di Repubblica Orwell Asimov, Burgess, Eco e Fromm a confronto con 1984, il romanzo che ha anticipato le inquietudini della società di oggi.

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1 Domenica La DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 di Repubblica l inchiesta Il ritorno delle torri di vetro ETTORE LIVINI e VITTORIO ZUCCONI il reportage Cina, nel paese dei pittori di falsi FEDERICO RAMPINI Orwell Repubblica Nazionale 29 13/11/2005 MAURIZIO RICCI Il cinema, come sempre, l aveva già detto. «La staremo a sentire» prometteva Harrison Ford, professione intercettatore telefonico, nella scena finale de La conversazione. Promessa mantenuta: ci ascoltano, ci spiano, ci controllano, ogni giorno, ogni ora. Ricchi e poveri, umili e potenti, massaie e manager, ognuno di noi, come ha imparato anche Antonio Fazio, è a portata del Grande Orecchio. Sempre più a tappeto e da parte di orecchie e occhi sempre più numerosi. In fondo, quando Francis Ford Coppola girava La conversazione, nel 1974, si pedinava mascherati in un impermeabile, si controllava la corrispondenza aprendo le lettere con il vapore, si intercettavano le conversazioni piazzando una cimice nella macchina e poi le si restava incollati, armeggiando con una valigetta e sperando che non fosse troppo veloce, perché oltre i cento metri l ascolto si perdeva. Un attività, per così dire, personalizzata. Oggi si può fare tutto, comodamente, dall ufficio: ascoltare le telefonate che rimbalzano dal satellite, controllare le che passano attraverso i server, seguire gli spostamenti con la traccia del telefonino, occhieggiare chi compare su qualche tv a circuito chiuso. Si può fare, in tempo reale, molto di più: conoscere i nostri gusti, le nostre abitudini, i nostri comportamenti, anche quando non ci sono testimoni. Perché siamo circondati da database che ci hanno schedato e catalogato. Banche, assicurazioni, supermercati registrano quello che facciamo sui loro file e se lo tengono stretto, perché gli servirà ad orientare i nostri consumi. (segue nella pagina successiva) 2005 Asimov, Burgess, Eco e Fromm a confronto con 1984, il romanzo che ha anticipato le inquietudini della società di oggi. Ecco come GABRIELE ROMAGNOLI Prendete, ad esempio, il rapporto Mehlis, scritto dalla commissione d inchiesta Onu sull omicidio dell ex primo ministro libanese Rafiq Hariri. Sono meno di duecento pagine, messe insieme in pochi mesi. Quarant anni fa, dopo l assassinio del presidente americano John Kennedy, la commissione Warren ne scrisse novemila lavorandoci per molto più tempo. Tralasciate l esistenza o meno di una volontà politica di arrivare alla verità, quel che resta è che il rapporto Mehlis riflette un mondo che ai tempi del rapporto Warren non esisteva. Di mezzo, in senso cronologico e metaforico, c è proprio il E l essenza di quella profezia letteraria: l affermazione del potere attraverso il controllo. Nel rapporto Mehlis si dice che tutti gli uomini chiave di un Paese erano sottoposti a intercettazioni telefoniche. Lo si prova allegando la trascrizione di alcune di quelle conversazioni. Si aggiunge che tutte le bobine erano consegnate, al termine di ogni giornata, al Presidente e al Generale. Venivano conservate, archiviate, a disposizione dei mandanti della struttura di controllo, a cui spettava la facoltà di verificare parole, vagliare atteggiamenti, emettere, di conseguenza, provvedimenti. Il controllo era anche interno alla stessa struttura (perfino del Generale esistono intercettazioni), ma a quel punto le bobine finiscono in un archivio innominato, immateriale, aprioristico dove il potere da cui tutto deriva controlla se stesso e da solo si giudica e condanna (di qui il suicidio di uno dei suoi esponenti quando il monitor ne segnala un calo di fedeltà). (segue nella pagina successiva) le storie McEnroe, rivoluzione Ottanta EMANUELA AUDISIO cultura Le pagine che fanno il giro del mondo STEFANO MALATESTA e AMBRA SOMASCHINI spettacoli I pensieri notturni di Marlene NATALIA ASPESI e ALESSANDRA ROTA spettacoli Quando l Italia aveva un cuore beat EDMONDO BERSELLI FOTO CORBIS

2 30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 la copertina Quasi sessant anni fa George Orwell scrisse il suo romanzo più profetico e inquietante. Oggi, molte delle sue previsioni si sono avverate: quel mondo immaginario dove un Grande Fratello controlla la vita degli uomini per dominarli non è più una geniale trovata letteraria, ma si avvicina pericolosamente alla realtà Così lasciamo tracce ovunque MAURIZIO RICCI (segue dalla copertina) Ognuno di loro possiede una fetta di noi e la lotta quotidiana del Garante della privacy è quella di renderla più piccola possibile, di tenerle separate e distinte, di imporre che vengano cancellate al più presto, per impedire che di noi si faccia un profilo completo, che ci renda riconoscibili e prevedibili. Ma quei dati esistono, possono essere sommati e incrociati. Da un hacker particolarmente abile, ad esempio. O, più semplicemente, dalla polizia. Nel rispetto della legge, naturalmente, e dopo aver convinto un magistrato (e i Servizi? «Loro, per legge, non possono proprio risponde un poliziotto ma i servizi, come lei sa, sono segreti e chi sa cosa fanno?»). È la stessa tecnologia che ci ha tanto semplificato la vita a renderci così nudi ad occhi estranei. Ci svegliamo la mattina e diamo un occhiata alla posta sul computer: tutta intercettabile sul server, esattamente come una telefonata. Chiamiamo un taxi: e la cooperativa di radiotaxi registrerà il nostro percorso. Se, invece, saliamo in macchina e andiamo in una Ztl in centro o in autostrada, sarà il chip del telepass a segnalare dove siamo. D altra parte, basta seguire sul satellite la traccia del telefonino, a meno che non lo abbiamo spento (che, per oscurare il nostro normale telefonino, occorra togliere anche la batteria, mi assicurano, è una leggenda metropolitana). Ci avviamo verso l ufficio e una telecamera a circuito chiuso ci riprende: presto, se seguiremo l esempio americano, la telecamera potrà incorporare i nostri dati biometrici, riconoscerci e segnalare il nostro passaggio. In ufficio, navighiamo un po con il computer. Tutti quei simpatici siti che hanno memorizzato la nostra password e non ce la chiedono più, hanno piazzato un cookie sul nostro pc, ci riconoscono e registrano cosa andiamo a vedere e per quanto tempo. A mezzogiorno, facciamo un po di shopping: paghiamo con la carta di credito, naturalmente, che rende trasparenti i nostri acquisti. Di nuovo in ufficio: a fine orario, cancelliamo accuratamente sgradite o file di cui non vogliamo più sentir parlare. Via, un clic per metterle nel cestino. Poi, svuotare il cestino. Tutto cancellato? Neanche per idea: «Niente, se non si usa un software specifico, scompare davvero dall hard disk» assicura l esperto. Verso casa, sosta al supermercato: alla cassa, tiriamo fuori la tessera premi e paghiamo con il bancomat, quanto basta per mettere nome e cognome sui nostri acquisti. Infine, in poltrona, ci scegliamo un film in pay per view, consegnando agli archivi cosa abbiamo visto quella sera. Insomma, non ci possiamo più nascondere. Questo non vuole dire che ci trovino. La tecnologia ha i suoi buchi: «La telecamera, di solito, non funziona. Se funziona, non registra. Se funziona e registra, l immagine è sfocata. In vent anni, non mi sono mai servite a nulla», confessa il poliziotto. Soprattutto, la tecnologia è talmente potente, raccoglie talmente tanti dati da annegare i suoi committenti. I centri di ascolto telefonici funzionano automaticamente, programmati per reagire a parole-chiave, con il risultato di far scattare l allarme anche quando bomba si riferisce all ultimo gol di Trezeguet. I nuovi software consentono di isolare le parole-chiave, quando sono nel contesto adatto: bomba più aereo. Ma l oceano telefonico è una Babele, dove le cose importanti possono essere nel siciliano stretto di Corleone o in un dialetto eritreo. Il punto è che intercettare non significa ascoltare. Milioni di italiani vengono intercettati: ma ci vorrebbero milioni di persone che li ascoltano, trascrivono le telefonate, le interpretano. È il buco attraverso cui sono passati gli attentatori dell 11 settembre. La regola anche con la tecnologia è quella di sempre: la difesa dell anonimato è nella folla. La telecamera che, allo stadio, perlustra la curva è tecnicamente in grado di leggere l ora sul mio orologio. Deve, però, decidere di farlo. Deve, cioè, puntare la mia faccia. Se mi punta, direbbe Harrison Ford, «la staremo a sentire». Repubblica Nazionale 30 13/11/2005 ISAAC ASIMOV La paura di quell anno folle Nel 1949 venne pubblicato un libro intitolato 1984 e scritto da Eric Arthur Blair con lo pseudonimo di George Orwell. Il libro si proponeva di mostrare come sarebbe stata la vita in un mondo totalmente malvagio, dove le persone che controllano il governo si mantengono al potere utilizzando la forza bruta, distorcendo la verità, riscrivendo continuamente la storia e, più in generale, tenendo sotto ipnosi il popolo. Questo mondo malvagio veniva collocato nel futuro, ma a soli trentacinque anni di distanza, in modo che perfino le persone che si avvicinavano alla quarantina alla data della pubblicazione potessero verificare di persona. (...) (...) In questo romanzo la società veniva descritta come un estensione su scala mondiale della Russia stalinista degli anni Trenta, raffigurata con l astio degno di un membro di una corrente avversaria. (...) (...) Durante l era maccartista negli Stati Uniti, 1984 è diventato popolare anche tra i lettori di orientamento più liberale, convinti che l America dei primi anni Cinquanta si fosse pericolosamente avviata verso forme di controllo del pensiero e che tutte le tendenze negative che Orwell aveva rappresentato stessero diventando pericolosamente tangibili. (...) (...) 1984, pertanto, divenne sinonimo non più dello stalinismo, o delle dittature in generale, ma del governo tout court. (...) In realtà, la fobia del 1984 è penetrata talmente a fondo nella coscienza di molte persone che non hanno letto il libro e non hanno alcuna idea del suo contenuto, che viene da chiedersi cosa ci succederà dopo il 31 dicembre (Tratto da Asimov on Science Fiction, Doubleday, New York 1981) ANTHONY BURGESS Un grande libro comico l libro di Orwell è essenzialmente un libro comico». «I Un che cosa? «Mi stia a sentire. La mia biblioteca è disorganizzata. Volendo rileggere 1984 riuscii a tutta prima a trovare soltanto l edizione italiana e per il momento dovetti accontentarmene, ma subito alla prima frase trovai un errore. Era una fresca limpida giornata d aprile e gli orologi segnavano l una. La frase doveva essere tradotta battevano tredici colpi : vede, abbiamo a che fare con la logica latina. Il traduttore non poteva capacitarsi che gli orologi battessero le tredici, anche nel 1984, dal momento che nessun orecchio di persona dotata di ragione poteva accettarne più di dodici e così i lettori italiani furono costretti a perdere uno spunto comico. Ecco l originale: Era una fresca limpida giornata d aprile e gli orologi battevano tredici colpi. Si ride, o si sorride». O si rabbrividisce? «O si rabbrividisce piacevolmente. Come all inizio delle più belle favole di orchi, in cui vengono imposte a un mondo familiare cose strane, tremende e incredibili. Il mondo dell aprile inglese, per incominciare. Un vento livido che beffa il sole. Turbini di polvere agli angoli delle strade. Sudiciume negli occhi. Una città stremata, distrutta al termine di una lunga guerra. Stabili crollanti, puzzo di cavolo bollito e di vecchi zerbini sfilacciati nei corridoi». Ma proprio comico... andiamo! «Comico come erano comici i vecchi music-hall... Bisogna ricordare qual era la situazione nel 1948 per apprezzare Qualcuno mi disse nel 1949 l anno in cui il libro uscì che Orwell voleva intitolarlo 1948 ma che non glielo permisero». (...) (Tratto da Anthony Burgess, 1985, Hutchinson, Londra 1978; edizione italiana 1984&1985, Editoriale Nuova, Milano 1979)

3 DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31 LA RACCOLTA DI MINIMUM FAX I quattro brani pubblicati in queste pagine sono estratti da Millenovecentottantaquattro, il libro di Minimum Fax che riunisce per la prima volta i saggi di un inedito sestetto di grandi stelle della letteratura internazionale (Asimov, Burgess, Eco, Fromm, Hitchens, Pynchon). I sei rileggono il capolavoro di Orwell in tutta la sua portata letteraria, ma soprattutto politica. Le loro riflessioni sull'importanza di 1984, come denuncia di ogni forma di totalitarismo e di manipolazione mediatica sulle coscienze, si inseriscono perfettamente nella linea editoriale orientata all'impegno civile che Minimum fax persegue da tempo. E che oggi si arricchisce di INDI, una collana dedicata proprio al pensiero indipendente, alla denuncia, alla controinformazione. Tutte le informazioni su INDI sul sito La memoria infinita del potere GABRIELE ROMAGNOLI (segue dalla copertina) Questo smilzo documento sulle attività orwelliane di un piccolo Paese quale è il Libano e del suo Grande Fratello al confine svela una struttura non soltanto verticale, ma anche orizzontale. E diffusa. E implacabile. Chiunque parli o si sposti lascia una traccia, quella traccia può essere recuperata e decodificata. Quarant anni fa l attentato di Dallas è stato preparato in una bolla esplosa insieme con i colpi che spappolarono il cervello di Jfk. Lee Harvey Oswald telefonò a qualcuno prima del suo passaggio nel deposito di libri da cui (sostiene il rapporto Warren) sparò? E Jack Ruby ricevette una chiamata subito dopo l attentato o lo seppe dalla televisione? Chi avvertì chi? Impossibile stabilirlo. Nel rapporto Mehlis la bolla che precede il massacro di Beirut viene ricostruita in laboratorio e ci si può entrare. Da quel nulla che è il passato affiorano schede telefoniche, si stabiliscono i loro dialoghi, si va a ritroso dal momento in cui vengono buttate, a quello in cui s incrociano festosamente dopo la strage, a quello in cui vengono acquistate. Materialmente queste schede non ci sono più, ma la loro vita è impressa in una disponibile memoria a posteriori che arriva perfino a ricordare chi le comprò e dove. A qualcuno è concesso di impadronirsi del passato. E, come è scritto in 1984: «Chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il passato». Lo scopo non sarebbe raggiunto, la profezia non totalmente realizzata se il controllo non avesse anche una dimensione psicologica. L autentico cuore nero dell organismo creato da Orwell, il luogo dove avviene la conversione e, quindi, la resa non è l onnisciente labirinto tecnologico, ma la stanza 101, la claustrofobica tana di ogni individuale paura, quella dove chi deve essere piegato incontra non un generico male, ma il proprio incubo, la dannazione cucita su misura da un sarto dell anima munito di un ago ultrasottile e del filo di ogni privata storia. Un esempio di stanza 101 del nostro presente si chiama Abu Grahib. Le immagini scattate nella prigione irachena e i racconti fatti da chi ne è uscito sono quanto di più vicino al luogo orwelliano che contiene, come spiega pazientemente il carnefice alla sua vittima, «la cosa peggiore del mondo, qualcosa che varia da individuo a individuo. Può essere venir seppelliti vivi, essere arsi, o affogati, o impalati, o un infinità di altre morti. Ci sono casi in cui è una cosa assai più modesta, nemmeno fatale, a volte». Abu Grahib è stata quella cosa. Non la tortura generica descritta negli appositi manuali distribuiti ai zelanti esecutori di ogni parte del mondo, non un arrampicata sulla scala universale del dolore, ma qualcosa di meno letale eppure più efficace, pensato apposta per il tipo di prigioniero, capace di umiliarlo più profondamente, colpirlo oltre la carne, nella sua stessa concezione di uomo legata a strumenti (chiamiamoli pure feticci) di fede e limiti di comportamento. Il musulmano nudo al guinzaglio di una donna occidentale in uniforme è come l ultimo uomo in Europa di 1984 quando la gabbia con i topi per cui ha la fobia scende a contatto con la sua faccia: gli stanno entrando dentro e benché questo non sia letale, sarà comunque per sempre. Dal 1950 a oggi molte delle visioni di Orwell sono diventate realtà. Manca l ultima, decisiva: l annientamento non è ancora avvenuto, sopravvive ben più di un uomo in Europa (e altrove) geneticamente più ancora che razionalmente incapace di amare il Grande Fratello e per il quale non è ancora stata progettata un efficace stanza 101. Repubblica Nazionale 31 13/11/2005 UMBERTO ECO La forza di una visione Quasi per caso Eric Arthur Blair decise di scegliere, come nom de plume, George Orwell (dopo aver scartato H. Lewis Allways, Kenneth Miles e P. S. Burton). Quasi per caso decise d intitolare il suo romanzo Nineteen Eighty-Four. Pare avesse preso in considerazione anche il 1980 e il 1982 e si dice che alla fine la data sia venuta fuori invertendo quella del 1948, in cui egli stese l ultima versione del romanzo. Orwell stava cercando un futuro abbastanza lontano da potervi collocare una storia che oggi diremmo di fantascienza, o meglio una utopia negativa, ma abbastanza vicino per soddisfare i timori che realmente lo agitavano, e cioè che qualcosa di simile dovesse realmente accadere prima o poi. Ma per quanto casuale sia stata la scelta della data, anche il caso, una volta che ha prodotto un evento, instaura una necessità: giunti al fatidico 1984 non possiamo ormai sottrarci ai fantasmi che questa data evoca. Essi fanno parte del nostro immaginario collettivo. (...) Ora, le eccitazioni celebratorie si sa cosa sono, e le mode non possono sottrarsi al fascino di centenari, nozze d oro e trigesimi. Ma se tanta follia scorre intorno a questo che non sapremmo definire in termini di alcuna ricorrenza codificabile (compleanno, nascita, scadenza, appuntamento?), questo non avviene per ragioni frivole. Il terribile libro di Orwell ha segnato il nostro tempo, gli ha fornito una immagine ossessiva, la minaccia di un millennio assai prossimo, e dicendo «giorno verrà...» ci ha impegnati tutti nell attesa di quel giorno, senza lasciarci la distanza psicologica necessaria per chiederci se il 1984 non si fosse verificato già da tempo. (...) (Tratto dall edizione italiana di 1984, Mondadori, Milano 1984, di cui il saggio costituiva l introduzione) ERICH FROMM Un cinico sguardo sul futuro di George Orwell è l espressione di un sentimento ma anche un monito. Il sentimento è quello, quasi disperato, che riguarda il futuro dell uomo, e il monito riguarda il fatto che, a meno di un cambiamento nel corso della storia, gli uomini di tutto il mondo perderanno le loro qualità più umane, diventeranno automi senz anima e non se ne renderanno nemmeno conto. La perdita di speranza nel futuro dell uomo è in netto contrasto con uno dei tratti fondamentali del pensiero occidentale: la fede nel progresso e nella capacità umana di creare un universo di pace e giustizia. Questa speranza affonda le sue radici nella filosofia greca e romana, così come nel concetto messianico dei profeti del Vecchio Testamento. La filosofia della storia del Vecchio Testamento presuppone che l uomo si realizzi e si evolva all interno della storia, diventando alla fine quello che è in potenza. Presuppone che egli sviluppi appieno le sue capacità di amore e intelletto, riuscendo in tal modo a comprendere il mondo, fondendosi con i suoi simili e con la natura, ma preservando allo stesso tempo la sua individualità e la sua integrità. Gli obiettivi dell uomo sono la pace e la giustizia universali, e i profeti, a dispetto di tutti gli sbagli e di tutti i peccati umani, hanno fede nell avvento ultimo di questa «fine dei giorni», simboleggiata dalla figura del Messia. (...) (Tratto da George Orwell, Nineteen Eighty-Four, Signet Books, New York 1961, di cui il saggio costituiva la postfazione) FOTO CORBIS

4 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 l inchiesta Nuovi grattacieli L 11 settembre ha frenato per un po la smania degli uomini a salire in verticale, ma ora la grande spinta è ripresa grazie alle tecnologie sempre più avanzate e soprattutto ai Paesi emergenti dell Asia, che hanno ormai preso il posto degli Stati Uniti. Tanto che nella top ten delle costruzioni più alte, solo due sono targate stelle e strisce Tornano le torri di vetro La corsa verso il cielo delle Tigri d Oriente plici semplici: la prima, datata 1853 e targata Elisha Otis, è quella dell ascensore. Fino ad allora, in effetti, la voglia di costruire in verticale aveva un limite intrinseco: la voglia (o la forma fisica) degli inquilini poco disposti a sobbarcarsi troppe scale a piedi. A regalare davvero ai progettisti le chiavi del cielo è stata però due anni più tardi l introduzione a livello industriale del metodo Bessemer per la lavorazione dell acciaio, scoperta che ha cambiato gli orizzonti dell architettura mondiale. Cemento e mattoni che dopo cinque o sei piani rappresentavano un peso troppo elevato per le fondamenta sono andati in pensione. E al loro posto sono arrivate quelle leggerissime travi d acciaio che da allora, un metro per volta, hanno portato l uomo a salire sempre più in alto, segnando con le punte di questi giganti i nuovi confini delle sue ambizioni e del suo progresso. La culla di questa voglia di grattacielo, non a caso, è l America. I tecnici Usa sono stati i primi a risolvere un altro ostacolo tecnologico: il problema dell acqua. All inizio la pressione degli acquedotti era l unico ascensore per farla salire negli appartamenti. E oltre il quinto piano si poteva garantire l approvvigionamento solo con le cisterne sul tetto come quelle che punteggiano ancora oggi lo skyline di New York. Poi le pompe elettriche hanno sciolto anche questo nodo. E la corsa è iniziata. La sottile guerra per conquistare il titolo di edificio più alto del mondo è stata da subito una gara fatta di colpi bassi e copioni da spystory. Il Chrysler Building di New York ha superato la Bank of Manhattan di pochi metri nel 1928 ETTORE LIVINI Dubai ha già iniziato i lavori per un colosso che dovrebbe arrivare a toccare i 750 metri di altezza, ma il progetto è tenuto segreto con l aggiunta di un pezzo di punta tenuto nascosto fino all ultimo momento. E anche oggi i progetti definitivi dei nuovi grattacieli sono topsecret come un arma del Pentagono: il Dubai, ad esempio, ha già iniziato i lavori del Burj Dabi, un colosso che dovrebbe arrivare nel 2008 a toccare i 750 metri. Ma nessuno sa con precisione quale sarà la sua altezza definitiva, proprio per evitare punti di riferimento alla concorrenza. Dietro la voglia di primati da Guinness, però, i grattacieli sono diventati anche un fedele termometro dello stato di salute socio-economica del mondo. Il decano non a caso è l Empire State Building, per quarant anni l edificio più alto della terra. Simbolo di un secolo in cui l America, nel bene e nel male, ha segnato la storia dell umanità. Solo quindici anni fa, sul tetto di otto dei primi dieci grattacieli sventolava la bandiera a stelle e strisce. Ora il baricentro dello sviluppo si è spostato verso l Asia e la testa della classifica è stata rivoluzionata: sul gradino più alto del podio (teatro negli ultimi anni di un turnover frenetico) il Taipei 101 ha preso il posto delle Petronas Tower. E nella lista dei top ten ci sono solo due grattacieli made in Usa. Ai piani alti della graduatoria bussano già nuovi protagonisti: l India ha in cantiere un edificio di 700 metri nella periferia di Delhi modellato sulle cime dell Himalaya. Progetti simili sono in pista a Mosca, Istanbul, Shanghai, oltre che in Corea del Sud e in Australia. In gara si è messa persino la disastrata Corea del Nord, che ha provato a nascondere dietro il gigantismo architettonico il fallimento della dittatura. Senza successo, però, Prima le Torri Gemelle e Osama Bin Laden. Ora, fatte le debite proporzioni, persino l attacco di Adriano Celentano («chi li vuole odia l arte»), vecchio nemico della categoria sin dall epoca de L Albero di 30 piani. La vita dei grattacieli, in questo inizio di millennio, si sta rivelando molto più dura del previsto. Architetti e sociologi prevedevano nel ventunesimo secolo la loro la consacrazione a re indiscussi del paesaggio urbano. E invece la corsa verso l alto dell uomo ha iniziato a segnare il passo. Tanti progetti sono andati in fumo assieme al crollo delle Twin Towers. Persino megalomani amanti dell eccesso come Donald Trump hanno rivisto al ribasso le loro smisurate ambizioni, sforbiciando un paio di centinaia di metri dai progetti che avevano già pronti sul tavolo. Solo Cina e Asia, new entry della globalizzazione con tanta fame di simboli concreti del loro boom, continuano a crescere in altezza: Taiwan ha conquistato il tetto del mondo con i 508 metri del Taipei 101. Nel cielo di Hong Kong sono spuntati oltre ottomila grattacieli mentre sopra le vecchie case in legno di Shanghai ne sono fioriti oltre tremila, con il suolo della città che sprofonda di 1,5 centimetri l anno sotto il loro peso. La storia, in fondo, si ripete. Dalla Torre di Babele in poi, chiunque ha osato sfidare il cielo con argilla, mattoni, cemento e vetro non ha mai avuto vita troppo facile. O per meglio dire se l è cavata fino a che il suo lavoro è stato ispirato solo dalla mano di Dio. Basta mettere in fila l elenco degli antenati dell Empire State Building: piramidi, Ziguratt babilonesi, menhir, campanili, minareti e templi maya sono progetti in cui la capacità innovativa dell uomo si è messa al servizio della fede. Mentre l unico esempio di grattacieli secolari dell antichità sono le insulae, case di cinque o sei piani costruite nell antica Roma come edilizia popolare per i poveri. Le cose sono cambiate nel diciannovesimo secolo. Quando il progresso e l illuminismo hanno liberato la fantasia degli architetti non solo dai lacci della religione, ma anche dai vincoli tecnologici. Le pietre angolari su cui i grattacieli hanno costruito il loro successo sono due scoperte semvisto che il Ryugyong Hotel è rimasto ancor oggi un mostruoso guscio di cemento incompiuto alto 330 metri. A facilitare questa corsa verso l alto c è anche lo sviluppo della tecnologia: il Taipei 101 è già passato indenne da un terremoto di 6,8 gradi della scala Richter. Gli ascensori una volta l incubo dei progettisti per gli spazi che rubavano nell edificio si sono rimpiccioliti ed evoluti: le Petronas Tower ne hanno 76 e quelli di Taipei viaggiano a 63 km/ora. Le oscillazioni del vento altra croce per gli architetti sono oggi compensate da enormi zavorre mobili, come la palla d acciaio di 600 tonnellate che dondola nel cuore del Citicorp Building di New York. Certo le spese salgono (il Burj Dabi dovrebbe costare 8 miliardi) ma con loro cresce anche la sicurezza: le due torri di Kuala Lumpur si vantano di poter evacuare 15mila persone in 20 minuti. L Occidente replica al gigantismo dei paesi emergenti con l arma del bello. Basta parallelepipedi di vetro a specchio. Una delle tre torri previste nel progetto-fiera di Milano con buona pace per la voglia d arte di Celentano si avventura in un dolce ricciolo che nei piani del progettista Daniel Liebeskind è una versione moderna della Pietà di Michelangelo. I nuovi edifici di Renzo Piano, Rem Koolhaas, Norman Foster & C. destrutturano le linee più tradizionali verticale e orizzontale piegando, torcendo e incastrando come pezzi di un gigantesco Tetris i loro sogni di acciaio, provando a sposare l estetica con la funzionalità. L obiettivo è emancipare i grattacieli, svincolandoli dalla schiavitù di luogo per uffici per trasformarli in vere città verticali, con appartamenti, ristoranti e punti di ritrovo. Un gigante in teoria dal volto più umano. Fin dove potrà salire l uomo? La tecnologia oggi ha spostato l asticella sempre più in alto. Nel 56 Frank Lloyd Wright aveva già immaginato The Illinois, un gigante alto un miglio (1.609 metri). Oggi quel traguardo non è nemmeno troppo lontano. E i nostalgici nemici dei grattacieli e della loro corsa narcisistica verso l alto davanti a questi giganti sempre più vicini al muro del chilometro rischiano persino di rimpiangere tra poco il vecchio Albero di trenta piani di Celentano. LA PRIMA CITTÀ Chicago a fine 800 è la prima città a riempirsi di grattacieli; oggi il profilo verticale più spettacolare è quello di Hong Kong IL DECANO Costruito in soli 18 mesi, l Empire State Building con i suoi 448,7 metri è stato per 40 anni (dal 1931 al 72) l edificio più alto del mondo IL PIÙ COSTOSO Per realizzare il Burj Dabi di Dubai, un colosso che nel 2008 dovrebbe toccare i 750 metri, sono stati stanziati 8 miliardi di dollari IL PIÙ ALTO DEL MONDO Con il Taipei 101, 508 metri di altezza per 101 piani, che è stato inaugurato il 31 dicembre del 2004, Taiwan conquista il tetto del mondo IL PIÙ SICURO Le due Petronas Tower di Kuala Lumpur, in Malaysia, con 76 ascensori, si vantano di poter evacuare 15mila persone in 20 minuti

5 DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 WASHINGTON Il cielo costava appena un centesimo. E il fiato necessario per scalare 86 metri. Per i valorosi disposti a investire quella somma e ad arrampicarsi a quelle altezze siderali, la guglia della Trinity Church a Wall Street offriva quella che il pastore della chiesa chiamava «la vista di tutta l isola di Manhattan». Non mentiva, il buon pastore, non esagerava. Era proprio così. In quel 1850, quando la chiesa Episcopale della Trinità fu inaugurata, la sua guglia di 86 metri era l edificio più alto di tutta New York. Lo sarebbe rimasto fino alla fine del secolo, fino alla costruzione del primo, timido grattacielo, il Manhattan Life Insurance Building a Broadway, nel Erano nanerottoli, la chiesa della Trinità, il palazzo delle Assicurazioni Manhattan a 130 metri, il Singer Building di 200 metri, il quartiere generale della Metropolitan Life a 250, che si sarebbero accavallati l uno sull altro nella sfida del Ventesimo secolo al cielo, casupole rispetto ai 450 metri e ai 110 piani delle future Torri Gemelle. Ma apparvero come ciclopi, ai lillipuziani dei ghetti ucraini e delle terre di fatica italiane, dei villaggi irlandesi e delle izbe russe che li guardarono sfilare sbigottiti, senza capire, scivolando sull acqua verso i moli di Brooklyn, figure mitologiche destinate a stamparsi nella loro immaginazione e nella immaginazioni dei figli dei figli come la rappresentazione più assoluta e certa di ciò che noi chiamiamo America. Una simbiosi di architetture e di umanità che una mattina di settembre avrebbe fuso per sempre in una lega indissolubile, nella fornace del World Trade Center. È facile capire quale fiotto maligno di venerazione, di sbigottimento e di odio doveva bollire nel petto di coloro che lanciarono due grandi aerei contro i grattacieli più alti di New York, quando si cammina dentro la foresta pietrificata di Manhattan, o nel centro di Chicago, o quando si passeggia sulla promenade di Brooklyn celebrata da Woody Allen col clarinetto di George Gershwin. O, quando, dopo ore e ore di guida nella monotonia stupefacente delle grandi pianure alluvionali, l ipnosi del vuoto si infrange nel miraggio di una qualsiasi, miserabile cittadina del Mid West che spara all orizzonte il monumento a se stessa, l immancabile skyscraper. Nel profilo degli Stati Uniti, che è orizzontale e ondulato, come lo aveva sognato Thomas Jefferson immaginando la futura nazione come una valle del Chianti lunga cinquemila chilometri, i grattacieli non sono oggetti funzionali, né prodotti della Il machismo americano copiato anche da Stalin necessità immobiliare, come nella New York dai costi del terreno astronomici. Sono scelte. Obelischi eretti per celebrare se stessi. In Indiana o in Oklahoma, in Kansas, in Texas o in Nebraska, dove la terra costa nulla e un ettaro è come un vaso da fiori sul terrazzo a Milano, sarebbe assai più economico spalmare gli impiegati della solita assicurazione o banca o azienda in un campus di casette sparpagliate, senza gli incubi della climatizzazione, degli ascensori, dei sismi, degli incendi, della manutenzione che un grattacielo di cento piani comporta. Per anni così fecero i Dupont de Nemours, i monopolisti della polvere da sparo ingrassati da tutte le guerre americane, che nel Delaware controllavano l azienda da una serie di baracche affiancate. Se Tulsa, in Oklahoma, o Rapid City in South Dakota, o Indianapolis in Indiana vogliono il loro lembo di foresta delle sequoie pietrificate, è perché i maggiorenti della città hanno sentito il bisogno di gridare la loro presenza. Hanno voluto il loro obelisco che annunciasse, visibile per miglia e miglia nelle giornate chiare: ci siamo anche noi. E anche questa nostra macchiolina sulla carta, nel mezzo del nulla, è America tanto quanto Chicago o New York o San Francisco. Megalomani, generosi, volgari, materialisti, spacconi, magnifici, scintillanti, i grattacieli americani sono la rappresentazione della virilità di un popolo. Se la maggior parte degli Stati Uniti è femmina, nella curvatura materna del loro interno nutrito dalla generosità del fiume più fertile del mondo, il Mississipi, che la divide in due metà esatte, le città sono maschili, egolatre, aggressive ma fragili come bambinoni, se l interno non le nutrisse e non le abbracciasse. Tanto eloquente è la loro potenza simbolica, che le capitali dei nuovi uomini ricchi della terra, dai cinesi di Shanghai ai giapponesi della Tokyo di Shinju-ku, dagli Indonesiani ai Taiwanesi, si affrettano, appena hanno soldi da VITTORIO ZUCCONI buttare, a sfogare la loro invidia del pene americano erigendo torri insensate ma più grosse. Persino l Urss di Stalin, che sarebbe dovuta essere immune dal maschilismo esibizionista del profitto, soffrì del complesso. Volle erigere quei sette mostruosi grattacieli nello stile art nouveau e wedding cake, torta nuziale, nato nella Manhattan degli anni Venti non per vezzi architettonici, come Stalin credeva, ma per regolamenti edilizi che obbligavano a costruire palazzi a gradinate via via più strette per non chiudere le strade nell ombra perenne, problema che Mosca non aveva. Talmente succubo del mito totemico americano era Stalin, che pretese in quei grattacieli le prese di corrente all americana, quelle a baionetta, costringendo a importare prese elettriche speciali soltanto per loro. Ci cadde pure il più moderno Kruscev, inventando una strada di Mosca, il Prospekt Kalinin, per scimmiottare la Quinta Strada. Ci siamo cascati in molti nel sogno del grattacielo, almeno noi della American generation, della generazione dei figli della guerra e della liberazione dal Fascismo, in un Italia che di Manhattan aveva visto soltanto le figure, e perciò chiamava i suoi grattacielini tascabili con accrescitivi commoventi, come il Pirellone. O come quei centri direzionali che non avrebbero impressionato neppure il reverendo pastore della Trinity Church. Ma il modello non era trasferibile, era, come è nel mondo nuovo, una scimmiottatura. L America senza grattacieli sarebbe impensabile, peggio, una non America come sognavano gli assassini di settembre, perché lo skyscraper di Manhattan o di dowtown Chicago, dove il grattacielo in realtà nacque, è magnifico perché è il frutto naturale dell albero che lo ha prodotto. Una Manhattan di villette unifamiliari a due piani come pure era, prima di arrivare agli orti e alle fattorie di Harlem, a metà del Diciannovesimo secolo, ci sembrerebbe, giustamente, assurda come un Empire State Building sulla Piazza del Campo a Siena. Ma anche l ideologia dell orizzontale e dell anti-grattacielo si è dissolta. Nel sangue, come si dissolvono tanti dei miti ideologici. Il suo zenith è coinciso con il suo nadir, nell 11 settembre, con la distruzione rituale del totem americano e in quello stesso giorno, purtroppo senza resuscitare le vite, anche con la sua rinascita. La Manhattan soffocata dalle sequoie pietrificate, che tanti avevano dato per ferita a morte, è tornata a vivere con rabbia. Ora gli acquirenti si contendono appartamenti a prezzi stratosferici in gare d asta. I costruttori rastrellano quartieri disastrati - il West End dei vecchi musical col coltello a serramanico, i vecchi mercati generali della carne, il lungo Hudson, addirittura parti del Bronx già frontiera del vicino west e le strade oltre il confine razziale della 100 th al di là del quale i bianchi non osavano entrare - per vendere appartamenti ridipinti e risistemati a milionari e scommettitori che si indebitano oggi per rivendere con profitto un mese più tardi. Un tabloid di New York racconta che la polizia ha arrestato, negli ultimi anni, almeno venti falsi immobiliaristi che avevano venduto l Empire State Building a ingenui, ma ricchissimi turisti asiatici appena sbarcati dall aereo, con tanto di avvocati, compromesso e, naturalmente, congruo anticipo. L abbattimento delle Torri Gemelle non è stata la morte, come speravano i suoi carnefici, ma la resurrezione del grattacielo, la rivincita dell orgoglio della città, la riscoperta che l affastellarsi l uno sull altro, per dozzine di piani, come su vassoi di umanità alti centinaia di metri, non aliena, come voleva la retorica socio politica anni Sessanta e Settanta, ma può riavvicinare, riumanizzare, scaldare. Persino il temuto ascensore, con quel suo incerto e imbarazzato galateo di occhiatine, colpetti di tosse e sguardi imploranti al rosario dei piani che scorre sempre troppo adagio anche ai sessanta chilometri all ora degli ultimi impianti, è un luogo di possibile socializzazione, di valutazioni, di seduzione, di timide avance, forse di futuri amori. La corsa all altezza è finita, ma il grattacielo, già arroganza del futuro, è diventato archeologia, dunque nostalgia. Basta arrivare a New York con il treno che sale dal sud fra gli orrori petrolchimici del New Jersey, o sbucare dall autostrada 95 correndo verso il Lincoln Tunnel che conduce a Mid-town Manhattan e cercare con gli occhi quello che conoscevi tanto bene e che non c è più, per sentire il rimpianto, e la voglia, di un sorriso sdentato, ma ancora vivo. IL PIÙ VELOCE I 61 ascensori del Taipei 101 viaggiano a una velocità di 63 chilometri all ora: in 39 secondi fanno 89 piani LA TOP TEN Appena 15 anni fa, 8 dei 10 grattacieli più alti del mondo erano americani: oggi 8 si trovano in Asia e solo 2 negli Stati Uniti IL RUDERE Con i suoi 330 metri di altezza il Ryungyong Hotel in Corea del Nord è l edificio più alto incompleto per mancanza di fondi A PROVA DI TERREMOTO La cinese Jin Mao Tower di Shanghai può sopportare senza danni terremoti che arrivano fino al 6 grado della scala Richter IN CANTIERE Tra i grattacieli in cantiere, l India ne ha in progetto uno di 700 metri alla periferia di Delhi modellato sulle cime dell Himalaya ILLUSTRAZIONI TULLIO PERICOLI

6 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 il reportage Mercati emergenti Si chiama Dafen e nella Cina che rifà tutti i marchi occidentali è un posto molto speciale. Qui vivono maestri del pennello che, giorno e notte, in 145 fabbriche dell arte dipingono copie di Leonardo, Rembrandt, Gauguin, Van Gogh, Picasso: un business sorprendente e in pieno boom Nel villaggio dei pittori delle false Gioconde Repubblica Nazionale 34 13/11/2005 FEDERICO RAMPINI DAFEN Aun ora di auto dalla metropoli industriale di Shenzhen nella Cina meridionale, appena entrati a Dafen si nota qualcosa di diverso. Il viavai dei Tir è sempre intenso ma ad un tratto le strade hanno nomi insoliti, scritti anche in inglese, come la Via del ritratto da Vinci. Invece dei logo con le marche di jeans o di scarpe, di computer o di telefonini, le insegne delle officine qui pubblicizzano la Gioconda, la Creazione di Adamo della Cappella Sistina. Per gli abitanti è normale, Dafen è nota in tutta la Cina come la città dei pittori. Non nel senso del ruolo che ebbe la Parigi degli impressionisti o la Vienna di Klimt. Non è qui che bisogna cercare l avanguardia creativa cinese, i giovani artisti sperimentali. No, Dafen è la città dei pittori nel senso in cui Detroit è la capitale dell automobile. In nessun altro luogo al mondo sono concentrati così tanti artigiani della tavolozza e del pennello: duemilasettecento secondo l ultimo censimento. Dipingono giorno e notte, a ritmo continuo, in 145 fabbriche dell arte, concentrate sui chilometri quadrati con la più alta densità di ritrattisti al mondo. Dal 2002 l inizio del boom di Dafen sono partiti da qui milioni di quadri, spediti in Asia America Europa, per lo più riproduzioni di capolavori celebri. C è anche un officina specializzata in gouaches napoletane dell 800 abilmente invecchiate L INDUSTRIA DELLA RIPRODUZIONE Qui sopra, un giovane pittore di Dafen. In alto, due angoli della città dei falsari. Nella foto grande, una riproduzione della Monna Lisa di Leonardo in un laboratorio. Nell altra pagina, un artista si concede una pausa durante la giornata di lavoro Quintali di impressionisti Tutti prima o poi abbiamo visto delle copie, di Gauguin o Toulouse Lautrec o Picasso: magari nelle case della piccola borghesia italiana di provincia tanti anni fa, o ancora oggi nella sala d attesa di un dentista americano dello Iowa. Possiamo anche osservare all opera qualche volenteroso facitore di riproduzioni che tenta di smerciare tele ai turisti sui marciapedi di Piazza Navona o di Montmartre. Ma quello è piccolo artigianato individuale, nessuno aveva mai immaginato un business delle dimensioni di Dafen: qui siamo su un altra scala. I cinesi hanno intuito che anche in questo campo si poteva fare il grande salto verso la specializzazione industriale e la produzione di massa. Esiste un mercato insospettato, capace di assorbire quantità illimitate di Matisse da 15 euro, Rembrandt da 30 euro. La piccola borghesia di tanti paesi emergenti vuole dare un tono all arredamento di casa. Le multinazionali asiatiche pensano di aggiungere un tocco occidentale ai loro uffici di rappresentanza. I grandi alberghi del turismo organizzato di massa devono appendere qualcosa in milioni di nuove camere da letto. Idem le navi-crociera delle vacanze tutto compreso. Perfino gli ospedali. Il pianeta intero è affollato di gru che tirano su palazzi, e qualcuno dovrà pur vestire tutte quelle pareti. Dafen produce per loro. I camion dei mercanti fanno su e giù tra i laboratori dei pittori, i porti di Shenzhen e di Hong Kong dove le navi portacontainer attendono quintali di impressionisti, Renoir Manet e Monet venduti al peso. In Russia va forte il Tintoretto. In Estremo Oriente al top delle vendite rimangono i Girasoli di Van Gogh. Forse in ricordo dell epoca in cui i colossi finanziari giapponesi sbancavano le aste a Londra per comprare quelli veri. Non solo i grossisti, anche il cliente individuale può venire a fare acquisti a Dafen. Più di 300 gallerie espongono al pubblico un campionario del lavoro dei pittori. I negozi offrono mescolanze singolari, perché a Dafen si dipinge proprio di tutto, a richiesta. Non mancano i maxiritratti dei padri della patria Mao Zedong, Zhou Enlai e Deng Xiaoping, evidentemente hanno ancora una clientela fra i nostalgici del comunismo; ma per una involontaria ironia li si vede in vetrina accostati alla rinfusa al Bacio di Klimt, a una erotica Sofia Loren copiata dal celebre manifesto del film La Ciociara, al trio di calciatori brasiliani Ronaldo Rivaldo e Roberto Carlos. Gli artigiani cinesi si sono adeguati a Internet. Volete il ritratto dei vostri figli? Spedite per una foto digitale, per un centinaio di euro (spedizione inclusa) mani esperte ne faranno un olio su tela, una tempera o un acrilico, della metratura esatta che serve per la vostra sala da pranzo. L accozzaglia nelle vetrine non deve ingannare. Dietro, nei retrobottega che riforniscono i commercianti, vige la divisione industriale del lavoro. Gli atelier degli artisti sono in realtà catene di montaggio: decine di pittori per stanza, seduti o in piedi davanti ai cavalletti, immersi nella puzza delle vernici, lavorano a ritmi infernali col pennello e la spatola per rispettare i tempi delle consegne. I capireparto sono spesso ex professori di disegno, la manovalanza giovani diplomati dei licei artistici. Lavorano anche undici ore al giorno, dormono in fabbrica. Guadagnano a cottimo, a seconda delle tele dipinte. In media un ragazzo di bottega può prendere una decina di euro al giorno, che è più del doppio di un salario operaio. Dopo un po di apprendistato ci si specializza. Ci sono le officine degli impressionisti e quelle del Rinascimento italiano, la ritrattistica e i produttori di paesaggi, il quartiere delle nature morte e la zona del surrealismo. Chen Xiangjun, 39 anni, è un gradino al di sopra della massa. Lui lavora su commissione ma in proprio. A Dafen si è conquistato una reputazione. È uno degli autori di Gioconde. Mi invita a visitare casa sua, casa e ufficio s intende. È un loculo al primo piano di una palazzina dove mi accolgono file di mutande stese ad asciugare, l odore del cavolo bollito, e una piccola moglie solerte che corre subito a comprare una lattina di Coca Cola da offrire al visitatore (e potenziale cliente). «Ho studiato arte classica all università dice con l orgoglio controllato dei cinesi e ho preso il diploma di laurea sulla pittura a olio. Per un anno ho fatto il professore in una scuola, ma il salario era troppo basso. Poi sono andato a dipingere in una fabbrica di arredamento. Ora eccomi qui nella città dei pittori. Io posso dipingervi qualunque cosa, basta che mi diate delle foto. Non mi chiedete di lavorare a memoria perché è molto più difficile. Monna Lisa è il mio forte. Posso dipingerla in tre o quattro giorni, olio su tela, lavorando più di otto ore al giorno senza interruzione. Il mio prezzo dipende sempre dalle ore lavorate, poi dalla familiarità del soggetto che mi chiedete, e infine dalle dimensioni della tela. Una buona Monna Lisa ve la vendo a 800 yuan (80 euro)». Lancia uno sguardo alla moglie, timoroso di aver sparato troppo alto

7 DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 Volete appendere in casa un olio su tela col ritratto di vostro figlio? Bastano una foto digitale e cento euro, spedizione inclusa Repubblica Nazionale 35 13/11/2005 perfino per un cliente occidentale, e aggiunge veloce: «Trattabili». Mostra una Gioconda che ha appena finito. Ha le guance leggermente più paffute rispetto all originale, i riccioli dei capelli sono meno curati, i colori forse un po troppo luminosi, la prospettiva del paesaggio dietro di lei è semplificata. E naturalmente il sorriso misterioso di Leonardo non si lascia riprodurre con facilità. Per 80 euro, trattabili, ci si può accontentare? Chen forse intuisce che il visitatore italiano non è del tutto convinto, e si spiega meglio. «Questa l ho fatta un po in fretta, è per un cliente che voleva spendere il minimo. La qualità è proporzionale al tempo che lei mi concede. Per esempio, se devo finire in pochi giorni, Monna Lisa mi viene con la pelle un po scura. Se lei mi paga di più le faccio una bella pelle bianchissima, come una vera regina». Tele ingiallite ad arte A pochi metri dalla casa di Chen, la signora Hengchao gestisce invece un officina di tre piani dove decine di ragazzi sono indaffarati a riprodurre delle gouaches napoletane dell Ottocento. Fa ancora caldo qui nel Guangdong, il ventilatore non riesce a scacciare le mosche, i giovani artisti lavorano in maniche corte o in canottiera, curvi sulle tavolozze, concentrati e silenziosi. La padrona mi guida in un ripostiglio polveroso dove sono ammassate pile di riproduzioni: 20 euro la gouache napoletana. «Un mercante di Shenzhen dice me le compra a centinaia, poi lui le rivende in Italia». La signora non vuole rivelare la tecnica di invecchiamento. Il prodotto finale è pieno di rughe, la tela è ingiallita anche sul retro, i colori hanno una patina d antico. Qualcuno evidentemente ci casca, a giudicare dagli ordini abbondanti dell esportatore di Shenzhen. Chissà che una di queste gouaches non sia finita addirittura, a prezzi centuplicati, da qualche antiquario in via del Babuino o a Brera. La padrona rifiuta di darmi il nome del grossista che rifornisce l Italia. Nella sua officina siamo in una zona grigia, un tipo di mestiere dove la città dei pittori confina con altre industrie cinesi specializzate nella contraffazione, nella pirateria, nel furto del copyright. Ma l atelier delle gouaches napoletane è un eccezione. Il grande business di Dafen è un altro. La città dei pittori non cerca di ingannare. I milioni di quadri che esporta nel mondo intero sono copie evidenti, dichiarate, fatte con assoluto candore. Leonardo da Vinci non viene derubato dei diritti d autore. E presumibilmente tutti i clienti sanno che la Gioconda autentica o i Girasoli di Van Gogh non sono in vendita, tantomeno per 80 euro. Vista dalla città dei pittori perfino la pirateria, quella vera, appare sotto una luce un po diversa. Molto prima che in Occidente Walter Benjamin scrivesse L opera d arte nell epoca della riproducibilità tecnica, molto prima che Andy Warhol scatenasse l ironia della pop-art nella moltiplicazione delle immagini celebri, da oltre duemila anni in Cina la tradizione confuciana esalta il gesto di copiare come un omaggio amorevole e devoto verso l artista originale. La storia dell arte in Cina reca quell impronta. Non è un caso se la civiltà più antica del mondo ha lasciato così poco di antico nel senso in cui lo intendiamo noi. Nell estetica cinese ciò che è bello non è l oggetto d arte, ma il gesto dell artista nel crearlo, e l infinita ripetizione di quel gesto lo rende eterno. In chi copia c è umiltà, c è tensione verso l apprendimento. Nel dopoguerra e fino agli anni Settanta i pirati per eccellenza erano i giapponesi. Nelle fiere industriali in Occidente degli avvisi proibivano categoricamente alle delegazioni giapponesi di portare con sé macchine fotografiche, perché loro fotografavano per rifare i prodotti americani, inglesi, tedeschi. Da quell epoca è rimasta un eredità: la leadership mondiale del Giappone nell ottica di precisione, ricordo di un tempo in cui la macchina fotografica fu per loro un arma strategica. In molti altri settori tecnologici il made in Japan oggi è talmente avanzato che noi abbiamo rinunciato a competere. I cinesi di oggi per questo aspetto sono i giapponesi di ieri. Hanno la stessa caparbietà nello studiare chi sta più avanti di loro, la stessa ansia di emulazione. La pirateria è contro le regole, ma tradisce anche una grande voglia di imparare. Sembra una metafora della Cina intera questa strana città di Dafen, con i suoi duemilasettecento pittori che faticano alla catena di montaggio, affittando i loro pennelli al servizio dei nostri desideri. Chen, chiuso nel suo stanzino da anni a fare Gioconde per poche centinaia di euro al mese, confessa con fierezza: «All università ho studiato proprio il Cinquecento italiano». Quando gli chiedo se gli piacerebbe un giorno andare a vedere la vera Monna Lisa al Louvre, si illumina di un sorriso: «Naturalmente, è il desiderio di ogni pittore». Per un attimo un sogno gli passa negli occhi.

8 Repubblica Nazionale 36 13/11/2005

9 DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 le storie Cambia la società Wimbledon, 5 luglio 80, finale. Da una parte Bjorn Borg, svedese maniaco dell ordine, dentro e fuori. Dall altra un moccioso americano, incapace di far tacere le voci nella sua testa. È una battaglia mai vista: vince Borg ma finisce un epoca. Perché quell estate lo sport più aristocratico scopre un eroe inquieto. Che lo trasformerà per sempre LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 La sfida di McEnroe il tennis ribelle degli anni Ottanta EMANUELA AUDISIO Repubblica Nazionale 37 13/11/2005 Ar rivò l estate, luglio, la finale di Wimbledon. Era il Il rumore della pallina da tennis cominciò a rimbalzare in tutto il mondo. Era diverso da prima, ora si sentiva, ora voleva dire qualcosa. Nessuno voleva crescere, né il giovane Holden né il giovane McEnroe, Fino a quel momento il tennis era stato un gioco: obbedienza, tradizione, aristocrazia. Roba seria, da adulti, protestare non era elegante. Borg era imperturbabile, Buster Keaton con la racchetta. Ci teneva alle abitudini. Alloggiava sempre allo stesso albergo, ogni sera regolava il condizionatore su 12 gradi, dormiva nudo e senza lenzuola. Le sue pulsazioni al risveglio non superavano mai i 50 battiti al minuto. Credeva che un qualsiasi cambiamento avrebbe alterato il suo equilibrio. Anche il borsone veniva preparato con maniacalità: le magliette, la fascia per capelli, i calzini. Borg si ungeva i piedi con la crema idratante, per evitare le vesciche. Si immergeva nella poesia If di Kipling: «Una volta che una partita è chiusa, è chiusa. Non mi porto dietro né il dolore né la gloria». La prima volta che John McEnroe vide giocare Bjorn Borg fu a Forest Hills nel 71. Lo svedese aveva 15 anni, ma sembrava già un uomo. Accanto ai poster di Rod Laver e di Farrah Fawcett, McEnroe appese anche quello di Borg. Come Richie nel film I Tenenbaum di Wes Anderson, McEnroe ammirava il rivale: «Il completo Fila, le magliettine strette e i calzoncini corti, adoravo quella roba». Lo svedese era ordinato, dentro e fuori. McEnroe era l opposto: incapace di far tacere le voci nella sua testa. Forse Borg meditava prima di colpire la palla, McEnroe invece pensava mentre la colpiva. Le sue partite erano assoli di jazz, musica sconsacrata. Tim Adams, giornalista dell Observer, in Essere John McEnroe (Oscar Mondadori) ricostruisce con ricchezza cosa significò per la società avere a che fare con un adolescente che non voleva ubbidire. Wimbledon era il tempio, dove ancora si distingueva tra gentiluomini e giocatori. McEnroe trovava buffo fare l inchino. Teddy Tinling, sarto delle tenniste, disse: «McEnroe è un fatto disgregante perché costringe la gente a prendere delle posizioni che preferirebbe non prendere». Fuori da Wimbledon però le cose cambiavano. Nell estate dell 80, con Margaret Thatcher al comando, il numero dei disoccupati era cresciuto di 850mila, cifra che non si raggiungeva dal McEnroe litigava con sé, con gli altri, con gli arbitri. Si ribellava al conformismo, alla tradizione, all ipocrisia. «Ti trovi là in mezzo, tutto solo, a combattere fino alla morte sotto gli occhi di persone che mangiano panini al formaggio». Nel 1981 il nuovo campione si aggiudica il torneo: poco dopo il rivale annuncia il ritiro J.D. SALINGER L irrequietezza adolescenziale di McEnroe ricorda quella del protagonista de Il giovane Holden MARGARET THATCHER Nell estate del 1980 la disoccupazione, nella Gran Bretagna della Lady di Ferro tocca i livelli massimi TOM HULCE Per interpretare il ruolo di Mozart in Amadeus di Forman l attore ha dichiarato di essersi ispirato alla figura di McEnroe ANDY WARHOL L inventore della pop art si svegliò presto per seguire da New York la finale tra Borg e McEnroe NELSON MANDELA Convinse i secondini della sua prigione a Robben Island a procurargli una radio per ascoltare la cronaca del match Nell 80 vinse il torneo di Queens, ma tenne la mano sinistra in tasca davanti alla viscontessa de Spoelberch che lo premiava. Lui non accettava le decisioni in campo: «Sei una disgrazia per l umanità», urlò all arbitro George Grimes. Lui non era gentile con la stampa: «Il tuo Mirror rincoglionisce i ragazzi». Sputò su una spettatrice che aveva applaudito un doppio fallo, si giustificò: «Non l ho presa». Un Peter Pan con la racchetta. Ogni volta che giocava a Wimbledon, la Bbc imbavagliava i microfoni di campo, come i vittoriani coprivano le gambe dei pianoforti. Tom Hulce per la parte di Mozart nel film Amadeus di Forman confessò di essersi inspirato a McEnroe. Sir Ian McKellen nel provare Coriolano per la Royal Shakespeare Company usò McEnroe come modello per il capo ribelle. Un monello imbronciato e lentigginoso, uno in cui si rispecchiava la nuova società. Rispettare le convenzioni non era più un obbligo. L Inghilterra, verificò un sondaggio di un giornale, sperava in McEnroe. Borg con la sua riservatezza e determinazione ricordava quello che il paese desiderava essere, McEnroe con la sua inquietudine e paranoia lo teneva fermo a quello che era. Così il 5 luglio dell 80 si giocò la finale. Tutti ricordano l eccitazione: non era solo tennis, era qualcosa di più profondo. Nelson Mandela riuscì a convincere le sue guardie a Robben Island a procurargli una radio in modo da poter ascoltare la cronaca, Andy Warhol si alzò presto nella casa di sua madre, sulla 66esima, per non perdersi la diretta. Il tie-break fu memorabile, durò 22 minuti. Sul Borg sprecò 6 match-point e precipitò. Sul punteggio di 2-2 controllò le racchette e tornò in campo come se niente fosse. Vinse il set finale 8-6. Quando chiuse la cerniera della borsa abbozzò un sorriso triste e mormorò una parola in svedese. «Incredibile». Per la prima volta era stato attraversato dal dubbio. Nel 1977 un uomo di 44 anni era a Wimbledon. Si chiamava Phil Knight, cercava giovani tennisti cui fare indossare le sue scarpe. E un logo da associare ad un determinato stile di vita. Sul campo centrale trovò chi stava cercando. Uno che vinceva secondo le proprie regole, mettendo in imbarazzo il vecchio mondo. Uno che rompeva il codice, che non aveva né voleva limiti. «Just do it». E dai, fallo, ovunque. Finiva ogni distanza tra sponsor e sponsorizzato. Nell 81 McEnroe vinse Wimbledon e gli Us Open. Borg dovette ammettere la sconfitta per la prima volta nella sua carriera, e ben presto si ritirò. McEnroe andò in analisi, il tennis lasciò le racchette di legno, e quell estate dell 80 restò sempre lì, strana, diversa, mocciosa. Un libro ripercorre oggi la vita tumultuosa e le imprese del genio della racchetta

10 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 i luoghi Design urbano C è aria di crisi sulla spiaggia degli inglesi: i voli low cost hanno reso accessibili a tutti lidi più assolati e mari più tiepidi. E allora la città ha deciso di rilanciare la sua immagine, affidandola al progettista del Guggenheim di Bilbao. Che ha risposto all appello proponendo due torri di venticinque piani che cambieranno per sempre la skyline vittoriana La seconda vita di Brighton Repubblica Nazionale 38 13/11/2005 FOTO ZEFA/SIE ENRICO FRANCESCHINI BRIGHTON Mare color argento, cielo solcato da bassi nuvoloni scuri, aria di pioggia. Gabbiani famelici appollaiati sul dilapidato pontile che reclamizza divertimenti e attrazioni, sebbene le saracinesche delle botteghe di souvenir, degli empori di fast food e delle sale giochi siano rigidamente sprangate. La spiaggia di sassolini e ghiaia, battuta dal vento. Poco più in là, nei primi vicoli dietro il lungomare, un puzzo di fish and chips invade la strada, proveniente da un ristorantino dove ogni tanto s infila un passante. All orizzonte, un filo di fumo segnala un traghetto che attraversa la Manica. Per il resto, non un anima in giro. Seduto in un pub a rimirare questo desolante scenario autunnale, dico al barista, come sentendomi in dovere di consolarlo, che le stazioni balneari fuori stagione mettono malinconia ovunque, anche da noi, in Italia. Ma Brighton, replica il barman servendo un altra birra, non ha mai avuto bisogno del sole e del cielo azzurro per tirare avanti. Tre generi di turisti, spiega, l hanno tenuta perfettamente in vita per oltre due secoli: le coppie clandestine, che ci vengono per trascorrere nei suoi motel un dirty weekend, un tranquillo fine settimana da sporcaccioni, tradendo il marito, la moglie o entrambi, dunque senza il minimo interesse per le condizioni atmosferiche e la vivacità degli stabilimenti; i conferenzieri a spese di un partito, di un sindacato o di un associazione di categoria, che vi si danno appuntamento fra settembre e dicembre per i loro congressi annuali, talmente felici della vacanza gratuita da non badare all atmosfera; e infine i vacanzieri estivi, così abituati all idea che come ammoniva Byron «l inverno in Inghilterra finisce a luglio e ricomincia ad agosto», da non preoccuparsi se piove, fa freddo e tira vento come in autunno. Qui i turisti sono di tre tipi: le coppie clandestine, i convegnisti e le famiglie medie già abituate al pessimo clima britannico IL LUNGOMARE Sopra, il lungomare di Brighton. In alto, le tipiche case a schiera e i negozi della città britannica. Sotto, una foto notturna del celebre molo. Nella pagina accanto, una stampa del 1808 che mostra il Royal Pavillon e, nel riquadro, il progetto Gehry A un ora da Londra Questi tre elementi, insieme alla vicinanza con Londra, raggiungibile in un ora di treno o di auto, hanno in effetti contribuito a fare di Brighton la prima e la più famosa località balneare del Regno Unito: London-on-sea, la chiamano gli abitanti della capitale, Londra-sul-mare, una sorta di algida Rimini inglese. Un luogo un po kitsch, relativamente a buon mercato, in cui ti aspetti di veder sbucare dietro l angolo gangster che si nascondono e detective privati armati di macchina fotografica per documentare illecite tresche d amore. Un pizzico di volgarità, bizzarria ed erotismo, come in un romanzo giallo: diciamo Brighton rock del grande Graham Greene, per citarne uno. Senonché, all incirca un decennio fa, il magico accordo che teneva in piedi Brighton, e che sorreggeva con la stessa logica le altre stazioni balneari britanniche, è progressivamente andato in frantumi. Le compagnie aeree a basso costo, come RyanAir e EasyJet, hanno cominciato a offrire voli verso il Mediterraneo, verso le coste di Grecia, Italia, Francia, Spagna e Portogallo, per un pugno di sterline. In un paio d ore, i visi pallidi inglesi si sono accorti di potere approdare al caldo, al sole, a un mare infinitamente più tiepido, spendendo per la loro vacanza di una settimana o di un weekend la stessa cifra che spendevano a Brighton o a Blackpool, se non di meno. Nell ultima stagione estiva, le presenze turistiche nelle località marine nazionali sono calate del quaranta per cento rispetto al I giornali della capitale hanno lanciato l allarme, accorgendosi che le spiagge patrie sono frequentate ormai soltanto dai pensionati e dagli stag and hen parties, gli sfrenati addii al celibato e al nubilato, un altra tradizione anglosassone, condita di alcolici e sesso. Ma da soli non bastano a evitare il declino. Deve essere stato in una livida giornata, come quella che osservo dalle finestre del pub, che a Brighton qualcuno ha avuto un idea. Come si risolleva una città in crisi? Esistono, evidentemente, tante possibilità, tanti metodi. Ma ce n è uno che è stato sperimentato con successo in tempi recenti, in Gran Bretagna e altrove: costruire un edificio rivoluzionario, un nuovo simbolo cittadino, un icona, un ardita opera architettonica, in grado di richiamare l attenzione, di rivitalizzare la città che le sorge attorno, di simboleggiarne il rilancio. Qualcosa di simile è accaduto a Manchester, Liverpool, Newcastle e Birmingham, anche se la rinascita dell Inghilterra, specie nel Nord impoverito e depresso, non si può certo imputare a singole decisioni, tantomeno a un avveniristico grande magazzino, come a Birmingham, o a un nuovo centro commerciale, come a Manchester. Eppure in almeno un caso si è diffusa l impressione che sia stato proprio un edificio a compiere il miracolo. Bilbao, capoluogo spagnolo del Paese Basco, ha arrestato la decadenza e premuto l acceleratore grazie alla creazione del futuristico museo Guggenheim firmato dall architetto Frank Gehry, canadese di nascita, americano d adozione, mito internazionale, autore di altre celebri costruzioni come la Disney Hall di Los Angeles. Perché non chiedergli di provare a fare il bis con Brighton? Il sindaco, Ken Bodfish, laburista, ha convinto il consiglio municipale. La richiesta è partita. Il mitico Gehry, che a settanta anni e passa continua a lavorare come quando ne aveva trenta (fra i suoi prossimi programmi c è la nuova arena sportiva di basket dei Nets a Brooklyn, un centro per ricerche sull Alzheimer a Las Vegas e una linea di gioielli per Tiffany), è sbarcato a Brighton. Sono seguiti mesi di discussioni, progetti, appalti, ricerche di finanziamenti. Adesso il secondo miracolo è sotto gli occhi di tutti, seppure ancora soltanto sotto forma di modellino in plastica: due grattacieli di venticinque piani in riva al mare, nel caratteristico stile Gehry, sbilenco, scolpito, asimmetrico, «come due fogli di carta appallottolati», secondo il giudizio di un critico, collegati a un centro di intrattenimento al coperto completo di impianti sportivi, tre piscine, ristoranti, negozi, uffici e quasi un migliaio di appartamenti. Un mastodonte sexy, cool, pieno di glamour, aggettivi che ben si adattano al divo cinematografico Brad Pitt, amico e discepolo di Gehry, a cui pare abbia dato una mano. Costo previsto dell iniziativa: 300 milioni di sterline, quasi 450 milioni di euro. Data per l inizio dei lavori: autunno Per il completamento dell opera: L anno, guarda che bella combinazione, delle Olimpiadi di Londra. La sollevazione popolare Tutto è bene quel che finisce bene? Non proprio. Perché a Brighton il progetto ha scatenato una sollevazione popolare. Molti residenti lo definiscono una «mostruosità», sostenendo che è completamente inadeguato all ur-

11 DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 FOTO CORBIS Repubblica Nazionale 39 13/11/2005 L architetto americano: se mi piacciono gli interlocutori, accetto anche lavori controversi Frank Gehry: i miei progetti come balletti colorati LOS ANGELES La sconfitta più cocente fu quella del 2000 per il nuovo grattacielo del New York Timesnel cuore di Manhattan. Giunto in finalissima assieme a altri tre principi dell architettura contemporanea (Norman Foster, Cesar Pelli e Renzo Piano), Frank O. Gehry fu battuto nello sprint finale dalla lanterna magica del concorrente italiano. «Questione di soldi», fecero capire nella sede del quotidiano. «Nessuno può pretendere di vincere ogni gara», sospira Gehry. Neanche lui. Neanche il «più famoso architetto del mondo», secondo il titolo attribuitogli dalla rivista Time dopo il successo del Guggenheim di Bilbao. E con la stesso approccio psicologico, un misto di orgoglio professionale e fatalismo, Gehry affronta ora altri due maxi-progetti urbani: il rilancio dello skyline di Brighton e la sfilata di torri attorno al nuovo stadio di basket di Brooklyn. Entrambi sono contestati dagli abitanti locali, che in Inghilterra si lamentano della stravaganza delle forme curvilinee e negli States protestano per i disagi causati dai lavori. Frank Gehry, perché, tra tante offerte che riceve quotidianamente da ogni parte del mondo, ha scelto proprio progetti controversi come quelli di Brighton e di Brooklyn? «Per accettare una commessa, devo sentirmi a mio agio e mi devono piacere gli interlocutori, soprattutto in termini di coinvolgimento intellettuale e politico nella impresa. La maggioranza dei miei colleghi sogna situazioni in cui il cliente dà carta bianca: eccoti i soldi, costruisci quello che vuoi. Io no. Non mi piacciono ARTURO ZAMPAGLIONE rapporti del genere, non li trovo affatto interessanti né stimolanti. Prediligo le sfide in campi vergini. E, alla mia età, posso permettermi il lusso di fare il difficile, chiedendo alla controparte di starmi vicino, di giocare con me, di discutere, persino di litigare, di esigere una partecipazione a quel balletto colorato che precede ogni mia opera. Naturalmente ci sono anche altre pre-condizioni». Quali sono? «L iniziativa deve essere in sintonia con il mio senso etico, con la mia visione del bene e del male nel mondo: come sarà, ad esempio, il Museo della Tolleranza di Gerusalemme. E deve avere una solida base finanziaria». Nell avventura di Brooklyn i soldi non mancano: il suo committente, Bruce Ratner, lo stesso che costruisce il grattacielo del New York Times, ha le spalle molto solide e si appresta anche ad affidarle un altro grattacielo a Manhattan, vicino all imboccatura del ponte di Brooklyn. Ma l aspetto finanziario di Brighton sembra più traballante. «Mi sono fatto trascinare nell impresa di Brighton da Piers Gough, un amico caro che conosco bene e apprezzo. Lui aveva rapporti consolidati con la ditta Karis e mi sembrava una garanzia sufficiente. Purtroppo abbiamo scoperto solo in seguito che la Karis non aveva le risorse sufficienti per affrontare la spesa. Ed è così entrata come partner la Ing, con cui avevo già lavorato per il mio edificio di Praga chiamato Ginger e Fred. La Ing è un colosso tentacolare: il che renderà più problematico il coinvolgimento intellettuale». banistica della loro cittadina. «Quei due grattacieli, così alti, sono un insulto, un pugno negli occhi», dice Vanessa Brown, leader dell opposizione conservatrice nel consiglio municipale. «Vogliono toglierci il nostro adorato stile vittoriano», si lamenta Selma Montford, presidentessa della Brighton Society, un associazione per il mantenimento del patrimonio culturale e artistico. «Come minimo, vogliono togliere a me la vista del mare», si arrabbia Kate Faulkner, un arzilla infermiera in pensione che vive da quarant anni davanti alla spiaggia, passa buona parte del tempo affacciata alle finestre della sua villetta e intende continuare a farlo. Gehry, che alle reazioni esagitate alle sue opere deve averci fatto il callo, minimizza la polemica: «Ho già ridotto l altezza delle due torri, che nel progetto originale dovevano essere di quaranta piani. In ogni caso a ispirarmi la forma dei grattacieli è stato l incontro con una signora in abito vittoriano, che passeggiava sul lungomare con la sua lunga gonna gonfiata dal vento, quindi non mi pare di avere disegnato nulla di inappropriato alla storia e al carattere della città». Per intravedere una gonna vittoriana gonfiata dal vento nel modellino delle due torri, a essere sinceri, conviene avere trascorso un lungo pomeriggio al pub. E si potrebbe aggiungere che le critiche a Gehry non provengono esclusivamente dagli abitanti di Brighton: il mondo dell architettura odierna appare diviso tra i fan del suo stile espressionista, contorto, clamoroso, da un lato, e i fan di un modernismo più soffuso e tranquillo, che alcuni definiscono Nuova Serenità, identificato principalmente con Renzo Piano, dall altro. L impressione, tuttavia, è che l iniziativa sia andata troppo avanti per tornare indietro. «Fra dieci anni, quando Brighton avrà trovato una nuova identità grazie a questo complesso di edifici, la gente non ricorderà neppure su che cosa stavamo bisticciando», commenta fiducioso il sindaco. Bisogna dire, inoltre, che di pugni negli occhi Brighton ne ha ricevuto almeno un altro nella sua storia: il Royal Pavillion, palazzo delle meraviglie in stile orientale, che il futuro re Giorgio IV, anni prima di salire al trono, si fece costruire nel 1822 dal più famoso architetto dell epoca, John Nash, colui a cui si devono le splendide case con colonnato attorno a Regent s Park e il parco stesso a Londra. Il principe di Galles voleva una specie di stravagante castello in cui divertirsi con la sua segreta amante: la tradizione del dirty weekend in un certo senso cominciò così. Anche il Pavillion sembrò a qualcuno una mostruosa follia, mentre oggi viene regolarmente votato come il monumento più amato dagli inglesi. E poi comunque, per riprendersi dal colpo delle linee aeree a basso costo che portano all estero i vacanzieri indigeni, tutte le stazioni balneari inglesi stanno cercando d inventarsi qualcosa: Blackpool, per dirne una, si è candidata ad ospitare il primo, grande casinò all americana, nella speranza di diventare la Las Vegas britannica. Il messaggio è che, per sopravvivere nell era della globalizzazione, ognuno si ricicla e si reinventa come può, anche sulle rive di un mare cupo, freddo e grigio. Male che vada, a Brighton resteranno sempre i delegati dei partiti riuniti in congresso e le coppie degli amori clandestini; a meno che queste ultime, davanti alle luci e al prevedibile frastuono dei due grattacieli di Gehry, non decidano di migrare verso lidi un tantino più riservati.

12 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 Il 18 novembre comincia a Clermont Ferrand la sesta Biennale dedicata a questa forma di testimonianza pittorica che ha avuto una stagione gloriosa nell Ottocento e sembrava essere stata spazzata via dalla macchina fotografica. Ma che ora suscita l interesse di esperti e editori Carnet voyage de Repubblica Nazionale 40 13/11/2005 Quei reportage fatti col pennello STEFANO MALATESTA Il mioamico Pedro Cano, grande pintor de aguada, ha dipinto ovunque con ritmi da forsennato, come se il mondo gli sfuggisse e lui cercasse di fermarlo servendosi di colori trasparenti che rendono l acquerello la più delicata e la più imprevedibile delle tecniche artistiche. E le sue opere continuano ad essere esposte nelle migliori gallerie, in Spagna come in Italia. Ma tra i conoscenti i lavori più apprezzati sono dei taccuini di viaggio di genere particolare. Opere già completate e rifinite, con il bianco che non è colore, ma il bianco del cartoncino lasciato scoperto e tutte le pagine dipinte ad acquerello. Questi taccuini, fuori di commercio e senza una vera e propria quotazione, segnalavano con grande evidenza una passione che fino a non molti anni fa era considerata stravagante, perché rivolta a un genere che aveva avuto momenti gloriosi nell Ottocento ma che ora giaceva immobile per aver esaurito tutte le possibilità, ignorato dai critici, sorpassato dagli artisti e sostituito dalla fotografia. Vedendo per la prima volta i carnet di Cano, mi venne l idea di fare un giro nel deserto egiziano insieme con lui, alla ricerca delle antiche cave dei marmora romana. Avremmo realizzato insieme uno splendido libretto (non tanto piccolo), almeno così pensavo, con un mio testo e i suoi disegni del Mons Porphirites, tutto porfido rosso imperiale con cui i bizantini foderavano le stanze dove nascevano i figli dell imperatore che appunto si chiamavano porphirogeneti. Saremmo andati nel uadi Hammamat, lungo la strada dal Mar Rosso a Luxor, alla ricerca della breccia verde, chiamata anche Ecantonthalitos, la pietra più amata dai romani, o dei massi erratici del porfido laterizio, il più raro. Ricordo che passai almeno un ora ad elencare a Pedro tutte le cose che poteva acquerellare con effetti meravigliosi. Per esempio, quelle due colonnette tortili di breccia corallina che avevo trovato al Khal al Kahlili, riprese mentre le imbarcavano su una feluca che risaliva il Nilo fino al mare: il rosa-arancio della breccia sullo sfondo dell azzurro del Nilo, e tutt intorno gallabie bianche. Ma quando feci qualche telefonata per sentire la disponibilità degli editori, li sentii laconici e molto prudenti. Uno disse che in Italia non avrei trovato nessuno disposto a pubblicare un libro del genere: troppo costoso e troppo snob. I cahier de voyages questo era il loro nome ufficiale una volta considerati uno strumento indispensabile per i pittori, come le penne infilate nei computer degli scrittori, si erano difesi per molti anni dagli attacchi insidiosi portati dalla fotografia. Poi, quasi di colpo, all inizio del Novecento, tutti quegli appunti e note di viaggio, schizzi brillanti e acquerelli luminosi, si ritrovarono ad avere un ruolo superfluo in un Europa diventata il Paradiso delle Macchine. Risultavano molto più utili le chiavi inglesi per sbullonare le sculture futuriste o suprematiste, le forbici da sarto per i collages, squadre e regoli per composizioni volumetriche di tipo cubista e un pantografo per rifare, molto sovradimensionate, le sculturine che Moore portava al Cinquale. Provate ad immaginare Marcel Duchamp, così metropolitano, sempre immerso ad inventare metafore meccanosessuali, mentre tira fuori un libricino di croquis di paesaggi campestri. O Braque che prende spunto da un carnet di qualche anno prima per dipingere i cubi sovrapposti ad altri cubi nella Case all Estaque. La frase di Picasso, tante volte citata, che lui dipingeva le donne non come le vedeva ma come le pensava già detta a suo tempo da un precursore, Raffaello lo esonerava da qualsivoglia obbligo di verosimiglianza. E più in generale, chi aveva a che fare con la fine della prospettiva rinascimentale, quando tutti i valori di un arte che durava da cinquecento anni erano saltati, non aveva tempo per occuparsi di quisquilie come la trasparenza degli acque- relli. Questo non significava che di tanto in tanto geni solitari non disegnassero panorami: l inarrivabile Saul Steinberg ha reinventato le città e le carte geografiche con gli Stati Uniti visti a volo d uccello adoperando un tratto che si riconosce tra mille. E più di recente, all inizio degli anni Sessanta, David Hockney venne mandato dal Sunday Times in Egitto a disegnare quello che doveva essere l equivalente in figure del classico reportage scritto. Qualche volta ci scordiamo che il paesaggio non è stato un dato permanente della pittura come il nudo, ma per qualche secolo si è identificato con il paesaggio italiano e in parte con il paesaggio olandese. Era impensabile che un artista europeo che volesse salire di fama e imparare dagli antichi potesse fare a meno di scendere periodicamente in Italia. L itinerario era sempre lo stesso da secoli, e alla Tate Gallery ogni tanto espongono un grande foglio piegato in otto di Turner in cui il grande pittore inglese aveva segnato una specie di memorandum con i nomi e le linee essenziali dei luoghi che si dovevano visitare: il Ponte Romano di Narni, il Colosseo visto dalla parte del Colle Oppio, la Cascata delle Marmore. I pittori di paesaggi che lavoravano on the road, o all aria aperta, si portavano dietro una agenda, un libro o un qualsiasi scartafaccio che riempivano di dettagli, di cose e di animali. Questo termine all aria aperta, che nessuno usa più, va interpretato. Nessun artista si sognava mai di passare tutta la sua giornata marciando per le campagne o scalando monti o piantando il cavalletto nelle spiagge. Due o tre ore bastavano per cogliere quella che si chiamava la freschezza delle impressioni e poi anche i più irrequieti e vagabondi si andavano a rifugiare nei loro studi dove l opera veniva realizzata. L arte ha bisogno di calma, di tranquillità, di un luogo dove potersi isolare e lavorare senza essere accecati dal sole d estate, infastiditi dagli insetti o attorniati dai curiosi che si mettono dietro le spalle a commentare. Le maggiori difficoltà di un lavoro all aperto sono tecniche e riguardano la luce, che nei paesi del sud dell Italia è così potente da schiacciare i rilievi, mentre le parti non illuminate scompaiono come inghiottite da un buco nero. Quando viveva a Roma e dipingeva il Colosseo, non riuscendo a seguire le tonalità che cambiavano in continuazione, il grande Corot usciva ed entrava dal suo studio tre volte al giorno per controllare quale tonalità applicare al quadro. I taccuini di viaggio di Eugene Delacroix dal Marocco inventarono due secoli fa un nuovo mondo Questo monopolio delle immagini che l Italia deteneva da tre secoli venne infranto nella prima metà del XIX secolo da una serie folgorante di taccuini di viaggio, finora ineguagliata, che inventavano un nuovo mondo: l Oriente. L autore dei taccuini, Eugene Delacroix, un giovanotto aitante che il grande Baudelaire aveva definito «il più interessante pittore tra i moderni e anche tra gli antichi». Era partito per il Marocco nel 1832, quasi per caso, in sostituzione di un altro pittore, insieme con una delegazione guidata dal conte di Mornay inviata da Luigi Filippo al sultano. E rimase quasi subito folgorato dalla carica di sensualità e di esotismo che quel paese irradiava, come in grandi onde. Un paese dove tutto tendeva all eccesso, i colori, i profumi, la luce. Il viaggio si svolse in uno stato di esaltazione artistica paragonabile a poche altre esperienze, che Delacroix riversò in una serie impressionante di disegni e di acquerelli di palazzi, soldati, carovane, cavalli, ritratti interni di harem, maioliche. Scrisse Beaudelaire in uno dei suoi celebri salon: «Delacroix vi penetra di una voluttà soprannaturale come se una atmosfera magica li circondasse». L orientalismo finì nella mani dei pompier che trasformarono le figure romantiche di Delacroix, così frementi e vibranti, in stucchevoli statue di carne

13 DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 LA LOCANDINA La locandina della Biennale du Carnet de voyage di Clermont-Ferrand con un disegno di Christophe Merlin I carnet tra mostre e pubblicità Il gran ritorno dell arte nomade Repubblica Nazionale 41 13/11/2005 un tanto al chilo dopo averle denudate: schiave, ancelle, portatrici d acqua, serventi, donne europee rapite, molte cleopatre con il seno morso dall aspide, principesse che aspettano discinte il tosto nubiano dalle fattezze poderose. E le camere orientali con più orpelli diventarono dei prototipi per le stanze di lusso nei postriboli. Poi, come abbiamo detto, tutto venne inghiottito dal maelstrom dell avanguardia artistica che risputò in superficie solo frammenti e detriti. In Italia fino a qualche settimana fa l unica casa editrice che pubblicava cahier de voyages era Nouages, a Milano, diretta dall eroica Cristina Taverna. Adesso qualcosa sta cambiando anche nell atteggiamento degli editori, in genere molto simili da noi ai produttori cinematografici: pronti a buttarsi dietro la scia del primo successo ma di solito incapaci di rischiare per conquistarne uno loro. Nei giorni scorsi sono usciti due volumi, editi dalla EDT di Torino, specializzata in viaggi: Cina e Mali, tutt e due di Stefano Favarelli, un tornese orientalista e peintre savant dal tratto minuzioso e chiaro, senza particolari slanci, ma estremamente meticoloso, pulito, anche ingenuo nello sforzo di trasmettere il suo amore per i viaggi. Si tratta tuttavia, di lavori che degli antichi cahier portano il nome, ma risultano molto differenti per essere diventati non un mezzo ma un fine. Dov è andata a finire tutta la ricerca frammentata e faticosa, fatta di domande, di perplessità, di ricerca, senza troppe preoccupazioni per il modello finito e lisciato. L uso di tecniche diverse non è mai dipeso dalla volontà dell autore di alternare in funzione dell eleganza i suoi mezzi espressivi e ogni cosa, una volta, aveva l impronta dell autenticità, del vero e della scoperta. Mentre nei nuovi libri è chiara l intenzione didascalica e tutto l insieme ha un aspetto di trompe l oeil d antan, e a volte di lezioso. Sono tutti argomenti, si suppone, che verranno dibattuti alla sesta edizione della Biennale de Carnet de Voyage, che inizierà il 18 novembre a Clermont Ferrand, Francia. In particolare sarebbe importante cominciare a fare una distinzione tra artisti e meri illustratori, che si servono anche di fotografie per raggiungere quella rifinitura nel disegno che altrimenti non riuscirebbero a dare. Veri artisti come Piero Guccione e David Hockney hanno dimostrato che il paesaggio non era un genere limitato storicamente, defunto per aver esaurito tutte le sue possibilità, ma un tema sempre rinascente. Come sottogenere dipendente dal paesaggio se mai valgono queste distinzioni i carnet de voyages hanno bisogno, per resuscitare veramente, di autentici artisti capaci di trasformare il carnet in qualcosa di completamente nuovo. LE FIRME Yann Le Béchec firma la ragazza di spalle (sopra) e i tre volti di giovani a centro pagina. Sono tratti dai libri di Stefano Faravella i ricordi di viaggio sopra a sinistra. Géraldine Garçon è l autore dell acquerello del mercato GLI ARTISTI Un acquerello di Vincent Besançon Sopra a sinistra, ritratti dell artista Antonia Neyrins dedicati alla gente di Cuba. Nella pagina accanto: disegno di Bertrand de Miollis sulla Siberia. Suo anche l uomo con turbante in alto AMBRA SOMASCHINI R estano impressi su pacchetti di sigarette, biglietti del metrò, brandelli di taccuini, album, fogli volanti. Sono disegni, acquarelli, forme colorate di scrittura. È l arte nomade dei carnets de voyage, degli scrapbooks, dei journales intimes. Gli psicoterapeuti li prescrivono come supporto all introspezione. La boutique parigina Colette li ha scelti per presentare l ultima collezione invernale. I carnettisti girano il mondo, lo fermano in una nota, trasformano la grafomania in gusto del dettaglio, usano colla e forbici per declinare cartoline e souvenir in collage che ritraggono lo stupore dei luoghi. Nell epoca del blog torna così la voglia di scrivere a mano, torna la voglia di riappropriarsi di sogni e ricordi. Torna in Francia, a Clermont-Ferrand dal 18 al 20 novembre, alla Biennale du Carnet de voyage che presenta globe trotter celebri e giovani emergenti legati dal segno persistente di una matita, dal tratto di un pastello a cera. Torna in Italia, a Torino, dove l editrice Edt pubblica a giorni Malie Cinadi Stefano Faravelli che inaugurerà la prima biennale italiana sui diari di viaggio a fine Ieri a prendere nota sui viaggi erano Hugo, Turner, Monod, Corot, Goethe, Gauguin, Ruskin. Oggi sono Peter Beard, ex fotografo dei Rolling Stones e di Andy Wharol, diarista iniziato ai misteri dell Africa da Karen Blixen; Titouan Lamazou, il Chatwin francese che scrive e disegna per Gallimard; Lorenzo Mattotti, pubblicitario, fumettista, pittore; Yvon Le Corre, navigatore in solitario a vela; Benjamin Flao che si inoltra nell Eritrea proibita. Ma perché tanti appunti? «Realizzando il proprio journal intime ci si lancia alla ricerca del tempo perduto» suggerisce lo storico Michel Winock. Un tempo veloce che la biennale dedica alla Cina «paese di straordinaria energia in mutazione costante». Un tempo lento con cui Jacques Ferrandez omaggia Istanbul, Siria, Libano, Iraq, Bosnia-Erzegovina con Le tramways de Sarajevo. Anche la pubblicità viene sedotta dai quaderni: illustratori, grafici, grafomani mediatici, maniaci del carnet disegnano per il Club Communication che tiene insieme Lorenzo Mattotti e Alain Buldroye. Ma i veri protagonisti del messaggio sono i giovani che nel Programme sur mesure pour le jeunes si trasformano in carnettisti-reporter simultanei in sala. Scriveva Groucho Marx: «Si dice che ogni uomo porti in sé un libro, un luogo comune vero. Perché la tentazione di raccontarsi è irresistibile».

14 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 la lettura Oltre il rugby I giocatori schierati davanti agli avversari-nemici come prima di un combattimento, l aggressività, i gesti potenti, le mani e i pugni che picchiano sul petto e sulle cosce, i piedi che battono l erba e poi gli occhi dilatati: è l haka, la coreografia tradizionale maori, che dà il via agli incontri degli All Blacks neozelandesi. E che in questi giorni compie cent anni La danza dei guerrieri in nero L'INIZIO: gambe larghe, occhi dilatati, si comincia pestando il terreno IL CORPO: prima le braccia in avanti, poi si battono ritmicamente le cosce e gli avambracci Repubblica Nazionale 42 13/11/2005 CORRADO SANNUCCI Quella che sbarcò a Plymouth, l 8 settembre 1905, non era una squadra sconosciuta ma una nazione sconosciuta. Sarebbero stati loro, i giocatori di rugby della Nuova Zelanda, per la prima volta nella storia in tournée in Europa e quindi detti gli Originals, a rivelare che, nell altra parte del mondo, in una lontananza oggi neanche immaginabile, esisteva un popolo straordinario, anzi due popoli insieme: quello del rugby e quello che danzava la haka, i discendenti dei galeotti e degli emigranti e i maori, uniti per giocare come non si era mai visto fare. Gli inglesi, che non erano riusciti a vincere la guerra boera, ebbero lo shock di apprendere che laggiù c erano uomini più forti, più veloci, più abili, che in tre mesi passarono sul Regno Unito come un orda di bellezza che non sarebbe mai più stata dimenticata, trentatré partite e una sola sconfitta, 864 punti segnati e solo 47 subiti. Non si sa quando l haka sia stata interpretata per la prima volta, un resoconto accurato appare in occasione dell incontro con il Galles il 16 dicembre, l ultimo dei test match contro le home nations, le nazioni madri del rugby (in precedenza la Nuova Zelanda aveva già stroncato Scozia, Irlanda e Inghilterra). Il resoconto è del Lyttelton Times. «Il canto di guerra fu ascoltato in silenzio dalla folla, che gradì. Ma il suo effetto drammatico fu sorpassato poi dal coro della squadra del Galles e del pubblico che cantava Land of my Fathers». Quel pomeriggio, così come erano stati battuti nel canto, furono battuti sul campo: uno 0-3 del quale ancora si discute per una meta negata a Deans, giocatore neozelandese, che posò a terra l ovale prima della linea, dissero l arbitro e i giocatori gallesi, dopo la linea, sostengono ancora i neozelandesi. Il South Wales Echo descrive anche i gesti dell haka e dà brevi cenni del testo, e così oggi sappiamo che era già l haka che si canta adesso, quella che comincia con le parole «ka mate, ka mate», che anche nella traduzione sono vagamente incomprensibili. Quella inventata da re Te Rauparaha nell Ottocento, dal momento che chiunque poteva, e può, inventarsi la sua haka; e il testo enigmatico («é la vita, é la morte, é l uomo con i capelli, che fa apparire il sole e sale in alto») si riferirebbe a un episodio della vita di Te Rauparaha, quando, ricercato dagli inglesi intorno al 1820, avrebbe trovato rifugio in un magazzino e un apertura in alto gli avrebbe consentito la fuga. Mentre la Nuova Zelanda segnava centinaia di punti partita dopo partita (in 23 match lasciò gli avversari a 0) nasceva anche un altro mito, che si sarebbe intrecciato per sempre a quello dell haka: quello degli All Blacks. Fu allora, cento anni fa, che nacque questo marchio, che la televisione ha reso così scintillante negli ultimi anni. E da allora, All Blacks è sinonimo di gioco spettacolare, di invincibilità, di potenza abbinata a talento. Un mito che nulla scalfisce, nemmeno il fatto che la Nuova Zelanda abbia vinto il primo mondiale nell 87, a casa sua, e abbia poi sempre fallito nei mondiali seguenti. Sull origine del nome All Blacks c è una leggenda molto raccontata. E cioè che, stupito per il gioco brillante dei neozelandesi, sul Daily Mail un cronista avrebbe parlato di loro come di All Backs, cioè tutti attaccanti (che nel rugby stanno dietro, i backs), ma che un tipografo maldestro avrebbe cambiato il Backs in Blacks. Gli storici inglesi, pignoli, sono andati a rileggersi il Daily Mail e mai, nei resoconti della partita, specialmente in quel 63-0 contro l Hartlepool che ha dato origine a tutta questa diatriba, si parla mai di all backs ma sempre di All Blacks, come si conviene a una squadra che veste tutta di nero, salvo la felce sul petto e le stringhe delle scarpe. Guidava la haka degli Originals David Adesso, dopo un periodo di crisi, è tornata al massimo della sua fama, anche grazie agli sponsor che la usano come marchio LE FIGURE VINCENTI A sinistra e sopra, guerrieri Maori In alto, McDowell guida la Haka prima di una partita della Nuova Zelanda A destra: giocatori impegnati in alcune figure della danza

15 DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 CAPITAN COOK E GLI ORRIDI CONTORCIMENTI In Storia dei viaggi intrapresi per ordine di SM britannica dal capitano Giacomo Cook (Napoli, 1784) James Cook descrive così il suo primo incontro con la haka: «La danza viene composta di un gran numero di moti violenti e di orridi contorcimenti di membra, nei quali la faccia ha sempre la parte maggiore. Fanno uscir sovente dalla loro bocca una lingua di una lunghezza incredibile, ed alzano le palpebre con tanta forza che si scorge dall'alto al basso tutto il bianco dell'occhio, formando un vero cerchio intorno all'iride... Quest'orrido ballo è accompagnato da una canzone che, benché selvaggia, non è affatto spiacevole». LA CANZONE Ka mate! Ka mate! Ka ora! Ka ora!/ka mate! Ka mate! Ka ora! Ka ora!/ Tenei te tangata puhuru huru/ Nana nei i tiki mai/ Whakawhiti te ra/ A upa... ne! ka upa... ne!/ A upane kaupane whiti te ra! (Traduzione) Io muoio! Io muoio! Io vivo! Io vivo!/ Io muoio! Io muoio! Io vivo! Io vivo!/ Questo è l'uomo dei lunghi capelli/ che è andato a prendere il sole/ e lo ha fatto splendere ancora/ Un passo in alto! Un altro passo in alto!/ Un passo in alto! Un altro passo... il sole splende! L ASSALTO: l'urlo finale e il salto con le braccia verso il cielo Gallaher, il capitano che non aveva sangue maori perché in quella squadra i maori ancora non c erano. Gallaher aveva trent anni e due imponenti baffi neri, ed era inequivocabilmente bianco. Più tardi sarebbe stata introdotta la regola che a dirigere l haka dovesse essere un giocatore con sangue maori, come accadde con Wayne Shelford che negli Ottanta guidò la rinascita dell haka dopo anni di stanca e che è stato considerato il più grande leader di haka della storia degli All Blacks. «Credeva in ogni gesto che eseguiva e in ogni parola che pronunciava», avrebbe detto Zinzan Brooke, un altro dei grandi all black maori. Gallaher aveva già quarant anni quando cominciò la Prima guerra mondiale. Poteva restarsene a casa, ma quando gli morì un fratello minore decise di partire volontario. Il primo leader dell haka, il bianco che aiutò a diffondere un simbolo maori, cadde il 4 ottobre del 17 a Passchendaele, in Belgio. Ma l haka che conosciamo oggi non è amata in quanto strumento di improvvisazione poetica popolare. Affascina per l aggressività, la potenza dei gesti, il battersi il petto e le cosce, il pestare il terreno a gambe larghe, e poi la pukana, ovvero gli occhi dilatati, e il whetero, la lingua mostrata. È un haka traviata da chi la guarda, viene chiamata danza di guerra ma in realtà il suo nome significa semplicemente danza e nella cultura maori il suo uso è destinato a diverse occasioni sociali, in molti casi di benvenuto. L haka ha avuto momenti di fulgore e di decadenza, ma negli anni Venti divenne un marchio delle nazionali neozelandesi (oggi la eseguono anche altri team, quelli di netball e pallanuoto). Il pubblico si diverte ma gli avversari in campo sono chiamati a reagire, per non lasciarsi sopraffare psicologicamente. Alcuni ridono, altri scherzano, tutti cercano di mostrare indifferenza. Nella finale per il terzo posto dei mondiali 91, i giocatori scozzesi si piazzarono sulla linea di metà campo, a pochi centimetri dagli All Blacks (l haka va eseguita a ridosso della linea di mezzo): così il gigantesco Weir, seconda linea scozzese, si trovò a guardare dall alto in basso Tuigamala, ala all black. Alla vigilia di un match con l Australia, Campese, allora capitano dei wallabies, chiese che fosse proibita, in pratica ammettendo la sua contundente forza psicologica. Altre volte a combatterla è la stupidità: al Flaminio, nel novembre 04, una sconsiderata banda uscendo dal campo continuò imperterrita a suonare coprendo l haka e rovinando l unico momento eccitante del pomeriggio (finì per gli All Blacks). Il sogno che fosse l haka a far vincere gli All Blacks ha illuso anche gli avversari che hanno tentato di copiarla. Hanno un haka i Samoani («ma ulu ulu moa»), le Isole Figi («cibi»), Tonga («kailao»), ci provarono gli australiani negli anni Venti, mentre gli Sprongboks, i sudafricani, tentarono di adottare una danza zulu che fu abbandonata nel 28. Al di là del fatto che la danza zulu non abbia avuto successo (pare abbia fatto una pessima figura opposta all haka, in un Sudafrica- Nuova Zelanda di quegli anni), l episodio descrive bene comunque quello che sarebbe stato il cammino futuro dei due popoli australi: l uno diretto verso l apartheid, l altro verso l integrazione, per quanto difficile e problematica. Gli ultimi anni dell haka sono stati trionfali, accompagnando l affermazione del rugby come sport televisivo planetario. L Adidas ne ha fatto uno dei momenti più espressivi della sua comunicazione. All inizio, vent anni fa, gli europei ammiravano il folklore, dopo sono stati attratti dall insieme di violenza, arte, orgoglio, identità che l haka esprime. E alla fine forse sono stati gli stessi europei a traviare il senso di questa danza, inquinando i comportamenti maori. Il 27 agosto, prima del match contro il Sudafrica, è stata presentata una nuova haka, scritta da Derek Lardelli (di origine italiana), nella quale si esalta l aggressività e che finisce con un gesto del pollice che passa a traverso sulla laringe. Ora sì l haka è diventata una danza di guerra, chissà se gli Originals e Gallaher sarebbero d accordo. ILLUSTRAZIONE MIRCO TANGHERLINI FOTO GETTY/RONCHI La funzione della violenza ritualizzata Una maschera da killer per spaventare i rivali MARINO NIOLA «F anno uscir sovente dalla loro bocca una lingua di una lunghezza incredibile, ed alzano le palpebre con tanta forza che si scorge dall alto al basso tutto il bianco dell occhio». Sono parole del capitano Cook, il grande esploratore dei Mari del Sud, scritte il 9 ottobre del L Endevour ha appena gettato l ancora nelle acque della Poverty Bay, in Nuova Zelanda, e i bianchi si trovano per la prima volta faccia a faccia con i Maori. I mitici guerrieri polinesiani accolgono gli inglesi con una impressionante danza di guerra. Mani battute con furore sulle cosce, occhi minacciosamente esorbitati, lingue mostrate in segno di disprezzo. Ogni gesto accompagnato da un canto selvaggio e concluso da un grido cavernoso, un haahh prolungato e profondo. Così l Occidente scopriva l haka, l aggressiva performance rituale che gli All Blacks avrebbero reso celebre in tutto il mondo agli inizi del Novecento. In realtà questa straordinaria ostentazione di forza distruttiva è uno dei tradizionali biglietti da visita dei Maori, un modo di rappresentare a se stessi e agli altri il loro indomabile spirito guerriero. La funzione di questa maschia messa in scena era quella di creare coesione fra gli uomini del gruppo e al tempo stesso quella di far paura agli altri. Essa costituiva dunque il capitolo introduttivo di quell arte della guerra che era l essenza stessa della cultura indigena neozelandese. A dire il vero, questa danza non era necessariamente un segnale di battaglia. I Maori distinguevano infatti due tipi di haka: la Ka Mate, che consisteva in una esibizione di forza e di aggressività, aveva la mera funzione di mostrare erga omnes il proprio potenziale di morte a scopi dissuasivi. Proprio come avviene per le parate militari delle superpotenze. La vera haka di guerra era invece la cosiddetta peru-peru, caratterizzata dall uso delle armi, che si concludeva con un teatralissimo salto a gambe ripiegate. Questo balzo, carico di simbolismo animale, è stato incorporato nella Ka Mate dagli All Blacks, che hanno così mescolato gli elementi tradizionali delle due haka per drammatizzare la carica aggressiva della loro esibizione. Questa messa in scena della forza è un tipico esempio di quello che gli studiosi del comportamento animale come Julian Huxley e Konrad Lorenz hanno definito ritualizzazione dell aggressività. Come dire che mostrare i muscoli serve spesso ad evitare guai peggiori. Lorenz diceva in proposito che la ritualizzazione è uno degli espedienti più geniali che l evoluzione abbia inventato per deviare il conflitto su binari innocui. Enfatizzare i gesti di minaccia serve proprio a trasformarli in segnali, in azioni espressive dalla carica simbolica inequivocabile. In questo senso battersi il petto e pestare i piedi come fanno i primati in preda all ira, digrignare i denti come i lupi, fare linguacce come le scimmie, mostrare i genitali, sono tutti gesti che hanno molto in comune con i movimenti dell haka e di altre esibizioni intimidatorie, come quelle dei reggimenti scozzesi che sollevavano provocatoriamente il kilt in faccia al nemico. Il corpo diventa un alfabeto che trasforma occhi, denti, lingua, petto, gambe, piedi in messaggi preventivi da lanciare al nemico per spaventarlo e ridurlo a miti consigli. Così i movimenti diventano avvertimenti, e per accrescerne la forza comunicativa e il potere deterrente, animali e umani li esagerano mimicamente, li trasformano cioè in espressioni codificate e, in quanto tali, immediatamente riconoscibili. Ecco il perché degli occhi sbarrati dei Maori, del loro battersi il petto, dei loro salti iperbolici a metà tra quelli dei Wa- Tutsi e quelli dei Cosacchi. In tutti questi casi il corpo cambia significato, e da arma potenziale diventa parola muta. La ritualizzazione dell aggressività trasforma, dunque, la guerra in agonismo, ovvero in gioco, sostituendo la battaglia mortale con una semplice competizione, come avveniva un tempo con le gare olimpiche e con i tornei cavallereschi. E come avviene ora nello sport che rappresenta un esempio perfetto di questa sublimazione ludica del conflitto. Lo sapevano bene gli amministratori coloniali inglesi che, per porre fine alle continue guerre tribali che insanguinavano la Nuova Guinea, importarono in quei territori giochi come il cricket e il calcio che offrirono alle popolazioni papua un nuovo, più incruento campo di battaglia dove continuare ad affrontarsi. Il minaccioso ritornello degli atleti neozelandesi che paragonano la loro ferocia terrificante alle forze elementari del tuono e della folgore serve in realtà ad ammansire queste nere potenze, a far trionfare la cultura sulla natura, trascendendola in rito. «Team in Black. Haahh». È così che il nemico da uccidere diventa avversario da sconfiggere. E l homo necans diventa homo ludens. Haahh Stylos Pasha de Cartier

16 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 Incapace di accettare la vecchiaia e la decadenza del corpo, la Dietrich trascorse gli ultimi anni della sua vita in totale isolamento, spesso sotto l effetto dell alcol e delle droghe. Dormire diventò sempre più difficile. E fu proprio nelle ore di buio che l Angelo azzurro cominciò ad annotare i ricordi di uomini e donne conosciuti nel periodo d oro. Ritratti e giudizi che un libro in uscita porta alla luce per la prima volta Repubblica Nazionale 44 13/11/2005 NATALIA ASPESI Un giorno, un giorno qualsiasi, decise di uscire finalmente da se stessa, come dopo ogni spettacolo di cabaret usciva dal suo costume di scena: una specie di punitiva corazza di gomma, velo e lustrini che modellava un corpo finto di statua, perfetto, inventato, non più suo. Era il 1978, aveva 77 anni, un peso insopportabile per continuare a fingere, come voleva il mondo che ne pretendeva l immortalità, un fascino, una bellezza, una sensualità eterni. Quell anno, nella sua casa parigina, smise di essere Marlene Dietrich: si regalò il piacere di non combattere più, di non sottoporre più la sua stanchezza e la sua decadenza fisica a una disciplina quotidiana inumana e sempre più inutile. Si lasciò andare, finalmente, agli anni. Ma poiché il suo mito non doveva essere intaccato, quel mito a cui aveva dedicato tutta la vita, divenne totalmente invisibile. Molti anni prima lo aveva tentato un altra leggendaria signora, la di lei più giovane Greta Garbo: ma pur ritirandosi da Hollywood e dalla celebrità e pur nascondendosi, la diva svedese continuava ad essere braccata, sadicamente, da chi voleva rubare una sua immagine degradata e avvilita. A lei, Marlene, non sarebbe successo: divenne una totale reclusa, difendendo sfrenatamente il suo diritto al dolore della vecchiaia con lo stesso accanimento con cui aveva prolungato sino all impossibile il culto del suo incanto sul mondo intero. A poco a poco rifiutò di vedere persino i suoi amati nipoti, e per sua sola volontà, incattivita, non si alzò più dal letto, si adagiò tra lenzuola sporche, rifiutando di lavarsi, in preda all alcol e alle droghe. Per 14 interminabili anni, sino alla morte, avvenuta nel maggio del 1992, visse così, in totale solitudine, finalmente libera dal terribile confronto con quello che lei era stata, libera dagli sguardi di pietà o delusione o disgusto degli altri, libera di ripensare a quella sua vita unica, meravigliosa, inimitabile, a tutti quegli uomini, tanti quanto poche altre donne hanno mai osato o potuto avere, uomini entrati col loro fascino universale nei sogni d amore di quegli anni, e che avevano amato soprattutto lei: l Angelo azzurro con cilindro e giarrettiere, la ragazza tedesca che per ogni amore cucinava una ricetta diversa, che per sentimentalismo e imperio accumulava contemporaneamente amanti ambosessi cui si dava senza piacere, per generosità intermittente e sfrontato narcisismo. E per esempio, racconta nel suo libro spietato (edito da Frassinelli nel 93) la figlia Maria Riva, a Parigi, verso la fine degli anni Quaranta, quando la divina Marlene si avviava ai cinquant anni, la sua ingorda situazione sentimentale era questa: in auge l attore Michael Wilding, poi marito di Elizabeth Taylor, ostentava la sua devozione a un cavaliere di cui non si fa il nome, aveva una relazione con un attrice americana, continuava a struggersi per Jean Gabin, riceveva un suo giocatore di baseball, si innamorava dello scrittore Eric Maria Remarque, ostentava capricci per un generale e per Edith Piaf, si infatuava di una splendida bionda tedesca che le rimase poi amica. Nella vita la diva finiva con l essere funesta come nella maggior parte dei suoi film, dove quale spia, zingara, assassina, avventuriera, imperatrice, cortigiana, contessa zarista, adultera, cantante di taverna, cabaret, rivista, musical, straziava cuori innocenti e non: degli uomini, per il suo battere di ciglia finte sopra i grandi occhi chiari e per le sue famose gambe che appena sbucavano da lunghi abiti con lo strascico; delle donne, per gli stessi abiti di velo, sontuosi di strascico e piume anche nel deserto del Marocco, e per i suoi completi pantaloni bianchi o smoking neri, allora un assoluto azzardo peccaminoso. Secondo la figlia che mai la perdonò del suo amore possessivo e distratto, di non averla mai mandata a scuola per tenerla sempre vicino come cameriera bambina, di aver fatto finta di non sapere che a 15 anni la ragazzina era già alcolizzata e aveva subito violenza sessuale da un orribile governante, la venerazione degli uomini e del mondo per Marlene Dietrich, donna e diva, era, è, assolutamente immeritata. Oggi i suoi film comunicano ancora l incanto lucente e il commovente mistero del bianco e nero: ma quel viso scavato e immobile, quelle sopracciglia rasate, quella voce roca, quei gesti fatali e incongrui, quei ruoli assurdi in film ormai del tutto pazzi, quel divismo irreale protratto all estremo di quegli anni di grande cinema adesso impallidito dal tempo non toccano più il cuore delle emozioni. Per essere eterna Dietrich si è sepolta viva, ma il tempo non perdona e l eternità alla fine le sta sfuggendo, e non si sa per quanto avrà ancora diritto a temporanee resurrezioni. Le notti di Marlene I pensieri di una diva insonne

17 DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 Repubblica Nazionale 45 13/11/2005 IL VOLUME I testi qui sotto sono tratti dal libro Pensieri notturni, di Marlene Dietrich, in libreria dal 29 novembre. Titolo originale Nachtgedanken, traduzione di Robin Benatti, grafica di Sabine Hüttenkofer, Copyright 2005 Marlene, Inc., Copyright del layout C. Bertelsmann Verlag, Monaco Copyright 2005 Edizioni Frassinelli. Nella foto grande, Marlene Dietrich in un immagine di Milton Green tratta dal libro I grandi fotografi Life edito da Contrasto FOTO DI MILTON GREEN FOTO EUGENE ROBERT RICHEE/ FILMMUSEUM BERLIN Mae West Una regina dispotica e placida. Soprattutto era stimolante. Le piacevo e mi faceva coraggio nei momenti difficili, quando dopo che mi avevano rimandato in camerino piangevo come una bambina che avesse ricevuto una punizione. Un matador al femminile Orson Welles La sua delusione per le reazioni del mondo fu inevitabile. Una mente brillante. Accettava placidamente la mia ammirazione e la mia venerazione. Mi trattava con gentilezza. Mi piacerebbe sapere dove si trova adesso Richard Burton Grande attore, grande gentiluomo. Non ha mai avuto cali, quelli che nel teatro e nel cinema sono in agguato ovunque. Se non fosse stato già impegnato, mi sarei innamorata di lui. Però così ho ceduto soltanto al suo carisma e sono diventata l amica del bisogno. Si confidava con me Josef von Sternberg L uomo al quale, più che a tutti gli altri, desideravo piacere. Si, ho pianto molto. Era il mio padrone, il mio domatore! Mi portava al guinzaglio come un cane. Era lui a lasciar cadere il guinzaglio, non io. Restavo là - cercando con gli occhi un altro padrone - fino a quando non avevo fame Fritz Lang Nell elenco dei registi cinematografici per i quali ho lavorato occupa un posto speciale e incomparabile. Lo odiavo! Provava un ingordo piacere nel mortificare le donne, rasentando quasi la violenza. Sia ringraziato il cielo, è durata poco Jean Gabin Non saprei dire cos è che faceva piroettare come farfalle ubriache le donne che lui desiderava. L aspetto? Gli occhi? La voce? Quello che chiamano il suo fluido? Il suo potere non proveniva soltanto dal magnetismo sessuale, attirava l amore dal cuore, come una calamita attira ogni metallo FOTO TEDDY PIAZ/ FILMMUSEUM BERLIN La figlia: non li avrebbe mai pubblicati Quegli appunti intimi nascosti in un cassetto «M i FOTO BLAKEMAN & SHUTER/ FILMMUSEUM BERLIN ALESSANDRA ROTA fai dormire per favore? Conduco la più misera delle vite senza di te. Così per favore fammi almeno dormire». Nelle lunghe notti insonni, con la mente lucidissima, nonostante tranquillanti e sonniferi, Marlene Dietrich scriveva. Appunti verticali su un block notes: poesie, giudizi, riflessioni, tutti inediti, adesso sono raccolti in un volume intitolato Pensieri notturni (Frassinelli, pagg. 184, euro 20, in libreria dal 28 novembre, traduzione di Robin Benatti, foto dell archivio privato Marlene Dietrich Collection Berlin). A curarlo è stata la figlia, Maria Riva, ormai ottantenne, esegeta e biografa della celebre madre: a lei è dedicato l ultimo capitolo del libro, quattro struggenti poesie intrise d amore, rabbia, solitudine, paura, orgoglio («Maria/ Ho desiderato/ Di essere Heine/ Per/ Dirti/ Che sei/ Una/ Che mi/ Sta/ A cuore»). Un diario popolato di personaggi celebri, divisi idealmente in due sezioni: le donne (da Edith Piaf a Lena Horne, da Peggy Lee a Jean Harlow), agli uomini (il doppio rispetto alle signore citate) amati, sedotti, respinti, ammirati, odiati (da Jean Cocteau a Yul Brynner, da Hitler a Ronald Reagan). «Imprecava di notte, accendeva la lampada d alabastro di fianco al letto (un tempo orgoglio di mio padre), afferrava la penna e la carta da lettere dal blocco già pronto al suo fianco oppure la macchina da scrivere portatile di Noel Coward un antiquata Hermes», racconta Maria Riva nella prefazione, «e così equipaggiata, sapendo che il sonno era senza speranza, permetteva ai pensieri di vagare. Sarebbe contenta che quei momenti così privati e insonni si trovino ora su queste pagine? Ne dubito». Calligrafie svolazzanti (Maurice Chevalier) o minute (Remarque) siglano cartoncini e dediche per la divina che ha un pensierino per tutti: «È l uomo che ho adorato» dice di Michail Baryshnikov, «Il poeta che ha cambiato tutta la mia vita cuore, anima, mente, sangue, carne e diavolo», è il commento su Rainer Maria Rilke. Di Charles de Gaulle dice: «È il simbolo del coraggio. Per me, un santo». La voce narrante della Dietrich è meno roca e aspra di quella rimandata da rotocalchi e interviste; la donna ormai anziana, incurante del personaggio ambiguo, affascinante e crudele che si era costruita («Se non avesse altro che la sua voce potrebbe spezzarvi il cuore con essa. Ma ha anche quel corpo meraviglioso e l eterna amabilità del suo volto. Non fa differenza come vi spezza il cuore se è presente per risanarlo», rispose una volta Hemingway a chi gli chiedeva di Marlene) è letteraria e crepuscolare: «Non/ Giocare/ Con me./ Perché non/ Sei/ Onesto con me/ E non mi racconti/ Quello che hai/ In mente?» scrive nel suo taccuino a proposito di Maximilian Schell e di Katharine Hepburn sottolinea la «rara combinazione di bellezza, sorprendente personalità e intelligenza: una miscela unica nelle donne che decidono di diventare attrici cinematografiche». Non ci sono italiani nei Pensieri, nemmeno Raf Vallone che la diva amò quando lui aveva 39 anni e lei già 58: «Ti penso senza sosta. Ho dimenticato il mio senso pratico per una meravigliosa ragione», si legge in una lettera che gli indirizzò. Era il Nel frattempo però lui si era innamorato di un altra.

18 Repubblica Nazionale 46 13/11/2005

19 DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 spettacoli Note rivoluzionarie La musica copiata dai Beatles e dai Rolling Stones, ma soprattutto un idea di vita e di società che anticipa le lotte politiche che verranno. Sono le canzoni che cambieranno il mondo, i gruppi e le mode che segnano in maniera indelebile i mitici Sessanta E che adesso vengono raccontate in un nuovo libro LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 Repubblica Nazionale 47 13/11/2005 EDMONDO BERSELLI Quelli che sono stati i bambini degli anni Cinquanta, cresciuti tecnicamente giocando a calcio sulle strade bianche, non appena si inoltrano nel decennio successivo sentono risuonare nel mondo Please Please Me dei Beatles, «le canzoni che stanno cambiando il mondo» secondo Tv Illustrazione Sorrisi e Canzoni, e pensano fra sé: ragazzi, è arrivata la rivoluzione. Nell aria spira una brezzolina leggera, un eccitazione superficiale ma entusiasmante: qualcuno dei più adulti è già andato a Londra, sa che cosa sono le cavern dove si esibiscono i complessi, ha sentito il riff di chitarra distorta con cui Keith Richards ha messo un logo indelebile sulla musica del prossimo mezzo secolo. E allora qualcuno dei più svegli e mimetici comincia a farsi crescere i capelli, con prudenza per evitare shock famigliari, prima un centimetro, poi un altro. Gli oggetti dell epoca? Flipper, juke-box, blue jeans; poi le giacchettine, i berrettini e gli stivaletti del Quartetto di Liverpool. E all improvviso ci si ritrova nella sfolgorante epoca del beat: mentre il centrosinistra storico più o meno fallisce, e la politica è ancora lontana, qualcuno prova a dare una virata alla vita, alla cultura, alla musica, ascoltando di notte Radio Luxembourg. Tre chitarre e una batteria Le parole giovani sono: sound, nel senso di tre chitarre e una batteria; square, nel senso di conformista: ma l atteggiamento principale è l imitazione. Per la prima volta entrano nella scena italiana modelli che non sono né il melodico antico Claudio Villa, e neanche i melodici moderni Gianni Morandi e Rita Pavone, e meno che mai l urlatore Adriano Celentano. Capelli lunghi, i disegni opticaldi Courrèges, le minigonne geniali di Mary Quant. E naturalmente le chitarre dell Équipe 84, dei Rokes, dei Nomadi, dei Dik Dik, dei Camaleonti. Perché come in tutte le emergenze storiche l Italia dà il meglio di sé nella capacità di imitare, tradurre, copiare. Il paradigma è: «E allora lo faccio anch io», che si tratti degli accordi duri di Satisfaction o dei rocchettini e delle melodie dei Beatles. Chi vuole un catalogo dell Era Beat può ricorrere utilmente a un libro recentissimo (Tiziano Tarli, Beat italiano. Dai capelloni a Bandiera gialla, Castelvecchi, pagg. 224, 14 euro). Già la parola capelloni è un etichetta distintiva su un immagine esteriore. La contestazione generale deve ancora arrivare, il Sessantotto pure, ma l idea modesta quanto spettacolare di farsi crescere i capelli rappresenta, se non una ribellione, una rottura di fase. Tutta sperimentale, impolitica, a tentoni. Eppure già in grado di spaventare la borghesia italiana, e soprattutto il Corriere della Sera, che sarà «il baluardo instancabile della campagna contro i beat», e che il 4 novembre 1965, dopo che un gruppo di militari ha aggredito i capelloni in Piazza di Spagna e alcuni Quando scoprimmo di avere un cuore beat IL FESTIVAL Il festival di Re nudo organizzato nel 1976 al Parco Lambro di Milano. In alto a destra, una foto dell Equipe 84. Sotto, i dischi di quegli anni I capelloni sono il simbolo della rivolta e suscitano allarme nella borghesia pericolosi stranieri sono stati rimpatriati, affida a Paolo Bugialli una delle intemerate più grottesche contro la nuova moda : «I capelloni, come li chiamano qui a Roma, sono quei tipi di apparente sesso maschile che portano i capelli lunghi come le donne». E ancora: «Essi dicono di esprimere il tormento della generazione della bomba, e bisognerebbe buttargliela». E infine: «Come non si entra in India senza farsi l iniezione contro il colera, così non si entra in Italia con i capelli lunghi: siamo in casa nostra, abbiamo il diritto di ricevere gli ospiti che desideriamo, e questi non li vogliamo». Logico poi che per i capelloni più hard il Corrierone diventasse il Corriere della Serva. Così imparava a usare gli stessi argomenti che sarebbero stati sollevati da Adriano Celentano, il ragazzo del Clan, circondato dai suo amici (poi nemici) Don Backy e Gino Santercole, accompagnato dai Ribelli con il grande batterista Gianni Dall Aglio detto Cocaina, avvinto alla ragazza del Clan al secolo Milena Cantù, poi soppiantata da Claudia Mori: «Visti di spalle chi è la donna non si sa». Da cui si capisce la diffidenza di una generazione intera per quel talento naturale, Adriano, che aveva cominciato con il rock e finiva reazionario marcio, dopo avere inflitto ai fan la grande trasgressione dei pantaloni bicolori: altro che idolo dei giovani, era un bamba di periferia pronto a scagliarsi contro quei «ragazzi che non si lavano», argomentazione sublime, e magari «si drogano» e «dimenticano Dio». Ma per piacere. L avanguardia beat, cioè un avanguardia sociale, diffusa, organizzata soltanto dalla musica, indifferente per il momento alla politica, quella massa che per la verità non ha ancora ascoltato il Bob Dylan apocalittico, ha voglia di pulsazioni vere, calde, bollenti, va bene tutto: Caterina Caselli che si dimena cantando una cover dei Them, Baby Please Don t Go, alleluia-ià, e a Sanremo canterà con Sonny&Cher, sempre ubriachi, Il cammino di ogni speranza, inno mancato della pace universale. I Rokes che si fanno scrivere da Mogol È la pioggia che va, che ben presto fu eletta come «l inno nazionale dei capelloni», per- ché c era anche un po di malinconia, «quante volte ci hanno detto / sorridendo tristemente / le speranze dei ragazzi sono fumo». Il tempo della protesta Perché è vero che di lì a poco sarebbe arrivata la protesta, e i Nomadi grazie a Francesco Guccini ispirato medianicamente da Allen Ginsberg avrebbero scodellato il pezzo epocale Dio è morto, ma si trattava di capire quale fosse questa protesta sociale o politica, che un pochino infastidiva gli adepti più filologici del beat. Bene Patty Pravo, che non protestava affatto, e più che altro con le sue esibizioni al Piper di Roma trasmetteva un idea di alternatività sexy, con gli stivali sopra il ginocchio e la minigonna ovviamente mozzafiato («i ragazzi dice in un intervista io li fumo come sigarette»). Meno bene Antoine, quello delle «elucubrazioni», che poi si rivelò un discreto cabarettista, con Pietre di Gian Pieretti, un altro che fece molti semi-plagi da Dylan e da Donovan, ma accompagnò addirittura Jack Kerouak in una speciale tournée italiana. E malissimo il volemose bene (e facciamoci del male) di Mogol, che per un Festival affidò a Gianni Pettenati La rivoluzione, destinata grazie al cielo a finire al più presto, e poiché ci siamo tolti il pensiero «mai più si farà». Il beat dura pochissimo. Il tempo di pensare una quasi filosofia, con una rivista come Mondo Beat che inseguiva una purezza beatnick inquinata dai commerciali dello yé-yé. Di sfumare nella protesta dei provos olandesi, quelli delle biciclette bianche, di intercettare una spinta antimilitarista, di spalancare gli occhi sulla guerra del Vietnam, di trasformare la liturgia religiosa con le messe beat: e poco dopo l innocenza è perduta. Non si poteva continuare a ritmare sulla batteria dei Sorrows «mi si spezza il cuor / dalla gelosia» mentre dal Quartiere latino a Parigi venivano tuoni di rivolta e di immaginazione al potere, mentre viceversa qualcun altro stava già pensando di mettere la bomba alla Banca dell Agricoltura. «Quando il potere ti fa sentire triste, l Equipe 84 ti fa stare bene»: il dadaismo un po provinciale degli slogan del gruppo Onda Verde è in definitiva la sintesi di alcune stagioni giocose, in cui il Cantagiro aveva intercettato la tendenza mondiale e Gianni Boncompagni e Renzo Arbore, con il loro programma radiofonico del sabato pomeriggio, Bandiera gialla, avevano importato l aria di Londra e dell America di Barbara Ann dei Beach Boys. I più genuini ragazzi dei Sessanta sarebbero stati presto inghiottiti dal Sessantotto, ma difficilmente sarebbero finiti qualche anno dopo al Festival di Re Nudoal Parco Lambro, la nostra piccola Woodstock: chi era cresciuto leggendo avidamente settimanali come Giovani e Ciao amici e si era entusiasmato all idea che i Nomadi stessero per ingaggiare il chitarrista degli Hollies non poteva immaginare che la musica diventasse «un esperienza di liberazione». Loro, come no, pensavano di essersi già liberati.

20 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 NOVEMBRE 2005 i sapori Cibi-simbolo Il principe dei dolcificanti viene celebrato ad Imola, fino alla prossima domenica, dalla kermesse Baccanale Un occasione per declinare granella, zollette e semolato in un infinità di antiche ricette tutte da scoprire LE FORME Zollette Diventate famose negli anni 60 come supporto per somministrare i vaccini anti-polio ai bimbi, sono a forma di mattoncini bianchi o scuri. Si usano nei cocktails LICIA GRANELLO Frutto della canna (per il 60 % del mercato) e della barbabietola, è uno degli ingredienti a più alto tasso calorico, ma costituisce, nella nostra dieta, una tentazione irrinunciabile Lunga vita al sukkur, lo zucchero, principe dei dolcificanti e ingrediente-base di un serie infinita di leccornie, da una parte all altra del mondo. A celebrarlo, la quarta edizione del Baccanale, che fino al 20 novembre trasforma Imola in un sontuoso circuito di cibi, parole, mostre, laboratori, concerti, declinati sul tema Il dolce della vita. Nulla vi verrà risparmiato: da un dolce pranzo chiacchierato con Pupi Avanti alle incredibili architetture di zucchero delle tavole rinascimentali, passando per i racconti su meringhe, bignè e biscotti della nonna, l esibizione delle zuccheriere di maiolica del Settecento, i massaggi dolci e i liquori zuccherini. Lo zucchero è stato lusso per pochi fino agli inizi del Settecento, quando il derivato della canna prodotto a costi bassissimi, grazie ai negrieri che compravano manodopera in Africa per sfruttarla nelle isole dello zucchero invase i porti di Bordeaux, Londra e Amburgo. In quello stesso periodo, dalla canna da zucchero nacque il rum, subito acquisito come bevanda ufficiale della Marina Britannica. Da allora, la sua ascesa è stata inarrestabile, in cucina come nell immaginario collettivo. L irresistibile Marilyn Monroe di A qualcuno piace caldo non poteva chiamarsi che Zucchero Kandinsky E la barbabietola? Una scelta forzata, figlia del blocco continentale che lasciò l Europa napoleonica a bocca asciutta (e amara) fino a meno di un secolo fa. Oggi, la produzione è ben distinta tra la canna 60 per cento del mercato, coltivazioni asiatiche e tropicali e la barbabietola, che cresce nelle aree a clima temperato. Ma l insolito esempio di un alimento unico derivato da materie prime completamente differenti, oltre a tanti meriti golosi si trascina appresso le maledizioni di tutti i dannati della dieta. Perché lo zucchero ha un carico calorico importante (fra 360 e 400 calorie per etto). E soprattutto perché innalza il livello di glicemia nel sangue, stimolando la produzione di insulina. Effetti non secondari: tendenza a stoccare gli zuccheri in eccesso sotto forma di grasso e sensazione di fame. Inseguiti dal fantasma dell indice glicemico (la capacità di un cibo di aumentare la glicemia), non abbiamo ancora imparato a difenderci dal fascino oscuro dei dolcificanti artificiali. Allo stesso tempo, quelli naturali alcuni dei quali, come il fruttosio, lo zucchero della frutta, sono benemeriti perché non stuzzicano l insulina sono confinati nell elenco delle nicchie alimentari. È il caso di lattosio, maltosio, succo d acero e di palma. Anche più misteriosa la vicenda della Stevia, il dolcificante derivato dalle foglie di una piccola pianta dell America Latina (ma cresce anche da noi). Potere dolcificante fino a 400 volte quello dello zucchero, nessun carico calorico, nessuna controindicazione. Venduta negli Stati Uniti come supplemento dietetico, è diffusa in tutto il sud del mondo, Giappone compreso, mentre l Unione Europea continua a tenerla fuori dai recinti degli alimenti permessi. Unica (magra) consolazione, comprare lo zucchero eticamente corretto, che non affama i coltivatori e contiene vitamine e sali altrimenti assenti. Ma una volta di più, leggere l etichetta è fondamentale: con il più zuccherino degli additivi, il caramello, infatti, si può colorare lo zucchero bianco, illudendo il consumatore di aver scelto un alimento integrale. Se invece siete depressi, salite sulla magica barca di zucchero filato rosa di Johnny Depp, alias Willy Wonca ne La fabbrica del cioccolato. Il mondo Zucchero vi sembrerà dolcissimo. A zero calorie. Ginevrine Le pastiglie sono composte solo da zucchero, con essenze, sciolto in poca acqua sul fuoco basso Le gocce, cotte su carta da forno e indurite, si conservano nel vetro La dolce vita comincia dalla tavola A velo Bianco, impalpabile, si utilizza in pasticceria o per decorazioni Può essere aromatizzato con vaniglia o cannella. Teme l umidità, va setacciato prima di usarlo Bastoncini Esistono quelli a strisce bianchi e rossi, aromatizzati, e quelli composti da cristalli bianchi o scuri, addensati su un bastoncino Per addolcire le bevande calde Caramellato Si ottiene da una soluzione di zucchero e acqua girata a fuoco dolce. Ai primi due stadi di cottura biondo e bruno serve per decorare dolci e foderare stampi Filato La ricetta originaria prevede la bollitura di una soluzione con zucchero acqua e glucosio, addensata e poi tirata con la forchetta o la frusta di ferro

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