Avv. Andrea Gattamorta



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Studio Legale Lucchini Gattamorta e Associati CCIAA AREZZO Arezzo, 5 dicembre 2013 LA CONCORRENZA SLEALE Avv. Andrea Gattamorta Studio Legale LGA

Argomenti che verranno trattati Inquadramento. Tutela della funzione distintiva dell impresa. Tutela della funzione promozionale dell impresa. Tutela di altre funzioni dell impresa. La disciplina contrattuale. Le azioni esperibili. Cenni sulla disciplina della concorrenza in ambito penale ed amministrativo. Fonti comunitarie.

INQUADRAMENTO

INQUADRAMENTO Nel nostro ordinamento, l'attività concorrenziale, espressione dell'iniziativa economica privata, è libera (art. 41 Cost.). Poiché fonte di benessere per lo Stato e i consociati, tale attività è tutelata e incoraggiata a un tempo.

INQUADRAMENTO Il suo svolgimento, in ogni caso, non deve porsi in contrasto con l'utilità sociale e con i valori fondamentali della persona (ancora art. 41 Cost.), né ledere gli «interessi dell'economia nazionale» (art. 2595 c.c.).

INQUADRAMENTO Nel nostro ordinamento, quindi, la concorrenza tra imprese è ammessa, purché essa si compia in modo corretto e leale per evitare che vengano falsati gli elementi di valutazione e di giudizio dei consumatori.

INQUADRAMENTO Presupposto per la concorrenza sleale è anche il rapporto di concorrenza (soggetti operanti sullo stesso mercato, cioè rivolti alla stessa cerchia di utilizzatori di beni o servizi).

FONTI NAZIONALI La normativa nazionale di riferimento in materia di concorrenza sleale è costituita dall'art. 2598 c.c., il quale prevede che Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale :

Normativa codicistica punto 1) Chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente;

Normativa codicistica punto 2) Chiunque: 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente;

Normativa codicistica punto 3) Chiunque: 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda.

Tutela della funzione distintiva dell impresa

CASO n. 1) L'art. 2598 n.1 vieta ogni comportamento, suscettibile di incidere sulle scelte dei consumatori, tale da indurli ad imputare determinati prodotti o servizi ad un imprenditore diverso da quello cui effettivamente appartengono.

CASO n. 1) SEGNI DISTINTIVI In particolare, secondo un orientamento consolidato, rientrano tra i segni distintivi tutelati dall'art. 2598 n. 1 la ditta e l'insegna; sono altresì tutelati i marchi non registrati ed adottati in via di fatto.

CASO n. 1) - IMITAZIONE SERVILE Anche l'imitazione è vietata dall'art. 2598 n. 1 c.c. quando determina una possibilità di confusione fra i prodotti secondo un giudizio fondato sull'impressione generale. Il giudizio di confondibilità deve essere condotto secondo la capacità media di percezione e di memoria del consumatore dei prodotti in questione.

CASO n. 1) IMITAZIONE SERVILE Perché un imitazione possa produrre confusione, è necessario che l elemento imitato sia percepibile dal consumatore come un segno di riconoscimento di una determinata impresa. Perché un imitazione possa essere sanzionata, occorre infatti che essa sia idonea a confondere i consumatori e, quindi, a turbare il mercato.

CASO n. 1) IMITAZIONE SERVILE Per l accertamento di tale requisito, la giurisprudenza ha elaborato alcuni criteri. In primo luogo, per giudicare della confondibilità, si deve aver riguardo all apparenza complessiva del prodotto, così come esso si presenta a prima vista agli occhi del consumatore. Il giudizio di confondibilità, inoltre, va riferito a un segno presente e al ricordo visivo di un altro segno, di solito tenuto a memoria sommariamente (Cass., 28.1.2010, n. 1906)

CASO n. 1) IMITAZIONE SERVILE L imitazione servile dei prodotti (imitazione della forma del prodotto) costituisce la fattispecie confusoria più ricorrente. Il divieto si ritiene che limiti solo le imitazioni dell aspetto esterno del prodotto, se e in quanto individualizzanti. Non è tutelata dall imitazione peraltro la forma che, seppure non brevettabile, risulta già standardizzata, oppure dotata di valore funzionale o ornamentale

CASO n. 1) orientamenti giurisprudenziali L'orientamento ormai consolidato ritiene che l'illecito confusorio ex art. 2598 n.1 è di pericolo e sussiste quando il comportamento appaia idoneo a determinare una possibilità di confusione dei consumatori sulla base di un giudizio di probabilità ancorato alle circostanze del caso.

CASO n. 1) orientamenti giurisprudenziali Tribunale Roma, Ordinanza 27 marzo 2006 Il fenomeno noto come look- alike, ossia l'imitazione del c.d. trade-dress del prodotto, cioè della sua confezione, del suo design, del logo nelle modalità di marketing è in ogni caso sussumibile nella fattispecie di concorrenza sleale ai sensi dell'art. 2598, n.1 c.c., per confusione tra i segni (notori) ed i prodotti del concorrente.

Tutela della funzione promozionale dell impresa

CASO n. 2) Gli atti di denigrazione e l'appropriazione di pregi di cui al punto n. 2 hanno la finalità di falsare gli elementi di valutazione del pubblico (consumatori e altri imprenditori), attraverso comunicazioni indirizzate a terzi e in primo luogo avvalendosi della leva della pubblicità.

CASO n. 2) ATTI DI DENIGRAZIONE Gli atti di denigrazione consistono nel diffondere notizie ed apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito.

CASO n. 2) ATTI DI DENIGRAZIONE Esempio classico di concorrenza sleale per denigrazione è la pubblicità iperbolica (o superlativa), con cui si tende ad accreditare l'idea che il proprio prodotto sia il solo a possedere specifiche qualità o determinati pregi, che invece vengono implicitamente negati ai prodotti dei concorrenti.

CASO n. 2) ATTI DI DENIGRAZIONE Non sempre costituisce invece atto di concorrenza sleale la pubblicità comparativa, oggi disciplinata dall'art. 22 codice del consumo; sostanzialmente si afferma la liceità della comparazione pubblicitaria a condizione che essa sia veritiera, non tendenziosa, né subdola o scorretta.

CASO n. 2) APPROPRIAZIONE DI PREGI Secondo l'orientamento prevalente questa forma di concorrenza sleale ricorre quando nella comunicazione al pubblico l'imprenditore attribuisce ai suoi prodotti o alla sua impresa pregi propri dei prodotti o dell'impresa di un concorrente.

CASO n. 2) APPROPRIAZIONE DI PREGI La fattispecie appropriativa realizza un illecito sviamento di clientela non già a seguito della confusione tra prodotti o attività di imprese distinte, come avviene nell'atto confusorio, bensì ingenerando nel pubblico la convinzione che il prodotto o l'impresa abbiano le stesse qualità e gli stessi pregi del concorrente.

CASO n. 2) FALSE DENOMINAZIONE D'ORIGINE Anche l'uso indebito di denominazioni od indicazioni può risolvere nella prospettazione ingannevole della propria appartenenza ad una determinata cerchia di produttori che operano in una determinata località e conseguentemente nell'appropriazione di un pregio altrui. Esemplare il caso della denominazione <<scotch whisky>>: assumendo che tale espressione attesta il compimento in Scozia di tutte le operazioni inerenti alla produzione ed all'invecchiamento di whisky, la giurisprudenza ha ritenuto appropriazione di pregi l'uso di tale denominazione per un whisky non interamente distillato ed invecchiato in Scozia (Trib. Milano n.1405 del 23-10-1972)

CASO n. 2) AGGANCIAMENTO L'ipotesi ricorre quando viene adottato il marchio altrui preceduto da espressioni quali <<tipo>>, <<modello>>, <<sistema>> od altre simili per evidenziare le caratteristiche dei propri prodotti o attività. Tale accostamento si risolve in uno sfruttamento della rinomanza del prodotto e quindi nello sfruttamento del lavoro altrui finalizzato all'acquisizione della clientela che diversamente si indirizzerebbe verso il prodotto originale.

CASO n. 2) RIPRODUZIONE DEL PRODOTTO ALTRUI Rientra tra l'illecito appropriativo anche il comportamento che fa apparire proprio il prodotto altrui, riproducendolo in fotografie, cataloghi e depliants o esponendolo a fini pubblicitari in fiere e mostre. Il giudizio di illiceità muove dalla considerazione che ogni prodotto costituisce un elemento peculiare dell'impresa e quindi un pregio in senso tecnico, e l'uso pubblicitario delle immagini del prodotto altrui equivale al vanto di produrre e/o vendere un articolo che in realtà è altrui. L'inquadramento della fattispecie non è univoco, essendone stata prospettata la riconducibilità all'art. 2598 n. 1.

CASO 2) ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI La concorrenza sleale di cui all'art. 2598 n. 2 c.c., consistente nel diffondere notizie ed apprezzamenti sull'attività altrui in modo idoneo a determinare il discredito, richiede un'effettiva divulgazione della notizia ad una pluralità di persone, e non è pertanto configurabile nell'ipotesi di esternazioni occasionalmente rivolte a singoli interlocutori nell'ambito di separati e limitati colloqui (Cass. Civ. Sez., 30 maggio 2007 n. 12681).

Va inibita con provvedimento d'urgenza la pubblicazione della guida gastronomica "Il Gambero Rozzo", in quanto viola il marchio di rinomanza anteriore altrui, nazionale e comunitario, "Gambero Rosso", utilizzato per pubblicazioni in ambito gastronomico, atteso che la prima testata, palesemente richiamante il marchio in parola, ne sfrutta parassitariamente la fama a fini commerciali.. CASO 2) ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Tribunale Roma, Ordinanza 23 giugno 2008

Tutela di altre funzioni dell impresa

CASO n. 3) CORRETTEZZA PROFESSIONALE La correttezza professionale costituisce il primo requisito cui l'art. 2598 n. 3. Secondo la giurisprudenza prevalente i princìpi di correttezza professionale si identificano nei principi etici, universalmente seguiti dalle categorie dei commercianti sì da divenire costume.

CASO n. 3) IDONEITA' DELL'ATTO AL DANNO Il carattere pregiudizievole dell'atto costituisce il secondo requisito cui l'art. 2598 n. 3. Si ritiene prevalentemente che l'idoneità dannosa si identifichi in un potenziale pregiudizio per l'impresa altrui ed in particolare nello sviamento della clientela dell'imprenditore soggetto passivo dell'atto.

CASO n. 3)- STORNO DI DIPENDENTI Per storno di dipendenti si intende la sottrazione di collaboratori all'azienda del concorrente per assumerli nella propria. In linea di principio la sottrazione di collaboratori altrui non è contraria alla correttezza professionale, perchè la mobilità dei dipendenti corrisponde al diritto del lavoratore a migliorare la propria posizione professionale ed a quello dell'imprenditore ad organizzare la propria azienda per l'esercizio dell'impresa. In ogni modo si ritiene prioritariamente che lo storno sia illecito solo quando riguardi una pluralità di dipendenti qualificati, indispensabili o quantomeno utili per la gestione dell'impresa concorrente.

CASO n. 3) STORNO DEI DIPENDENTI È consolidata l'opinione secondo la quale lo storno di dipendenti costituisce atto di concorrenza sleale quando è realizzato con modalità scorrette, quindi, di per sé contrarie ai princìpi della correttezza professionale. Per esempio si è ritenuto illecito lo storno finalizzato all'acquisizione di segreti del concorrente (Trib. Milano 12-5-1980). Ancora lo si ritiene atto di concorrenza sleale quando sia realizzato con modalità tali da supporre nell'autore un animus nocendi, ossia l'intenzione di disgregare e disorganizzare l'azienda del concorrente.

CASO n. 3) STORNO DEI DIPENDENTI Corte di Cassazione, Sezione 1 civile, Sentenza 4 settembre 2013, n. 20228 Lo storno dei dipendenti di impresa concorrente costituisce atto di concorrenza sleale allorché sia perseguito il risultato di crearsi un vantaggio competitivo a danno di quest'ultima tramite una strategia diretta ad acquisire uno staff costituito da soggetti pratici del medesimo sistema di lavoro entro una zona determinata, svuotando l'organizzazione concorrente di sue specifiche possibilità operative mediante sottrazione del "modus operandi" dei propri dipendenti, delle conoscenze burocratiche e di mercato da essi acquisite, nonché dell'immagine in sé di operatori di un certo settore.

CASO n. 3) LE ATTIVITA' IN CONCORRENZA Secondo l'orientamento prevalente, cessato il rapporto di lavoro in mancanza di un patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c., l'ex dipendente può svolgere concorrenza all'ex datore di lavoro e resta sottoposto alle medesime regole valevoli per qualunque altro soggetto, non derivando dalla qualità di ex dipendente alcun ulteriore divieto od onere. Si è tuttavia precisato che la liceità dell' utilizzo delle cognizioni acquisite in costanza di rapporto di lavoro (in alcuni casi anche autonomo) è subordinata alla liceità delle loro modalità di acquisizione; è stato pertanto ritenuto illecito l'utilizzo da parte dell'ex dipendente di conoscenze alle quali lo stesso non aveva libero accesso.

CASO n. 3) LA CONCORRENZA SLEALE DI PREZZO Merita particolare attenzione il fenomeno del ribasso del prezzo. In linea di principio, essendo ogni imprenditore libero di fissare i prezzi dei propri prodotti, l'offerta a prezzi ribassati non dà luogo a concorrenza sleale perchè oltre ad essere connaturata al concetto di libera concorrenza è conforme all'interesse dei consumatori e all'economia di mercato. Ciò nonostante il ribasso può dar luogo in determinate circostanze a concorrenza sleale o perchè conseguenza di un comportamento contra mores oppure perchè inquadrabile in una politica di annientamento dei concorrenti (c.d. ribassi con intento predatorio o monopolistico).

CASO n. 3) LA CONCORRENZA SLEALE DI PREZZO I principali interrogativi a proposito delle offerte di prezzo si sono peraltro registrati in tema di vendita sottocosto, per tale intendendosi quella effettuata ad un prezzo inferiore da un lato al costo del prodotto per l'impresa venditrice e dall'altro a quello medio per gli altri imprenditori. L'orientamento più recente ritiene illecita la vendita sottocosto per gli effetti che obiettivamente produce, cioè di turbare il mercato e alterare il fisiologico meccanismo concorrenziale.

CASO n. 3) LA CONCORRENZA SLEALE DI PREZZO A tal proposito la stessa Corte di Cassazione civile si è così espressa: la vendita sottocosto intanto è contraria ai doveri di correttezza di cui all'art. 2598 n. 3 c.c., in quanto a porla in essere sia un'impresa che muove da una posizione di dominio e che, in tal modo, frapponga barriere all'ingresso di altri concorrenti sul mercato o comunque indebitamente abusi di quella sua posizione non avendo alcun interesse a praticare simili prezzi se non quello di eliminare i propri concorrenti per poi rialzare i prezzi approfittando della situazione di monopolio così venutasi a determinare (Cass. Civ. Sez. I 26 gennaio 2006 n. 1636)

CASO n. 3) LA CONCORRENZA SLEALE DI PREZZO Benchè la politica sui prezzi rientri nel quadro delle libertà tipiche di un mercato concorrenziale alla luce dell'art. 86 Tr CE, si ritiene che il rialzo dei prezzi, al pari di altre pratiche discriminatorie, costituisca concorrenza sleale se rappresenti strumento di abuso di posizione dominante.

CASO n. 3) BOICOTTAGGIO Concordemente si ritiene contraria ai principi della correttezza professionale e dunque illecita ex art. 2598 n. 3 a) l'induzione alla violazione di relazioni commerciali già esistenti; ovvero b) con l'impedimento di future relazioni, attuato con un rifiuto di contrarre (c.d. boicottaggio primario) o esercitando pressioni su altri imprenditori perchè si astengano da rapporti commerciali con un imprenditore (c.d. boicottaggio secondario). Con l'entrata in vigore della normativa antitrust, il boicottaggio primario può costituire concorrenza sleale solo nei limiti in cui realizza un illecito antitrust.

CASO n. 3) LA VIOLAZIONE DELL'ESCLUSIVA La fattispecie consiste nella vendita di prodotti di marca operata da un soggetto nella zona riservata per contratto dal produttore ad un altro rivenditore. Si afferma che l'invasione della zona di esclusiva non è illecità ove non avvenga con modalità intrinsecamente scorrette. La valutazione di liceità della violazione dell'esclusiva viene motivata con l'asserita inoperatività della clausola di esclusiva rispetto ai terzi e quindi con la libertà di concorrenza di cui godono i soggetti estranei all'accordo negoziale.

CASO n. 3) LA CONCORRENZA PARASSITARIA Secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, la concorrenza parassitaria ricorre in presenza di una imitazione sistematica (ancorchè non integrale) e protratta nel tempo delle iniziative di un concorrente. In particolare, la concatenazione degli atti imitativi, leciti se singolarmente considerati, rivela una manovra volta allo sfruttamento sistematico del lavoro e degli sforzi altrui che si traduce in una modalità sleale di concorrenza.

CASO n. 3) SPIONAGGIO La sottrazione dei segreti di un imprenditore concorrente costituisce concorrenza sleale, sia che essa venga realizzata con un vero e proprio spionaggio industriale sia attraverso un dipendente infedele. Quanto alla nozione di segreto, deve trattarsi di notizie che rivestano oggettivo rilievo, vertano su dati tecnici o commerciali e siano oggettivamente idonee a restare sconosciute a terzi. Si è affermato che anche il tentativo di spionaggio industriale possa considerarsi atto di concorrenza sleale potenzialmente idoneo a provocare danno nella sfera dell'impresa concorrente.

La disciplina contrattuale

La disciplina contrattuale Il Legislatore, dunque, ha stabilito dei limiti legali inderogabili della concorrenza, a tutela degli interessi pubblici di cui è portatore lo Stato, e in vista del soddisfacimento degli stessi; ha lasciato però all'autonomia dei privati la possibilità di concordare ulteriori limiti, per il perseguimento dei loro interessi particolari.

La disciplina contrattuale Danno origine a questa seconda categoria di limiti, contrattuali lato sensu: 1. il patto che limita la concorrenza previsto dall'art. 2596 c.c.; 2. il patto di non concorrenza concluso dal lavoratore, disciplinato dall'art. 2125 c.c.; 3. il patto di non concorrenza concluso dall'agente, disciplinato dall'art. 1751 bis c.c.; 4. le clausole di esclusiva nel contratto di somministrazione, di cui agli artt. 1567 e 1568 c.c.; 5. il patto integrativo del divieto di concorrenza sancito dall'art. 2557 c.c.

Il patto che limita la concorrenza (art. 2596 c.c.) Il patto che limita la concorrenza tra imprenditori è disciplinato dall'art. 2596 c.c., il quale, in primo luogo, stabilisce (comma 1) che tale patto «deve essere provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto a una determinata zona o ad una determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni». La norma dispone poi (comma 2) che «se la durata del patto non è determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è valido per la durata di un quinquennio».

Il patto che limita la concorrenza (art. 2596 c.c.) Soggetti contraenti del negozio che limita la concorrenza sono due imprenditori in competizione sul medesimo mercato, individuato in ragione della zona geografica e dell'oggetto dell'attività svolta. Sussiste identità di mercato anche nell'ipotesi in cui i servizi resi dai concorrenti non siano del tutto identici, ma siano, tuttavia, idonei a soddisfare la domanda di una stessa clientela (Cass. n. 988/2004).

Il patto che limita la concorrenza (art. 2596 c.c.) Ai fini della validità del patto sono richieste la forma scritta ad probationem e l'indicazione precisa della zona o dell'attività cui è circoscritto tale patto. A differenza che per gli altri istituti giuridici analizzati di seguito, non è previsto alcun corrispettivo o indennizzo.

Il patto di non concorrenza concluso dal lavoratore, disciplinato dall'art. 2125 c.c Soggetti del patto di non concorrenza previsto dall'art. 2125 c.c. sono: il prestatore di lavoro (di tipo subordinato: Cass. n. 14454/2000) e il datore di lavoro. Il primo si impegna, dietro corrispettivo, a non svolgere attività concorrenziale con quella del secondo, per il tempo successivo alla cessazione del contratto di lavoro. Con la sottoscrizione di un tale accordo, le parti conferiscono efficacia ultrattiva all'obbligo di fedeltà del lavoratore (art. 2015 c.c.), che di regola viene automaticamente meno con lo scioglimento del rapporto lavorativo.

Il patto di non concorrenza concluso dal lavoratore, disciplinato dall'art. 2125 c.c Il patto in oggetto (che è contratto a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive: Cass. n. 2221/1988), mira a impedire che il lavoratore possa prestare la propria attività presso un concorrente dell'ex datore di lavoro (Cass. n. 2465/1962), ovvero che il lavoratore stesso possa entrare nel mercato in qualità di imprenditore in competizione (Cass. n. 16026/2001).

Il patto di non concorrenza concluso dal lavoratore, disciplinato dall'art. 2125 c.c È prescritto il rispetto di alcune condizioni, a pena di nullità: la forma scritta ad substantiam, la previsione di un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro, il contenimento del patto entro precisi limiti di oggetto, tempo e luogo. In difetto anche di uno solo di questi requisiti, tra loro strettamente interrelati, il contratto deve ritenersi tamquam non esset.

Il patto di non concorrenza concluso dal lavoratore, disciplinato dall'art. 2125 c.c In materia di patto concluso dal prestatore di lavoro, le parti determinano autonomamente e in tutta libertà il compenso spettante, nonché le modalità di sua corresponsione. Anche qui, in ogni caso, debbono rispettarsi dei limiti: detto compenso deve essere di importo determinato o determinabile, non simbolico, congruo e proporzionato al sacrificio richiesto al lavoratore (Cass. n. 4891/1998)

Il patto di non concorrenza concluso dal lavoratore, disciplinato dall'art. 2125 c.c Con riguardo ai limiti temporali dell'accordo, occorre distinguere tra quelli attinenti all'attività limitata, di cui sopra, e quelli attinenti alla durata massima del patto; questa è stabilita in 5 anni se si tratta di dirigenti e in 3 anni negli altri casi. La differenza tra i due diversi tipi di limiti temporali è di tutta evidenza: nel primo caso, si tratta di limiti il cui difetto di fissazione incide sulla validità sostanziale dell'accordo; nel secondo, qualora si pattuisse una durata maggiore, o non la si stabilisse affatto, l'accordo non sarebbe nullo, bensì si ridurrebbe ex lege nella misura prevista.

Il patto di non concorrenza concluso dall'agente (art. 1751 bis c.c.) Venendo all'indagine sul patto di non concorrenza successivo allo scioglimento del rapporto di agenzia (art. 1751 bis c.c.), qui i soggetti stipulanti sono il preponente e l'agente. Al momento della cessazione del contratto possiedono entrambi lo status di imprenditore: agente e preponente sono infatti legati da un rapporto di collaborazione professionale autonoma; non vi è subordinazione di tipo gerarchico del primo nei confronti del secondo. In costanza di rapporto, infatti, sull'agente grava un generico obbligo di lealtà e buona fede nell'assolvimento dell'incarico (art. 1746 c.c.), e non un obbligo di fedeltà, come nel corso del rapporto di lavoro subordinato.

Il patto di non concorrenza concluso dall'agente (art. 1751 bis c.c.) È richiesta la forma scritta ad substantiam, come per l'accordo concluso dal prestatore di lavoro. Il divieto di concorrenza da parte dell'agente riguarda «la medesima zona, clientela e genere di beni o servizi per i quali era stato concluso il contratto di agenzia». È salva, naturalmente, la possibilità di negoziare limitazioni meno ampie, in ordine al settore merceologico e geografico in cui operava l'agente.

Il patto di non concorrenza concluso dall'agente (art. 1751 bis c.c.) All'agente spetta non un corrispettivo, bensì «una indennità di natura non provvigionale». Così il comma 2 dell'art. 1751 bis, il quale inoltre stabilisce i criteri da seguire per la determinazione dell'ammontare di tale indennità. Le parti devono commisurare questa alla durata che intendono dare al patto (il quale in ogni caso non può superare i due anni), alla natura del rapporto di agenzia e all'ammontare dell'indennità di fine rapporto maturata dall'agente; esse devono, nel fare ciò, tenere conto degli accordi economici nazionali di categoria. In difetto di accordo, l'indennità di non concorrenza è liquidata dal giudice in via equitativa.

Le clausole di esclusiva nel contratto di somministrazione (artt. 1567 e 1568 c.c.) La clausola di esclusiva nell'ambito del contratto di somministrazione può essere prevista sia a favore del somministrante, che del somministrato): nel primo caso, il somministrato si impegna a non «ricevere da terzi prestazioni della stessa natura» di quella oggetto del contratto di somministrazione, né può «provvedere con mezzi propri alla produzione delle cose» oggetto del contratto medesimo (salvo però, in questo caso, il patto contrario); nel secondo, il somministrante si impegna a non «compiere nella zona per cui l'esclusiva è concessa e per la durata del contratto, né direttamente né indirettamente, prestazioni della stessa natura».

Il patto integrativo del divieto di concorrenza da parte dell'alienante l'azienda (art. 2557 c.c.) L'art. 2557 comma 1, c.c., in tema di trasferimento d'azienda, stabilisce in capo all'alienante l'obbligo di astenersi, nei cinque anni successivi al trasferimento, dall'avviare una nuova impresa idonea, per oggetto, ubicazione o quant'altro, a sviare la clientela dell'azienda ceduta. Trattasi di obbligo di non concorrenza scaturente dalla legge, connaturato alla funzione del negozio di trasferimento (Cass. 1643/1998). L'art. 2557 comma 2, c.c. rimette alle parti la facoltà di integrare il divieto normativo di cui sopra attraverso la sottoscrizione di un patto dai limiti (relativi sia alle attività sia al territorio) più estesi.

Le azioni esperibili

TUTELA E AZIONI ESPERIBILI L imprenditore che si ritiene danneggiato da atti di concorrenza sleale può esercitare: - L'AZIONE INIBITORIA (art. 2599 c.c.); - L'AZIONE DI RIMOZIONE (art. 2599 c.c.); - RISARCIMENTO DEL DANNO (se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o colpa) art. 2600 c.c.;

AZIONE INIBITORIA L'azione INIBITORIA rappresenta il rimedio principale e la misura caratteristica di tutta la disciplina della concorrenza. Lo scopo di detto strumento è quello di prevenire la reiterazione o la continuazione di un'attività contra ius. È pacifico che l'inibitoria possa essere pronunciata anche in assenza di colpevolezza o di un danno patrimoniale. Occorre invece che l'illecito sia in corso o, se cessato, che esista la possibilità che sia ripreso o ripetuto in futuro.

AZIONE DI RIMOZIONE L' azione di RIMOZIONE degli effetti è diretta a ricostruire la situazione di fatto anteriore all'illecito nell'interesse del soggetto leso. Un esempio classico di rimozione è costituito dall'ordine di ritiro dal commercio e/o distruzione di prodotti costituenti imitazione servile.

PROVVEDIMENTI SPECIALI D'URGENZA Non essendo previste misure cautelari tipiche per la concorrenza sleale, è esperibile il ricorso per provvedimenti d'urgenza ex art. 700 c.p.c. per ottenere un'inibitoria provvisoria, ante causam o in corso di causa, della prosecuzione e/o ripetizione degli atti costituenti concorrenza sleale.

PROVVEDIMENTI SPECIALI D'URGENZA Secondo i principi ordinari è ammesso in materia di concorrenza sleale anche il ricorso a misure cautelari di sequestro conservativo ex art. 671 c.p.c., di sequestro giudiziario ex art. 670 n. 2 c.p.c. al fine di assicurare la prova e di istruzione preventiva ex art. 692 e ss. c.p.c.

RISARCIMENTO DEL DANNO Per il risarcimento del danno occorre fare riferimento alla disciplina generale dell'illecito civile: devono dunque ricorrere l'elemento soggettivo della colpevolezza, il danno effettivo e il rapporto di causalità tra atto illecito ed evento dannoso.

Cenni sulla disciplina della concorrenza in ambito penale ed amministrativo

AUTORITA' GARANTE IN ITALIA L'applicazione della disciplina della concorrenza in Italia è affidata all'autorità Garante della Concorrenza e del Mercato istituita dalla legge 10 ottobre 1990, n. 287. L'Autorità è l'organo amministrativo cui la legge ha affidato il controllo del rispetto da parte delle imprese delle regole di concorrenza.

AUTORITA' GARANTE IN ITALIA In particolare l Autorità accerta e sanziona le intese restrittive della concorrenza e gli abusi di posizione dominante. Quando le imprese, invece di competere tra loro, si accordano al fine di coordinare i propri comportamenti sul mercato, violano la normativa sulla concorrenza.

AUTORITA' GARANTE IN ITALIA La cooperazione tra imprese può avere per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza. Ciò accade, ad esempio, quando più imprese fissano congiuntamente i prezzi oppure quando più imprese, che rappresentano una consistente parte del mercato, sottoscrivono una pluralità di accordi distributivi in esclusiva, tali da pregiudicare la capacità di accesso al mercato dei propri concorrenti attuali o potenziali.

AUTORITA' GARANTE IN ITALIA Nei casi in cui un istruttoria, avviata per la valutazione di un intesa restrittiva della concorrenza si concluda con l accertamento di un comportamento anticoncorrenziale, l Autorità diffida le imprese dal tenere in futuro un simile comportamento e può infliggere una sanzione pecuniaria fino al 10% del fatturato delle imprese coinvolte, in funzione della gravità e della durata della violazione. In caso di inottemperanza alla diffida, l'autorità applica la sanzione pecuniaria fino al 10% del fatturato.