Relatore: Avv. Massimo Biffa RELAZIONE DEL CONVEGNO DEL MAFIA E TERRORISMO: SPECIALITA DEL PROCEDIMENTO PER DELITTI DI MAFIA.
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1 Relatore: Avv. Massimo Biffa RELAZIONE DEL CONVEGNO DEL MAFIA E TERRORISMO: SPECIALITA DEL PROCEDIMENTO PER DELITTI DI MAFIA. La presente relazione vuole offrire alcuni spunti di riflessione circa le peculiarità che caratterizzano il giudizio che abbia ad oggetto il delitto di cui all art. 416 bis c.p., o comunque i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste da tale disposizione. Non sarà possibile, in questa sede, un approfondimento giuridico di ciascun momento del procedimento penale costruito ad hoc per i delitti di criminalità mafiosa, poiché un approfondimento esaustivo richiederebbe tempi e spazi degni di una vera e propria monografia. Nel ripercorrere, quindi, le disposizioni speciali che vanno dalla fase delle indagini preliminari, sino a quella dell esecuzione, sarà possibile soffermarsi su alcuni temi giuridici di particolare attualità. ***** La specialità del procedimento di mafia: indagini preliminari. Un dato sintomatico dell esistenza di regole processuali diverse rispetto a quelle ordinarie è rappresentato dalla disciplina delle indagini per i delitti di criminalità organizzata. Innanzitutto, come è noto, il legislatore ha ritenuto di affidare le funzioni di investigazione, come anche di esercizio dell azione penale, a Magistrati dell Ufficio del Pubblico Ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il giudice competente. Tali funzioni, sancite dall art. 53, comma III, c.p.p., possono essere solo per giustificati motivi, e limitatamente alla fase del dibattimento, derogate con delega del Procuratore Distrettuale ovvero del Procuratore Generale presso la Corte d Appello. Le attribuzioni funzionali agli Uffici della Procura Distrettuale, dunque, riguardano essenzialmente i delitti di cui all art. 416 bis c.p., e quelli commessi con le modalità descritte dall art. 7 legge n. 203/1991. Ad essi, si sono aggiunti a
2 partire dal 2001 (legge n. 92/2011), il delitto associativo di cui all art. 74 DPR 309/90, i delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo, ecc.. Così come per l ufficio del Pubblico Ministero, anche per il Giudice per le Indagini Preliminari e per il Giudice dell Udienza Preliminare valgono delle disposizioni che segnano un ipotesi di vera e propria competenza funzionale del giudice. Infatti, ai sensi dell art. 328, commi I bis e ss., c.p.p., nelle ipotesi particolari indicate dall art. 51, comma III bis e ss. c.p.p., le funzioni di giudice per le indagini preliminari sono esercitate da un magistrato del tribunale del capoluogo di distretto ove ha sede il giudice competente. Sin dall individuazione dell Ufficio di Procura e del Giudice per le Indagini Preliminari si comprende dunque la specialità della disciplina. Tale specialità si traduce in una serie di disposizioni ulteriori che scadenzano diversamente dall ordinario i tempi delle indagini preliminari. In particolare, a differenza degli altri tipi di reati, i delitti sin qui indicati, hanno una disciplina derogatoria rispetto a quella ordinaria dei termini delle indagini. Ai sensi dell art. 405, comma II, c.p.p., i termini di durata delle indagini, sono pari ad un anno, e possono essere prorogati sino ad una durata massima di due anni, senza che delle eventuali richieste di proroga venga data notizia agli interessati, come generalmente previsto dal codice, con conseguente impossibilità per questi ultimi di interloquire sulla sussistenza delle condizioni legittimanti una prosecuzione delle indagini oltre il termine ordinario. La mancata comunicazione all indagato dell eventuale richiesta di proroga dei termini delle indagini, di cui si è accennato, risulta in linea con la disciplina, anche qui particolare, prevista dall art. 335, comma III, c.p.p., ove è stabilito che le iscrizioni del nominativo degli indagati nell apposito registro delle notizie di reato, non siano suscettibili di comunicazione, quando abbiano ad oggetto, tra gli altri, i delitti di mafia. Va precisato, per completezza, che, la maggior durata dei termini delle indagini preliminari, come il divieto di comunicazione delle iscrizioni di cui all art. 335 c.p.p., è associata ad una elencazione piuttosto ampia di delitti, meglio specificati all art. 407, comma II, lett. a), c.p.p., che ricomprende ipotesi di reato che, pur connotate da particolare gravità, non rientrano direttamente tra quelli di criminalità organizzata o terrorismo. 2
3 Nell ambito delle indagini preliminari, inoltre, per quanto attiene al profilo del ricorso a particolari mezzi di ricerca della prova, viene in rilievo, con specifico riguardo alla disciplina delle intercettazioni, un regime processuale diverso da quello ordinario. Nell ambito del doveroso ed imprescindibile procedimento autorizzativo delle captazioni telefoniche, ambientali o telematiche, infatti, sono previsti presupposti diversi quando si proceda per fatti di criminalità organizzata, essendo richiesti non già i gravi indizi di reato di cui all art. 267 c.p.p., ma solo sufficienti indizi di reato, e non l assoluta indispensabilità dell intercettazione a fini probatori, ma la sola necessità del ricorso ad essa (cfr. art. 13 legge n. 203/1991). Anche i termini di durata delle intercettazioni sono disciplinati diversamente, sicché, la prima autorizzazione ha la durata di giorni quaranta dall inizio dell esecuzione delle operazioni, e le proroghe hanno durata di venti giorni ciascuna. Si tratta, dunque, di un ulteriore peculiarità processuale, da cui si rileva che a fronte di un particolare disvalore penale e sociale che il legislatore ha inteso attribuire ai delitti di criminalità, si assottigliano le garanzie che presidiano diritti costituzionali quale quello di cui all art. 15 della Costituzione. La specialità del procedimento di mafia: le misure cautelari. Le più significative differenze tra procedimento per reati ordinari e procedimento per delitti di criminalità mafiosa emergono, senza dubbio, in relazione alle vicende processuali de libertate. Il procedimento per l applicazione delle misure cautelari, è, solo in parte condizionato alla sussistenza degli ordinari requisiti. Infatti, la sovrapponibilità tra la disciplina ordinaria e quella speciale, è limitata alla verifica della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza. Dopo il vaglio di sussistenza dei gravi indizi ex art. 273 c.p.p., diventa, nella sostanza, prossima all automatismo l affermazione di sussistenza delle esigenze cautelari. Come è noto, ai sensi dell art. 275, comma III, c.p.p., vige in materia di sussistenza delle esigenze cautelari una duplice presunzione. Questa consiste in una prima presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all art. 274 c.p.p., che ha natura relativa, nel senso che può essere vinta 3
4 dall allegazione di elementi idonei a superarla, cui segue, una presunzione avente natura assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere per la particolare tipologia dei delitti di mafia. Lo scorso anno, il Centro Studi del Codice di Procedura Penale, ha dedicato un intero seminario alla materia, evidenziando, innanzitutto, che l elenco dei delitti cui era riferibile il regime delle presunzioni in tema di misure cautelari, era stato nel tempo oggetto di ampliamento, ma che, gli interventi additivi, erano stati in larga parte intaccati da decisioni della Corte Costituzionale. Nelle numerose pronunce, sia della Suprema Corte di Cassazione, sia della Corte Costituzionale, sulla materia, era stato ripetutamente evidenziato che il particolare rigore, in tema di misure cautelari, che per un verso, dava luogo ad un minor onere motivazionale da parte del giudice all atto dell applicazione della misura, e, per altro verso, all imposizione della custodia cautelare quale unica misura adeguata, trovava giustificazione solo nelle peculiarità criminali e sociali dei delitti di mafia e nella massima di esperienza per cui il vincolo di appartenenza ad un sodalizio mafioso potrebbe essere interrotto efficacemente solo dalla custodia cautelare. Caratteristiche queste che non si rinvenivano invece per gli altri delitti, pur gravissimi, inseriti nel testo dell art. 275, comma III, c.p.p., con plurimi e diversi interventi del legislatore. Nel seminario dedicato alla specifica materia, si era sottolineata la difficoltà pratica, nella logica difensiva, di rinvenire elementi idonei a superare il duplice regime presuntivo, che risultava tra l altro ancorato ad ulteriore presunzione, di carattere sostanziale, circa la permanenza del vincolo associativo in assenza di elementi probanti in ordine alla cessazione dell associazione stessa, ovvero alla recisione da parte dell interessato dei legami con essa. Si era, altresì, sottolineato che isolati orientamenti giurisprudenziali avevano iniziato ad aprire qualche spiraglio nel sistema delle presunzioni, operando alcune distinzioni, sia con riguardo al grado di effettiva intraneità del soggetto agente nell organizzazione mafiosa (l ipotesi del concorrente esterno), sia con riguardo all effettiva applicabilità del disposto dell art. 275, comma III, c.p.p., ai momenti successivi rispetto a quello genetico/impositivo della misura. Ebbene, quelli che solo alcuni mesi fa, erano arresti giurisprudenziali isolati che si auspicava potessero trovare maggior riconoscimento soprattutto in ambito di 4
5 giurisprudenza di legittimità, hanno rappresentato una tappa significativa nel percorso che ha indotto la Suprema Corte a sollevare eccezione di illegittimità costituzionale, in relazione all art. 275, comma III, c.p.p.. Come è noto con ordinanza datata , le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, investite della questione se la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere ex art. 275, comma III, c.p.p., operi solo in occasione dell adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva o riguardi anche le vicende successive che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari con riferimento a fattispecie aggravata ex art. 7 legge n. 203/1991, ritenevano necessario sollevare eccezione di illegittimità costituzionale. La questione, pendente, non è stata ancora decisa dalla Corte Costituzionale. Merita, per il momento, evidenziare che le Sezioni Unite, hanno ritenuto non manifestamente infondata la questione, sulla base del seguente ragionamento la sostituzione di una misura con altra meno affittiva, nel caso di attenuazione delle esigenze cautelari, così come prevede l art. 299, comma II, c.p.p., è chiara espressione della regola generale che comporta una continua verifica, da parte del giudice, circa il permanere delle condizioni che hanno determinato la limitazione della libertà personale e la scelta di una determinata misura cautelare. Orbene, a tale regola che governa per l aspetto per così dire dinamico della vicenda cautelare, disciplinato nel contesto normativo dell art. 299 c.p.p. il legislatore ha inteso porre un eccezione, attenuando la discrezionalità del giudice, con l introduzione di criteri legali di valutazione, e così ponendo una presunzione assoluta di adeguatezza della misura della custodia in carcere per determinati reati in quanto ritenuti di particolare pericolosità sociale: presunzione che deve ritenersi operante non solo in occasione dell adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva (art. 275, comma III, c.p.p.) ma, necessariamente, anche per il prosieguo della vicenda cautelare proprio perché espressamente richiamata nel comma II dell art. 299 c.p.p. (salvo quanto previsto dall art. 275, comma III). Va pertanto enunciato il seguente principio di diritto <<la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere ex art. 275, comma III, c.p.p. opera non solo in occasione dell adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche nelle vicende successive che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari. Risolto il quesito sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite, bisogna ora procedere all esame della questione di legittimità costituzionale prospettata dalla difesa del Lipari, posto 5
6 che alla luce del principio sopra enunciato, secondo la formulazione dell art. 275, comma III, c.p.p., tale disposizione dovrebbe trovare applicazione anche in relazione ai delitti aggravati ai sensi dell art. 7 del d.l. 152/1991 (convertito dalla legge 203/1991). ( ) La deroga costituita dalle presunzioni di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della misura carceraria per i delitti di mafia in senso stretto, ha superato il vaglio della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell Uomo, avendo entrambe le Corti valorizzato le peculiarità di tali delitti, la cui connotazione strutturale astratta, come reati associativi e dunque permanenti, rende ragionevoli le presunzioni, e specificamente quella di adeguatezza della custodia carceraria, misura ritenuta maggiormente idonea per soddisfare l esigenza di neutralizzazione del periculum libertatis connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato e associazione. ( ) la stessa Corte (Costituzionale) ha definito <<particolarmente significativa>> la propria sentenza n. 231 del 2011 con la quale è stata dichiarata illegittima la presunzione in argomento in riferimento ad una fattispecie associativa (ex art. 74 D.P.R. 309/90), ed ha evidenziato che nell occasione è stato in particolare sottolineato che il delitto di associazione di tipo mafioso è normativamente connotato di riflesso ad un dato empirico sociologico come quello in cui il vincolo associativo esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omertà, che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti. Caratteristica essenziale è proprio tale specificità del vincolo, che sul piano concreto, implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso. Sono tali peculiari connotazioni a fornire una congrua base statistica alla presunzione considerata, rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalità dei casi, le esigenze derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria>>. ( ) Le ragioni che, ad avviso di queste Sezioni Unite, sostengono il giudizio di non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità in esame, si sostanziano per una parte, negli argomenti, quali sopra ricordati, che la stessa giurisprudenza costituzionale ha nel tempo utilizzato per eliminare la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per alcuni tipi di reato (con particolare riguardo a quello associativo di cui all art. 74 D.P.R. 309/90 ed a quello 6
7 di associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere i dati di cui agli artt. 473 e 474 c.p., caratterizzati da un vincolo di appartenenza alla organizzazione malavitosa, dal Giudice delle Leggi ritenuto di per sé solo inidoneo a giustificare la presunzione assoluta di connotazioni specifiche del legame che caratterizza gli appartenenti ad un associazione di tipo mafioso); per altra parte, nel rilievo che anche i delitti aggravati ai sensi dell art. 7 decreto legge n. 152 del 1991 avendo o potendo avere una struttura individualistica potrebbero per le loro caratteristiche non postulare necessariamente esigenze cautelari affrontabili esclusivamente con la custodia in carcere. La circostanza aggravante in esame può accompagnare, invero, la commissione di qualsiasi fattispecie delittuosa; di talché, ove si volesse ricomprendere anche i reati così aggravati nella locuzione <<delitti di mafia>>, cui si fa ripetutamente richiamo nelle decisioni della Corte Costituzionale, si finirebbe con l assimilare, sotto il profilo del disvalore sociale e giuridico, manifestazioni delittuose del tutto differenti, sia con riferimento alla loro portata criminale, sia con riferimento alla pericolosità dell agente: la presunzione di adeguatezza della misura della custodia in carcere per delitti commessi al fine di agevolare l attività delle associazioni previste dall art. 416 bis c.p., comporterebbe infatti una parificazione tra chi a dette associazioni abbia aderito e chi, invece, senza appartenere ad esse, abbia inteso agevolare le attività delle associazioni stesse. Parificazione che sembrerebbe ingiustificata sulla scorta delle considerazioni svolte dalla stessa Corte Costituzionale laddove la presunzione in argomento è stata ritenuta ragionevole e giustificata, come ricordato, solo in presenza di un legame associativo peraltro connotato da specifiche caratteristiche, quali la forza intimidatrice del vincolo stesso e la condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, che non sembrano riscontrabili in una condotta delittuosa pur aggravata ai sensi dell art. 7 d.l. 152/1991; comportamento ovviamente grave e indice di pericolosità ma non necessariamente, ed in ogni caso maggiore, di chi sia ad esempio partecipe di un associazione dedita al traffico di stupefacenti, posto che, giova ripeterlo, in relazione all aggravante contestata sotto il profilo dell agevolazione delle attività delle associazioni previste dall art. 416 bis c.p., situazione corrispondente alla concreta fattispecie, avuto riguardo al reato per il quale è intervenuta sentenza di condanna del Lipari è escluso un vincolo o legame con l associazione. L esame dell ordinanza di rimessione riportata, impone una serie di riflessioni. 7
8 Non vi è dubbio, infatti, che mentre essa rappresenta uno spiraglio con riferimento alle vicende cautelari successive all imposizione della misura, limitatamente ai reati aggravati dall art. 7 legge n. 203/1991, essa rimarchi però, la particolarità e specialità delle vicende che abbiano ad oggetto la fattispecie associativa ex art. 416 bis c.p.. Sotto quest ultimo profilo, infatti, l ordinanza chiarisce definitivamente che, stanti le caratteristiche intrinseche della fattispecie, la presunzione di cui all art. 275, comma III, c.p.p., resta pienamente applicabile nella sua duplice forma, con riferimento a tutte le vicende de libertate, ivi comprese quelle successive al momento genetico della misura. Emerge, dunque, sia pure nell ambito dei delitti rientranti nella definizione di criminalità organizzata una netta distinzione tra fattispecie associativa ex art. 416 bis c.p., e delitti posti in essere con le modalità di cui all art. 416 bis c.p. ovvero finalizzati ad agevolare le attività dell associazione mafiosa, che riverbera in modo significativo sulla materia delle misure cautelari. ***** Accanto alle questioni che attengono alla specialità dei requisiti applicativi della misura, il procedimento cautelare risulta speciale rispetto all ordinario anche in relazione ai termini di durata delle misure cautelari. In particolare, i termini di fase della custodia cautelare, per i delitti di criminalità organizzata, sono i seguenti: - indagini preliminari: un anno, per i delitti indicati dall art. 407, comma II, lett. a) c.p.p. (delitti di criminalità mafiosa o commessi con finalità di terrorismo, omicidio, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di estorsione, armi ed esplosivi ad eccezione di alcune ipotesi, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, ecc.), sempre che per il delitto oggetto del provvedimento coercitivo sia prevista la pena della reclusione superiore nel massimo a sei anni; - dibattimento: il termine massimo per la fase del dibattimento, che è disciplinato in funzione della pena prevista per il reato oggetto del titolo custodiale può essere aumentato di ulteriori sei mesi, quando si proceda per i delitti di cui all art. 407, comma II, lett. a), c.p.p., come previsto 8
9 dall art. 303, comma I, lett. b), n. 3 bis) c.p.p.. Tale termine è imputato a quello della fase delle indagini preliminari ove il relativo termine non sia integralmente spirato ovvero al giudizio d appello, con proporzionale riduzione del termine previsto per quest ultima fase del giudizio. La disposizione prevista dall art. 303, comma I, lett. b), n. 3 bis, c.p.p., merita particolare attenzione nella logica dell esame delle peculiarità dei procedimenti per delitti di mafia. Il testo del n. 3 bis, infatti, veniva introdotto dall art. 2, comma I, del d.l n. 341, convertito in legge n. 4 del La genesi della disposizione in esame stava nell esigenza di far fronte ad una presunta situazione di emergenza dettata dalla asserita imminente scadenza dei termini di fase della custodia cautelare in un procedimento per delitti di camorra, all epoca pendente innanzi la Corte d Assise di Santa Maria Capua Vetere. Si tratta, dunque, dell ennesima disposizione di carattere emergenziale in materia delicatissima e rilevantissima - quale quella della libertà personale, presidiata da garanzia costituzionale - giustificata dalla necessità di combattere il fenomeno mafioso. Sin dal momento della sua entrata in vigore, il dibattito sulla disposizione ebbe ad oggetto la questione della possibilità di applicare il termine aggiuntivo di sei mesi, quando i termini di fase della custodia cautelare fossero stati oggetto di sospensione dei termini per complessità del dibattimento, ex art. 304, comma II, c.p.p., e dunque, raddoppiati, con raggiungimento del termine massimo di cui al comma VI del medesimo art In un primo momento, la giurisprudenza di merito si orientò nel senso di ritenere possibile cumulare sia la sospensione dei termini per complessità del dibattimento, sia il termine aggiuntivo di sei mesi. Quasi subito, tuttavia, si comprese che a ben vedere, in ossequio ai principi sanciti dalla Corte Costituzionale con riguardo ai termini oltre i quali la privazione della libertà personale non può essere consentita, e cioè quelli tracciati dall art. 304, comma VI, c.p.p., il raddoppio dei termini di fase e la proroga di sei mesi non fossero cumulabili. In tal senso, del resto, si orientava esplicitamente, senza mai mutare avviso sino a tutt oggi, anche la Suprema Corte di Cassazione. 9
10 Con numerose decisioni, la Suprema Corte espressamente affermava il principio di diritto per cui il termine di durata massima della custodia cautelare di cui all art. 304, comma VI, c.p.p., non può essere aumentato fino a sei mesi, ai sensi dell art. 303, comma I, lett. b), n. 3 bis), c.p.p., poiché per un verso l avverbio comunque utilizzato nella prima disposizione sottolinea il carattere di limite insuperabile del <<doppio>> termine di custodia e, per altro verso, la collocazione dell inciso <<senza tenere conto dell ulteriore aumento previsto dall art. 303, comma I, lett. b), n. 3 bis)>> subito dopo l enunciazione della regola in tema di durata massima della custodia, esclude l adozione di ogni criterio di computo che riduca la portata della regola stessa (cfr. Cass. Pen. I, sent. n del , rv ; Cass. Pen. IV, sent. n del , rv ; Cass. Pen. VI, sent. n del , rv ; Cass. Pen. VI, sent. n del , rv ; Cass. Pen. II, ord. n del , rv ). Ancora, ai fini del calcolo del termine massimo di fase di durata della custodia cautelare dell aumento fino a sei mesi previsto dall art. 303, comma I, lett. b), n. 3 bis), c.p.p., non può tenersi conto, mentre deve tenersi conto dei periodi di sospensione di detta durata dovuta a rinvii del dibattimento per adesione del difensore all astensione collettiva dalle udienze proclamata dagli organismi di categoria ( Cfr. Cass. Pen. I, sent. 623 del , cc , rv ). Preme ricostruire la storia della disposizione speciale, e della sua interpretazione, per offrire ulteriore significativa dimostrazione della particolarità dei processi per delitti di criminalità organizzata. Lo scorso anno, il Tribunale per il Riesame di Napoli, adottava una pluralità di ordinanze, in cui, nonostante il consolidato ed immutato orientamento espresso dalla Suprema Corte, era affermato il principio diametralmente opposto, e cioè quello della possibilità di porre a carico del soggetto sottoposto a custodia, i cui termini di fase fossero stati già raddoppiati, anche il termine aggiuntivo di sei mesi. Nei fatti, erano in corso diversi procedimenti penali per delitti di mafia, in cui i termini massimi per la fase del dibattimento, raddoppiati per effetto della sospensione di cui all art. 304, comma II, c.p.p., erano spirati. Al fine di non scarcerare gli imputati prima della pronuncia della sentenza di primo grado, i 10
11 giudici di cognizione avevano sostenuto l erroneità dell indirizzo giurisprudenziale da lungo tempo espresso dalla Suprema Corte di Cassazione. Il Tribunale per il Riesame di Napoli, intervenendo quale giudice del procedimento de libertate ex art. 310 c.p.p., aveva ripetutamente sostenuto che, stando ai lavori preparatori della disposizione in discussione, la chiara finalità del legislatore era stata quella di aggiungere il termine di sei mesi, anche quando fosse già maturato il doppio del termine di fase per il dibattimento. In sede di legittimità, si sono registrati ripetuti annullamenti senza rinvio delle ordinanze del Tribunale per il Riesame di Napoli. Il risultato pratico è stato, tuttavia, quello di protrarre indebitamente il regime di custodia cautelare, ben oltre i termini consentiti, e di permettere ai giudici di cognizione di pronunciare le sentenze con gli imputati in vinculis. L esempio riportato appare significativo della specialità dei procedimenti di mafia, che non è tale solo in astratto, ma anche nelle particolari patologie procedimentali che trovano terreno fertile nell infelice formulazione di alcune delle numerose disposizioni emergenziali. ***** La specialità del procedimento di mafia: l udienza preliminare ed il dibattimento. Le due fasi procedimentali sono trattate unitariamente, in ragione di alcuni aspetti comuni che riguardano le modalità di partecipazione dell imputato al procedimento penale. Sia nella fase dell udienza preliminare, che nella fase del dibattimento, infatti, vigono regole particolari per la partecipazione dell imputato al processo, quando si tratti di imputato sottoposto a misura cautelare e: sussistano particolari gravi ragioni di ordine e sicurezza; il dibattimento sia di particolare complessità e la partecipazione a distanza risulti funzionale ad evitare ritardi nello svolgimento del processo; l imputato sia sottoposto del regime speciale di cui all art. 41 bis o.p.. Invero, è stabilito in tali particolari ipotesi che l imputato debba partecipare al processo a suo carico, in videoconferenza, secondo la disciplina prevista dall art. 146 bis disp. att. c.p.p.. 11
12 In estrema sintesi tale modalità di partecipazione dell imputato a distanza, prevede che il medesimo venga collegato in audio e video, da una apposita sala ubicata all interno del carcere, con l aula di udienza, e con facoltà di comunicare con il proprio difensore a mezzo di una linea telefonica riservata. E anche prevista la possibilità per il difensore di partecipare all udienza direttamente dal sito ove si trova il suo assistito. Al momento dell entrata in vigore della disciplina della partecipazione a distanza, nel 1998 (legge n. 11/1998), si discusse abbondantemente della sua idoneità a rispettare i parametri sanciti dall art. 24 della Costituzione con riferimento al pieno esercizio del diritto di difesa. Nonostante i giudici di merito, i giudici di legittimità e la stessa Corte Costituzionale, abbiano ritenuto pienamente coerente con i principi costituzionali la disciplina della partecipazione a distanza, essendo comunque consentita all imputato la possibilità di assistere al processo, di vedere ed ascoltare quanto accada nell aula di udienza, di comunicare riservatamente con il proprio difensore, restano a tutt oggi seri i dubbi sull idoneità del sistema a garantire il pieno esercizio del diritto di difesa. E sufficiente evidenziare, infatti, che anche con riferimento alla disciplina della partecipazione a distanza, si sono verificati episodi patologici agevolati dalle modalità previste dal legislatore. Si sono registrati, infatti, casi documentati in cui, agenti di polizia penitenziaria presenti all interno della saletta, abbiano indebitamente annotato i contenuti di conversazioni, intervenute utilizzando la linea riservata, tra imputato e difensore presente nell aula di udienza. Nei relativi procedimenti penali, in conseguenza di tali documentati episodi, veniva dedotta la nullità delle udienze e del procedimento per violazione del diritto di difesa. Le relative eccezioni, nonostante la gravità degli episodi e la loro concreta incidenza sull esercizio dei diritto di difesa, sono state sistematicamente disattese (cfr. ad esempio, Corte Assise Santa Maria Capua Vetere, II Sezione, sentenza del , contro Abbate Antonio + altri). Per quanto concerne, invece, la sola fase dibattimentale, si osserva che la tematica della partecipazione a distanza, riguarda non solo l imputato, ma anche l audizione di testimoni di giustizia o collaboratori di giustizia. 12
13 Qui, infatti, il legislatore, oltre a prevedere la partecipazione dell imputato con le modalità della videoconferenza, ha previsto che le medesime modalità vengano adottate per la partecipazione o per l esame di testimoni di giustizia o collaboratori di giustizia (art. 147 bis disp. att. c.p.p.). Anche tale disposizione sacrifica significativamente i principi dell oralità ed immediatezza del dibattimento, oltre a quello di un pieno contraddittorio, soprattutto nel momento più delicato della cross examination di dichiaranti che spesso costituiscono la principale fonte di prova nel processo. Nondimeno, le situazioni appena esaminate non esauriscono i casi di deroga ai principi di oralità, immediatezza e pienezza del contraddittorio. E sufficiente ricordare, in questo senso, il disposto dell art. 190 bis c.p.p.. Come è noto, alla stregua della richiamata disposizione, è stabilito che, nei casi di procedimenti per delitti, tra l altro di criminalità organizzata, quando è richiesto l esame di un testimone o di una delle persone indicate dall art. 210 c.p.p. e queste hanno già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio ovvero in dibattimento nel contraddittorio delle parti, o ancora nell ipotesi in cui abbiano reso dichiarazioni in verbali acquisiti ex art. 238 c.p.p., l esame è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze. Tale disposizione viene in rilievo, nella quasi totalità dei casi, nelle ipotesi di mutamento della persona fisica del giudice. Qui, in linea di principio, dovrebbero trovare applicazione le regole sancite dalla giurisprudenza di legittimità in tema di rinnovazione dell assunzione della prova, salvo il consenso delle parti all utilizzazione mediante lettura delle prove assunte innanzi a diverso giudice. Sennonché, l applicabilità di tali regole è espressamente esclusa dall art. 190 bis c.p.p., per quanto attiene ai procedimenti per delitti di criminalità organizzata. Qui, infatti, la regola è diametralmente opposta e prevede la piena utilizzabilità della dichiarazione resa dal testimone o dall imputato di reato connesso o collegato, innanzi ad altro giudice, sempre che l esame non debba riguardare fatti o circostanze diverse o che esso non sia ritenuto necessario dal giudice o dalle parti. 13
14 Queste ultime possibilità di rinnovazione della prova, in astratto previste dall art. 190 bis c.p.p., sono in verità scarsamente applicate, poiché raramente il giudice procedente ritiene d ufficio necessaria la riassunzione della prova ovvero accoglie le richieste difensive. La rinnovazione della prova dichiarativa è, infatti, subordinata ad una valutazione del giudice che ha natura puramente discrezionale ed in quanto tale difficilmente sindacabile. Dunque è tutt altro che infrequente il caso in cui, nonostante la gravità delle imputazioni, i procedimenti per delitti di criminalità vengano decisi da giudici che non abbiano direttamente assunto le prove dichiarative né abbiano ritenuto opportuno disporne la rinnovazione. ***** La specialità del procedimento di mafia: l esecuzione. Qualche breve cenno merita anche la disciplina della fase dell esecuzione delle sanzioni irrogate in relazione a delitti di criminalità organizzata. L art. 4 bis dell ordinamento penitenziario, sia pure operando alcune distinzioni per fasce e specifici titoli di reato, preclude ogni possibilità di accesso ai benefici penitenziari, fatta eccezione per liberazione anticipata, nei confronti di condannati per delitti di cui all art. 416 bis c.p. ovvero aggravati ex art. 7 legge n. 203/1991. Di fatto, sebbene la disposizione di cui all art. 4 bis o.p. preveda alcune peculiari ipotesi di concedibilità dei benefici penitenziari, è ben raro che essi vengano concessi ai condannati per i delitti indicati. Oltre all ipotesi della collaborazione con la giustizia, infatti, le fattispecie della collaborazione impossibile od inesigibile in capo al soggetto condannato per il delitto di cui all art. 416 bis c.p., risultano oggetto di sostanziale probatio diabolica in capo all interessato. In altri termini, se il giudizio per i reati di mafia presenta le indubbie peculiarità descritte nei punti che precedono, altrettanto può dirsi per quanto attiene alla fase dell esecuzione. ***** 14
15 La particolare natura del delitto associativo e dei delitti aggravati dalle modalità o dalle finalità di cui all art. 416 bis c.p., è, dunque, segnata dal sistema di presunzioni sostanziali e processuali, legate a massime di esperienza, che permeano tutto il procedimento, con particolare riferimento ai momenti che attengono alla privazione della libertà personale, sia in virtù di un titolo di natura puramente cautelare, sia in virtù di un titolo esecutivo vero e proprio. In definitiva, il meccanismo delle presunzioni descritto abbondantemente si traduce, quasi invariabilmente, nella prassi applicativa, in uno strumento di oggettiva vanificazione di ogni allegazione di segno opposto. 15
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