di Repubblica Alla base dei miei progetti c è sempre un idea catturata in uno schizzo a pennarello

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1 Domenica La DOMENICA 14 GENNAIO 2007 di Repubblica il fatto Nell Italia degli angeli-carnefici GIORGIO BOCCA e PINO CORRIAS la memoria Walesa: i polacchi e gli anni di marmo ANDREA TARQUINI I TACCUINI DELL ARCHITETTO Alla base dei miei progetti c è sempre un idea catturata in uno schizzo a pennarello Renzo Piano si racconta e spiega come uno scarabocchio si trasforma in un capolavoro WANDA VALLI GENOVA I pizzini dell architetto sono appunti scritti quasi sempre con il pennarello verde - «Non so perché l ho scelto, verde come speranza? Comunque adesso è il mio colore» -, appunti su un foglio di carta bianca ripiegato quattro volte, a creare otto piccole pagine di un libro della mente, che sta immaginando una nuova opera. L architetto è Renzo Piano, architetto del mondo ormai, per le opere, per il suo viaggiar costruendo. Ma, anche, per la scelta di vivere tra Parigi e Vesima, una collina a due passi da Genova, che ha trasformato nel RPBW, Renzo Piano Building Workshop. Architetto del mondo senza rinnegare, né mai lo ha fatto, le sue radici: il mare, la terra aspra di Liguria, il legame con il padre costruttore. E l idea dell architettura che cambia per ogni opera, ogni progetto, e si evolve rispettando l etica di una professione che unisce curiosità a riflessione, razionalità e ideali. Renzo Piano è appena tornato dagli Stati Uniti e adesso è a Vesima, davanti al mare che si intravede laggiù in fondo, in mezzo agli ulivi e ai pini marittimi, in quelle che erano fasce di terra e lui ha trasformato in uffici con un tetto a scesa in legno e vetro che accompagna i diversi livelli. (segue nelle pagine successive) CURZIO MALTESE Gli architetti, come i registi di cinema, si dividono in due categorie, quelli che camminano guardando per terra, immersi nei loro pensieri, e gli altri che camminano a testa alta, osservando intorno. Renzo Piano, come Federico Fellini, è uno che passeggia a testa alta, osserva e prende appunti, ritrae, schizza, disegna di continuo, dove e come è possibile. L ho visto uscire da un ristorante parigino con un tovagliolo nella tasca dove aveva disegnato una struttura col suo pennarello verde, lasciando con rimpianto sulla tavola un modellino fatto con gli stuzzicadenti, difficile da trasportare. A frequentarlo un po, si capisce che i suoi processi creativi partono sempre dall osservazione della vita quotidiana. Un giorno a Genova, durante un intervista da testimone dell 11 settembre (Piano era a New York il fatidico giorno), ho assistito forse alla nascita di un progetto. Gli avevo appena magnificato il piacere di salire nell ascensore trasparente che porta al suo studio, una specie di volo con vista sul golfo, paragonato all angoscia d infilarsi nell ascensore di un grattacielo. «È vero, bisognerebbe costruire grattacieli che non siano fortezze, ma leggeri, trasparenti, che si arrendono al cielo invece di sfidarlo». (segue nella pagine successive) l immagine L attimo fuggente di Cartier-Bresson PAOLO GARIMBERTI e MICHELE SMARGIASSI cultura Il foglio bianco di Orhan Pamuk MARCO ANSALDO la lettura Uno scrittore al Mondiale di poker MARTIN AMIS le tendenze L intramontabile Stile Audrey LAURA LAURENZI

2 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 GENNAIO 2007 la copertina Idee disegnate Storia del Centro Paul Klee di Berna, un museo che raccoglie le opere del grande pittore della Bauhaus e che è anche auditorium e luogo dove lasciar sfogare la creatività dei bambini. Dalla prima telefonata ai primi appunti grafici, fitti di linee curve ispirate dall artista e dal paesaggio dove è poi sorto l edificio, inaugurato due anni fa L onda della creazione firmata Renzo Piano WANDA VALLI (segue dalla copertina) L architetto esce da una riunione e chiede: «Allora, volete sapere la true story, così dicono negli Stati Uniti, volete sapere come nasce un progetto?». E, camminando, dice che sì, si può raccontare, magari la storia di un opera che mette insieme arte e musica, architettura e amicizia. La storia del Zentrum Paul Klee di Berna, in Svizzera, inaugurato nel 2005, a giugno. Un museo a più funzioni, perché è anche auditorium per la musica e luogo dove «lasciar sfogare la creatività dei bambini». Il Zentrum raccoglie nel suo cuore circa seimila opere di un artista tra i più prolifici: Paul Klee che vive tutta l esperienza della Bauhaus, Paul Klee che Renzo Piano ama molto. Tanto che, spiega mentre sposta sul tavolo foto e fogli, ha scelto un Klee per lo stendardo della sua barca a vela, anche quella progettata da lui. Sale a un altro livello del workshop, va a prendere la cartellina che contiene i suoi schizzi in verde, appunti della mente, che nascono così, per caso. E ricorda. La vera storia del Paul Klee Zentrum incomincia con una telefonata, quasi dieci anni fa. «Mi chiamano Maurizio e Marilisa Pollini, amici da tanto tempo. Mi dicono: Devi proprio fare tu questo progetto del museo di Paul Klee a Berna. E io, subito, come sempre, rispondo no, non posso, ho troppo da fare. Loro insistono, e poi c è un fatto umano, perché Maurizio era stato curato alla spina dorsale, dopo un brutto incidente d auto, dal professor Maurice Müller, che è l inventore delle protesi, come quelle per il femore, che consentono di ridurre i tempi di recupero dopo un intervento. Bene. Il professore è di Berna, è stato il finanziatore principale del centro insieme con la città e con il cantone, è amico dei Pollini. Se deve essere una vera storia, spieghiamo anche questo e il legame tra Pollini e Müller. La telefonata è del 1997, forse del 1998, i primi schizzi sono del 1999: questo è del 4 febbraio». I pizzini hanno commenti a margine, che decifra solo Piano, Sono fitti di linee curve, di domande che Piano si pone: «Passerella?», «tetto?». Si trasformano con i giorni, puntualmente annotati. Qualche mese dopo aver accettato l invito dei Pollini è Renzo Piano a chiamare uno dei suoi partner. «Sono una decina, lavorano con me da tantissimi anni»: questo è Bernard Plattner, svizzero di Berna. Renzo Piano propone un sopralluogo: «Avevamo appena finito un lavoro a Basilea, a un ora da lì. Gli dico dai, andiamo a vedere. Arriviamo a Berna, e che cosa troviamo?». Piano mostra una foto con campi di grano che formano un semicerchio, accompagnati dall erba: «Ecco cosa troviamo e davvero ti viene un accidenti, perché in quell area c era già tutto Klee». L artista svizzero è stato «una costante di lunghe discussioni con un carissimo amico che non c è più, Luciano Berio. Facemmo perfino una mostra sull opera di Klee, all Auditorium di Roma, Risonanze, per sottolineare i legami tra musica e pittura». E sul tema musicale «esistono più elementi di non casuale convergenza», annota Piano: c è Pollini e Berio, c è Pierre Boulez che ha scritto un trattato su Klee e «con lui mille volte se n è parlato», c è Paul Klee stesso, «che insegnava alla Bauhaus quattro cose, pittura, grafica, letteratura e musica. Morì L architetto è un maestro di avventura Ogni storia è una sfida a sé, basta stare fermo un attimo e vengono le idee a Berna nel 1940, ha sempre confessato di non sapere se si sentiva più musicista o pittore. Klee mi è sempre appartenuto, perché è ai confini tra l astratto, l ispirazione della natura, la musica, la grafica, mi affascina come artista che ondula di continuo». Saranno proprio colline a onde, in metallo, a segnare il percorso del Zentrum. Del resto, sostiene Renzo Piano, «non è vero che i posti non parlano, bisogna saper capire e ascoltare. Per esempio qui accanto lo indica in una foto c è il cimitero di Klee. Un piccolo dettaglio ma importante, come altri. C è l albero di Schöngrün, dipinto da Klee, c è un insieme di elementi che ha fatto nascere la serendipity», la magia inspiegabile per cui le cose si incontrano, diventano armoniose fra loro: i campi di grano, i colori, il paesaggio. Per tornare ai progetti, questo nasce «guardando il posto, parlando con Pollini, pensando all opera di Klee». Ma prima, prima di individuare l essenza di qualsiasi opera, l architetto chiarisce: «Si ha bisogno di metabolizzare, di pensare. Così ho riscoperto Klee, come viveva. Si svegliava, leggeva il giornale, faceva musica, la moglie dava lezioni di piano. Molte sue opere sono delicatissime da conservare perché, se non trovava una tela, buttava della cementite sul giornale per creare il fondo e dipingeva, a olio. Dipingeva ogni giorno, in sostanza ha lasciato circa undicimila pezzi, a Berna, nel museo, le sue opere sono seimila, una sezione si chiama Nulla dies sine linea e lì abbiamo m e s s o quello che ha prodotto Klee in un anno, giorno dopo giorno, per 365 giorni». Renzo Piano mostra le colline a onde, i confini del Zentrum che, dall alto, assottigliandosi alle due estremità, sembrano sfiorare, toccare, l albero di Schöngrün e il piccolo cimitero. Del resto l architettura secondo Piano è solo la parte visibile di un iceberg, «è il chiedersi qual è la sua poetica, di Klee in questo caso, e quale è la tua, di architetto», è un lavorare che è del curioso, e poi il prendersi del tempo perché «un artista deve guardare nel buio», come diceva Marguerite Yourcenar, e quindi ansia. E attesa. «Bisogna accettarla, la sfida dell attesa, il momento di lentezza che si collega con la concentrazione». L architetto si accalora, muove le lunghe mani, ragiona ad alta voce. «Quello che rende forte e valido un progetto può essere un terreno, il clima, le esigenze organizzative, come l architettura è insieme spirituale e materialista». E mostra un immagine dell interno del Centro, lo spazio espositivo, segnato SCHIZZI In alto, un ritratto di Renzo Piano e alcuni suoi schizzi sul famoso foglio piegato in otto COME COLLINE A centro pagina, un disegno preparatorio di Renzo Piano per il Zentrum Paul Klee di Berna e, più sotto, l opera realizzata In copertina, un altra delle idee grafiche dell architetto per il Zentrum tracciata sulla carta d imbarco di un volo aereo

3 DOMENICA 14 GENNAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 I percorsi progettuali dell autore del Centre Pompidou Quel grattacielo di formaggio nato al tavolo di una trattoria CURZIO MALTESE (segue dalla copertina) I ntanto disegnava una torre con la cima persa nelle nuvole. Molti mesi più tardi ho rivisto la bella copia dello schizzo nei progetti per la nuova sede del New York Times, che sarà la prima torre a sorgere nella Manhattan del dopo 11 settembre. Fra i molti episodi di seconda mano, il più divertente è capitato a Beppe Grillo, amico di Piano da lunga data. Una sera al ristorante Beppe ha notato che Piano s incuriosiva per la forma di una scheggia di parmigiano, al punto da copiarla su uno dei suoi fogli d appunti. Mesi dopo Piano ha presentato a Londra, con il sindaco Ken Livingstone, il progetto della nuova sede delle Poste inglesi, la più alta torre d Europa, oltre trecento metri. «Era la stessa forma», giura Grillo e aggiunge: «È andato a vendere agli inglesi un pezzo di grana formato montagna. È davvero un genio». Piano stesso racconta di aver trovato l ispirazione per il Centre Pompidou al Beaubourg guardando uno dei tanti B-movies di fantascienza degli anni Settanta: «L idea era di far atterrare un astronave nel cuore di Parigi». L allegria dell architettura di Piano riflette l atmosfera delle sue due botteghe, gli studi di Genova e quelli di rue des Archives a Parigi, nel Marais. Ho veduto pochi luoghi di lavoro così felici, luminosi e variamente frequentati. Giovani stagisti di mezzo mondo che discutono con mostri sacri dell architettura o dell ingegneria, ricchi uomini d affari che s incrociano con falegnami. Piccole agorà dove sono state concepite le grandi piazze di Potsdamerplatz a Berlino o l anfiteatro dell Auditorium di Roma o l enorme crocevia mondiale dell aeroporto di Osaka, tutte opere che in fondo ricreano su scala gigante lo stesso clima di socialità, urbanità, scambio. L armonia, diceva Filolao, nasce soltanto dall incontro fra i diversi. Questo è il tipo d armonia che percorre l opera di Renzo Piano. da quinte alte, eleganti, lisce, bianche. Piano le ha volute «appena sollevate da terra, come in un gioco di lievitazione», ancorate con fili d acciaio al soffitto. Mentre la sala musicale, rossa, con molti accorgimenti tecnici, è un omaggio a Klee e a Marta Müller, che è pianista. Perché «il cliente non è colui che ci mette i soldi, è chi ci mette l anima e te la chiede, e un edificio è sempre un po il ritratto del cliente. Nel centro volevo realizzare spazi per scopi diversi, che poi si sono riuniti, connessi», grazie alle onde. Renzo Piano rimarca, con un velo di ironia, ma senza citare altri: «L architetto è un maestro di avventura, non può ridurre tutto a un unica cifra stilistica, ogni storia è una sfida a sé, basta stare fermo un attimo e vengono le idee». Nei progetti l architetto diventa un po poeta, artista, costruttore, sociologo, «dimensioni che si intrecciano, si agganciano fortemente alla tecnica, ma con uno struggimento sulla sorte della Terra proprio di chi pensa che il mondo si può cambiare. Se dovessimo pensare alle ore di un orologio, direi che alle nove sono poeta, alle dieci divento costruttore, è il momento del lasciar sedimentare le cose, e alle undici ritrovo l utopia. Altrimenti l architettura è accademia. È vuota». Ma l idea, il cuore di un progetto, nasce di colpo, o che cosa accade? Piano: «Giro sempre con un foglio di carta bianca ripiegato in tasca. E qui segno le domande che mi camminan o i n testa, le idee. Il nucleo di un progetto? Sì, mi viene subito e poi non sopporto le versioni alternative, quelle tecniche. Le versioni sono le mie, le valuto e poi le sbatto via, e le troviamo anche qui, nei fogli». C è un flashback sui suoi inizi, negli anni Sessanta a Milano, nello studio di Franco Albini. Gli è servito per spiegare l anima e l etica dell architettura, in una lezione agli studenti della Columbia University dove è docente: «Tutti ricordano il 68 di Parigi, ma noi studenti al Politecnico occupavamo già nel Di giorno lavoravo con Albini e di notte occupavo. E se da giovane sei allenato a scoprire le città, ad ascoltare la gente, a trovare nuovi materiali nell idea, che ti incalza, di cambiare il mondo, perché arrivato a 68 anni devi fare una scemenza in nome del tuo stile?». A lui non è successo, tanto meno con il Paul Klee Zentrum. Ricorda il giorno dell inaugurazione, il 20 giugno del 2005: «Ero lì e parlavo con un giornalista del New York Times. A un certo punto mi ha detto: È un opera da 60 milioni di dollari, il costo della missione giornaliera di un bombardiere americano in Iraq. Il costo di un giorno di bombe scaricate a valanga, incredibile a pensarci. E io l ho raccontato a Beppe Grillo, un altro mio amico, che l ha voluto sul suo blog». Torna ancora alla vera storia di un progetto, al ruolo di chi lo immagina, lo fa crescere dentro di sé, lo sviluppa, lo realizza: «Devi andare a fondo, chiederti sempre: Sei proprio sicuro?. È la domanda per ogni medico, politico, per ogni architetto che deve contare su una sublime testardaggine e un minimo di umiltà. Le cose bisogna capirle e se non hai la testardaggine che un po è tua e un po te la insegnano, non raggiungi il cuore». Si arriva al cantiere di Berna: «Dopo l idea, la scansione interna dei luoghi segnati dalle ondulazioni che li coprono e li collegano, abbiamo eseguito il progetto. Ma, per mia regola, non vado avanti se prima non sto in cantiere. Devi vedere i luoghi, e io sarò stato là cinquanta volte, devi tornare per capire». Il cantiere di Berna ha un significato particolare per il Renzo Piano privato: nel 1999 è arrivato Giorgio, l ultimo dei suoi quattro figli, e lui divide cantieri e opere selezionando nella mente i vari momenti della vita, dell età dei suoi ragazzi: «Così ci sono i Carlini, da Carlo; i Matteini, da Matteo; le Lie da Lia; e i Giorgini da Giorgio». Quello di Paul Klee è un cantiere Giorgino, naturalmente. E quando le immagini dei cantieri e delle opere si accumulano nella mente, «la memoria assomiglia a una palla di neve: da piccola diventa enorme». Perché le onde per quel tetto del Zentrum? «Intanto dentro c è una caffetteria e poi la sala musica, l esposizione permanente di Klee, il centro studi. In qualche maniera devi dare luogo a attività connesse ma distinte, compreso lo spazio per i bambini che è un kindergarten, è un luogo dove si lascia fluire la creatività che è in ogni bambino, basta non reprimerla ma incorag- giar- la, un luogo importante soprattutto in un opera dedicata a Paul Klee». È un tema delicato, annota Renzo Piano, perché l innocenza di Klee viene spesso intesa come ingenuità: «Tornando ai bambini, nel Centro hanno tutti gli strumenti per divertirsi, per passare dalla musica alla scultura, alla pittura. Giorgino impazzisce ogni volta che è lì, lo dico per far capire che quel posto ha un anima profonda, che si rifà alla dimensione scientifica, educativa di Klee». Gli torna in mente il padre: «Mi lasciava leggere di tutto, anche il quotidiano, era un modo per accedere al mondo. E la domenica, di mattina, andavamo in porto a Genova, vedevo quella città galleggiante e sospesa sull altra e immaginavo chissà cosa. L amore per il mare è nato lì, la mia curiosità ha avuto le sue basi, le ha ancorate quando andavo a veder nascere i progetti in cantiere. Così li costruisco ancora ora, in legno. Così se mi propongono, come di recente è accaduto, di realizzare un monastero per dodici monache, la curiosità che è creatività non si spaventa, si diverte, rinvigorisce». L idea è della Fondation Le Corbusier, il monastero è per dodici sorelle clarisse capitanate, sorride Renzo Piano, «da una battagliera suor Brigitte». Ora sta lavorando. Negli Usa o a Oslo o alla Torre di Londra, sempre con lo stesso metodo: appunti, riflessione, creazione. E la stessa etica. Provare a cambiare il mondo. Magari con l elogio della leggerezza celebrato da Italo Calvino nelle Lezioni americane, il Calvino che Piano predilige. FOTO MICHEL DENANCÉ DAGLI ARCHIVI Nella fascia bassa, appunti, planimetrie, dettagli evidenziati su foglietti di carta che Renzo Piano poi conserva ordinatamente raccolti in cartelline nei suoi archivi

4 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 GENNAIO 2007 il fatto Tutte le Erba d Italia Il Paese degli angeli carnefici GIORGIO BOCCA La strage di Erba è un maledetto, irrisolvibile intreccio fra due opposti, la premeditazione e la follia. Gli assassini hanno previsto tutto ma nella strage si muovono come trascinati dalle Erinni. Lei taglia la gola a un bambino di due anni «perché strillava e mi faceva scoppiare la testa»; lui, dice il testimone superstite, «correva come un matto per colpire tutti a coltellate»: l Olindo Romano, il netturbino corpulento e dal sorriso dolce, uno che non lo avresti mai pensato. Già, ma il mistero degli uomini sta proprio qui, che per più di quarant anni uno con l aria paciosa e il sorriso dolce vive senza strappi, quasi senza emozioni lavando l automobile, andando in pizzeria, svuotando l inceneritore della ditta, e poi una sera d inverno si avventa con il coltello in mano su donne e vecchi, agile come una scimmia feroce, scatenando la sua forza sui deboli e indifesi. Ma perché? Perché facevano rumore sul soffitto, perché il bambino frignava e a lei, la moglie dell Olindo, «scoppiava la testa». Perché uccidere è la soluzione totale di tutti i problemi della vita, «una donna morta» Un maledetto nodo tra premeditazione e follia. Quei due hanno previsto tutto eppure si muovono trascinati dalle Erinni diceva lei, la Rosi, «non può più farti una querela perché l hai picchiata, non può più chiederti cinquemila euro di risarcimento. Una coltellata e non c è più, finalmente possiamo vivere bene». Quel modo che ha la vita di intrecciare due cose opposte come la premeditazione e la follia sembra impossibile ma la vita ci riesce. Hai pensato a tutto. Che alle otto di sera nel cortile non c è nessuno, sono tutti davanti al televisore per il telegiornale. Che il marito di lei, della Castagna, è via, a casa sua in Tunisia. Che hai le chiavi del portoncino, i guanti, due coltelli e un martello... Ma poi entri nella loro casa, lei si mette a urlare, il bambino piange, LA COPPIA KILLER Rosa Bazzi e Olindo Romano in carcere con l accusa di omicidio per la strage di Erba GENITORI UCCISI Pietro Maso, assassino del padre e della madre per incassare l eredità, fotografato al processo braccia e gambe si muovono per conto loro, il sangue ti spruzza contro da ogni parte, colpisci, urli, imprechi. Ho guardato Olindo quando se ne andava al carcere sull auto dei carabinieri, aveva la stessa faccia del falegname Olmo che aveva ucciso la moglie ad Alessandria, di Nadir Chiabodo che aveva ucciso con ventiquattro coltellate la villeggiante Cavallero sul greto della Dora a Entreves, dell avvelenatore di Rivoli e degli altri portati via in manette. Angeli caduti, con gli occhi bassi, svanita la loro ferocia di nuovo con facce da bambini impauriti. Salvo uno, Gaston Dominici, il calabrese signore della Grande Terre che aveva assassinato i Drummond, nobili inglesi, e anche la loro figlia undicenne con il calcio della carabina sulla testa che «sembrava di picchiare su un sacchetto di noci». Impassibile e fiero davanti ai giudici da cittadino «franc e loyal», come ripeteva di sé, ed era ancora così anni dopo nella fortezza di Marsiglia dove scontava la sua pena assieme al maresciallo Petain, l eroe di Verdun, collaboratore dei nazisti. Il tunisino Azouz scampato alla strage, interrogato da un giornalista sul razzismo dei suoi conoscenti di Erba ha risposto con una sola parola: Brianza. Per dire terra di Lega, di pregiudizi nordisti, di diffidenze etniche. Ma è far torto alla Brianza, la pedemontana è tutta così da Treviso a Cuorgné, a Saluzzo, a Alba. Un popolo di contadini è entrato rapidamente nella modernità, ne ha adottato i mezzi tecnici e i ritmi, ha tutti i numeri dei paesi più avanzati: in Brianza il primato europeo dei supermercati, degli sportelli bancari, delle scuole tecniche, degli ospedali, dei campi da golf. Dentro, una arretratezza culturale di massa che sembra risalire ai ducati longobardi, un conservatorismo di cemento armato, una estraneità totale alla grande cultura padana che con la Lega ha sbalordito e sbalordisce, come se i Manzoni, i Volta, i D Azeglio, i Cavour, gli Einaudi fossero di un altro mondo. Nei giorni delle indagini le televisioni hanno mostrato un campionario di questo popolo pedemontano di fronte agli spettri della morte degli innocenti, alle paure e alle ferocie spaventose e in gran parte immaginarie. Una terrificante ignoranza sulla religione e sulla morale, le prediche dei Castagna sul perdono, le minacce del marito di vendetta, tutto questo ravanare su luoghi comuni e millenari, queste ripetizioni ingenue presentate come saggezza popolare: «Chi lo avrebbe mai detto, sembrava un tipo alla buona, sempre pronto a scherzare. Gente riservata, in casa dopo le otto. Pensavano solo a lavare il loro camper, dei veri maniaci per la pulizia e l ordine». Fin qui ci siamo tutti, è il resto che bisogna capire: il perché della premeditazione che si salda con la follia, il perché due poveracci come i Romano, che hanno passato la vita a inventare l acqua calda le prese dell acqua per lavare l auto, quelle dell energia elettrica Un popolo contadino è entrato rapidamente nella modernità, ne ha adottato ritmi e tecniche. Ma dentro c è il vuoto culturale per ricaricare le batterie, lo stanzino per metterci la lavatrice, per quale mistero malvagio della specie questi due impazziscono per delle liti di condominio, sono pronti a far strage per un contenzioso di pianerottolo, a tagliare la gola di un bambino di due anni perché piange e frigna. La specie umana è modesta come presenza e come intelligenza, ma come superbia è senza freni e senza pudori. Questa Rosi Romano che in vita sua non è andata oltre il camper, la lavatrice, le mutande pulite per Olindo, di improvviso perché il pianto di un bambino la infastidisce, anzi la fa diventar pazza, si trasforma in un mostro, in una nemica dell umanità senza esitazioni e rimorsi. Ci sono periodi scrissi negli anni di piombo che la società è come le facciate delle grandi banche: imponenti, con immani colonne di granito pesanti decine di tonnellate, da passarci davanti con reverenza perché dietro senti che c è il controllo dei grandi poteri economici e politici. Ma un giorno la grande so-

5 DOMENICA 14 GENNAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 Se ripenso a tutti i delitti che ho visto come cronista nella mia vita, non ne trovo un altro così incomprensibile. Un grande scrittore, testimone di mezzo secolo di cronaca nera, racconta i nuovi assassini ILLUSTRAZIONE DI GIPI Da Pietro Maso a Erika e Omar, da Doretta Graneris a Carretta Il male abita nella stanza accanto P ersuasi dalla luce abituale che la vita si svolga in superficie, è più di tutto il buio che ci portiamo dentro a spaventarci. Per questo il nero della Nera ci riguarda. E spaventandoci ci attrae. Come fa lo sguardo degli investigatori quando si sofferma sulla lista dei sospetti. Perché il colpevole non è quasi mai molto distante da lì, cioè da noi. Il male sta quasi sempre in cima alle scale, tra la cucina che soffoca e l infelicità che arma i fantasmi, come ci hanno insegnato Ferdinando Carretta, che sterminò la famiglia in cambio di una nuova vita, o Luigi Chiatti che uccideva i bambini dei dintorni. O appena accanto, sul pianerottolo di una quasi convivenza dove lampeggiano l odio e i coltelli, come racconta la verità definitiva dei morti accatastati il mese scorso a Erba. Perché il delitto occasionale, efferato, gratuito, è quasi sempre una invenzione letteraria anche quando si compie davvero, come sul lungomare ventoso di Donato Bilancia che usò diciassette proiettili Lapu Paria per cancellarsi e cancellare; o nel primissimo inganno di Erika quando ai carabinieri di Novi Ligure raccontò di «due uomini armati di coltello, uno piccolo, rabbioso, l altro grosso, forse albanesi, sono salva per miracolo». Per quanto abitato da stranieri il nostro presente post moderno sgocciola sangue consanguineo. E spettri che i nostri adolescenti allevano nel perpetuo tepore di camerette collegate on line ai banconi fosforescenti del mondo, nutrendosi di stupore, di inganni, di desiderio per i corpi levigati dalla giovinezza momentaneamente eterna. E pericolosamente irritati dalle imperfezioni dello spazio domestico che la assedia. È la famiglia il luogo sociale più pericoloso, anche se la Chiesa celibe fa finta di non saperlo e i moralisti la chiamano baluardo. Trappole del disamore la riempiono di spine. Almeno dai tempi in cui, a Vercelli, Doretta Graneris, di anni diciannove, imbracciò il fucile per uccidere il padre, la madre, i fratelli e i nonni, godersi l ultimo tramonto con il fidanzato e poi confessare senza lacrime: «Volevamo sposarci. E io non volevo aspettare i soldi dell eredità». E poi Pietro Maso che di anni ne aveva «quasi venti», era elegante, lucido, geometrico come la sua Golf GTI che danzava sull asfalto PINO CORRIAS del suo paesone, Montecchia di Corsara: veneto verdeggiante, timorato, ricco, che aveva esaudito tutti i desideri dei genitori Rosa e Antonio, agricoltori felici e possidenti. Anche Pietro vuole tutto il denaro e tutto il tempo: subito. Così convince i suoi due migliori amici a una cosa da nulla «un lavoretto» come dettò a verbale, per spazzar via quello che ancora intralcia il loro furente conformismo. Così una spranga e un bloccasterzo concludono in fretta e bene il lavoro che serve. Ma invece dell eredità arriva l ergastolo e insieme una fama (con lettere d amore in carcere e Masoparty in provincia) che illumina proprio una certa Italia già raggelata dalla banalità perpetua del consumo e delle mode consumabili, povera di linguaggio, povera di sguardo e ricca di tutto il resto, cioè il quasi nulla in saldo che abita il Nord. Che poi riverbererà nel flusso perpetuo delle nuove televisioni commerciali accese a raccontarci di una festa benestante sempre in corso, gratuita, di superficie talmente illimitata da inglobare anche un po di vita vera, anzi verissima, da cui estrarre un po di spavento, tracce di dna e spot. Il sangue narrato in bianco e nero, sulla carta stampata, torna a sciogliersi nel miracolo televisivo. Con la potenza rituale e i brividi dell esorcismo collettivo che pretende dai rei confessi il pentimento e dai superstiti il perdono per chiudere in fretta la voragine. O qualche volta, involontariamente, spalancarla, come nel corto circuito proprio di Cogne dove il giallo dell infanticidio nasce senza storia, con la soluzione incorporata, e poi si complica a ritroso, di giorno in giorno, nella ridondanza televisiva delle lacrime di Annamaria Franzoni che si proclama innocente e poi addirittura incinta. Tutto narrabile in forma seriale come se davvero lo sguardo del pubblico possa penetrare la superficie del delitto, riconoscere gli indizi, pesare le emozioni, dettare la sentenza in una forma aggiornata del giudizio di dio diventato Auditel numerico. E liberandoci, con lo spettacolo del sangue altrui, dallo specchio che ci respira accanto. Nel quale pulsa il segreto che ci portiamo in perpetuo dai tempi di Eschilo e dell Antico Testamento. Come una insonnia che non ci spieghiamo, come un cattivo pensiero che ci aspetta. cietà sotto controllo, la massa cementata di reverenze e di obbedienze non tiene più, va in corto circuito come se sentisse un bisogno di salasso, di elettroshock, di sbornia. Allora basta una confusa e velleitaria protesta di estremisti, bastano degli scalzacani morsicati dalla volontà di potenza a rifare un quarantotto, a far tremare lo Stato, a farci riparare dietro porte blindate. Sono tempi di crisi, di mutamento che i giovani nel loro vitalismo non sentono, non curano, ma che terrorizzano gli anziani, i deboli, quelli con i nervi consumati da troppe paure. Per costoro una strage come quella di Erba è la conferma che il caos è dentro le nostre città, dentro le nostre case. Leggiamo ogni mattina le notizie dei giornali, guardiamo la televisione, e la fine del mondo sembra già in corso. In tutte le pacifiche campagne della Padania uomini neri da contrade selvagge rapinano, sequestrano, uccidono, cercano con malvagità e intelligenza i modi può crudeli, più fantasiosi per delinquere. E noi non resistiamo al fascino dell orrore, i nostri giornali, le nostre televisioni hanno fame inesausta di assassinii e di stupri. Finiscono tutti in galera, d accordo, ma ci sono sempre e comunque i cinque o Ho guardato Olindo che veniva portato in carcere. La stessa faccia da bambino impaurito dei killer che ho nel ricordo dieci giorni in cui l Olindo e la Rosi mettono nelle loro borse coltelli e martelli, aprono la porta dei vicini che disturbano, che fanno rumore, che piangono e frignano, e li cancellano dal mondo. E gli altri, gli utopisti e i rivoluzionari, sono già pronti a gettare altra benzina sul fuoco, pronti per infatuazioni, sogni, bricolage culturali a creare confusioni e dolori in cui crescono tutti gli Olindo e le Rosi di questo mondo. Se ritorno con la memoria a tutti i delitti che ho conosciuto come cronista nella mia vita, non ne trovo un altro così incomprensibile. La coppia dei Romano sfugge a ogni definizione umana e sociale, la loro infelicità, il loro rancore verso il mondo, che certamente ci furono, restano ineffabili. La Rosi era offesa contro Dio e gli uomini perché non poteva avere figli. L Olindo odiava gli altri e se stesso perché era grasso e pacioso e non faceva paura a nessuno. La morte degli altri, la cancellazione sanguinosa degli altri era l unico modo per vendicarsi della loro insignificanza in questo mondo dove tutti vogliono essere protagonisti e dominatori? Certo c è nella ferocia della loro uscita dalla società qualcosa di diverso dalla ferocia bestiale, dalla violenza ferina. C è l apocalisse, il ritorno al nulla del mondo senza vita. Youssef, il bimbo di due anni, era sul divano con addosso solo un pagliaccetto. Rosi lo afferra per i capelli, lo solleva un po per poterlo colpire alla gola come fosse un capretto. La notte dei tempi disumani tornava sulla Brianza. No, proprio non ricordo altri assassini così capaci di odio per le loro vittime. Anzi, con qualcosa di peggio: di ferocia senza vero odio.

6 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 GENNAIO 2007 la memoria Processi storici Leader di Solidarnosc, presidente della Polonia, Nobel per la pace. Oggi, nel suo ufficio sui tetti di Danzica, scava nei doppifondi della vicenda del vescovo-spia. E dice: Chi è senza peccato scagli la prima pietra FOTO GIANNI GIANSANTI/SYGMA/CORBIS LA MESSA DEL VESCOVO Il giovane Karol Wojtyla mentre celebra messa quando era ancora vescovo di Cracovia LA COMUNIONE DI WALESA Papa Giovanni Paolo II in Polonia nel 1987 dà l eucarestia al leader sindacale Lech Walesa Walesa e l ambiguità degli anni di marmo ANDREA TARQUINI DANZICA Ci fu chi finì in prigione e chi fu vittima della propria debolezza Ci fu chi commise errori e anche chi non ne commise perché non fece nulla Io sono ottimista: non vedo clima da caccia alle streghe comunismo qui da noi è durato mezzo secolo. Il passato «Il non è ancora passato. Ci vorranno almeno due generazioni per dimenticare, superare il passato, voltare pagina. La Polonia avrebbe bisogno di un Mosé, o di tanti Mosé, che come nella Bibbia le facciano fare una traversata del deserto, per purificarsi». Il gelido vento del nord soffia sull antica Danzica, spazza il tetto spiovente dell ultimo piano del palazzotto anseatico, qui in una viuzza che ricorda Amsterdam o Lubecca, dove Lech Walesa mi riceve. Energico, cordiale, di buon umore come sempre: non è cambiato. Elettricista dei cantieri Lenin, poi leader della rivoluzione di Solidarnosc, premio Nobel per la pace e presidente della Polonia, è sempre rimasto fedele alla sua astuta saggezza popolare da Astérix. Anche se le notizie d ultim ora, i dossier sulle spie nella Chiesa, sembrano preoccuparlo più di quanto non dia a intendere. «Il passato che ritorna non ha ancora cambiato il presente, ma ci obbliga a discutere. Il comunismo fu responsabile di molte cose terribili», confessa à baton rompu Walesa, e i suoi occhi vivaci sembrano rincorrere lontana la Memoria. «Il comunismo ci gettò nel quotidiano in molte situazioni difficili, dolorose. Ma la scelta più difficile venne non appena iniziò il dopo, all alba delle nostre speranze». Dlugi Targ, piazza del mercato grande, numero 24. Qui in un piccolo modesto attico sotto le tegole dei vecchi tetti spioventi di Danzica, Walesa ha il suo ufficio. Se ti affacci dalle finestre con lui, il panorama è suggestivo e inquietante. Dal lato della piazza splendide facciate, botteghe di lusso, la bandiera d Orange del consolato olandese che ti fa sentire altrove. Dal lato del canale scorgi lontano i cantieri e i ponti sul porto contro cui nella rivolta del 70 gli elicotteri della polizia comunista scesero in picchiata massacrando gli operai in corteo con le mitragliatrici. Walesa è sereno, memorie tristi non gli segnano gli occhi mentre sorride e narra. I ricordi corrono a decenni indietro: la rivoluzione non violenta partita da operai e fedeli piegò il regime alla trattativa, l opposizione democratica stravinse le prime elezioni libere in quello che da Berlino a Vladivostok sembrava ancora l Invincibile Impero comunista. «Lei rammenta com era allora quel mondo della paura? A me a prima vista sembra così lontano, eppure la scelta si pose già allora. C era chi di noi diceva di dimenticare e guardare avanti. E chi invece sosteneva che fare chiarezza e pulizia sarebbe stato indispensabile al futuro e a ricominciare. E oggi, diciassette anni dopo, rieccoci qui a Danzica a chiederci se sia meglio dimenticare o fare i conti. Confesso, non ho una ricetta sicura. Gli uni insistono per dimenticare, gli altri vogliono chiarezza, vogliono sapere tutto. Solo la verità, dicono, ci renderà più forti. Chi ha ragione? Non lo so, non so quale sia la via migliore, dipende». Alle pareti le foto dei suoi vertici con Giovanni Paolo II o con Bush senior ci riportano a ieri, a fianco di due splendide spade antiche della cavalleria polacca. Dal computer portatile sulla piccola scrivania dell uomo che sfidò il Cremlino un suono avverte dell arrivo di nuove su skype. L Astérix polacco è un internettiano iperattivo: è sempre in filo diretto online con gli altri Grandi o ex Grandi del mondo. Anche in rete per lui s incrociano passato e presente. Nel flusso dei ricordi, si chiede se sia meglio perdonare o no i colpevoli, come il vescovo-spia smascherato a Varsavia. «Tra due generazioni, almeno, avremo dimenticato tutto. Per me, come politico, entrambi possono aver ragione: i perdonisti e i loro avversari. Nessuna persona che abbia avuto responsabilità allora avrebbe potuto dire che un prete si piegava al comunismo. Ci furono sacerdoti vittime della repressione, che finirono in prigione o nell emarginazione. E ci fu chi cadde vittima della propria debolezza. Non si lasciarono spezzare. È difficile dare pagelle di onestà assoluta». I sacerdoti, i resistenti, gli eroi del silenzio di allora, erano minacciati dalle loro debolezze, ma anche dalla passività della maggioranza. «Ci fu chi compì errori, ma anche chi non ne commise perché non fece nulla», ammonisce Walesa. Sa, ricordo una barzelletta dei tempi bui di allora. Un vescovo è in viaggio nell auto guidata dal suo autista. Muoiono entrambi in un incidente stradale. Le due anime giungono davanti a San Pietro. L autista va subito in paradiso, il vescovo è destinato al purgatorio. Perché?, protesta indignato. E San Pietro gli risponde: Pronunciavi omelie troppo noiose, i fedeli ascoltandoti sonnecchiavano. Chi non ha peccato scagli la prima pietra. Anche nei paesi dal passato più duro, non c è nessuno che non abbia peccato. Chi era migliore, il vescovo o il semplice autista?». La pioggia spazza i tetti, il vento del nord urla a cento all ora sulla città che, dalla Seconda guerra mondiale alla Rivoluzione polacca, fu più volte, soffrendo, Luogo della Storia. Il computer di Pan Prezydent scampanella ancora: notizie sullo scontro nella Chiesa per il vescovo-spia, scambi di accuse, sospetti su tanti per il passato. «I vescovi sono divisi, come tutta la Nazione», commenta Walesa. «Stiamo affrontando un esempio educativo, da cui tutti usciranno più puliti. Conosco la nostra Chiesa da decenni, eccoli ancora una volta vivere i drammi del paese. Ma probabilmente, tra loro, vincerà chi vuole fare luce e chiarezza. Chi non vuole sempre nascondere la polvere sotto il tappeto». E poi, allora, cosa accadrà? Una guerra a colpi di dossier segreti spaccherà il paesechiave del Centro-Est dell Europa? «Sicuramente qualche altro nome verrà fuori, ma non tanti. Si dice che il dieci per cento dei sacerdoti fosse sotto la pressione della polizia segreta. Non tutti i preti, e non tutti i semplici cittadini che scelsero di collaborare, fecero davvero cose pericolose per la gente. Non accadrà nulla di grave, ma non sorprendetevi, voi amici stranieri che ci guardate oggi dilaniati da questi drammi. Dopo cinquant anni di comunismo, sarebbe una cosa sospetta se questi eventi e queste emozioni ci risparmiassero». Oggi come allora, nel gennaio 2007 come nei giorni caldi dell agosto 80, Walesa esorta a superare le paure, a scegliere l ottimismo. Eppure, pensieri li ha anche lui. «Lasciamo passare due generazioni insiste lasciamo che trascorra tanto tempo quanto il tempo che patimmo sotto il regime, e il passato passerà. Due generazioni, almeno due generazioni sottolinea. La Polonia, e con lei tutta l Europa e un po anche il mondo, avrebbe bisogno d un Mosé che ci purifichi, con quarant anni di dolorosa traversata del deserto. Tanti deserti, tanti Mosé, ecco cosa oggi gioverebbe». È anche un risveglio amaro per Walesa: quando lanciò la sfida, quando con Karol Wojtyla alle spalle e un popolo intero mobilitato volava a Roma confidando al nostro Papa la paura del peggio, non s immaginava che il passato sarebbe riemerso così. Sco-

7 DOMENICA 14 GENNAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 Ci vorranno almeno due generazioni per voltare pagina. Ci vorrebbe un Mosé che ci faccia traversare il deserto post-comunista e ci purifichi Adesso chi può dire se sia meglio dimenticare o fare i conti col passato? L INCONTRO IN CHIESA Il sacerdote polacco Jankowski (a sinistra) col prete Popielusko (al centro) e il leader di Solidarnosc dopo la messa FOTO AP PHOTO/STR LA LEGGE MARZIALE Wojciech Jaruzelski annuncia l entrata in vigore della legge marziale. È il 13 dicembre del 1981 FOTO ANSA LA BENEDIZIONE Wojtyla benedice il parlamento polacco durante la sua visita in Polonia del 1999 prendo delatori insospettati. Chi lo sa, confessa, fin dove si spingerà il nuovo clima? «Se ci mettiamo a indagare, nessuno conosce la sottile linea di confine tra giusta ricerca della verità e caccia alle streghe. Nessuno sa come andrà a finire. Ma sono ottimista, non siamo dentro un clima o su uno sfondo adatto per la caccia alle streghe, non torneremo indietro di secoli. Non basta Radio Maryja (ndr: l emittente integralista e accusata di antisemitismo) con le sue prediche. Anzi, proprio loro, prima che esplodesse il caso dell arcivescovo Wielgus, quelli di Radio Maryjaincitavano alla caccia agli agenti. Adesso che è stato scoperto come agente un prelato a loro vicino, lo difendono. Vede? I tempi cambiano veloci, in ogni momento, possiamo solo dirci keep cool». Rassicurare, tranquillizzare. Lech l operaio lo aveva imparato da Karol il Papa. «Certo, ci sono anche persone che tentano di lanciare accuse false contro di me. Ma mi guardi: sono sopravvissuto. Ho dimostrato in tribunale che nulla era vero. Che ero così pericoloso per il potere da spingerlo ad accuse false e prefabbricate. No, accuse contro noi veterani non sono importanti. Pazienza se qualche testardo non crederà mai alla mia innocenza. Non posso sfidarlo a duello!». Minimizza, si mostra sereno, come si conviene a un grande ex leader. Cela la tristezza per il pericolo che la sua Polonia, che cominciò ad abbattere il muro di Berlino, possa prendere il vizio di diffamazioni e sospetti. «Certo, non è giusto. Ma è la nostra Storia. Venne l idealismo, poi il materialismo che usò la vittoria a suo vantaggio come un arma. Che vuole, è il tempo dei demagoghi. Come sempre, quando non tutto va al meglio. Ci vuole tempo, è normale. E ogni rivoluzione divora i suoi figli, occorre capirlo. Anche qui da noi, che cominciammo per primi ad abbattere il Muro, quanti più rivoluzionari cadranno oggi come vittime, tanti più monumenti erigeranno loro in futuro». Tempi duri, per la Polonia orfana di Karol Wojtyla. Ma Walesa non cede al pessimismo. Ascolta la prossima domanda, dà un occhio al computer e risponde. «Io sono solo un fedele, lo Spirito santo illumina chi deve. Non mi abbandono a ipotesi politiche se parliamo del Papa e della fede. Andiamo avanti nell esperienza, nella virtù e nel peccato. Cadiamo e risorgiamo. Chi insegna non è Dio, si limita a insegnarci Dio». Un ora e mezza di chiacchierata è trascorsa volando, nel modesto attico sotto i tetti di Danzica spazzati dalla pioggia. Stiamo per congedarci, e Walesa con un occhiata sorridente invita ancora all ottimismo. In nome dell Europa. «Abbiamo bisogno di una solidarietà europea. Forse prove inattese, come il confronto con la Russia sull energia, ci aiuteranno. Noi polacchi abbiamo parlato da tempo del problema. Per primi, da soli. Adesso sulla questione mi sembra che tra europei ci capiamo di più. Comincia la Solidarietà europea. È importante avere tra europei opinioni differenti, proprio mentre creiamo insieme qualcosa di nuovo. L Europa cerca il suo posto, il suo programma, il suo volto. È un bene, se lo faremo discutendo. Il domani sarà migliore». Parla il vescovo di Danzica, Tadeusz Goclowski Così nacque l homo sovieticus vi racconto quel tempo buio DANZICA Anche la Chiesa polacca deve rifare i conti col passato. È l ora d una nuova riflessione. Dopo la clamorosa decisione dell episcopato, di autosottomettersi a un inchiesta, ecco il parere che abbiamo raccolto dal vescovo di Danzica, monsignor Tadeusz Goclowski. Tra i massimi esponenti liberal della gerarchia ecclesiastica, da decenni vicino agli ambienti democratici, ci ha ricevuto nella splendida residenza dell episcopato a fianco dell antica cattedrale di Oliwa. Seduti sulle maestose lignee poltrone, abbiamo ascoltato la sua analisi. Monsignore, la Polonia ha appena affrontato il caso del vescovo Wielgus, smascherato come ex informatore. Come giudica l affaire, cosa vi insegna? «Per prima cosa è necessario dire che dobbiamo difendere l uomo: è un valore fondamentale del Cristianesimo. Ma non dobbiamo difendere l uomo negando la Verità. Entrambi i valori sono importanti. Il vecchio sistema ha causato questa situazione. Sebbene siano passati diciassette anni, dobbiamo risolvere questo problema. È particolarmente difficile: l uomo che non dice la verità danneggia se stesso ma anche la Chiesa». Quanto è grande il danno per la Chiesa? «Diciassette anni dopo il comunismo, il caso è il primo non solo in Polonia ma anche nella Chiesa. Questo è molto triste, soprattutto perché è avvenuto alla fine dell anno il cui il nuovo Pontefice ha effettuato con grande successo il suo viaggio in Polonia». Ora verranno le inchieste della commissione episcopale e della commissione indipendente di storici. Ma le sembra verosimile quanto scrivono i media, che dodici o quattordici vescovi abbiano collaborato? «Non posso escluderlo. Il comunismo è durato decenni, tutto è possibile. Ma la presunta vicenda dei dodici o quattordici è una storia non certa». Non sarebbe stato meglio affrontare prima il problema anziché aspettare diciassette anni? «In Polonia noi diciamo che il polacco è saggio dopo il disastro. Diciassette anni fa ne discutemmo. Ma allora pensammo di non dover riaprire ferite: fu una scelta politica, non solo della Chiesa. Simile alla scelta della Spagna del dopo-franco. Ma senza voler difendere il franchismo, devo dire che il comunismo fu più drammatico, totalitarismo e non solo dittatura. Oggi però non capisco chi dice ancora che fu un errore dire tutto sul vescovo Wielgus. Penso che ora si debbano analizzare in tranquillità i documenti sul caso e i risultati della Commissione episcopale d inchiesta. Poi pensare a cosa fare perché un caso simile non si ripeta. La prima Il vescovo di Danzica Tadeusz Goclowski cosa fondamentale è comunicare sempre la verità per non ripetere errori». La Chiesa ha sottovalutato le capacità del sistema comunista di corrompere l uomo e di infiltrare le istituzioni indipendenti? «Conoscevamo il sistema e il suo funzionamento, ma non siamo stati coscienti delle debolezze umane. Sono convinto che ciò sia pericoloso per il futuro della Chiesa. Cose del genere possono ripetersi. Dobbiamo controllare bene l episcopato e ogni vescovo deve controllare il passato. È speranza e desiderio, non certezza». Perché? «Perché parliamo di errori umani. Ma anche di un popolo che grazie tra l altro alla Chiesa ha difeso la sua identità, ha salvato la sua cultura, ha reso possibile la nascita di Solidarnosc, cioè l inizio della fine non violenta del sistema. Le debolezze umane non hanno danneggiato questi meriti». Non le sembra che la società polacca abbia sottovalutato il comunismo e la sua capacità di corrompere? «Il popolo non ha mai sottovalutato il comunismo. Era sempre ostile a questo sistema che danneggia l uomo. Il comunismo però entrava anche nella Chiesa sfruttando le debolezze umane. Il vescovo Wielgus voleva solo continuare la sua attività di studioso, non ha capito le conseguenze delle sue azioni. Quel sistema che il popolo rifiutava fa pesare le sue conseguenze ancora oggi. È il sistema che creò l homo sovieticus, danneggiò la mentalità degli uomini. Lo riscopriamo dopo diciassette anni: è un mistero della debolezza umana». Non teme che la ricerca della verità si trasformi in caccia alle streghe? «Il recente memoriale dell Episcopato dice che i vescovi dovevano guardare a ogni realtà, affrontare in ogni caso la ricerca del passato. In medio stat virtus. Ma mentre lo diciamo, ricordiamoci della tragedia che fu la mancanza della libertà. Ricordiamo un epoca in cui la Chiesa collaborò con i movimenti di opposizione, fu l unico spazio di libertà. Anche se composta anch essa da uomini deboli». Il sistema corrompeva tutti? «Ricordo quei decenni. C erano diversi livelli della realtà: personale, economico, politico I cristiani pensarono che il sistema fosse ingiusto. Ma i fedeli e la gente reagirono in modi diversi. Alcuni rifiutarono ogni collaborazione e andarono in prigione, altri cercarono forme di coesistenza con la realtà. Il sistema corruppe gli animi, deviò i caratteri umani. Per questo il passato torna nelle sue conseguenze. È molto importante vedere il caso Wielgus sotto questa luce». Il caso è diventato così imbarazzante perché Giovanni Paolo II non c è più? «Lo dicono, ma non è vero. È un dramma causato dalla debolezza umana». (a.t.)

8 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 GENNAIO 2007 era quanto di più prezioso avesse». Per questo fu piuttosto sorpresa quando, un giorno di una decina d anni fa, gli vide staccare una per una le preziose e ormai antiche stampe in bianco e nero. Le pagine stanno andando in briciole, le spiegò con la sua notoria nonchalance. Non era carta di pregio, non era fatta per durare. Con un moto dell animo più che della mente, Martine gli gridò di fermarsi, afferrò una Leica e cominciò a fotografare le poche pagine non ancora smantellate. Due anni dopo la morte di HCB, grazie a quel provvidenziale fotosalvataggio, assieme a qualche sforzo di memoria e agli indizi (le tracce di colla, le scritte a mano) rimasti sul retro delle fotografie staccate, lo Scrapbook è finalmente rinato. Una replica mimetica, pagina per pagina, un facsimile quasi perfetto presentato pol immagine Grandi fotografi Henry Cartier-Bresson aveva incollato su un album da pochi soldi le foto che dovevano finire in una mostra al MoMA. Poi lo distrusse ma ora quello Scrapbook, fortunosamente ricostruito, è stato stampato in una replica mimetica. Che ci svela il laboratorio segreto di un caposcuola del Novecento e il punto di svolta della sua carriera FOTO ANGELO GIAMPICCOLO/SIEPHOTO L INTERVENTO In questa foto Dietro la Gare Saint-Lazare del 1932, qui pubblicata per la prima volta, Cartier-Bresson ha eliminato la palizzata del primo scatto (a sinistra) poi ha tagliato e schiarito l immagine A destra: due ritratti di donne e bambini messicani del 1934 MICHELE SMARGIASSI Il profeta dell istante decisivo era in realtà un fotografo indeciso, esitante e dubbioso. Il teorico del momento irripetibile ripeteva spesso e volentieri gli scatti che non gli piacevano, fino a ottenere il risultato intravisto nella sua mente. Il poeta della realtà «colta in flagrante delitto» era un investigatore paziente, metodico, razionale. Bisognerà correggere le interpretazioni canoniche su Henri Cartier-Bresson, quantomeno rivedere il suo mito più popolare e frusto: quello del rabdomantico, infallibile, quasi sovrumano cacciatore di attimi fuggenti. E questo per merito, più che per colpa, di un vecchio album perduto e risorto quasi per miracolo dopo sessant anni. Nelle cartolerie degli Usa, paese tradizionalista anche in fatto di cancelleria, puoi ancora comprare un quadernone identico, con la stessa grossa copertina cartonata nera, gli stessi fregi art déco impressi a leggero rilievo, i fogli di carta ruvida legati da un laccio e l etichetta che a lettere ben disegnate dice Scrapbook, quaderno di ritagli. Graziosi particolari che al giovane Henri in realtà non interessavano quando acquistò uno di quei libroni a buon mercato in un negozio di Manhattan. Era l autunno del 1946, e al non-ancora-più-famosofotografo-del-novecento serviva semplicemente un album qualunque su cui incollare alla buona un po di provini, per suggerire ai curatori del MoMA la traccia di allestimento di una mostra, la sua prima grande mostra, quella che avrebbe dovuto essere, e come vedremo per fortuna non fu, la sua prima mostra postuma. Esaurito il suo prosaico incarico, il librone andò a prender polvere per mezzo secolo su uno scaffale della casa parigina di HCB. Apparentemente sepolto e dimenticato. In realtà, come racconta la vedova Martine Franck, anche lei fotografa, «Henri borbottava dicendo che HCB, regista pignolo dell attimo fuggente L AMICO Ignacio Aguirre, artista messicano amico di Cartier- Bresson, Città del Messico E il retro della foto con l appunto dell autore che settimane fa a Parigi da Agnès Sire, direttrice della Fondazione parigina che porta il nome del grande scomparso, edito in contemporanea in Italia da Contrasto e già vincitore del prestigioso Prix Nadar. Lo si foglia con un misto di rispetto e trepidazione. Si capisce subito che non è una normale antologia dell «occhio del secolo». Anche se, volendo, si può leggerlo semplicemente come un prezioso incunabolo bressoniano. Un autoritratto dell artista da giovane, visto che le sue 346 immagini appartengono tutte al periodo degli esordi, del Cartier- Bresson ante-guerra e ante-magnum, quando la maggioranza delle sue icone più celebri erano ancora nel limbo del possibile. Il rampollo ribelle della dinastia dei Cartier-Bresson, imperatori del filo da merceria, non era ancora sicuro di voler essere un fotografo. In realtà non lo sarà mai. Nel 1932, è vero, aveva deciso di non essere più un pittore, e in un raptus piromane aveva bruciato quasi tutte le sue tele da studente di Beaux Arts, per correre a comprare una Leica in un mercatino di Marsiglia. Ma tre anni dopo era già pronto ad abbandonarla in un cassetto per buttarsi sul cinema, sognando di lavorare con Buñuel e Renoir. Nella Spagna della guerra civile andò solo con la cinepresa, pentendosene per tutta la vita dopo aver visto le foto di Capa. Di ritorno alla fotografia, nuovi pentimenti e nuovo rogo nel 1940: questa volta immolando quasi tutte le fotografie scattate in febbrili esplorazioni in Francia e viaggi tra Camerun, Costa D Avorio, Messico, Spagna; un rito funebre concluso con la simbolica sepoltura della Leica nell aia di una fattoria tra i Vosgi. Erano le sue fotografie più personali, libere da ogni progetto o dovere di committenza, ispirate solo dalla voglia di farle. Alcune copie e provini sopravvissero fortunosamente all autodafé del grande tormentato: e finiranno nell album. Ma intanto, nel 44, al crollo della Francia, il caporale HCB era stato catturato dai tedeschi e rinchiuso in uno

9 DOMENICA 14 GENNAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 FOTO HENRI CARTIER-BRESSON/MAGNUM/CONTRASTO IL LIBRO Lo Scrapbook Henri Cartier- Bresson (testi di Agnès Sire e Michel Frizot 256 pagine, 234 tavole, 537 foto, prezzo 75 euro) edito da Contrasto, è la riproduzione fedele dell album che Henri Cartier-Bresson aveva preparato in vista di una mostra al MoMA di New York nel 1946 Oggi la fondazione Cartier-Bresson lo ripropone restaurato Le foto pubblicate sono esposte nella mostra Henri Cartier-Bresson: di chi si tratta? insieme a documenti, disegni e film sul grande autore Fino al 25 marzo a Forma, Centro Internazionale di Fotografia, Milano Il ricordo di un appostamento Era un cecchino paziente fermo per ore, poi un clic PAOLO GARIMBERTI H enri Cartier-Bresson era esattamente come lo descrive Michele Smargiassi nell articolo in questa pagina. Un cacciatore paziente, capace di stare appostato per ore nella botte in attesa che passasse l anatra giusta. Non di quelli che sparano a raffica sperando che nel mucchio ci sia anche il bersaglio buono. Un cecchino, più che un cacciatore, che sceglieva prima con cura lo sfondo sul quale lavorare e poi aspettava il soggetto giusto. Mi capitò di osservarlo da vicino a Mosca, dove lavoravo come corrispondente, una trentina di anni fa. Ricevetti una telefonata che parve una scherzo. «Buongiorno, mi chiamo Henri Cartier-Bresson. Un amico comune mi ha detto che lei conosce bene questa città. Posso venire a trovarla?». Mosca, allora, per gli occidentali era un villaggio chiuso, dove tutti conoscevano tutti. Scoprii poi che l amico comune era un diplomatico francese e capii anche che aveva scelto me, e non un connazionale, per un operazione di depistaggio. Un ora dopo davanti a me sedeva un monumento del fotogiornalismo, vestito con la trasandata ricercatezza tipica di certi francesi bene: nssuna borsa e, apparentemente, nessuna macchina fotografica. Mi spiegò che stava facendo un reportage sulla vita quotidiana a Mosca, ma i suoi accompagnatori-controllori dell agenzia di stampa che prendeva in carico i giornalisti stranieri in visita gli avevano impedito di scattare tutto ciò che, secondo il loro occhio poliziesco, non era «edificante». Insomma, aveva bisogno di una guida indipendente, ma, precisò, scusandosene, anche molto paziente. Capii dopo che cosa voleva dire. Passammo insieme due giorni e, all inizio, sbagliai tutto. Lo portai al cimitero di Novodievici, uno dei luoghi più apprezzati da tutti gli amici che mi capitava di accompagnare in giro per Mosca. Mi rimproverò con bonaria ironia: «Non sono un turista, ho bisogno di gente viva, di gente vera, non di monumenti». Finalmente trovammo alcune location di suo gradimento, ovviamente le più inattese per me: un sottopasso, giardini, il marciapiedi della immensa Prospettiva Kalinin. Durante i lunghi appostamenti non diceva una parola, interminabili silenzi, lo sguardo immobile come se scrutasse l orizzonte. Poi si svegliava di colpo dall apparente letargo, due, tre clic secchi e l unica macchina, una Leica, tornava nascosta dentro il montone. «Magnifico, magnifico», diceva parlando a se stesso più che a me. Che cosa? «Ma come, non ha visto? Quella donna, sì quella donna...». E ripiombava nel silenzioso appostamento. Alla fine della prima giornata, gli dissi un po imbarazzato che avevo sempre immaginato il grande fotoreporter con un attrezzatura di almeno tre macchine, teleobiettivi, decine di rullini nella borsa da sparare all impazzata su tutti gli obiettivi possibili; non con una sola, per quanto bellissima, Leica sotto il giaccone. Mi guardò paternamente: «Mio caro amico, lei ha visto troppi film. Quella roba lì non è fotogiornalismo, è telegiornalismo». Stalag. Dal quale tentò tre volte la fuga, la terza con successo. Dettaglio ignoto a Beaumont Newhall, il curatore del MoMA di New York, tempio del modernismo mondiale, che credendolo morto sotto le grinfie dei nazi s affrettò a organizzargli una mostra commemorativa. «Diventerò celebre come foutugraphe», commentò impassibile e ironico Henri. Fu un amico fotografo, il futuro compagno d avventure Chim Seymour, ad avvisare gli americani che la notizia della morte di HCB era quantomeno esagerata. Imbarazzo, scuse, infine la signorile decisione di non annullare la mostra, anzi di invitare l autore a progettarsela da sé. Da qui il viaggio a New York, l acquisto dell album e quel che segue. Dunque, volendo, lo Scrapbook si può leggere come un bilancio di metà carriera, premessa e promessa di un secondo tempo ancora più entusiasmante. Ma c è qualcosa di più. Aleggia tra le pagine un profumo di reliquia. Non di reliquia ammuffita, ma di quelle che ancora trasmettono il tocco sacro. HCB è stato un profeta straordinariamente conciso e laconico: i suoi scritti teorici si riducono a poche pagine dense, imparate a memoria dagli adoratori, ripetute fino a farle diventare un mantra: «Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l occhio e il cuore», «Fotografare è riconoscere nello stesso instante e in una frazione di secondo un evento e l organizzazione rigorosa delle forme visivamente percepite che esprimono quell evento». Versetti di un credo ormai ammutoliti per eccesso di usura. L ARTISTA Sopra, Henri Matisse fotografato nel suo studio nel 1944 A sinistra, una serie di scatti di Cartier- Bresson all artista da cui è stata scelta la foto in alto Dietro c è il lavoro faticoso di un creatore che costringe il caso a obbedirgli non la scampagnata di un voyeur-voleur baciato dalla fortuna Ma le pagine quasi senza parole dello Scrapbook, finalmente, restituiscono al breviario bressoniano la forza di una riflessione viva, operativa, illuminando di senso i versetti di una bibbia ormai imbalsamata dall incenso dei fedeli. Ecco gli esempi che completano la teoria, ecco il laboratorio di HCB finalmente dischiuso per farci capire che, dietro alla geometria perfetta delle sue immagini, c era lavoro vero e sodo, pensiero, progetto; che il segreto di HCB non è solo il caso acchiappato al volo. Che al mito dell immagine unica, compiuta e non perfezionabile, forse neppure lui credeva fino in fondo. Di fatto, nell album di lavoro che ora torna alla luce, lo stesso soggetto è spesso presentato in due, tre, perfino cinque versioni differenti, a volte con scarti minimi tra una e l altra: come se HCB non fosse riuscito a individuare la più giusta, la più forte, la fotografia. Scavando, nella premessa al libro, dentro le inedite indecisioni del maestro, un critico di grande esperienza come Michel Frizot delicatamente sfronda il mito un po mistico del fotografo zen, dal colpo istintivo, medianico, infallibile. Di alcuni scatti celeberrimi, frugando tra i provini, fa emergere le versioni scartate, che spesso sono anche una quindicina, come nel caso del celebre muro sfondato di Siviglia. Scopriamo un metodo di lavoro che è tutto tranne che impromptu: prima viene la scelta accurata dello sfondo, il bilanciamento accurato dell inquadratura dentro le proporzioni auree del fotogramma; poi la paziente attesa, con l occhio al mirino, che gli eventi accidentali della realtà (passanti, animali) lo riempiano, come i personaggi animano una scenografia teatrale, collocandosi al punto giusto nel momento giusto. Più che cacciatore da doppietta, Henri si rivela dunque uccellatore paziente: tende la rete, attende la preda, e quando la vede posarsi, fa scattare la trappola. Una, due, dieci volte, un «istante decisivo» via l altro. Quale sarà quello decisivo davvero, lo deciderà più tardi, con calma, attraverso il confronto paziente tra i provini stampati; e l immagine memorabile sarà allora il parto sofferto di una scelta ragionata, non un regalo benedetto della sorte. Che non sempre è benigna: la conosciutissima fotografia dell omino che salta la pozzanghera dietro la Gare St. Lazare, quasi un marchio di fabbrica del bressonismo, era quasi un fallimento, per colpa di un palo invadente sulla sinistra dell inquadratura. HCB lo ritaglierà via in camera oscura, infrangendo per una volta la sua regola aurea del rispetto integrale del negativo; e anche questa, nel libro, è una piccola e salutare smitizzazione. Fu proprio al bar del MoMA, nel corso di quella mostra, che Henri e i suoi amici Capa, Seymour, Rodger e Vandivert inventarono la loro nuova avventura, un agenzia fotografica cooperativa, e la vararono con una bottiglia di champagne Magnum. Seguendo un consiglio di Capa, il «piccolo fotografo surrealista» Henri decise di diventare fotoreporter e non artista da museo. Lo Scrapbook fu insomma la boa attorno a cui la vita di HCB strambò seccamente. Per altri quarant anni girò il mondo coi suoi passetti di danza, rendendosi invisibile dietro la minuscola Leica per meglio farlo vedere agli altri. Adesso sappiamo che le sue immagini straordinarie furono il frutto del lavoro faticoso di un creatore consapevole che seppe costringere il caso a obbedirgli; non la scampagnata di un voyeur-voleur baciato dalla fortuna, come lui stesso, per desiderio di non far ombra alle proprie immagini, ha voluto farci credere. Strizzandoci l occhio, però. E lasciandoci qualche indizio, su uno scaffale polveroso, per scoprire finalmente la verità.

10 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 GENNAIO 2007 La fama, le feste, l orgoglio di essere stato il primo scrittore turco premiato dall Accademia di Svezia. Ma anche i progetti cinematografici tratti dai suoi libri, l impegno a favore degli intellettuali perseguitati nel suo Paese, l amore per l Italia. L autore di Istanbul e Il mio nome è rosso si confessa dopo il riconoscimento di Stoccolma. E parla di ciò che lo accompagna da sempre: la calma, la quiete, il bisogno di chiudersi nel suo silenzio per fare l unica cosa che conta: creare mondi letterari FOTO GETTY IMAGES MARCO ANSALDO STOCCOLMA Orhan Pamuk ha una stretta di mano spessa, da orso solitario, quale in effetti è. Magro, i passi lunghi, è piuttosto alto e non di rado piega il collo da una parte, soprattutto se qualcosa lo contraria. «Dove ci sediamo?», dice guardandosi attorno nella preziosa e affollata hall del Grand Hotel di Stoccolma. La gente gli sfila attorno senza riconoscerlo o, se lo fa, non lo disturba. Lui si proietta nella sala d aspetto del ristorante, a quest ora quasi deserto. Ma l atmosfera cupa non gli piace. «No, proviamo l altro salone». A falcate affronta il bar dove risuonano note rarefatte di musica ambient. Chiede: «C è un tavolo libero?». Il cameriere ne indica alcuni. Pamuk va fino in fondo a controllare. In tono scherzoso il ragazzo commenta: «Non siamo ancora dotati di un terrazzo» (fuori è pieno inverno, fa scuro già alle tre di pomeriggio, e piove). Lo scrittore piega la testa da una parte e lo gela col silenzio. Torna sui suoi passi. Dice all improvviso: «Perché non andiamo nella mia stanza? Lì staremo finalmente tranquilli». Ora fende il corridoio con le sue lunghe gambe. Stargli dietro non è facile. Nell ampia cabina dell ascensore stiamo tutti e due su uno stesso lato, le mani appoggiate dietro la schiena. «Davvero in Italia c è grande attenzione nei confronti degli autori turchi?», si informa. Fa domande precise. Sa già le risposte. «Yashar Kemal è tutto tradotto, sì. Ma Elif Shafak è ancora solo pubblicata in inglese, non è così?». Suite numero «Prego, entra. Entra pure. Non badare al disordine. Se vedi qualcosa che non va, chiudi gli occhi». Ci sono valigie aperte per terra, vasi di fiori freschi su una cassapanca, scatole di cioccolatini, pacchi di caramelle, due letti singoli vicini, uno sfatto, sull altro un accappatoio ancora umido. Lui sposta tutto da sopra un tavolino ingombro di cose, e dice: «Sediamoci qui». «Scrivere non è semplice spiega, le mani appoggiate sui lombi, ogni tanto lanciate in aria a cercare un immagine, a comporre visivamente un Pamuk La mia vita da Nobel riparte dal foglio bianco concetto è una fatica. Ma io l adoro. È la mia vita, e non potrei farne a meno. Però, ad esempio, anche la prolusione scritta in occasione del premio Nobel per la letteratura, è stata una bella lotta. A New York, dove mi trovavo per un periodo di lezioni alla Columbia University e dove mi avevano comunicato la notizia, mi sono spesso dovuto alzare presto al mattino per concludere il discorso, che ho poi intitolato Il baule di mio padre. Adesso la Bbc mi ha chiesto di leggerlo alla radio per diffonderlo integralmente. Quarantacinque minuti filati! Il mio inglese è buono. Ma non perfetto in tutte le parole. Insomma, ogni tanto dovevo fermarmi e ricominciare. Ci abbiamo messo due ore». Sul comodino ben illuminato accanto al letto sfatto c è una pila di libri. Una sfilza di scrittori svedesi, chiaramente delle strenne. Più volte lo scrittore turco ha accennato alle sue ascendenze letterarie, una quaterna molto precisa: Tolstoj, Dostoevskij, Mann, Proust. E di essere stato influenzato anche da due altri autori: Borges e Calvino. Ma quali testi porta con sé oggi Pamuk? «Sto leggendo l ultimo libro di Mario Vargas Llosa, ma non so se lo finirò. Poi uno di Assia Djebar. Però non leggo più come facevo a diciassette-vent anni. Quel periodo di letture onnivore e intense è finito. Ora i miei interessi sono in buona parte finalizzati al mio lavoro. Prendo libri che mi servono poi per scrivere». E quando non viaggia o legge, quanto scrive? «Abbastanza. Con Ozpetek progetta un film da Neve Ma è difficile che due perfezionistir come noi si mettano d accordo, dice il regista Diciamo otto-dieci ore al giorno quando sono a casa». Il Palazzo Pamuk tante volte descritto in Istanbul. «Ma mi piace lavorare nel mio studio, nel quartiere di Cihangir, stare seduto a tavolino». A prima vista la vita da Nobel sembra eccitante, un tourbillon di impegni, viaggi, gente nuova. Eppure l autore di Il mio nome è rosso pare possedere gli anticorpi necessari per difendersi da un overdose di entusiasmo che lievita attorno a lui, e a non perdere l orientamento. Uno stop e una riflessione gli sono necessari. Ne è perfettamente consapevole. Anzi l invoca. «Feste, inviti, richieste continue da ogni parte del mondo. Tutto questo è molto bello e fa parte del gioco. No, non sono particolarmente stanco. Ma non vedo davvero l ora di rinchiudermi nella mia stanza e stare solo. Io con il foglio bianco davanti». Pamuk non possiede un cellulare. Non l ho mai visto parlare a un telefonino. Mostra invece orgoglioso una macchina fotografica con le immagini scattate assieme alla figlia quindicenne Ruya. E chiede volentieri di fargli delle foto usando il suo nuovo apparecchio. A casa possiede un telefono-fax e le chiamate sono rigorosamente filtrate dalla segreteria. Difende la sua privacy con accanimento. Ha sempre fatto così, anche quando non era famoso. Per una questione di concentrazione e di rispetto nei confronti del proprio lavoro. Così è capace di non rispondere per niente alle chiamate, di lasciare inevase richie-

11 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 GENNAIO 2007 La fama, le feste, l orgoglio di essere stato il primo scrittore turco premiato dall Accademia di Svezia. Ma anche i progetti cinematografici tratti dai suoi libri, l impegno a favore degli intellettuali perseguitati nel suo Paese, l amore per l Italia. L autore di Istanbul e Il mio nome è rosso si confessa dopo il riconoscimento di Stoccolma. E parla di ciò che lo accompagna da sempre: la calma, la quiete, il bisogno di chiudersi nel suo silenzio per fare l unica cosa che conta: creare mondi letterari FOTO GETTY IMAGES MARCO ANSALDO STOCCOLMA Orhan Pamuk ha una stretta di mano spessa, da orso solitario, quale in effetti è. Magro, i passi lunghi, è piuttosto alto e non di rado piega il collo da una parte, soprattutto se qualcosa lo contraria. «Dove ci sediamo?», dice guardandosi attorno nella preziosa e affollata hall del Grand Hotel di Stoccolma. La gente gli sfila attorno senza riconoscerlo o, se lo fa, non lo disturba. Lui si proietta nella sala d aspetto del ristorante, a quest ora quasi deserto. Ma l atmosfera cupa non gli piace. «No, proviamo l altro salone». A falcate affronta il bar dove risuonano note rarefatte di musica ambient. Chiede: «C è un tavolo libero?». Il cameriere ne indica alcuni. Pamuk va fino in fondo a controllare. In tono scherzoso il ragazzo commenta: «Non siamo ancora dotati di un terrazzo» (fuori è pieno inverno, fa scuro già alle tre di pomeriggio, e piove). Lo scrittore piega la testa da una parte e lo gela col silenzio. Torna sui suoi passi. Dice all improvviso: «Perché non andiamo nella mia stanza? Lì staremo finalmente tranquilli». Ora fende il corridoio con le sue lunghe gambe. Stargli dietro non è facile. Nell ampia cabina dell ascensore stiamo tutti e due su uno stesso lato, le mani appoggiate dietro la schiena. «Davvero in Italia c è grande attenzione nei confronti degli autori turchi?», si informa. Fa domande precise. Sa già le risposte. «Yashar Kemal è tutto tradotto, sì. Ma Elif Shafak è ancora solo pubblicata in inglese, non è così?». Suite numero «Prego, entra. Entra pure. Non badare al disordine. Se vedi qualcosa che non va, chiudi gli occhi». Ci sono valigie aperte per terra, vasi di fiori freschi su una cassapanca, scatole di cioccolatini, pacchi di caramelle, due letti singoli vicini, uno sfatto, sull altro un accappatoio ancora umido. Lui sposta tutto da sopra un tavolino ingombro di cose, e dice: «Sediamoci qui». «Scrivere non è semplice spiega, le mani appoggiate sui lombi, ogni tanto lanciate in aria a cercare un immagine, a comporre visivamente un Pamuk La mia vita da Nobel riparte dal foglio bianco concetto è una fatica. Ma io l adoro. È la mia vita, e non potrei farne a meno. Però, ad esempio, anche la prolusione scritta in occasione del premio Nobel per la letteratura, è stata una bella lotta. A New York, dove mi trovavo per un periodo di lezioni alla Columbia University e dove mi avevano comunicato la notizia, mi sono spesso dovuto alzare presto al mattino per concludere il discorso, che ho poi intitolato Il baule di mio padre. Adesso la Bbc mi ha chiesto di leggerlo alla radio per diffonderlo integralmente. Quarantacinque minuti filati! Il mio inglese è buono. Ma non perfetto in tutte le parole. Insomma, ogni tanto dovevo fermarmi e ricominciare. Ci abbiamo messo due ore». Sul comodino ben illuminato accanto al letto sfatto c è una pila di libri. Una sfilza di scrittori svedesi, chiaramente delle strenne. Più volte lo scrittore turco ha accennato alle sue ascendenze letterarie, una quaterna molto precisa: Tolstoj, Dostoevskij, Mann, Proust. E di essere stato influenzato anche da due altri autori: Borges e Calvino. Ma quali testi porta con sé oggi Pamuk? «Sto leggendo l ultimo libro di Mario Vargas Llosa, ma non so se lo finirò. Poi uno di Assia Djebar. Però non leggo più come facevo a diciassette-vent anni. Quel periodo di letture onnivore e intense è finito. Ora i miei interessi sono in buona parte finalizzati al mio lavoro. Prendo libri che mi servono poi per scrivere». E quando non viaggia o legge, quanto scrive? «Abbastanza. Con Ozpetek progetta un film da Neve Ma è difficile che due perfezionisti come noi si mettano d accordo, dice il regista Diciamo otto-dieci ore al giorno quando sono a casa». Il Palazzo Pamuk tante volte descritto in Istanbul. «Ma mi piace lavorare nel mio studio, nel quartiere di Cihangir, stare seduto a tavolino». A prima vista la vita da Nobel sembra eccitante, un tourbillon di impegni, viaggi, gente nuova. Eppure l autore di Il mio nome è rosso pare possedere gli anticorpi necessari per difendersi da un overdose di entusiasmo che lievita attorno a lui, e a non perdere l orientamento. Uno stop e una riflessione gli sono necessari. Ne è perfettamente consapevole. Anzi l invoca. «Feste, inviti, richieste continue da ogni parte del mondo. Tutto questo è molto bello e fa parte del gioco. No, non sono particolarmente stanco. Ma non vedo davvero l ora di rinchiudermi nella mia stanza e stare solo. Io con il foglio bianco davanti». Pamuk non possiede un cellulare. Non l ho mai visto parlare a un telefonino. Mostra invece orgoglioso una macchina fotografica con le immagini scattate assieme alla figlia quindicenne Ruya. E chiede volentieri di fargli delle foto usando il suo nuovo apparecchio. A casa possiede un telefono-fax e le chiamate sono rigorosamente filtrate dalla segreteria. Difende la sua privacy con accanimento. Ha sempre fatto così, anche quando non era famoso. Per una questione di concentrazione e di rispetto nei confronti del proprio lavoro. Così è capace di non rispondere per niente alle chiamate, di lasciare inevase richie-

12 DOMENICA 14 GENNAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 IL PERSONAGGIO I MAESTRI Pamuk riconosce come maestri Tolstoj, Dostoevskij, Thomas Mann e Proust Ma confessa che lo hanno influenzato molto anche Borges e Italo Calvino IL LAVORO Mi piace lavorare nel mio studio nel quartiere Cihangir, a Istanbul Per il premio Nobel casa sua è il posto che lo ispira di più e dove lavora meglio, almeno otto-dieci ore al giorno LA PRIVACY Pamuk non ha il cellulare, usa la posta elettronica perché più silenziosa e meno invadente, rifiuta ogni incontro o colloquio che possa distoglierlo dal suo lavoro LA STAMPA Lo scrittore ha studiato anche giornalismo, ma non ha mai praticato la professione. Però ha diretto per un giorno un quotidiano turco denunciando la censura del governo LIBRI Nella foto dell altra pagina, lo scrittore in posa rilassata nel suo studio Qui sopra, tre copertine dei suoi libri: Il mio nome è Rosso, Neve e Istanbul tutti editi in Italia da Einaudi Beh, sono piazzato in alto, sorride leggendo la classifica dei libri più venduti da noi Allora è vero che mi volete bene ste espresse ora quasi in ginocchio dalla stampa internazionale, e di rifiutare ogni pretesa di colloquio in grado di distoglierlo dal progetto che ha in mente. Sembra arroganza. Con il tempo ho capito che non solo è una difesa necessaria, ma un suo convincimento, molto fermo. Pamuk usa invece volentieri la posta elettronica, silenziosa, poco invadente. Perché a dispetto dei suoi libri, così pieni di sensibilità, è un uomo determinato, capace di dire svariati no durante la giornata. «Adesso me ne starò in silenzio per un po aggiunge preferisco ritirarmi, pensare al mio lavoro. Profilo basso». L ultima iniziativa pubblica rimarrà quella di aver firmato il quotidiano Radikal come direttore per un giorno. Con accuse però da levare la pelle a establishment e stampa, visto come ha rispolverato, seppellendole di critiche, le antiche pagine dei giornali turchi colme di ingiurie verso intellettuali e artisti. In primis al poeta Nazim Hikmet, costretto nel 1963 a morire in esilio in Russia. L articolo scritto a sua difesa postuma e a scudo dei tanti scrittori sotto tiro, come Pamuk stesso continua nonostante tutto a essere lo ha intitolato Possono sputarti in faccia quanto vogliono. La stampa lo intriga. Il mestiere gli piace. «In passato ho studiato architettura e giornalismo. Ho persino un diploma. Ma è una professione che non ho mai esercitato. Leggo i giornali turchi, ovviamente. Ma sono molto attento al New York Times e alla sua Il museo dell innocenza è il titolo provvisorio del nuovo romanzo Se ce la faccio vorrei terminarlo a dicembre RITRATTO Sopra, Orhan Pamuk in un disegno di Tullio Pericoli versione europea, l International Herald Tribune, anche se non capisco esattamente che posizione hanno su di me. Seguo il New Yorker, la Review of Books e il Times Literary Supplement». Si ferma di colpo. «E questi cosa sono?». Si getta sul fascio di giornali che ho appoggiato sul tavolo, prima colmo di cioccolato. Li spulcia uno per uno. Ne compulsa in fretta alcuni. Apre il settimanale illustrato della Süddeutsche Zeitung, lo sfoglia. Vede Repubblica e si fionda sulle pagine della cultura trovando in meno di un secondo, con la consuetudine consumata di un lettore abituale, la rubrica delle classifiche. I suoi libri sono in testa. Istanbul è primo. «Beh, sono piazzato bene dice sorridendo con orgoglio e gli altri testi stanno salendo. Allora è vero che in Italia mi vogliono bene», commenta chiudendo il giornale soddisfatto. Poi, per scrivere una dedica personalizzata, prende una penna delle sue e si getta di traverso sul letto da rifare. I progetti sono tanti. C era, solo abbozzata, la possibilità di trarre un film da Neve, il bellissimo libro sulla città di Kars, dove nel romanzo giovani ragazze si tolgono la vita perché viene loro impedito di portare il velo all università, scontro emblematico fra laicità e Islam nella Turchia di oggi. E a Istanbul Pamuk è andato di recente a cena con il regista Ferzan Ozpetek. Ne hanno parlato: il soggetto sembra perfetto per una trasposizione cinematografica. Ma il piano è rimasto per ora soltanto un idea. Difficile che due primedonne, «due perfezionisti rompicoglioni come siamo entrambi», come ha tradotto con affetto Ozpetek, riescano ad accordarsi su un tema così forte senza prima o poi sbranarsi a vicenda. C è inoltre da finire Il museo dell innocenza. «È il titolo provvisorio del mio nuovo libro dice Pamuk se ce la faccio vorrei terminarlo a dicembre». Ma, prima, Einaudi che ha ormai ripubblicato il suo intero catalogo fin dal testo d esordio farà uscire a maggio Il libro nero, l opera del 1990 giudicata dal comitato del Nobel come «un capolavoro» e ora quasi pronta nella nuova versione della sua traduttrice di fiducia, Semsa Gezgin. A fine anno sarà invece la volta di Altri colori, una serie di saggi brevi, articoli, pezzi sparsi pubblicati su riviste e giornali. «Qualcosa di simile era uscito in lingua tedesca, sotto il titolo di Der Blick aus meinem Fenster (Lo sguardo dalla mia finestra). Ma nel progetto italiano ci saranno cose diverse, più recenti. A giugno verrò in Italia. Non so più per quale motivo, francamente non me lo ricordo. In questo periodo sono così preso, ma comunque sono molto contento. Come un bambino. Pamuk è il primo turco a vincere un Nobel. «È vero, questo è un premio importante anche per la Turchia, ne sono perfettamente conscio». Alla cerimonia di premiazione, a Stoccolma, c erano decine di editori e giornalisti venuti da Istanbul, emozionati e orgogliosi per questo loro connazionale spesso criticato in patria, eppure capace di rompere, anche all estero, un muro di diffidenza nei confronti di un paese vicino ma misterioso. «Pamuk per Istanbul è come Joyce per Dublino recitava la motivazione ufficiale come Dostojevskij per San Pietroburgo, Proust per Parigi. Ha fatto della sua città natale un territorio letterario indispensabile. Un posto dove lettori di ogni parte del mondo possano vivere un altra vita, credibile quanto la loro, riempita da un sentimento alieno che riescono a riconoscere immediatamente come proprio». Suona il telefono nella stanza di Pamuk, che continua rapito a sfogliare i giornali. Uno, due, tre squilli. E nessuno che vada a rispondere. Repubblica Nazionale

13 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 GENNAIO 2007 la lettura Un viaggio a Las Vegas con un solo obiettivo: il braccialetto da campione e i venti milioni di premio delle World Series. Per lasciarsi alle spalle il giocatore eterno sconfitto. Senza farsi travolgere dalla Città del peccato La volta che il poker non mi cambiò la vita MARTIN AMIS LAS VEGAS Siete avvisati, ho mormorato mentre sbarcavo dall aereo all aeroporto McCarran, non pensiate che sia venuto qui a fare tappezzeria. Non sono più uno di quelli che fanno capire il loro gioco, vanno nel pallone, rilanciano a casaccio, non rilanciano quando dovrebbero, vanno a vedere anche mani senza speranza, cambiano le carte quando ci sarebbe da passare la mano, tentano scale impossibili e tutte quelle stronzate da eterno sconfitto: no, il mio gioco è passato a un livello superiore. Ho letto di recente decine di manuali aneddotici scritti o dettati da stelle e maestri del tavolo verde, e ora padroneggio, almeno in teoria, la tecnica del cambio di marcia. Questa era la mia strategia per le World Series: partire tiratissimo, attillatissimo, senza puntare alto e rilanciare neanche quando ho in mano carte eccellenti; poi scatenarmi, fare l inferno, rilanci, bluff e sbruffonate; e poi di nuovo tirato, e via di questo passo. Non ero venuto a Las Vegas solo per arrivare fino al tavolo finale e tornarmene a casa con cinquecento pidocchiosi pezzi da mille. Ero venuto per i dieci milioni (che uno sponsor riconoscente avrebbe poi raddoppiato). Ero qui per il braccialetto da campione. Stavo andando all Amazon Room per l enchilada totale, come dicono da queste parti. Fra poco vi racconto di quella mano persa con quattro assi in mano. Ma prima qualche riflessione sul pianeta Vegas. Se per qualche ragione foste costretti a limitarvi a un solo aggettivo per descrivere Las Vegas, vi dovreste accontentare di questo: non islamica. Las Vegas è incredibilmente non islamica. All aeroporto della Città del Peccato, quando mi sono accomodato in uno di quei frigoriferi a motore che da queste parti chiamano taxi, mi hanno chiesto se volevo «un po di musica». Ho risposto di no, sapendo che un po di musica l avrei trovata dovunque andavo, che la volessi o no. E questo è dir poco. Le urla dai tavoli dove si gioca a dadi (tutto uno «yeah!», «ow!» «yesss!»), il variegato trillare dei cellulari («che mi dici, bello?») e il delirio di stupidissime musichette delle slot machine, orribilmente prolungato, gradevole all orecchio come un antifurto per auto che si è impallato, e poi la cataratta di monete che precipitano nella vaschetta acusticamente amplificata. E un po di musica. Osama bin Laden ci informa che la musica è il flauto del demonio. Deplora anche qualsiasi rappresentazione della forma umana. Las Vegas non è il tipo di città che fa per bin Laden. Scollature e posteriori lucidi adornano i cartelloni pubblicitari lungo la strada che reclamizzano strip-club, locali di lapdance, topless bar e spettacoli di nudo integrale (ma divieto di alcolici). Al raffinato Bellagio, dove mi sono accampato, non ci sono ragazze seminude che ballano nei casinò, ma finanche l ultima delle cameriere sfoggia un décolleté vertiginoso. Al Rio, dove si svolgono le World Series, invece, le ragazze seminude fanno parte dell arredamento; e, come se non bastasse, a intervalli regolari scende dal soffitto una specie di ferrovia con una ricostruzione del Carnevale di Rio, con tanto di carri, bande di ottoni e ragazze seminude. La prostituzione è illegale e onnipresente al tempo stesso nella Clark County. Lo scrittore Marc Cooper ha intitolato il suo libro su Las Vegas L ultimo posto onesto in America perché nella Città del Peccato, nel complesso, l ipocrisia scarseggia. Ma rimangono delle anomalie, sulla strada che porta dalla feccia ai salotti buoni, da Little Italy a Wall Street, da Frank Giannattasio detto lo Schifoso a Michael Merkin. Teoricamente Las Vegas ha chiuso con il sesso in seguito al tentativo di diventare una destinazione turistica «per le famiglie» (tentativo presto abbandonato, dopo un paio di parchi di divertimenti, quando ci si è accorti che i bambini non puntano). Il sesso, comunque, qui fa parte dell ambiente, e forse non può essere altrimenti, considerando le sue attestate affinità col gioco d azzardo. Sulla Pagine gialledi Las Vegas, ci sono oltre cento pagine dedicate ai servizi sessuali a pagamento: Ragazze Casinò Servizio Completo, Cheerleader Liceali Poco Più Che Maggiorenni, Diciott Anni Appena Compiuti Fanno Di Tutto. La settimana in cui sono rimasto a Las Vegas, tutti gli autisti di frigoriferi parlavano del tizio che aveva sbancato le slot machine e poi era salito in camera con una tizia che gli aveva messo il sonnifero nel bicchiere. Gli aveva lasciato il passaporto, le chiavi della macchina e una sola carta di credito. I lasveghiani hanno una parola per definire questo genere di comportamento. Classe. Di solito, sei fortunato se ti lasciano le mutande. Per ovviare all inconveniente, ogni stanza d albergo è dotata di pornografia. [...] E poi c è il gioco d azzardo (il gaming, come preferiscono chiamarlo nel settore), visto come un anatema dall ayatollah Khomeini, per fare un esempio, che aveva messo al bando una delle grandi invenzioni dell islam, gli scacchi, per tema che la gente ci puntasse soldi. Gioco d azzardo, e per di più condito con alcol e parolacce. Bisogna fare la coda per un sacco di cose a Las Vegas: per un tavolo al ristorante, per una tazza di caffè, per Elton John, per Cats, per i musical con ballerine in reggipetto sbrilluccicante, per prendere un frigorifero a motore, per uno sgabello agli incontri di poker al di fuori dei tornei: ma non c è mai bisogno di fare la coda per partecipare a giochi di fortuna in cui le chances di vittoria sono a favore del banco. [...] Vado nella poker wing del Rio, per acclimatarmi bene. Sarà necessario se voglio fare il Chris Moneymaker e portare a casa il braccialetto al primo tentativo. Cito dal comunicato stampa del sito Pokerstars. com: «Quando [nella primavera del 2003] il ventisettenne ragioniere del Tennessee Chris Moneymaker trasformò una vittoria da 39 dollari in un torneo satellite sul sito www. Pokerstars. com in un trionfo a sorpresa da 2,5 milioni di dollari alle World Series di poker, in tutto il mondo la gente si è Se foste costretti a usare un solo aggettivo per Sin City accontentatevi di questo: non islamica domandata: Perché non io?». Sembra appropriato che la quasi apocalittica impennata di interesse per il poker sia dovuta almeno in parte al soprannome di Chris Moneymaker (cioè, quello che fa soldi). Immaginatevi se invece di Chris Moneymaker si fosse chiamato Chris Mortodifame o, in alternativa, Chris Coglione. Pokerstars. com avrebbe dovuto riscrivere almeno in parte la sua brochure pubblicitaria («Pokerstars. com Launches Moneymaker Millionaire Tournament»), e Partygaming. com, quando è stata quotata in borsa lo scorso anno, forse non sarebbe diventata più grande della Disney o della British Airways. La poker wing del Rio è un centro conferenze, il tema, per il momento, è il poker alla texana. «Il vostro lavoro quotidiano potrebbe diventare un lontano ricordo», dicono i manifesti. Chris Moneymaker, ragioniere. Joe Hachem, chiropratico. Greg Raymer, avvocato specializzato in brevetti. Ed ecco un cartellone con i tre campioni che ti guardano in cagnesco, come in un match di boxe o di wrestling. Ma questi tre tizi sono semplicemente dei borghesi sovrappeso: ragioniere, chiropratico, avvocato. E forse è questo il punto. La psiche contemporanea è caratterizzata da due desideri contrapposti: da un lato, la necessità di un anonimato appartato, all interno di un gruppo di pari ben definito; e dall altro, un ardente bramosia di celebrità. Essere comuni eppure assolutamente fuori dal comune: nessuno combina queste due condizioni più efficacemente della star del poker, Chris Moneymaker, il ragioniere delle World Series. Come le freccette negli anni Ottanta, il poker sta cercando di dare una lucidata alla sua immagine. E allora perché si mette in mostra a Las Vegas? E perché nell area espositiva è pieno di schermi al plasma con immagini di sventole in bikini, e perché ci sono decine di ragazze in hotpants di raso da denuncia alla polizia, e perché al Media Tournament, più tardi, gli ospiti d onore sono l attrice di film soft-core Shanon Elizabeth (American Pie) e l attore di film hard-core Ron Jeremy (il più greve artista della mazza della San Fernando Valley, il cuore dell industria del porno Usa)? La regola base sembra che sia: se hai un prodotto da vedere, mettici vicino un po di carne femminile. D altronde, in termini ghiandolari, il poker è inseparabile dalle energie carnali: è tutto un battito di cuori e un sudare di mani. Ora sono vecchio abbastanza per ispezionare le ragazze con l occhio di un antropologo: la cosa che lascia attoniti è che le statistiche vitali, di media, sarebbero una cosa tipo Queste bellezze tutto petto e niente didietro, detto per inciso, non si girerebbe a guardarle nessuno nella Rio del mondo reale, dove i rigonfiamenti chirurgici si fanno di preferenza dalla vita in giù. Potrebbe sembrare perverso scegliere Las Vegas come scenario per una giaculatoria sui posteriori sottodimensionati, proprio Vegas, il pianeta del culo astronomico. L avvocato specializzato in brevetti Greg Raymer non scherza neanche lui, ma in fila per avere un suo autografo c è una donna («mio marito è un suo grande fan. Lo ha ispirato enormemente») che a forza di ingurgitare cibo è diventata una sedia a rotelle: braccia grosse come gambe, gambe grosse come un torso e un torso grosso come un orgia. Un veicolo a due ruote di sesso maschile, nel cortile d ingresso più in là, riesce a cadere dal suo veicolo anche se è fermo; i passanti lo sbadilano su, ma il suo corpo è più liquido che solido e sta semplicemente cercando il livello più basso. Al Qaida non si pronuncia sulla questione dell obesità. Ma anche il non credente può contemplare simili forme umane con un dolore che è quasi religioso. Sono smisurati, tendenti all infinito, una specie di tentativo solitario di globalizzazione. Alla vigilia del mio primo giorno alle World Series (per vincerle serve un intera settimana), ceno con Anthony Golden e James McManus, due dei massimi giocatori-scrittori del mondo del poker. Tony naturalmente ha vinto un paio di titoli; e Jim, qui a Las Vegas nel 2000, è arrivato fino al tavolo finale. La mia intenzione, come sappiamo, è fare di meglio. «Devi essere superprudente», mi dicono. «Siete in dieci per tavolo, quindi preparati a roba più tosta di quella a cui sei abituato. Ci sono 169 possibili mani di apertura. Solo una decina valgono la pena di essere giocate. Passa sempre tranne quando hai in mano dalla coppia di jack in su, asso e re oppure due carte in fila dello stesso seme. Più avanti, se sei dietro al gettone [cioè alla destra del disco che indica il mazziere di turno] non aspettare sempre di avere le carte migliori. Gioco anche con re e jack o con una coppia di otto. A questo punto è meglio scoprirsi troppo che stare troppo tirati. Spericolato-aggressivo. Non fare quello che ha fatto Al [Alvarez], non fare il prudente-passivo». Mentre la serata si avvia al termine, il generoso Jim mi afferra per il braccio. «Non farti intimidire, amico! Ricorda, tu sei il fottutissimo Martin Amis!». Tornato al Bellagio, continuo con il libro di Jim, Positively Fifth Street. E sono un po turbato nello scoprire quanto continuativamente, implacabilmente, strepitosamente coraggioso tu debba essere se vuoi sopravvivere per dieci minuti nel poker senza limiti, dove ogni mano può essere l ultima. Coraggioso, e freddo anche: coraggioso-freddo. [...] Ma il libro di Jim mi ricorda che passata la prima giornata gareggerò esclusivamente contro appassionati professionisti nell equivalente pokeristico del Superbowl. È verissimo che io sono il fottutissimo Martin Amis. Ma come la mettiamo con il fottutissimo Chris Moneymaker, e il fottutissimo Mike Matsuo detto la Bocca, e il fottutissimo Chris Ferguson detto Gesù, e (se è per questo) la fottutissima Kathy Liebert e la fottutissima Annie Duke? Una calma epica e una consapevolezza di umile eroismo mi accompagnano nell Amazon Room poco prima di mezzogiorno, il giorno successivo. Le mie narici fiutano l elegante scena: è come la sala da pranzo di un transatlantico di un miliardo di tonnellate invaso da pirati particolarmente

14 DOMENICA 14 GENNAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 In termini ghiandolari un gioco inseparabile dalle energie carnali: è tutto un battito di cuori e un sudare di mani L hotel Bellagio di Las Vegas Sono turbato dal coraggio che serve per sopravvivere al tavolo, dove ogni mano può essere l ultima spietati. Circa duemila maestri del tavolo verde intenti a giocherellare con le loro fiches (e ce n erano altri seimila da dove vengono loro): il suono delle cicale e dei serpenti a sonagli. Non sarà una serata di facezie e battute, come quella del giorno prima. Qui succederà qualcosa: sarà una battaglia e come la metto col tesserino stampa e l accento inglese? Individuo la mia sedia e affino la mia table presence. Siamo nove per il momento e, ahimè, tutti maschi. Lancio al mio vicino un marziale sguardo. Gli altri, tutti disposti intorno al tavolo a forma di rognone, sono una massa indistinta di lentiggini e peli facciali con occhiali da sole a specchio e burinissime canottiere senza maniche, il tutto sotto cappelli da baseball tenuti fermi da cuffie grandi come ganasce bloccaruote. «Salve», dice il trentenne dalla pelle olivastra e la faccia dolce seduto alla mia destra. «Mi chiamo Josh. Con una J». «Genitori eccentrici», dice il mazziere, etichettato Dan. «Erano hippy», dice Josh. «Sapete com è». [...] Dan batte sul tavolo: «Signori? Inizio a dare le carte». Ora sono obbligato a perdere un bel po di tempo a descrivere la mia prima mano, per ragioni mortificanti che fra poco comprenderete. Pesco un Ajax, asso e jack, di semi diversi. Una mano problematica. Come giro, la mia posizione è ottimale, perciò quando nessuno rilancia anch io metto sul piatto il buio (puntata forzata) di 50 dollari, insieme ad altri quattro avversari. Il flop (le prime tre carte sul tavolo) sono donna, dieci e re. E la mia epica calma e il mio umile eroismo vanno in fumo con uno strillo tale che infrango le regole al primo colpo. Salto su dal tavolo con le carte al petto. «Signore, le carte devono rimanere sul tavolo!», dice Dan. «Dovrei annullare la sua mano». No, quasi strillo, non lo faccia; è una scala massima! Sprizzo contrizione da ogni poro e mi consentono di restare in gioco. Tutti dicono parola, cioè non puntano ma rimangono in gioco, e sta a me. A quel punto mi trovo turbato da un inibizione fra le meno utili a Las Vegas: un senso di colpa puritano. E invece di trasformarmi in una mitragliatrice di rilanci aggressivi, dico parola anch io. Il turn, la quarta carta, è un tre e il tavolo è un arcobaleno. Un colore è impossibile. Di nuovo tutti dicono parola e sta a me parlare. Ora capisco il vero significato di quell assenza di rilanci, con otto parola di fila (un fenomeno che non si ripeterà): nessuno aveva niente in mano. La cosa migliore a quel punto sarebbe stato rilanciare basso, di un centinaio di dollari, o magari due o tre, per farlo sembrare un bluff. Ma la mia intenzione è spaventare le doppie coppie e i tris che mi immagino schierati tutt intorno a me, quindi punto mille e tutti gli altri passano. A questo punto mi sembra di avere due alternative. Posso celebrare la mia vincita di 200 dollari salendo in piedi sulla sedia e agitando il pugno fin quando non arriva una telecamera a rendermi famoso. Oppure posso proferire una parolaccia. Negli ultimi anni, negli incontri trasmessi in tv, i giocatori sembrava che parlassero in alfabeto morse da quanti biip si sentivano («e allora lo biip cala la sua biip di scala con una biip di tre all ultima carta, biip!»). Oscenità tanto udibili adesso ti costano dieci minuti di sospensione. Era esattamente quello che volevo: il tempo per un po d aria fresca e una sigaretta calma-nervi sotto i 43 gradi che facevano nel cortile d ingresso. Invece vado in tilt. Per un intero turno sono nel pallone più totale, con una misteriosa combinazione di trance da paura e panico da ingordigia, con una coppia alta (persa contro tris con due carte sul tavolo), una doppia coppia alta (persa contro tris con due carte sul tavolo) e quattro quinti di colore con asso come carta più alta dopo il flop, che amarissimamente rimane tale dopo il turn e dopo il river. Il mio gioco è sgrammaticatissimo: punto quando non tocca a me, resto seduto in attesa per un minuto quando tocca a me parlare e passo quando avrei potuto dire parola. Per farla breve, sono psicologicamente in frantumi e sotto di dollari. «Fatti un White Russian», mi consiglia affettuosamente Josh. «Fattene due, ma non di più. Ti rimetteranno in sesto». Ma mi rimetto in sesto con le maniere forti, con una serie di mani (dopo un po ho smesso di annotarmele) di 7-2, 8-3, J-4, 10-3, 7-3, 9-4, 8-2, Q-2, 9-3, 10-4, 3-2, J-5, 4-3, 10-2, 8-3, Q-2, 9-3, 10-2, e via di questo passo, per dieci o undici turni. Poi pesco un doppio nove, lo gioco da una posizione poco favorevole, faccio un set (tris con una carta sul tavolo) e timorosamente prevalgo. Sarebbe stata destinata a essere la mia seconda e ultima mano vinta alle World Series. Finora, la sedia alla mia sinistra è rimasta vuota (con la catasta di fiches parzialmente erosa dai bui). E il tavolo, a quanto sembra, scarseggia di personalità di «classe». Ma ecco che arriva, in ritardo di due ore, dinoccolato, look punk-leccatino e fresco fresco dall Essex, completo di ipod, occhiali da sole e berretto con paraorecchie, e dice di chiamarsi Gath, con una G. E la sedia di Gath, a quanto sembra, non farà neanche in tempo a scaldarsi: è ancora in piedi dopo il flop e già punta tutto. «Guarda, Dave, sto puntando tutto», ulula Gath al suo amico quattro tavoli più in là. «Dave! Dave! Sto puntando tutto! Questo è Gath», dice a me. «Prudente-passivo. L internettaro fesso!». «Vedo», dice molto tranquillamente Josh. E spinge avanti i suoi dollari. In tavola ci sono asso, quattro e jack. Le puntate sono finite, quindi i giocatori scoprono le carte. Josh ha due quattro e Gath asso e re. Il turn è un dieci. «Ci si vede, ragazzi!», dice Gath, facendo per andarsene. Ma il river (la quinta carta) è una donna, e Gath alza le spalle, si mette a sedere e comincia a radunare le sue fiches, mescolandole e picchiettandole. Josh tira avanti altre due mani, poi, salutando con voce roca, se ne va. Gath non se ne accorge. Ha di nuovo puntato tutto. Dice: «Quanto avete lì? A stadio». Nella lingua di Gath vuol dire «più o meno». Il tavolo ha trovato la sua star. All Hotel Rio ragazze seminude fanno parte dell arredamento; dal soffitto scende il Carnevale Dopo la pausa pranzo, succhiandosi la punta delle dita e urlando per avere un tovagliolo, Gath torna con un cartoccio puzzolente pieno di hamburger mezzi crudi. E lo sguardo gentile di Josh è stato sostituito dal cipiglio butterato di Mike Woo. Un momento. Questo Mike Woo non è il fottutissimo Mike Woo? Mike è un nome, una faccia. E nel giro di poco, si ritrova a scontrarsi ferocemente con Gath e con chiunque gli si fa sotto. Ormai io pavento la vista di due assi serviti: per darvi un idea di quanto sia coraggioso-freddo. Ma non arrivano. Mi gioco due volte il Big Slick, asso e re, e perdo tutte e due le volte. E nel giro di poco mi ritrovo a cercare qualcosa, qualsiasi cosa, per puntare tutto in una volta prima che il mio mucchio di fiches scenda sotto le quattro cifre. J-2, 3-2, 8-3, 5-4, 9-3. Gath è fuori, la sua coppia di jack servita ha beccato tre carte più alte sul flop. Mike Woo è fuori, il suo colore al re è svanito per l ultimo asso rimasto. 5-2, 8-6, 7-3, 5-4, 6-5. Comincia a diventarmi chiaro, mentre sudo dentro la stradannatissima maglietta di cotone della Pokerstar, che la mia mano migliore era la prima: non avevo una mano certa, sicura, la migliore mano possibile al mondo, ma avevo una scala. E da quel momento? Un tris di nove. Solo una volta in vita mia ho avuto una sessione di poker in cui la sorte mi è stata tanto nemica, e quella volta quasi ero riuscito ad andare in pari: ma oggi la sua furia non ha limiti. Alla fine mi entra una coppia di sette e punto tutto. L unico che mi viene dietro, con asso e re serviti, dopo il flop è ancora senza coppie. Questa ce l ho in tasca al 110 per cento, penso, prima di accorgermi che ha quattro carte di quadri. Completa il colore al turn e io me ne torno a casa. «Lo so, è terribile», dice l uomo al volante del frigorifero mentre torno al Bellagio. «Io ieri ho perso una mano di quelle imperdibili. Volo in American Airlines [in gergo sta per un doppio asso] e punto tutto. Il tizio viene a vedere con un doppio cinque! Dal flop escono un asso, un quattro e un due. Il turn è un altro asso! Ma lui ha quattro fiori! Poi lo stronzo fa una cazzo di scala reale con quello stronzissimo tre a quel cazzo di river. Questa è stata la mia. E la sua com è stata?... Oh, mi scusi. Non ne vuole parlare, vero? Giusto. Si lasci andare. Faccia uscire tutto il sangue dalla ferita. Vuole un po di musica?». Il più bell hotel di Las Vegas sorge vicino al più brutto, all estremità nord dello Strip. [...] L albergo più bello si chiama Wynn (che suona come win, vincere), dal suo proprietario Steve (un altro prosaico cognome lasveghiano) e non ha un tema: niente Torre Eiffel o Piazza San Marco, niente giostre medievali o foreste tropicali in gomma, niente tigri bianche o vasche piene di squali, niente vulcani o statue parlanti. Al Wynn, perfino l esterno ha l aria condizionata: un frigorifero all aperto grande come due campi da calcio. Le piscine sono puntellate di capanne, come tanti bungalow extralusso, magistrali rifugi di toupé, pedicure e minibar. Tutt intorno ci sono tavoli da massaggio e baccarat. Come gli altri alberghi, il Wynn è un monumento a quella che i fisici chiamano entropia negativa. Enormi dispendi di energia e spesa creano ordine e comfort prima di disperdersi nel caos e nello spreco. In un area è permessa la tintarella all europea, ma è una libertà di cui nessuno approfitta. Il topless, a quanto sembra, è considerato ancillare: a Las Vegas, ci si fa pagare per mostrare il seno. Lo rimpiango, da un certo punto di vista, perché qui è la forma umana così come l aveva pensata la natura: snella, muscolosa e abbronzata. Gli esseri umani si godono l entropia negativa acqua riscaldata in piscina, aria condizionata, drink ghiacciati e tutto quello che spendono sono soldi e giovinezza. Non mi sento a casa, qui al Wynn. L albergo più brutto nei quartieri alti di Las Vegas si chiama Frontier. E mentre mi ci avvicino, Martin Moneymaker si trasmuta in Martin Coglione (e all inferno il fottutissimo Martin Amis). Così è più credibile: GAMBE- RI E BISTECCA $8,95, dice l insegna al neon. FAJITA A VOLONTÀ PER DUE CON DUE MARGARITA IN OMAGGIO $19,95. BIRRA FRESCA RAGAZZE BOLLENTI. LOTTA NEL FANGO DAL VIVO. RAGAZZE SELVAGGE IN BIKI- NI. Nel parcheggio c è una coupé bianca affetta da combustione spontanea: gli è esploso il cofano. Sotto la siepe avvizzita, due piccioni che sembrano stregati becchettano via una manciata di cracker al formaggio buttati per terra. Il Frontier una volta aveva un tema (la frontiera appunto), e ancora lo si può vedere nello snackbar tex-mex e, presumo, nelle polverose statue di plastica dei Flintstones dell angolo bingo. Ora il tema è più del tipo catena di hotel a basso costo. Forme umane grandi come cassonetti si aggirano nella disperata oscurità della sala cocktail. C è una tetraggine viscosa, umidiccia e fuligginosa per i sensi. Le forme statali che da esso son nate non hanno mai avuto grande feeling con questo concetto, è evidente, ma tutti ricordiamo che è stato l Islam il primo a coniare l ideale dell uguaglianza e della giustizia. Dopo il Wynn, il Frontier è un promemoria del fatto che il denaro e il successo, la vittoria e la sconfitta, e così via, sono un gioco a somma zero. Non ce n è abbastanza per tutti, quello che guadagna uno lo perde l altro. È nel Frontier che prendo la decisione di diventare professionista. Ho le capacità, è piuttosto chiaro. Tutto ciò che mi serve è la fortuna: American Airlines o Big Slick dello stesso seme almeno ogni due mani. Mia moglie e le mie figlie sarebbero felici di vivere con me qui al Frontier (e forse ai Coglioni farebbero una tariffa di favore). Mi vedo al bar, a sorseggiarmi un secondo Margarita a temperatura artica e un fajita (ma questa enchilada totale, cristo santo, dove sta?) prima di andare al lavoro. Un gruppo chiamato Quinta di Petto sarà sul palco a provare gli strumenti. E io racconterò a tutti quelli che mi capitano a tiro del giorno in cui ho raccattato scartine per quattro ore alle World Series che ero venuto per vincere. Traduzione di Fabio Galimberti Copyright The Wylie Agency/la Repubblica

15 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 GENNAIO 2007 A cinquant anni dalla morte il mondo ricorda il grande direttore d orchestra con libri, celebrazioni e concerti come quello, attesissimo, di dopodomani a New York diretto da Lorin Maazel. E intanto una mostra nella Grande Mela dedicata alla collezione di quadri del maestro consente di scoprire un versante poco conosciuto della sua personalità: la divorante passione per la pittura l Arte di Toscanini Una musica tutta da guardare LEONETTA BENTIVOGLIO Succede quando cadono anniversari importanti, come avvenne l anno scorso con Mozart: esecuzioni a raffica, convegni inutili, rilanci discografici, un profluvio di libri, concerti celebrativi spesso pretestuosi. Ora su Arturo Toscanini, morto precisamente cinquant anni fa, si sta montando una tale baraonda che è arduo metterne a fuoco aspetti nuovi o almeno poco frequentati, utili a illuminare la densità del suo ingegno. In qualche modo riesce a farlo la mostra newyorkese che rende omaggio alla devozione toscaniniana per le arti figurative. Tra l altro l evento costituisce un impagabile riscatto per Toscanini uomo di cultura, giungendo a contrastare l equivoco diffuso di un genio ardente e selvaggio, perdutamente ignaro di tutto ciò che non fosse connesso alla musica: una delle tante perfide leggende che hanno alimentato il mito del direttore parmigiano, celebre in vita come una rock star, e incoronato dai trionfi americani come uno dei primissimi campioni del podio per un pubblico di massa. Domatore di palcoscenici e orchestre, perfezionista rigorosamente fedele alle sacre note, famoso per la durezza imperiosa e le rabbie devastanti, pur capaci di accogliere squarci di solarità improvvisa, Toscanini è passato alla storia come un anti-intellettuale che della musica aveva fatto un modo di vivere e sentire, più che di pensare, basato su un rapporto pragmatico e istintivo con la materia musicale. S è detto che aderiva al dato esistenziale della musica, al di là di approfondimenti, con concretezza immediata, e che fu grazie a questa capacità prodigiosa che determinò parametri interpretativi rivoluzionari. In realtà Toscanini era un uomo colto. Di cultura eccentrica e ossessiva, forse discontinua, ma non superficiale. Il suo biografo Harvey Sachs, che ha curato l ampio e rivelatorio epistolario del maestro (in Italia lo ha edito Garzanti nel 2003 col titolo Nel mio cuore troppo d assoluto Le lettere di Arturo Cambiava spesso la posizione delle tele quasi disponendole su un pentagramma Toscanini), sostiene che il malinteso fu generato soprattutto dalla sua rozza conoscenza della lingua inglese parlata. Per questo, quand era negli Stati Uniti, tendeva a sottrarsi a conversazioni su temi impegnativi. Ma è la corrispondenza a testimoniare quanto Toscanini fosse informato, e persino erudito in molti campi. Conosceva le opere classiche e romantiche, e infarciva di citazioni le missive alle numerose signore con le quali era in contatto. Con la sua formidabile memoria, recitava i versi di Dante e Shakespeare. E poteva leggere bene in varie lingue, incluso il latino e il tedesco, il che non lo induceva a evitare italianismi deliziosi come «Luigi van Beethoven». È nota la sua fervida amicizia con Thomas Mann e Stefan Zweig, e nell epistolario si mostra in grado, con piglio da scrittore, d intrecciare analogicamente considerazioni musicali ed evocazioni di capolavori poetici, dalla Divina Commedia a Byron. Ma condizionante più di ogni altra è la sua passione per le arti visive. «Non so se mi piaccia di più la musica o la pittura», dichiara al giornalista Filippo Sacchi. È animato da una vera frenesia per l arte classica e rinascimentale, e trascina in siti archeologici l intera famiglia, da Roma alla Sicilia. Lo attrae moltissimo anche l arte del suo tempo, tanto da fargli acquisire una folta e preziosa collezione di opere di fine Ottocento e inizio Novecento, ed MicroMega 1/07 Silvio Viale AUTODENUNCIAMOCI! Un appello a Veronesi, Marino, e a tutti i medici che hanno coscienza : ogni giorno migliaia di medici rifiutano l accanimento terapeutico e praticano in silenzio l eutanasia. È arrivato il momento di dichiararlo. **** La rivista sarà presentata a Roma, mercoledì 24 gennaio alle ore 17 a Palazzo Valentini in Via IV Novembre 119/a Livia Turco, Ignazio Marino, Paolo Flores d'arcais discuteranno su L'EUTANASIA È UN DIRITTO CIVILE? è quanto adesso si troverà esposto a New York, alla Avery Fisher Hall del Lincoln Center: circa cinquanta pezzi, di cui Arturo godeva con l impeto e la fascinazione per le cose belle che costituivano uno dei tratti più ammalianti e genuini della sua personalità. Ama i macchiaioli e i divisionisti, la scapigliatura lombarda e la scuola napoletana, e la contemplazione dell arte, dice, lo fa volare in sfere immateriali. In pittura è intrepido nelle scoperte, al contrario di quanto gli accade in musica, dove lo distingue un disinteresse ostinato per il Novecento storico e per gli avanguardisti. In ogni espressione di sé manifesta un gusto spiccato per l immagine, inclusa quella della sua persona, fisicamente affascinante. «Toscanini, notevole per avvenenza tra i direttori del suo tempo, aveva un volto simile all effigie scolpita di una divinità», segnala Joseph Horowitz. RITRATTO Qui sopra, Giovanni Segantini, Ritratto di Vittore Grubicy (1887) Nel salotto della sua casa di via Durini, a Milano, tiene esposti i quadri più grandi, per lo più paesaggi, e sono affollatissime le pareti di un ampio corridoio che porta dal soggiorno alla cucina, tappezzato di pitture in file orizzontali e verticali, da circa un metro di distanza rispetto al pavimento fino al soffitto. È in questi spazi che si diletta a fantasticare una continuità ideale tra la musica e i dipinti, affissi in sequenze simili a quelle dei pentagrammi, secondo sue segrete strategie formali che gli richiamano la scansione dei segni impressi sulle partiture. E ogni volta che gli arriva in casa un quadro nuovo se lo porta in camera prima di attaccarlo, per contemplarlo seduto sul letto, con la tela quasi appiccicata agli occhi miopi. Per tutta la vita segue con entusiasmo la produzione pittorica a lui contemporanea, pronto a compiere pazzie anche finanziarie per appropriarsi di un quadro che gli piace. Scrive nel 30: «A Milano ho comprato in un asta la Toletta mattutinadi Telemaco Signorini. Quella luce delle persiane verdi socchiuse, la donna che si pettina davanti allo specchio, l amico che sbadiglia sul divano... Dovevo privarmi di un quadro così? Mai più. Mia moglie mi ha rimproverato, m ha fatto promettere in iscritto che avrei fatto due dischi». Ha molti amici artisti, tra cui il pittore Alfonso Tosi, col quale a volte va in campagna quando questi vi si reca per dipingere nature dal vero. Ed è molto legato allo scultore Leonardo Bistolfi. Ma il suo principale punto di riferimento in fatto d arte è Vittore Grubicy de Dragon, pittore divisionista e mercante, critico e mentore della nuova scuola di Fattori, Boldini e Segantini. Si conoscono nel 1904 e si frequentano soprattutto negli anni della Prima guerra mondiale. Toscanini passa ore nello studio di Vittore, che gli dedica un celebre ritratto. In una lettera del 15, Arturo gli rivela il sentimento di piacere che prova riparando nella parte della propria casa «che contiene tanta

16 DOMENICA 14 GENNAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49 CARTOLINE A sinistra, una foto che Walter Toscanini mandò a Vittore Grubicy allegando la lettera a fianco: L elegantissimo ufficialetto d artiglieria manda al suo carissimo amico la fotografia di un soldataccio scalcinato BAMBINO A sinistra, Giovanni Boldini, Volto di bimbo (1860) FUTURISMO Qui accanto, Umberto Boccioni, Autoritratto (1908) miglior parte di te». Osservare un suo quadro, gli confida, lo culla in una «musica misteriosa e calda d armonia». E nel 17 loda la sua facoltà di esprimere con la pittura «una musica ineffabile», da ascoltare con l anima e non con le orecchie. Molto più tardi, nel 38, scrivendo alla giovane amante Aida Mainardi, narra commosso una visita al cimitero per salutare l amico Grubicy, defunto da diciotto anni. Tanto per dire che negli affetti non ha memoria corta. La suggestione pittorica lo accompagna sempre, e non solo nel ruolo di appassionato collezionista. A guardar bene c è dell altro. Nel musicista Toscanini la sintonia con una partitura avviene innanzitutto decodificando in modo minuzioso i segni del compositore. Lo studio deve analizzare il valore scritto, che solo in seguito può farsi modellare dall estro dell esecuzione: l opera coincide con i materiali. È in tal senso che il Studiava i segni dei compositori, amava la calligrafia di Wagner suo impeto avvolgente per il visivo appare correlato col suo approccio alla musica. Non a caso ammira fino all esaltazione la calligrafia di Wagner, svelatagli dai manoscritti dei Maestri cantori, come documenta un suo colloquio col giovane collega Carlo Maria Giulini, registrato nel 54 nella sua casa di Milano. Per Toscanini interi mondi si sprigionano da quelle griglie, sollecitando viaggi musicali avventurosi: anche nel suo contatto ispiratore con l immagine si realizza la sua potenza di interprete. ALLEGORIA La foto grande è l Allegoria della musica di Gaetano Previati (1893) della collezione Toscanini In primo piano, il maestro durante una direzione DOCUMENTI A sinistra, una scultura di Cia Fornaroli Toscanini di Francesco Nonni realizzata tra il 1920 e il 49 Sopra, altre lettere di Arturo Toscanini a Vittore Grubicy Tutti i documenti riprodotti in queste pagine sono conservati nel fondo Grubicy presso l Archivio del 900 del Mart, Museo d arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto Il nipote Walfredo ricorda e racconta In bilico su una scala ipnotizzato dai colori AMBRA SOMASCHINI «A veva sempre in mano chiodi e martello, cambiava posto ai quadri. Lo faceva di notte quando non riusciva a dormire. Ne comprava uno nuovo, se lo portava in camera, si sedeva sul letto, lo guardava per ore. Ogni quadro era una nota, proprio come in una sinfonia». Toscanini collezionista d arte, Toscanini amante della pittura, Toscanini che scriveva: l arte è un bisogno musicale. Il nipote Walfredo lo racconta al telefono dalla sua casa di New Rochelle, tre quarti d ora da New York. Ricostruisce la grande passione del nonno nel cinquantenario della morte (16 gennaio 1957) che tutto il mondo celebra pubblicando biografie (da noi Piero Melograni, Mondadori; Gustavo Marchesi, Bompiani) e organizzando mostre, concerti, convegni. The artworks collected by Arturo Toscanini curata da Renato Miracco, catalogo Mazzotta, dal 16 gennaio alla New York Philharmonic Avery Fisher Hall e dal primo settembre al Teatro Goldoni di Livorno mette in mostra le opere amate e collezionate dal maestro: l avanguardia della seconda metà dell Ottocento, i macchiaioli, la scapigliatura, la scuola napoletana, Boccioni, Fattori, Lega, Boldini, Segantini. Toscanini piantava chiodi, spostava quadri, continuità allegorica tra note e dipinti, dipinti come pezzi di un pentagramma. Un ossessione, una mania quella di suo nonno? «Mio nonno viveva giornate dense, frenetiche. Aveva un energia infinita, dormiva pochissimo, mangiava pochissimo. Da giovane vendeva la carne della mensa del conservatorio per comprare gli spartiti. Aveva bisogno di ricaricarsi, di riposarsi, ma gli serviva un riposo creativo, per rilassarsi entrava in contatto con un altra dimensione». Quella dell arte? «Per lui era la dimensione più vicina alla musica. L arte che va in mostra alla Philharmonic Avery Fisher Hall: cinquanta opere, oli, acquerelli, composizioni con matita e penna, bronzi, ceramiche. C è anche un omaggio a New York, un tramonto di George Inness». Com è nata questa seconda dimensione? «Lo scultore Leonardo Bistolfi gli presentò il pittore Vittore Grubicy de Dragon. Ne nacque una comunione di sensi, un affinità elettiva. Mio nonno gli diceva ironico: sei il Debussy della mia anima». E gli scrisse: «Passo molte ore del giorno nel più delizioso angolo della mia casa... è un dolce modo di staccarmi dalla realtà materiale davanti al tuo quadro Canto staccato dell inverno in montagna... vivo per l estasi del pensiero che è anima...». Come li sistemava questi quadri? «Dal soffitto al pavimento e li spostava, li spostava in continuazione, non si dava tregua, come le note do, re, mi, mi, re, do come cambiava la musica, cambiava la colonna sonora dei suoi quadri. Una sinfonia artistica, pennellate, spartiti, trame di musica, trame d arte. Una notte restò in bilico su una scala, tra le mani aveva L ora vespertina di Grubicy. Non sapeva dove metterlo. Restò a lungo con il quadro in mano, in estasi, in trance...».

17 50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 GENNAIO 2007 i sapori Cucina italiana LE PREPARAZIONI Bolliti, stracotti, zuppe di cavoli o cipolle, il sobbollìo della pentola di coccio sul fornello (o magari sul camino) ha da sempre scandito le giornate invernali e profumato le case contadine. Ma la stessa preparazione a fuoco dolce distingue ancora oggi le ricette dei giovani chef che riscoprono così i tagli di carne più poveri Brasato Deriva dalla brace, dove un tempo veniva cotto. Oggi, il colpo di calore iniziale si effettua in padella, dopo aver marinato la carne di manzo (cappello del prete o arrosto della vena) una notte nel vino rosso. Si serve con cipolline in agrodolce Stracotto Fatto con i tagli poveri, ricchi di connettivo. Da una parte, si rosola la carne, dall altra si prepara un sugo ricco di verdure in cubetti appassite nell olio con pepe in grani, da passare e diluire con brodo. Poi, si unisce alla carne. Contorno: patate e fagioli Ragù Che sia O rraù napoletano, o il ragò a la bulgnàisa, il vero ragout - dal verbo francese ragoùter, risvegliare l appetito è una ricetta elaborata con verdure, pomodoro, carni, da far sobbollire (pippiare in napoletano) per ore nella pentola di coccio Ossobuco Nato nel 700, per fare l òs bus, osso bucato, si usano dei tranci orizzontali di stinco di bue (parte bassa, dove l osso non è spugnoso), ammorbiditi in cottura dalla lenta fuoriuscita del midollo Alla fine, si aggiunge la gremolada con buccia di limone Il ragù O rraù ca me piace a me M o ffaceva sulo mammà LICIA GRANELLO A che m aggio spusato a te, Prima, arriva il naso. Un sentore suadente, ne parlammo pè ne parlà che ci placa, ammorbidisce l atmosfera, rassicura. Secondo, l orecchio. In lontananza, avvertiamo un lieve borbottio paci- io nun songo difficultuso; fico che ci riesce familiare, tanto diverso dai ma luvàmmel a miezo st uso trilli, fischi, beep, clacson, di cui sono piene Da Sabato, domenica e lunedì le nostre giornate. di EDUARDO DE FILIPPO La bocca arriva solo dopo che il cervello ha collegato le due sensazioni: identifichiamo l odore bollito, brasato, zuppa di cavolo nero, ragù e il sobbollìo della pentola. Alzare il coperchio e tuffare la provvidenziale cucchiarella di legno è questione di un attimo. Caldo, buono, avvolgente. Sono gli aggettivi del comfort food per eccellenza: la lunga cottura. Non c è moda, innovazione, nouvelle cuisine che tenga: le uggiose giornate di gennaio sono le più adatte per riappropriarci di ricette d antan, che si traducono in cibi da gustare dopo averli dimenticatisui fornelli accesi al minimo per un tempo mai abbastanza lungo. Piatti poveri, figli della storia contadina, elaborati per secoli, dovendo coniugare fame e dispensa risicata. Gli amanti del filetto fanno a gara a chi lo cuoce meno: mezz ora per chilo al massimo, raccomandano i responsabili della nouvelle vague carnivora. Perché si tratta di un taglio naturalmente privo di fibre e di grassi. Se poi è stato ben frollato, non perde sangue e ha carne matura, tenera, perfetta per una cottura rapida, rapidissima. Cuocere un filetto è facile, addirittura facilissimo quando affettato. Basta scottarlo in padella, pratica alla portata del più sprovveduto dei single. Tutto giusto. Ma il filetto è un unicum nella geografia dei tagli bovini. E non è detto che piaccia proprio a tutti. Esattamente come il petto di pollo: roba da signori, magrina, perfettina, costosa. Per utilizzare le altre parti, bisogna ingegnarsi. E saper maneggiare le pentole. Più si scende nella scala dei tagli nobili, più si deve essere abili, sensibili. E pazienti, molto pazienti. Negli anni, le ricette si sono differenziate stufati, brasati, umidi, stracotti inserendosi nelle diverse tradizioni culinarie regionali. A tenerle unite, il principio-base della lenta, lunga cottura in un liquido acqua, brodo, vino, pomodoro, latte obbligato a ridursi dalla sfinente permanenza sul fuoco (ma guai a farlo asciugare troppo!). Altro elemento comune, il tessuto connettivo, che in cottura libera una proteina, il collagene, essenziale per conferire morbidezza alle carni. A differenziare le preparazioni, il primae il dopo, dalla marinatura del brasato nel vino rosso più strutturato trovato in cantina per chi se lo può permettere, Cotture Barolo e Brunello sono perfetti alla steccatura dello Lunghe stracotto, fino alla frullatura della salsa degli arrosti morbidi. E poi le verdure carote, cipolle, patate, fagioli le spezie (chiodi di garofano, cannella, pepe), gli aromi (rosmarino, salvia, alloro, timo), accuratamente dosati per esaltare i sapori, regalando un tocco di originalità. Gli chef di nuova generazione rivisitano, non dimenticano. E scelgono. Nella cucina dell Enoteca Pinchiorri è stata allestita una microcucina economica, alta un metro, per poter cuocere lentissimamente e non rischiare la schiena dei cuochi al momento di mettere/togliere le grandi pentole di bolliti e stufati (la quantità di ingredienti, in questo caso, aumenta la qualità). In Spagna, invece, il gran cuoco catalano Joan Roca ha messo a punto un termostato che mantiene costante la temperatura delle cotture sotto vuoto a bagnomaria, evoluzione tecnologica delle preparazioni in cocotte. Se avete la fortuna di gustare una lunga cottura casalinga, prima che la casseruola arrivi in tavola fate scarpetta a mo di aperitivo e battezzatela con un bicchiere di buon rosso, possibilmente lo stesso usato per la cottura. Le brume invernali spariranno in un attimo. La lenta attesa del vero piacere LE PENTOLE Coccio Una pentola che accompagna la storia della cucina: economica, facile, universale, ideale per cuocere legumi, minestre, carni toste, pesci in zuppa e per cucinare vicino al camino. Regala ai cibi profumi d antàn. Unico difetto: si rompe facilmente Brasiera Il braciere un tempo conteneva le braci soffocate con un coperchio a chiusura quasi ermetica. Ha forma rettangolare con angoli stondati e coperchio a scatola che mantiene i profumi. In Provenza sul coperchio si scalda il vino per la salsa

18 DOMENICA 14 GENNAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51 itinerari Fabio Baldassare, giovane chef romano de L altro Mastai, è un cultore delle lunghe cotture, che applica allo stinco di vitello, spennellato con senape e brasato con cannella, chiodi di garofano, timo e alloro. Come contorno: cubetti di pere spadellate Basiglio (Mi) Appoggiato nella piana lombarda alla periferia sud di Milano, è diventato famoso negli anni 80 per l insediamento di Milano 3 La connotazione contadina, rimasta intatta, fa sì che in zona si gustino ancora ottimi ossobuchi e cassoeula DOVE DORMIRE B&B LA CORTE Via Adda 33, Località Quinto de Stampi Tel Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE TRATTORIA DEI CACCIATORI Via Roma 2 Tel Chiuso martedì, menù da 30 euro DOVE COMPRARE AZIENDA AGRICOLA CASCINE ORSINE Via Cascina Orsine 1, Bereguardo, tel Punto vendita in via Sarpi 27, Milano Scandicci (Fi) Il latino scandere, salire, testimonia la dislocazione collinare, tra Firenze (centro storico a 6 km), Signa e Montespertoli Dalla vicina Impruneta arriva la tradizione del peposo, di manzo o cinghiale, cotto anche otto ore all imboccatura del forno DOVE DORMIRE LOCANDA MONTAGUGLIONE Via Rinaldi 6 Tel Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE DINO Via San Colombano 78 Tel Sempre aperto, menù da 25 euro DOVE COMPRARE MACELLERIA SEQUI Via Colombo Cristoforo 15 Tel Pozzuoli (Na) Antica cittadina marinara, fondata da un gruppo di esiliati dell isola greca di Samo, situata nel cuore dei Campi Flegrei, su un promontorio tra Posillipo e Miseno. Qui, la cottura del ragù è un rito, da celebrare alla vigilia dei giorni di festa DOVE DORMIRE HOTEL TIRO A VOLO Via San Gennaro 69/A Tel Camera doppia da 75 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE ABRAXAS Via Scalandrone 15, località Lucrino Tel Chiuso martedì, menù da 30 euro DOVE COMPRARE SALUMERIA SCIARDAC Via Roma 156, Bacoli Tel Cocotte Recipiente spesso di ferro o ghisa (scarsi conduttori di calore) di forma ovale, con pareti leggermente svasate, maniglie e coperchio pesante. Lo stufator ovato trattiene l umido dei cibi e permette una cottura dolce, anche coi grandi pezzi Rame stagnato Ben conosciuta nell Ottocento, quando l esterno veniva martellato, lavorazione ora sostituita dalla laminatura al tornio ma ancora in uso tra gli artigiani stagnari. Il rame (esterno) è un eccellente diffusore di calore, lo stagno (interno) protegge i cibi La pentola-totem che bolle da anni la LA CURIOSITÀ La pentola a pressione ha una storia lunghissima. A inventarla fu il francese Denis Papin, che nel 1691 mise a punto una valvola di sicurezza per evitare l esplosione delle pentole chiuse, a corollario dei suoi studi sulla macchina a vapore. L invenzione però non trovò traduzione pratica. Due secoli di oblio, poi l arrivo sul mercato a inizio 900. La cocotte minute è diventata popolare solo nel secondo dopoguerra, con l introduzione dell acciaio inox. Grazie alla chiusura ermetica, che impedisce la fuoriuscita del vapore, la temperatura interna della pentola può giungere fino a quasi 200 gradi, dimezzando i tempi di cottura e MARINO NIOLA I l vero ingrediente è il tempo. Certo, i tagli di carne giusti, un pomodoro eccellente, un olio sopraffino sono assolutamente necessari. Ma non sufficienti. Per fare un ragù degno di questo nome bisogna varcare quella soglia oltre la quale la cucina smette di essere semplice preparazione del cibo per diventare rito. Un rito che per l appunto ha per protagonista assoluto il tempo. Non un semplice tempo di cottura, per carità. Piuttosto un idea eroica della durata, un tempo che ha lo stesso scorrere lento della memoria comunitaria. Che ha il passo lungo della tradizione. Un ragù che si rispetti deve, infatti, sobbollire ore e ore a fuoco lentissimo. Una sorta di aldilà della cottura, quasi una consumazione sacrificale. Compiuta la quale il pomodoro, la carne, il condimento si compenetrano, smettono di essere ciò che erano in origine per diventare una sola, sublime sostanza. C è chi parla addirittura di transustanziazione per definire questa alchimia gastronomica. Ecco perché il ragù non è un cibo come un altro, ma piuttosto un nutrimento dell anima, un modo di celebrare la continuità della vita e la comunione degli affetti nel segno del piacere. Tutte cose che non si possono realizzare alla svelta con pochi salti in padella. Ci vogliono almeno tre giorni, come insegna Eduardo in Sabato domenica e lunedì, commedia che mette in conservando sapori, aromi scena il rito napoleta- e principi nutritivi no del ragù. Il primo giorno per stordire la carne estraendone i succhi vitali. Il secondo per completare il sacrificio che culmina nel pranzo domenicale con famiglia rigorosamente al completo. Il terzo giorno vengono fatti risuscitare in padella gli avanzi della pasta per esser consumati fino all ultimo. In tutto questo c è molto del pasto totemico e del rito sacrificale che ricostruisce l unità del gruppo attraverso l incorporazione collettiva del simbolo comunitario. Non è un caso che in ogni famiglia napoletana il racconto del ragù assuma spesso toni epici esagerando fino all iperbole i tempi di cottura. Sei ore, no, ce ne vogliono almeno otto, mia madre mai meno di dieci. Questa corsa al rialzo è in realtà la variante in salsa partenopea di un fenomeno universale. Perché se la cottura del cibo rappresenta il passaggio dell umanità dalla natura alla cultura, la stracottura segna il trionfo definitivo della cultura che sottomette prometeicamente la natura, strappandola per sempre alla sua crudità presociale. Il folclore e la mitologia di tutto il mondo sono pieni di racconti che hanno per protagonista una pentola che bolle ininterrottamente sul focolare, simbolo del femminile che riproduce la continuità della vita. Gli Indios della Guyana vanno molto fieri della loro leggendaria pentola pepata nella quale versano ogni giorno gli avanzi dell ultimo pasto insieme a nuovi ingredienti. Questi raffinati gourmet della giungla vantano la superiorità di certi stufati che le loro madri riuscivano a far sobbollire ininterrottamente per decenni. Al confronto di quei mitici stracotti, di quelle ribollite tropicali il ragù diventa poco più di una crudità.

19 52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 GENNAIO 2007 le tendenze Moda e simboli Più che una donna un mito. Somigliarle almeno un po oggi, più di ieri, resta il sogno di tutte. Ma un tubino nero, una ballerina ultrapiatta o un filo di perle non sempre bastano a uguagliarla IL FOULARD Stretto e annodato intorno alla testa, così negli anni Cinquanta il foulard fu indossato dalle dive americane e non. Oggi l ultimo esemplare di Hermes (Vif Argent) offre una luce sconosciuta I CAPPELLI Per Audrey i cappelli sembravano essere un elemento irrinunciabile del look. Ne indossò di ogni tipo (qui con un modello zebrato nel 1964) nei film e nella vita. Oggi il cappello non ha più la stessa funzione, ma un berretto come quello proposto da Stefanel (in basso) può aggiungere un tocco di brio stile GLI OCCHIALI Dietro agli occhiali neri Wayfarer di Ray-Ban Audrey sedusse gli spettatori nel 1961 in Colazione da Tiffany Oggi Dior ne ripropone una versione moderna battezzata Extralight I PANTALONI Pantaloni smilzi come il suo corpo (40 kg su 1,70 d altezza) La musa dello stilista de Givenchy nobilitò il modello Capri nel film Sabrina del 54. Da allora non è più passato di moda. Nella foto: la nuova proposta del francese Morgan L eleganza... semplicemente LAURA LAURENZI LE BALLERINE Di Audrey si disse che l eleganza con cui portava le ballerine era il modo più sexy di scendere dai tacchi Nella foto sotto, un modello in pelle rossa con fiocco firmato Sigerson Morrison Somigliarlealmeno un po : oggi, più di ieri, il sogno di tutte. Seicentomila euro pagati per un vestito, peraltro semplicissimo, senza ricami, non incrostato di diamanti anche se firmato Givenchy, racconta come il mito dell eleganza possa non avere prezzo. E soprattutto racconta come nessuna attrice sia diventata un icona di stile e di classe quanto lei. Il tubino nero di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany entra così nel Guinness dei Primati: per nessun abito feticcio creato per un film (oltretutto in tre esemplari) è mai stata pagata una cifra tanto alta. Ad aggiudicarselo sono stati, alla Christie s a Londra, due facoltosi ristoratori di Pietroburgo, proprietari di un locale chiamato, guarda caso, Tiffany, dove il tubino più celebre del mondo verrà esposto tra zuppiere fumiganti di borsch e vasche di storioni. A tredici anni dalla morte, il mito di Audrey Hepburn e della sua eleganza rinnovato dalla recente pubblicazione dei libri Audrey Hepburn fotografie e ricordi di una vita di stile e impegnodi Ellen Erwin e Jessica Z. Diamond, edito dalla White Star; e Audrey Hepburn di Spoto Donald, pubblicato da Frassinelli non solo non si appanna ma è più attuale e moderno che mai. Quell abito, in particolare, fece da spartiacque, cambiando per sempre l idea dello chic, imprimendosi nel nostro immaginario come nuova percezione dello stile. Era il 1961 e quel film segnò l apoteosi di un sodalizio proverbiale: quello fra Audrey Hepburn e Hubert de Givenchy, cominciato trionfalmente con Sabrina, nel 1954, quando lo stilista francese disegnò tutti gli abiti della protagonista dopo la cura, al ritorno cioè da Parigi, dove il brutto anatroccolo si trasforma in cigno, l impacciata figlia di uno chauffeur si tramuta in folgorante icona dello chic. L idea della seduzione e della bellezza muliebre era fino a quel momento affidata alle morbide maggiorate e al loro fascino ridondante, alle Marilyn Monroe e alle Jane Mansfield, su cui piombò la meno carnale delle dive, beauty angolare come venne definita negli Stati Uniti. Una magrezza sofisticata e piena di grazia upper class la sua, da adolescente vulnerabile e palpitante, ma soprattutto una bellezza moderna e acerba, occhi da cerbiatta e sorriso che va dritto al cuore. Più che ammirarla e basta, il pubblico si innamorò istantaneamente di lei: uomini e donne rimasero incantati dal suo portamento, dalla sua freschezza, dalla sua spontaneità, dal suo carisma. Audrey Hepburn annunciò una nuova era in cui le donne sarebbero state meno matronali, meno signore e più ragazze, portatrice di una femminilità in cui il vero lusso era l opzione della semplicità: meno è meglio. Fra lei e il giovane sarto parigino fu intesa a prima vista. Lui la definirà «un regalo dal cielo», lei gli si affiderà con gli occhi chiusi, intuendo che il giovane ma già grande stilista non avrebbe imbottito la sua magrezza, camuffato la sua personalità, omologato la sua originalità ma le avrebbe piuttosto esaltate. Erano d accordo su tutto. Insieme destrutturavano i vestiti, toglievano le spalline, abolivano i fiocchi, via i bottoni dorati, via gli orpelli, via tutto. Ma Audrey Hepburn era già imitatissima. Dopo Vacanze romane migliaia di giovani donne avevano preso d assalto i saloni di parrucchiere pretendendo un taglio di capelli «come la principessa Anna». E cioè corti, quasi da ragazzo: il taglio gamine. Si disse con entusiasmo che l eleganza con cui lei portava le ballerine era «il modo più sexy di scendere dai tacchi». I suoi occhiali da sole oversize furono copiati per anni, e lo sono ancora. Gli abiti lineari, i tubini, i little black dress con giusto due pinces al punto vita, divennero nella loro semplicità il modello più ricercato del mondo. I pantaloni alla pescatora, o Capri pants, diventarono una divisa. E così la camicia bianca da uomo, le maniche tre quarti, i maglioni da marinaio, i trench di taglio maschile, e la cosiddetta «scollatura Sabrina», disegnata per lasciare nude le spalle ma coprire le clavicole troppo ossute. Molte spose vollero far stampare anche loro il menu del pranzo di nozze su un foulard di seta dai bordi decorati con motivi floreali, come fece Audrey Hepburn quando nel 54, di fronte a soli venticinque invitati, si unì a Mel Ferrer in una chiesina gotica di Burgenstock, in Svizzera. Un mese dopo l uscita di Vacanze romane, nel settembre del 53, la rivista Time le aveva già dedicato la copertina, individuando sostanzialmente la formula del suo successo: «Audrey Hepburn non si adatta a nessuno stereotipo e nessuno stereotipo si adatta a lei». Poi arrivarono a valanga tutte le altre copertine, in particolar modo quelle di Vogue, a celebrare urbi et orbi

20 DOMENICA 14 GENNAIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 53 Perché la Hepburn possedeva una cosa difficile da comprare: la classe innata. Quella raccontata, e fotografata, negli ultimi libri in uscita dedicati all intramontabile icona del glamour LA COLLANA Immancabili perle bianche per la protagonista di Colazione da Tiffany Una collana senza tempo come quella proposta da Nimei l Audrey style. Già nel 57, quattro anni prima di Colazione da Tiffany dunque, la Hepburn fu inclusa nella lista delle dieci donne più eleganti del mondo stilata dal New York Dress Institute e da allora non uscì mai più dalle classifiche. Una donna dall immenso talento ma prigioniera di un fisico opposto al suo, Maria Callas, decise di trasformare se stessa, arrivando quasi a dimezzare il suo peso con una draconiana dieta dimagrante, dopo aver visto Vacanze romane ed essere rimasta incantata dalla protagonista, una cui foto con dedica portava sempre con sé come memento di classe, stile, charme (e magrezza). Certamente la grande attrice sarebbe diventata un icona dello stile anche senza l haute couture del marchese de Givenchy. Possedeva una cosa difficile da comprare e da acquisire: la classe innata. Al suo fianco, o meglio al suo cospetto, Marilyn Monroe, che pure passava per la donna più desiderata del mondo, arrivò a dire di sentirsi «un ippopotamo vestito di stracci». Una magrezza, quella di Audrey Hepburn, che la leggenda fa risalire agli stenti patiti, da bambina e poi da adolescente, nell Olanda occupata dai nazisti. Quando studiava danza a Londra e sognava di diventare una ballerina del Covent Garden era alta un metro e settanta e pesava quaranta chili. Aver dettato moda (senza seguirne mai una, questo è il segreto) fu casuale, secondo il figlio Sean, che racconta come in lei non ci fosse nulla di studiato: «Dipendeva dal fatto che era magra, atletica. Conosceva pregi e difetti del suo corpo. Ha imparato a vestirsi con niente per necessità, quando era squattrinata». Meno è meglio, no? Che la leggendaria eleganza di Audrey Hepburn fosse in qualche misura collegata a un idea di parsimonia era opinione diffusa, come riferì sull Europeo Lietta Tornabuoni nella cronaca delle sue seconde nozze, quelle con lo psichiatra italiano Andrea Dotti, nel 1969: «Adora l eleganza ma non si permette un capriccio, non compera mai nulla a vanvera. Si veste sempre di bianco o nero, di beige rosa o verde nelle diverse sfumature, e sceglie sempre modelli semplici, lisci, spogli: sono più chic e passano di moda meno rapidamente... Pellicce e gioielli, niente: invecchiano, appesantiscono e costano. I paltoncini, i suoi famosi paltoncini smilzi, sono quasi tutti double face: così fanno doppio uso». Givenchy loderà sempre la sua disponibilità, il suo non fare mai capricci né piantare grane, il perfezionismo, la puntualità. Lei si sentiva confortata e protetta dal suo rigore: «Ho bisogno di Givenchy come le donne americane hanno bisogno dello psicoanalista». Uno riverberava gloria sull altra, e ben presto il rinomato sarto francese cominciò a vestire dame straordinariamente in vista: da Jacqueline Kennedy alla duchessa di Windsor, da Grace di Monaco a Gloria Guinness a Mona von Bismark. Givenchy dedicò a Audrey Hepburn un profumo a base di rosa bianca, violetta, gelsomino e pepe composto per lei e soltanto per lei: proibito produrlo e venderlo ad altre signore, anche se poi, richiestissimo, verrà messo in commercio con il nome di Interdit, proibito appunto. Di proibito in Audrey Hepburn non c è mai stato nulla, la meno trasgressiva e la più spiritosa forse delle grandi dive, una che poteva dire, ormai cinquantenne: «Sono troppo magra per spogliarmi!». Era chic ed elegante sia che la immortalasse Avedon, il suo fotografo personale, o che la sorprendessero i paparazzi; in famiglia o sullo schermo; vestita da Cecil Beaton con i costumi edoardiani di My fairladyo in semplici jeans, che portava come nessuno. O in pantaloni di lino: nell ultima parte della sua vita, quando, ambasciatrice di buona volontà per l Unicef, recava fondi, conforto, carezze ai bambini affamati nel Sud del mondo. Dalla sua primissima interpretazione come hostess di volo nel remoto 1948 fino alla sua ultima comparsa nelle vesti, non casuali, di un angelo nel 1989 diretta da Spielberg ha sempre scintillato come paradigma di un eleganza che le fluiva da dentro, un attitudine dalle precise connotazioni morali. «Non ce ne sarà mai più un altra così. Audrey non si può duplicare», decretò Billy Wilder, il regista di Sabrina. E fa piacere che l incredibile cifra raccolta dalla vendita all asta di quel fragile tubino sia andata a una buona, anzi a un ottima, causa. L abito era stato infatti donato da Givenchy allo scrittore Dominique Lapierre e alla sua Città della Gioia, che assiste i figli dei lebbrosi a Calcutta. «Sono esterrefatto dal fatto che un pezzo di stoffa che un tempo apparteneva a un attrice così magica commenta La Pierre con le lacrime agli occhi ora mi permetterà di comprare i mattoni e il cemento necessari a mandare a scuola alcuni dei bambini più disagiati del mondo». IL MAESTRO Hubert de Givenchy incontrò Audrey nel 1954 e si occupò dei vestiti più sofisticati per il film Sabrina uscito lo stesso anno. Il suo stile geometrico, con grande uso del nero e dei colori pastello, si adattava perfettamente all attrice. La Hepburn divenne la musa della maison (qui sopra durante una prova in atelier) nonché amica personale di de Givenchy Con il sarto parigino Hubert de Givenchy fu intesa a prima vista Lui definì l attrice un regalo del cielo L ABITO Intramontabile tubino nero in versione serale, Audrey ne fece il suo abito-base Oggi, senza temere l usura estetica, la maison Givenchy continua a proporlo con minime correzioni (foto a sinistra) LA BORSA Firmata Chanel, la borsetta essenziale in puro stile Audrey Hepburn è da anni un simbolo d eleganza. Generazioni di donne hanno conservato con cura quelle delle mamme e acquistato le nuove versioni proposte dalla maison IL TRUCCO Un filo di matita marrone sulle palpebre, una spolverata di cipra (nella foto il nuovo portacipria gioiello con colombe in cristallo di Estèe Lauder), un velo di rossetto. Audrey non amava il trucco marcato e le sue fan all epoca cercarono di imitarla L IMPERMEABILE È ancora un classico, il trench Burberry in rigoroso English style sfoggiato dall attrice (qui a sinistra nel 1969 in via Condotti) sul set e nella vita quotidiana Perfetto ancora adesso per tutte le occasioni

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