Capoverso. Luigi Beneduci Fuoco grande: struttura e simboli di un libro fisico e metafisico

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4 Capoverso Luigi Beneduci Fuoco grande: struttura e simboli di un libro fisico e metafisico F uoco grande, racconto lungo o romanzo breve, scritto a quattro mani da Cesare Pavese e Bianca Garufi e uscito nel 1959 grazie alle ricerche di Italo Calvino, impegnato a pubblicare l opera omnia dello scrittore delle Langhe, è uno dei meccanismi narrativi più originali e perfettamente congegnati della letteratura italiana del dopoguerra, considerandone le peculiari modalità di elaborazione e stesura. Il testo fu ritrovato dattiloscritto tra le carte dello scrittore piemontese dopo la sua morte, in una cartellina recante le date di inizio e conclusione: 4/2/1946 6/?/1946. L opera nasceva dall incontro tra Pavese, che recava le stimmate di una piemontesità riservata, brusca ed angosciata dal suo personale male di vivere, e l estroversa, passionale, ma altrettanto tormentata siciliana Bianca Garufi, che avrà un peso importante nella produzione dello stesso scrittore, il quale nutrirà per lei un intensa passione, rendendola destinataria delle poesie di La terra e la morte (raccolte poi in Verrà la morte e avrà i tuoi occhi del 1951) e dedicandole i Dialoghi con Leucò (1947). La conoscenza tra i due inizia nel 45, quando la donna era segretaria presso la sede dell Einaudi a Roma, ma il loro rapporto continuerà per via epistolare, seguendo il progressivo evolversi della passione nutrita, invero, soprattutto da Pavese, per trasformarsi nell ambivalente rapporto di una «bellissima coppia discorde» 1, fatto di slanci appassionati e insieme urtanti frizioni: «Cara sorellina [ ] io credo che sarà più proficuo tra noi il rapporto amanti in lotta, odi et amo, Alla sua donna, baci-morsi» (Pavese, 7 marzo 1946). Questo coacervo di tensioni farà sentire la sua influenza su Fuoco Grande, come avremo modo di vedere, tanto quanto l interesse per due discipline allora non ancora di casa nell Italia da poco uscita dal fascismo: la psicoanalisi prediletta dalla Garufi (ella diventerà nota esponente italiana della scuola junghiana), e gli studi etno-antropologici, che si diffonderanno proprio grazie all impegno di Pavese e De Martino, curatori della cosiddetta collana viola per Einaudi. Sarà la stessa Garufi, anni dopo, a testimoniare come si svolgeva il lavoro compositivo condiviso con Pavese: «Nel romanzo si procede a capitoli alterni, un capitolo scritto da Pavese e uno da me, Pavese seguiva la vicenda dal punto di vista dell uomo, Giovanni; io facevo altrettanto dal punto di vista della donna, Silvia»; a ciò aggiunge che, sebbene le parti approntate nelle 115

5 Omaggio a Pavese loro intenzioni dovevano costituire «solo l inizio di una narrazione più vasta», accade che «all undicesimo capitolo, il romanzo si interrompe». Certo, erano stati buttati giù «appunti su quello che sarebbe dovuto essere il seguito della vicenda», eppure il momento in cui la narrazione si ferma, non si può dire che lasci l opera in sospeso; al contrario, «la carica emotiva e la tensione narrativa raggiunta dalla vicenda in quel punto può permettere di considerare il romanzo non come una parte, ma come un opera in sé compiuta». Così ricordava Bianca Garufi nella Premessa all edizione Einaudi del 1959, oggi riprodotta in Appendice alla nuova e documentata edizione del 2003, qui presa a riferimento 2, comprendente persino gli schizzi a matita della pianta di Maratea, la cittadina lucana dove il racconto si ambienta, e della casa natale della protagonista 3. Questi i dati essenziali a premessa del testo, il cui lavoro compositivo procede solo per poco alla presenza di entrambi, poiché Bianca lascerà presto Roma, prima per una «colonia della salute» in Liguria e poi per Milano. Il fitto scambio di missive non indebolisce, anzi rafforza l intesa tra i due autori: «Non c è niente che renda più felici che avere lontano una persona che si ricorda di noi con dolcezza. scriveva Cesare a Bianca il 26 febbraio del 46 È quasi meglio che averla vicina». L invio di osservazioni, annotazioni, interi capitoli, ha sia il significato di operazione artistica, «il nostro è lavoro d arte, non di sfogo» (Pavese, 20 marzo 1946), che di esperienza sentimentale: «Farò con te grandi sciocchezze. Oltre ai romanzi» (Id., 7 marzo 1945) e di scavo esistenziale, volto a «svuotare il bubbone» (Garufi, 22 febbraio 1946) del loro contrastato rapporto e del vizio assurdo della vita: «Sapevo bene, imbarcandomi in questo libro, che questa impresa avrebbe portato a galla tutto il pus che abbiamo dentro» (Pavese, 1 marzo 1946). Bisogna immergersi nella scrittura e nella struttura di questo racconto bisessuato (Id., 21 febbraio 1946), per comprenderne fino in fondo la potenza. Il romanzo consegue una particolare unità, offrendo un complicato sistema dei punti di vista: nei capitoli dispari la narrazione è affidata al personaggio maschile, per poi alternarsi nei pari con quello femminile che, inizialmente, racconta la stessa azione, filtrandola secondo la propria sensibilità e mostrandone così un altro volto. Partendo da questo modulo, però, presto Cesare impone a Bianca un escamotage narrativo che rompa la monotonia dei primi capitoli: «Ogni tanto, insomma, il tuo racconto dovrebbe scavalcare il mio, e costringermi a seguire. Altrimenti il ritmo diventa insopportabile» (18 febbraio 1946); Silvia allora sovrapporrà, prolungherà o racconterà gli antefatti dell azione osservata da Giovanni. È soprattutto questa sapiente inserzione dell intreccio sulla fabula l elemento strutturale che 116

6 Capoverso rende Fuoco Grande un meccanismo narratologico veramente inarrestabile, e feroce. Nella stessa lettera Pavese evidenzia anche «un fondamentale divario del loro stile» auspicando di «trovare un punto di incontro, [ ] un emulsione omogenea». La narrazione si costruisce su uno stile ricorsivo, che porta l eco del più classico modello formulare, con una sintassi paratattica e uso di stilemi a mimare il parlato, o il pensato, ma anche con la ripresa di parole chiave ricorrenti nel corso di ciascun capitolo e nei passaggi da un capitolo all altro: sono immagini emblematiche e semanticamente pregnanti, come casa, mare, sangue, paese, madre, infanzia e morte, molte delle quali, tipicamente pavesiane. Sebbene Pavese stesso non fosse del tutto soddisfatto del risultato, «Non credo affatto che ci sia unità di tono» (Id., 27 aprile 1946), si può comunque paragonarlo ad una riuscita tessitura jazzistica con temi e griglie di accordi comuni, su cui improvvisare le proprie personali variazioni: un risultato stilistico-linguistico per cui è stata anche proposta la categoria della creolizzazione 4. Il gioco dei punti di vista inizia come semplice «dualismo alternato» (Id., 18 febbraio 1946) con la duplice presentazione della separazione tra i due protagonisti e dell improvvisa richiesta da parte di Silvia di essere accompagnata a Maratea, alla notizia delle gravi condizioni del piccolo Giustino. Alle spalle dei protagonisti si esprimono tratti delle personalità e tensioni degli stessi scrittori; Giovanni appare un rinunciatario sul piano degli affetti, destinato alla frustrazione emotiva: «Dovevo pensare che proprio con Silvia non mi era consentito di vivere. Lei, quegli occhi, quei capelli, quella voce non erano fatti per me. Già nascendo s eran formati e cresciuti per essere visti, ascoltati e baciati da un altro» 5, oppresso da un atteggiamento autocommiserativo, se non esplicitamente masochistico: «L indomani lei mi disse che non voleva più saperne di me. [ ] Camminando pensavo con chi poteva essersi messa Silvia. La volevano in molti. Ci pensavo anche di notte quando non potevo dormire» 6. Il personaggio di Silvia, gravato da un terribile segreto, appare invece sepolto sotto la meccanica routine della vita cittadina: «il lavoro, l ufficio, le miserie di ogni giorno, la fatica di ogni giorno ad essere viva, quando tutto è già accaduto senza rimedio» 7. Modello sociologicamente interessante, Silvia rappresenta la giovane donna fuggita dal soffocante ambiente borghese della provincia meridionale che si integra nella disinvolta vita della città, per quanto alienante e precaria, pur di trovare una propria via di realizzazione, sfuggendo alle grinfie delle proprie radici. Il passato ritorna, però, nella figura del bambino morente, rievocato con una significativa reticenza: «C era solo da essere vivi, giorno per giorno, come ignorando che tutto era caduto e perfino che cosa era accaduto», ed insieme si de- 117

7 Omaggio a Pavese linea l aperto conflitto nei confronti della madre, che viene degradata al rango bestiale attraverso una similitudine zoomorfa: «Rivedevo mia madre che confabulava, mia madre come l avevo vista, un ragno, una bestia acquattata» 8, di cui la ragazza teme ancora l autorità, incarnata dal suo «terribile sguardo» 9. La fuga ha liberato Silvia da un trauma per incatenarla, però, ad un esistenza anaffettiva: passeggiare sotto il braccio di Giovanni «teso ed intenzionato» era per lei «peggio di un carcere» 10. Silvia vive un impossibilità ad amare, lampeggiante di autocoscienza psicoanalitica, frutto evidente degli interessi della Garufi. Silvia è abituata a cogliere il sesso soprattutto come violenza: «Mario non ti ha mai fatto male?» domanda alla sua amica e confidente Flavia, essendo Silvia incapace di concepire un rapporto amoroso come scambio reciproco; «Quando hai voglia si dà e si riceve» le spiega Flavia, ma Silvia, che porta il retaggio nevrotico di un trauma sessuale, non può che confessare: «Ho disgusto che lui abbia voglia» 11. Solo in quel momento arriva l epifania: la comprensione della tragica differenza tra lei, «anche la voglia ho diversa, anche la smania ho diversa», e le altre donne: «Pensavo ancora che fosse lo stesso per tutte, [...] e fu in quello sgomento che seppi come ero, come cieca in un mondo che vede» 12. Con taglio narrativo quasi cinematografico, alla domanda di Flavia «Che pensi?», lo sguardo di Silvia si perde a recuperare con un flashback il momento della violenza subita da parte del patrigno, l avvocato Dino, convivente della madre dopo la morte del primo marito. L episodio è, in prima istanza, ancora lasciato nell ombra, narrato da quando Silvia, tornata a casa, affronta lo sguardo materno, che rappresenterà l emblema simbolico insieme dello stupro e del disprezzo che ricade sulla vittima. Lo testimonia la ripetizione ossessiva dei termini sguardo e guardare nel brano: «Lo sguardo di mia madre quel giorno. Da dove vieni? mi chiese. Mia madre mi guardava. Io riuscii a balbettare. A che fare in scuderia? e mi guardava [...] Non so come guardandomi mi penetrasse in quel modo 13. È lo sguardo di una società dove la stessa componente femminile ha introiettato il maschilismo dominante. La violenza subita da Silvia si focalizzerà per diottrie successive: appena accennata, diventerà sempre più palese nel corso del testo. Il ritorno del rimosso, realizzatosi nelle confidenze con Flavia che paiono sostituire la seduta psicoanalitica si esprime significativamente nel verbo che conclude la confessione e, insieme, il primo capitolo narrato da Silvia; vi si incista il termine simbolico sangue, evocativo della violenza sessuale e parola chiave dell intera narrazione: «quando tacqui era come se mi fossi dissanguata» 14. Se lo sguardo di Silvia/Bianca si appunta sull aspetto psicologico della storia, Giovanni/Pavese nei primi capitoli appare più attento alla rappresentazione del mondo arcaico e passionale della Lucania, terra ancora vergine, oggetto in quegli anni di ricerche folkloriche ed etnografiche. Giovanni è l uomo colto giornalista settentrionale catapultato in un mondo estraneo: «Non avevo pensato che anche la gente, i cuori e gli sguardi umani, sarebbero come lei, chiusi in quel modo impenetrabile» 15, e verso cui si protende con curiosità e insieme diffidenza: «Ero entrato in un mondo di passato e di sangue, di cose compatte e ignote, come si entra nel letto di un altro» 16. Alla fine, saranno l estraneità e l incomprensione, o francamente la repulsione, a prevalere. Nel IV capitolo appare la figura dell avvocato, 118

8 Capoverso dietro cui si adombra il più antico e temibile tabù, quello dell incesto: «Io avevo creduto che fosse mio padre, lo credetti per molto tempo, anzi questo pensiero mi tormentava immensamente quando doveva nascere Giustino ed ero chiusa tutto il giorno nella mia stanza»; in una nuova analessi vengono evocati esplicitamente i nove mesi della gestazione-reclusione: «Era marzo quando mia madre mise il lucchetto alle persiane e fino a Natale stetti là dentro senza poter uscire di casa» 17. Il non detto si rischiara e si fa irredimibile: nel racconto si torna indietro di dieci anni, all epoca della nascita del piccolo Giustino, per poi regredire ulteriormente alle premesse dello stupro, in un notevole flashback nel flashback. Qui la Garufi giunge ad evidenziare sottili e complesse sfumature psicologiche: un monologo interiore colloca il lettore esattamente nei panni emotivi di una preadolescente in guerra con la madre, e insieme attratta da un desiderio di corrispondenza con la figura maschile dominante; è la chiara descrizione del canonico complesso di Edipo, o in termini junghiani, di Elettra: «Lui era proprio affettuoso e io ero contenta che fosse affettuoso perché credevo che non mi volesse bene e non riuscivo a capire perché non mi volesse bene e io gliene volevo tanto e non ero mai dispettosa con lui, anzi con gli altri ero dispettosa, con mia madre soprattutto che mi guardava come se mi volesse accecare» 18. La consapevolezza psicoanalitica dell autrice spinge la bambina fino ad una fantasticheria di fuga, con l abbandono della madre e la sottrazione del suo compagno. In questa fase, in realtà, siamo ancora di fronte al fenomeno dell infatuazione preadolescenziale, nella quale non domina la componente sessuale ma quella emotivo-affettiva, il desiderio di vicinanza, attenzione e tenerezza verso il diversamente sessuato. Il rapporto, però, si complica in quanto si rivolge alla figura sostitutiva di quella paterna, non solo assente, ma percepita da Silvia come debole e sottomessa. Emerge sempre più la struttura del racconto come coacervo di tensioni lancinanti, di omissioni, autoinganni, traumi e rimozioni; viene poi delineato un segreto e innominabile rapporto tra vittima e carnefice, destinato a palesarsi ed esplodere verso la conclusione. Non stupisce che Pavese fosse conscio che il romanzo sarebbe piaciuto «soprattutto come scandalo» (Pavese, 27 aprile 1946). Nel frattempo, si attiva nel racconto lucano il personaggio che finora era rimasto, tutto sommato, un inerte accompagnatore: Giovanni, infatti, comincia a prendere coscienza «che qualcosa di irreparabile avveniva» 19. Fornisce l abbrivio a tale consapevolezza lo stesso avvocato, il padrigno, il quale avverte Giovanni che «la famiglia è un organismo di cose segrete e di altre cose che si vedono. Fuori, la pelle, l espressione degli occhi, il contegno, la buona salute dentro, i visceri, i rifiuti, l elemento innominabile» 20. Da qui in poi, sarà sempre più una scelta del personaggio quella di voler restare, tozzianamente, con gli occhi chiusi, di fronte alla verità: che il bambino è figlio, non fratello di Silvia, e il padre lo stesso avvocato. Per ora, resta ancora forte l idealizzazione della donna, innocente fin dalla genesi: «Silvia era nata di terra e di sangue come penso alle volte che nascano i cavalli o i tronchi più belli dei boschi» 21, mentre è sempre l avvocato ad insufflare felinamente in Giovanni il dubbio di essere stato manipolato dalla compagna: «Sposarvi e tenervi all oscuro. Questo piace alle donne. [ ] Finì la frase leggermente, come un gatto compare e scompare» 22. Il centro nevralgico della narrazione 119

9 Omaggio a Pavese arriva allo spirare di Giustino; nella voce di Silvia si esprime il significato segreto del racconto, forse di quel racconto che è la vita stessa, colto di fronte al mistero della morte: il dominio assoluto del fuoco della passione. «C era un fuoco che bruciava sempre e nascita, morte, guerre, alluvioni svanivano in mezzo a quella fiamma. Dissi: Catina, qui si sta sempre in mezzo al fuoco. Fuoco grande, fuoco grande disse Catina. E attraverso la notte sentii che mia madre bruciava, che Dino bruciava, che anch io mi ero messa di nuovo a bruciare» 23. Il valore nodale di questa pagina viene colto dallo stesso editore, che dalle parole della serva Catina trae il titolo redazionale: Fuoco grande. Espressione popolare in dialetto, tra siculo, calabro e lucano: focu rranni, «che sta ad indicare situazioni caratterizzate da una passionalità accesa, penosa e tormentata» 24, lo stato di angoscia e tensione nei momenti cruciali dell esistenza. Questa passione esaltata e angosciosa è però conforme, se non coincidente, con il titolo vergato a matita dalla stessa mano di Pavese sulla cartella contenente il dattiloscritto del romanzo, indicato come Viaggio nel sangue. Nella costellazione simbolica che si sta elaborando nel racconto, e che ha come punti nodali termini chiave come morte, infanzia, casa, in effetti vi è un isomorfismo sostanziale tra il fuoco e il sangue. Il motore primo dell intero racconto, fortemente sessualizzato, è la passione, intesa come fermento del sangue, grumo di pulsioni originate nelle fibre più intime della fisicità. È quello il «fuoco che bruciava sempre», di fronte al quale ogni altro aspetto dell esistenza, «anche gli avvenimenti più urlanti, ricadevano senza consistenza» 25, come testimoniano tutti i personaggi del dramma, ossessionati dalla stessa fiamma: Giovanni «teso ed intenzionato» e Flavia «illanguidita» 26, la madre che «preparava una rete e si acquattava» 27 per difendere il proprio nido, l avvocato pronto a cogliere nuovamente la possibilità di possedere Silvia, e infine Silvia stessa che, dopo il «disgusto» 28 per ogni rapporto ora, tornata nel luogo del sangue ancestrale, si sente nuovamente bruciare di passione, in cerca del suo oggetto proibito: «anch io mi ero messa di nuovo a bruciare» 29. Gaston Bachelard nel suo saggio sulla psicoanalisi del fuoco 30, dedica molte pagine alla definizione della «valorizzazione sessuale» del fuoco 31 e sostiene che nessun altro elemento fisico e dell immaginario come «il fuoco sessualizzato [...] unisce la materia e lo spirito, il vizio e la virtù. Idealizza le conoscenze materialiste: materializza le conoscenze idealiste»; insomma è rappresentazione occulta e insieme disvelante sia delle forze materiali che agiscono meccanicamente o come nel nostro caso biologicamente, sia del rischiaramento intellettuale delle stesse pulsioni irriflesse e dei desideri inconsci: «È il principio di una ambiguità essenziale che non è certo senza fascino, ma che bisogna continuamente confessare, senza tregua psicoanalizzare nelle due utilizzazioni contrarie: contro i materialisti e contro gli idealisti» 32. In questi termini si svolge il lavoro di indagine (e di autoindagine) condotto dagli autori sui personaggi, per svelare i meccanismi sottesi a una storia di passioni sfrenate in un mondo primigenio, matrice atemporale che continua ad agitarsi anche sotto la moderna civiltà cittadina, industriale e postmoderna come quella in cui Silvia aveva cercato inutilmente scampo. E anche gli strumenti e i metodi di questa ricerca sono bachelardiani, se è vero che avverte l epistemologo francese «sono proprio i valori taciti, o oscuri, che sono più re- 120

10 Capoverso frattari alla psicoanalisi, ma sono anche i più attivi» 33 dietro una imagery dominata dalle rappresentazioni del fuoco o del suo omologo biologico, il sangue. In questo senso Fuoco grande appare come un libro intensamente fisico e insieme metafisico, indagatore dei moventi oscuri della vita biologica inconscia e del loro rischiaramento attraverso lo strumento della scrittura. Ulteriore oggetto simbolico è lo specchio, il medium attraverso cui ci si riflette e si riflette su se stessi. Di fronte a esso ritroviamo Giovanni, solo e avvelenato dai sospetti, nel dubbio: «Nel grande specchio sulla mensola vidi un uomo tranquillo, un po solenne, dagli occhi immobili. L aveva mai pensato Silvia bambina che un giorno quello specchio avrebbe riflesso costui? Io ero quell uomo per Silvia. Possibile?» 34. Il personaggio, e dietro di lui Pavese, si interroga sul senso della sua vita e di quella storia; sente di essere ormai giunto a una svolta: «Forse il mio destino si era deciso quella sera, nelle caute parole scambiate intorno al tavolo, davanti a quello specchio. Era questo che avevo cercato venendo con lei. Qualcosa di irreparabile era stavolta accaduto» 35. Persino Giovanni non si sottrae ai fermenti del sangue e, invasato dal richiamo del suo fuoco grande, mentre il bambino sta morendo, tenta un approccio con Silvia: «Mi riprese il rancore un rancore umiliato che uno sciocco legame di sangue contasse più di un patimento durato tanto tempo. Fu allora che decisi di andarla a cercare» 36. La struttura duplice del testo trova il suo culmine nelle pagine centrali dei capitoli gemelli VI e VII: la stessa vicenda è percorsa prima da Silvia, che invita Giovanni ad entrare nel suo letto: «Pensavo scrive in discorso indiretto libero [ ] che era perfido essere così menomata da non potermi tenere vicino uno che gli volevo bene»; è un desiderio di intimità scevro da impulsi erotici: «Possibile gli rimprovera Silvia alla richiesta di un abbraccio che tu non abbia nient altro per la testa?», finché non si impone una deviazione sessuale e la donna torna oggetto di prevaricazione: «mi trovai col suo fiato carico addosso e tutto il suo corpo che annaspava, finché sentii sul collo un acutissimo dolore e gridai» 37. Nel cap. VII la scena è la stessa ma rovesciata di prospettiva: l ingresso nella stanza di Silvia è già segnata in Giovanni dalla frustrazione sofferta nei mesi dell assenza di lei, dalla livida e vergognosa invidia per il fanciullo morente, dal desiderio di portare a compimento l irreversibile. L irrazionale irrompe ancora sulla scena e, nella forma di un istinto del sangue, prende il sopravvento: «Nell immobilità mi sentii dentro il sangue un sussulto, una schiuma d amaro, d inutile furia. Capii che con Silvia non potevo far altro che amarla così senza un bacio che tanto era inutile, senza dirle parola, senza un gesto d amore. [ ] Allora la presi con furia. [ ] Alla fine le morsi ciecamente la gola. Volli, non so, sentirla urlare» 38. Bisognava consumare quel passaggio perché Giovanni/Pavese capisse cosa fosse Silvia per lui. Un riferimento all amore mercenario degrada e riscrive tutta la scena: «Mi vennero in mente i miei abiti a terra, e pensai ch era come al casino. Ci si svestiva, ci si rivestiva e si andava. Non durava nemmeno la notte»; eppure, mentre la donna diventa preda, un altra nota in apparenza incongrua, viene percepita da Giovanni: «Sei un mostro» sente urlare da lei, ma con «una voce di sangue, segreta», ossia impregnata di condiscendenza alla violenza: «Sei un mostro, come un altra avrebbe detto: sei l amore» 39. Attraverso l ordalia di quella notte, Giovanni trasfigura il proprio per- 121

11 Omaggio a Pavese sonaggio, che da quel momento si libera dalla passione: «Potei pensare all indomani senza Silvia» 40. Ma pure nella donna compare una seconda natura: ella apparirà, nonostante «tutta la sua spregiudicata apparenza» di donna emancipata e cittadina, in fondo «una cosa selvaggia di sangue e di sesso» 41. Sarà questa sua essenza a spingerla a riallacciare il legame incestuoso con il patrigno, dopo l episodio della fiera di Lauria (capp. X-XI), per condurla all inevitabile e catartico suicidio, progettato dagli autori per lei 42. Fuoco grande non presenterà il racconto di questo suicidio 43 : ormai Cesare e Bianca si erano detti tutto. Anzi, di fronte allo smarrimento di alcuni capitoli del libro, avvenuto poco prima di abbandonare del tutto la stesura del testo, la Garufi avvertirà Pavese: «Mi sembra un segno del destino» (Garufi, 2 luglio 1946). Il luogo dove si sarebbe dovuta consumare la morte di Silvia è la rupe incombente sul paese e sul mare, visitata dai due protagonisti dopo la sciagura di Giustino. Nella polarità topologica della narrazione, se la casa del peccato (nome che emerge dalle mappe preparatorie) rappresenta il chiuso centro dell oppressione e degli oppressori, il luogo della prigionia, delle mura atte a nascondere agli sguardi estranei, il secondo fuoco dell ellittico orizzonte del racconto, la roccia pendente sul mare, costituisce invece il luogo della libertà, del volo, del cielo, del falco e dei volatili marini rappresentati metonimicamente dalle piume raccolte da Silvia quando era bambina. Allo stesso tempo, però, la libertà promessa dalla rupe è anche tensione verso l annullamento, cupio dissolvi: «Quando fui disperata, diventò un ossessione il desiderio di buttarmi a capofitto, fare un salto da qui, giù sul pendio, purché dopo non ci fosse più niente, pur di non ricordare» 44. In conclusione, l unica possibile libertà dal proprio passato di dolore, da un presente che il fuoco grande aveva ripreso a divorare e da un futuro di inenarrabile perdizione, potrà essere offerta a Silvia solo dalla morte; allo stesso modo, per i due autori la libertà da un rapporto non più sostenibile potrà essere offerto solo dalla scelta di far calare il silenzio su quella esperienza comune di vita e di scrittura. Foschi presagi, entrambi, di quel rifiuto di continuare a vivere di parole, di quel tragico e definitivo gesto compiuto da Pavese di lì a pochi anni. Note 1 Si può seguire questo complicato rapporto, ed insieme entrare nell officina della stesura del romanzo, leggendo l edizione integrale dell epistolario, grazie al meritorio volume M. Masoero, (a cura di), Una bellissima coppia discorde. Il carteggio tra Cesare Pavese e Bianca Garufi ( ), Olschki, Firenze 2011; da qui sono tratte le citazioni delle lettere, indicate nel saggio e nelle note con mittente e data. 2 C. Pavese - B. Garufi, Fuoco Grande, a cura di M. Masoero, Einaudi, Torino 2003; nelle successive note, tutte le citazioni del testo, indicate con il numero del capitolo e della pagina, si considerino tratte da questo volume. 3 Dedicato al paesaggio culturale di Maratea delineato dal testo è l articolo di F. De Napoli, Ambientato a Maratea. Fuoco grande, il romanzo a quattro mani di Cesare Pavese e Bianca Garufi, in «Appennino. Semestrale di letteratura e arte», n. 2, a. 2015, pp , disponibile anche al link: 4 Questa la tesi del saggio di F. Medaglia, Fuoco grande di Pavese e Garufi, in «Oblio. Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca», a. IV, n. 16, inverno 2014, pp ; il numero della rivista è on line: 5 C. Pavese - B. Garufi, op. cit., I, p I, p II, p

12 Capoverso 8 Ibidem. 9 II, p. 13; la figura della madre nel racconto resterà definita su due assi: quello dello sguardo, la madre dagli «occhi di pietra» e quello del bestiario, la madre-ragno: «Mia madre si preparava, preparava una rete e si acquattava» (VI, pp. 30 e 31). 10 II, p II, p II, p Ibidem. 14 II, p III, p III, p IV, p VI. p V, p V, p V. p V. p VI, p F. De Napoli, op. cit., p C. Pavese - B. Garufi, op. cit., VI, p I, pp. 10 e VI, p II, p VI, p G. Bachelard, L intuizione dell istante. La psicoanalisi del fuoco, Edizioni Dedalo, Bari 1973, 1993 (ed. orig. Gallimard, Parigi 1967). 31 Ivi, p Ivi, p Ivi, p C. Pavese - B. Garufi, op. cit., VII, p VII, pp VII, p VI, pp , passim. 38 VII, p Ibidem. 40 VI, p VIII, p La conclusione è anticipata da un ellittica prolessi: «La cosa atroce che poi fece» (IX, p. 48), dopo la precisazione che Silvia «l avesse ripresa il suo passato», ossia il desiderio di abbandonarsi nuovamente a una relazione con il patrigno. 43 In realtà Bianca Garufi continuerà da sola la narrazione, nel romanzo Il fossile, Einaudi, Torino 1962: «Ho la tentazione di buttarti alle ortiche e di continuare il romanzo da sola» (Garufi, 12 luglio 1946). 44 C. Pavese - B. Garufi, op. cit., VIII, p

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