uno sviluppo. Qui, la psicologia (come la sociologia e le altre scienze umane) ha un contributo da dare, quando non pretende di essere tutto. Questo è stato anche un mio punto di arrivo personale. Il tempo del Concilio Vaticano II aveva suscitato delle aspettative, degli interessi; mi aveva incoraggiato ad aprirmi alle scienze umane, non come la salvezza ma come un campo che poteva arricchire anche la teologia che certamente aveva un grosso valore ma che era un pochino disincarnata. Sapevamo di avere delle verità maturate nella storia della teologia. Ma come potevamo entrare in contatto con un mondo che andava avanti su direttive diverse e per conto suo? Come la teologia può dialogare con queste realtà nuove ed umane? Come mettere in comunicazione le «vecchie» risposte con domande «nuove» che sorgono dal mondo di oggi? Come stabilire anche pedagogicamente un contatto? Si parlava di svolta antropologica della teologia: andava perfezionata. Solo annunciare non basta! Che cosa potrebbe fare la teologia che forse non ha ancora fatto e che consentirebbe un accettazione un po più facile della prassi psicologica? Non sono teologo di professione ma credo che la questione epistemologica sia molto importante. Oltre alla domanda sul «che cosa conosco?» possiamo porci la domanda sul «che cosa sto facendo quando io conosco in un certo modo?». È una domanda di senso critico che va oltre la semplice conoscenza dell oggetto perché interroga sui processi stessi che stanno alla base del conoscere. Lo psicologo che studia le dinamiche psico-spirituali delle persone o delle comunità sa che cosa sta facendo se si lascia interrogare da certe teorie e certi concetti teologici e li applica a quelle dinamiche. Sarebbe bello che anche da parte della teologia ci fosse la curiosità di lasciarsi interrogare anche dalle domande che vengono dalla psicologia, altrimenti c è il pericolo dell intellettualismo che non è sfiorato dalla domanda se e come le teorie arrivano a toccare la realtà della persona umana.

Lonergan dice che ci sono quattro livelli di significato - il livello del senso comune: è quello che ispira i genitori ad insegnare ai propri figli con l esempio spontaneo di sé stessi secondo una «tradizione». Il limite del ricorso al solo senso comune appare nei tempi di cambiamento perché ci si trova impreparati e il senso comune, pur essendo sano, offre modi di reagire che non sono riflessi e capaci di distinguere ciò che è essenziale da ciò che non lo è. - il livello della teoria: anche la teologia e la spiritualità hanno una teoria, un modo sistematizzato e organizzato di vedere le cose, che si configura in un certo periodo storico. Il riferimento alla teoria ha una sua forza perché è un modo di articolare la fede e la religione. Ma anche il ricorso alla solo teoria, nei cambi veloci, diventa problematico. - il livello della interiorità. Qui Lonergan propone un metodo che interpella la soggettività del ricercatore. A questo livello ognuno di noi scopre che anche in se stesso ci sono diversi modi di vedere la realtà: c è in noi il teologo, il mistico, il sensuale, il potenziale bandito e il potenziale santo Abbiamo in noi queste possibili dinamiche quasi teorizzate. Il pericolo è assolutizzarle: o scegli questa o quest altra! - il livello e quindi il metodo «genetico», a cui corrisponde la coscienza «differenziata», è quello che non solo non si irrigidisce ma riconosce che ci sono varie teorie interpretative della vita umana e che queste vanno utilizzate con sapienza e, non riduzionisticamente, chiamate in causa al momento giusto. Le ansie di una persona sono di ordine diverso: c è l ansia di vedere Dio ma anche quella di trovare un senso di identità o di appartenenza, o di uscire dalla solitudine. E non posso sempre dire: «tu ti sei fatto sacerdote e l unica tua vera preoccupazione è l essere per Dio!». Occorre dunque il famoso dialogo delle interpretazioni: ciascuna delle scienze può lasciarsi interpellare dall altra e ogni scienza può allora contribuire con i suoi dati ad arricchire l altra. Questo, mi sembra, non si fa ancora molto. Il tema della psicologia dello sviluppo mi sembra ancora poco trafficato con la teologia. Da quello che so, anche la teologia sta riflettendo sul tema dello sviluppo della fede di Gesù che cresce con lo sviluppo della sua persona. Arrivare ad una teologia dello sviluppo potrebbe favorire il dialogo con la psicologia? Urs von Balthasar ha alcune pagine molto belle (per esempio ne «Il tutto nel frammento»), dove si cimenta, tra l altro, con il tema della fede di un Gesù che è bambino, di un bambino che gioca, che richiede tutta l attenzione, che dorme, e cita Teresa del Bambino Gesù che diceva che il «il bambino dorme» quando lei non trovava una risposta alle sue domande. Poi ad un certo punto ammette che la psicologia dell adolescente è talmente complicata che lui non può dire molto. Come riuscire a scoprire che alcune realtà di sviluppo (il gioco, l auto-centrismo, la fantasia.) sono anche manifestazione del divino? Balthasar ci dà un quadro di

riferimento: l umano, anche nelle sue forme più semplici, diventa epifania del divino. Cioè, non è che si raggiunge Dio solo ad uno stadio estremamente maturo di sviluppo e dove si esercita la propria capacità di autodeterminazione e si dice «sì». L incontro è già anche ad altri livelli più «bassi». È proprio a questi livelli più bassi che, di solito, l educatore come lo psicologo o il teologo trovano e incontrano le persone. Questi livelli bassi non basta saltarli o squalificarli ma vanno presi sul serio e a partire da quelli la persona va aiutata a crescere... Non si può dire: «lasciamo perdere tutto questo e preghiamo!». Per arrivare alla preghiera convinta dobbiamo iniziare a cogliere Dio già presente nei nostri livelli più bassi di essere. Nei suoi scritti ricorre qua e là il tema del gioco. Sembrerebbe un inciso, ma chi ha avuto modo di conoscerla personalmente credo ricavi una sensazione diversa. Qual è secondo lei l'importanza del gioco non solo per il lavoro terapeutico, ma pure per la vita cristiana? Il gioco compare nel mio libro in quel capitolo in cui si analizzano le manifestazioni fenomenologiche più semplici del mistero della persona umana senza che ella debba fare grandi riflessioni. Ma già nel sottocapitolo il gioco è associato al riso. Solo l uomo ride! Il riso è la capacità dello spirito umano di distaccarsi dall immediato, dal qui e ora, e di dimostrare che c è uno spirito. Anche il gioco rientra in questa categoria: è una attività che ha il suo fine in se stessa, non è utilitaria. Il bambino che gioca può essere anche molto serio, ma non ha altro scopo se non quello di giocare. La Scrittura dice che la Sapienza «giocava» davanti a Dio, cioè svolge un attività contemplativa e non strumentale. Alcuni psicoanalisti ritengono l umorismo un segno di maturità. Fondamentalmente il gioco è l anticipazione di una capacità contemplativa, di una capacità non solo tecnologica e strumentale. Il saper giocare è importante. Che è diverso dal dover giocare a tutti costi e sempre. La psicoterapia (o come noi la chiamiamo: colloqui di crescita) è, in un certo senso, un gioco. Quando noi diciamo alla persona: «mi dica tutto quello che le viene in mente e non tralasci ciò che lei vorrebbe non dire» ci mettiamo, almeno per un po, fuori dalla realtà di tutti i giorni e dai doveri. È un gioco estremamente serio perché libera dalla ripetitività del quotidiano e porta a scoprire delle cose, è un gioco che diventa una via di possibile crescita nella sapienza. Credo che la persona che sa soltanto lavorare e non sa giocare, così come la persona che sa solo giocare e non sa lavorare, è un vero problema. In fondo, anche la preghiera non è una specie di gioco? È un operazione che interrompe un attività e l esercizio di una competenza; stiamo lì anche ad ascoltare, con un ascolto aperto, a cui si risponde, per vedere dove si va a finire, e magari si consulta un direttore spirituale per rivedere le regole (sto giocando bene o sto giocando male?). In un mondo che tende ad essere così interessato all utile e ai risultati, il gioco è una dimensione importante. Per recuperare e riavviare il nostro sviluppo, il gioco di andare a rivedere chi eravamo e recuperarlo è molto serio e può essere anche molto fecondo.

Per molti di noi p. Rulla è stato un po' insegnante, un po' maestro, e un po' «mito». Per altrettanti di noi, non più insegnante, ma sicuramente maestro e pure «mito». Ci piacerebbe conoscere qualcosa dell'uomo Rulla: da lei che è stato sin dall'inizio il suo più stretto collaboratore. Ci eravamo conosciuti quasi casualmente o meglio provvidenzialmente, ai tempi del noviziato (avevo 18 anni, lui 33). Lui era medico e tutti noi novizi lo guardavano con un certo rispetto e distanza. Mi ricordava spesso che, all occasione di una passeggiata, proprio nei primi giorni del noviziato, era rimasto particolarmente colpito dal fatto che io avevo sostenuto una conversazione con lui, e ho spesso pensato che forse quella volta era stato messo il seme di quella che sarebbe stata una futura intensa collaborazione. Dopo quell anno di contatto piuttosto relativo, ci eravamo persi di vista, avendo seguito sentieri separati, per ritrovarci, dopo diversi anni, negli Stati Uniti. Lui, dove dopo lo studio della teologia aveva anche studiato psicologia e io che arrivavo a studiare psicologia. Aveva già una destinazione alla Gregoriana per insegnare psicologia e si stava maturando l idea di creare un istituto di psicologia, ritenendo che fare un semplice corso di psicologia in un altra facoltà non servisse a molto. Quando ci siamo rincontrati lui aveva già iniziato una ricerca psicologica nell Università di Chicago sulle motivazioni della vocazione e maturò la decisione di costituire un gruppo e venire a Roma. Era un uomo molto determinato: aveva un fine e in quello tutto doveva rientrare, le cose, gli altri ma anche lui. Verso il lavoro aveva una grande austerità. Mi sembra di poter anche dire che era ed è rimasto sempre, sotto molti aspetti, medico e chirurgo, con due caratteristiche abbastanza qualificanti di quella professione: dare una risposta, una cura a dei problemi, e darla in modo fondamentalmente pratico, come fa il chirurgo. Il lavoro di ricerca a Chicago era fortemente segnato da questa sua forte determinazione di medico trasportata in un campo psicologico, spirituale, pedagogico, e pragmatico. Nel bene e nel male, io ero quello che «rompeva le uova» Nella ricerca cercavo di interpretare il ruolo di chi invitava a non andare così direttamente al risultato. Cercavo di rimettere in discussione le cose. Un uomo che ha dato forte testimonianza di fedeltà e di determinazione: per molte persone questo era il suo fascino ma anche qualcosa che lasciava un po spaventati. Questo lo faceva essere un uomo abbastanza solo. Non era facile entrare in familiarità, non rivelava molto di se stesso, molte cose della vita umana non lo interessavano: l aspetto estetico per esempio, non rientrava nei suoi interessi. Lavorando e facendo anche le vacanze insieme, fra noi di segreti non ce ne erano molti, ma ripeto- un tratto centrale era sempre quella tendenza dell uomo determinato che andava direttamente allo scopo. C'è una domanda con cui lei ha interrogato la sua vita e che oggi si sentirebbe di consegnare o testimoniare a noi, come «buona domanda»? Quando ero in noviziato, ci ripetevano spesso la domanda che San Bernardo si faceva quando potevano sorgergli dei dubbi nella vita monastica: Bernardo cosa sei venuto a fare qui? Naturalmente con tutte le possibili implicazioni. Mi pare che

questa è «la» domanda. Nel corso del nostro sviluppo non si pone subito in modo così esplicito. Devo dire che anche come vocazione, una delle incarnazioni più adolescenziali e infantili di questa domanda era una forte richiesta e ricerca di fare qualcosa che valesse la pena. In negativo, era il timore di sprecare la vita ed in positivo il desiderio che la vita avesse veramente valore. La tematizzazione della domanda è venuta chiarificandosi nel tempo, ma credo che, implicitamente, sia in tutti. Si tratta di vedere come si presenta a ciascuno e di volta in volta. Un supervisore della pratica clinica che ho avuto a Chicago, molto psicoanalista ma anche molto esistenziale, guidando il lavoro di accompagnamento con giovani in vocazione osservava che a suo avviso, spesso, una vocazione nasce nella preadolescenza o nell adolescenza anche con l esperienza del corpo, della sessualità e quindi -e questo lo aggiungevo io- della temporalità e della mortalità, delle cose che passano. La temporalità (che nel libro è il secondo parametro dello sviluppo) dà il senso dell effimero ma anche il senso che non bisogna lasciare che le cose ci sfuggano di mano. Io credo che la domanda madre sia proprio questa: che cosa sei venuto a fare? Essa prende forme diverse perché ciascun essere umano o se la pone o la sopprime e la traduce in altre domande: come posso fare per diventare medico? Come posso fare per sposarmi? Come fare per divertirmi? È sempre la stessa domanda che prende forme diverse. Non si tratta di bloccare subito le domande povere e criticarle. Occorre trovare la domanda più profonda, laddove questa domanda o è solo implicita o non c è neanche (ma sappiamo che c è!). Ecco l importanza del contributo dell antropologia nel dialogo interdisciplinare a cui si accennava in precedenza.