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1 Corte di Cassazione - Sezione III Penale Sentenza del 6 febbraio 2009, n Integrale REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE III SEZIONE PENALE Composta dagli Ill.mi Signori: Dott. Enrico Altieri - Presidente Dott. Agostino Cordova - Consigliere Dott. Alfredo Maria Lombardi - Consigliere Dott. Guicla Mulliri - Consigliere Dott. Luigi Marini - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto dall'avv. Ca.Me. difensore di fiducia di (Omissis) n. a Pa. il (...), avverso la sentenza in data della Corte di Appello di Milano, con la quale, a conferma di quella del Tribunale di Pavia il data , venne condannato alla pena di mesi otto di reclusione, oltre alle pene accessorie, quale colpevole del reato di cui all'art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000. Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso; Udita in pubblica udienza la relazione del Consigliere Dott. Alfredo Maria Lombardi; Udito il P.M., in persona del Sost. Procuratore Generale Dott. Mario Fraticelli, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

2 Udito il difensore, Avv. Ca. Me., che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Milano ha confermato la pronuncia di colpevolezza di (Omissis) in ordine al reato di cui all'art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000, ascrittogli, perché, quale legale rappresentante della ditta (Omissis), al fine di evadere l'imposta sui redditi, ometteva di presentare la dichiarazione relativa a detta imposta per l'anno 2000, pur essendovi obbligato per avere conseguito ricavi per un ammontare pari ad Euro ,00, con la conseguente evasione dell'imposta sui redditi per l'importo di Euro ,17. Dagli accertamenti della GG.FF. era emerso che la società, della quale era responsabile legale il (Omissis), non aveva mai istituito le scritture contabili, né aveva mai presentato la dichiarazione dei redditi ovvero la dichiarazione IVA, pur essendo titolare di due conti correnti bancari sui quali erano stati eseguiti versamenti per il complessivo importo costituente i ricavi per l'anno di imposta di cui alla contestazione. La sentenza impugnata ha rigettato i motivi di gravame con i quali l'appellante aveva dedotto che il calcolo dei ricavi doveva essere effettuato, detraendo dall'importo di Euro ,00, quello erogato per gli acquisti pari ad Euro ,00, con la conseguenza che l'utile effettivamente conseguito nell'anno 2000 ammontava ad Euro ,00; che, inoltre, egli aveva omesso di presentare la dichiarazione dei redditi, poiché il suo socio (Omissis) si era affidato ad uno studio di commercialista ed egli aveva ritenuto di poter vantare nei confronti del fisco un credito IVA, sicché nella specie doveva ritenersi inesistente l'elemento del dolo richiesto per la sussistenza del reato. Sul primo punto, in particolare, la sentenza ha osservato che vi è carenza di prove in ordine alla destinazione dei prelievi effettuati dal C/C della società all'acquisto di materie prime necessarie per il funzionamento della azienda e, quindi, della esistenza di importi fiscalmente detraibili. Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore dell'imputato, che la denuncia per violazione di legge e vizi della motivazione. MOTIVI DELLA DECISIONE Con un unico, articolato, mezzo di annullamento il ricorrente denuncia la violazione ed errata applicazione dell'art. 5 del D.Lgs n. 74/2000, nonché dell'art. 32 del DPR n. 600/73, omessa ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia ed indebita inversione dell'onere della prova in ordine alla esistenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato. In sintesi, si deduce che in ordine all'accertamento dell'elemento oggettivo del reato i giudici di merito hanno fatto propria la presunzione di cui all'art. 32 del DPR n. 600/73, secondo la quale tutti gli accrediti registrati sul conto corrente possono essere considerati ricavi dell'azienda; che, però, la norma citata regola i poteri ed i criteri di accertamento degli elementi attivi di reddito da parte degli uffici finanziari, attribuendo a detti uffici poteri discrezionali nella valutazione delle giustificazioni e della documentazione fornita dal contribuente; che le risultanze di detta valutazione non sono affatto intangibili e, in ogni caso, non possono costituire lo strumento per l'accertamento dell'ammontare della evasione fiscale penalmente rilevante. Sul punto si osserva che la stessa GG.FF. aveva avvertito i giudici di merito che le proprie valutazioni discrezionali erano soggette a mutamento nel tempo; che da una attenta lettura degli accrediti sul conto corrente si sarebbe potuto rilevare che molti di essi erano costituiti da titoli

3 versati salvo buon fine ed, infatti, ad essi corrispondevano undici addebiti per un totale di Lire con la causale "storno per effetti insoluti e protestati"; che, inoltre, in relazione a numerosi prelevamenti, risultava indicato il beneficiario e la causale del pagamento, mentre la GGFF. ha costantemente affermato che la parte non era stata in grado di indicare i beneficiari dei pagamenti effettuati. Sul punto si osserva conclusivamente che i giudici di merito si sono limitati a recepire acriticamente un risultato algebrico, intrinsecamente contraddittorio, senza sottoporlo ad adeguato vaglio critico. Si aggiunge che il (Omissis) aveva consegnato alla GGFF. fatture che non sono state prodotte dalla pubblica accusa e delle quali la stessa pubblica accusa avrebbe dovuto dimostrare la irrilevanza. Nel prosieguo del ricorso si deduce che vi è carenza di prove in ordine alla sussistenza della evasione tributaria ed all'ammontare dell'imposta ipoteticamente evasa. Si osserva in proposito che le lavorazioni artigianali del tipo di quella esercitata dalla ditta (Omissis) necessitano di materie prime, il cui acquisto incide per il 50% sui ricavi con una redditività media del 30%; che inoltre tali aziende vantano abitualmente un credito IVA a causa della diversità di aliquota cui sono assoggettati i materiali acquistati ed il prodotto realizzato, sicché nella specie doveva ritenersi probabile che l'imputato nulla dovesse allo Stato a titolo di imposta sui redditi che la sentenza impugnata ha determinato l'ammontare dell'imposta sulla base della carenza di riscontri documentali, operando una sostanziale inversione dell'onere della prova. Si osserva, poi, con riferimento all'elemento psicologico del reato, che la sentenza impugnata ha effettuato un'oggettivazione del dolo specifico richiesto dalla fattispecie criminosa, collegandolo al mero accertamento della inesistenza di un credito di imposta da parte dell'imputato, mentre non si è contestato l'assunto che questi fosse convinto di vantare un credito IVA; che inoltre si è attribuita all'imputato la responsabilità di non avere sorvegliato l'operato dei soggetti ai quali si era affidato per le questioni fiscali, confondendo il dolo specifico richiesto dal reato, che esclude anche la punibilità di condotte sostenute dal dolo meramente eventuale, con una ipotesi di culpa in vigilando. Si osserva, infine, che la norma incriminatrice è entrata in vigore il 25 marzo 2000 e che parte della condotta ascritta all'imputato risale ai primi mesi di quell'anno, sicché il (Omissis) è stato condannato per una condotta in parte risalente ad epoca in cui non era vigente la sanzione penale. Con memoria difensiva il ricorrente ha ribadito le precedenti censure con le quali erano stati dedotti vizi logici della motivazione della sentenza con particolare riferimento all'errata identificazione da parte dei giudici di merito dell'imponibile con i ricavi di impresa, senza tener conto dei costi di esercizio. Il ricorso è fondato nei limiti che di seguito vengono precisati. Preliminarmente, per il carattere pregiudiziale della relativa questione, osserva la Corte che i rilievi del ricorrente in ordine alla erronea applicazione da parte dei giudici di merito delle disposizioni in materia di successione delle leggi nel tempo sono manifestamente infondati. La fattispecie criminosa, in cui va inquadrata la condotta dell'imputato, è quella prevista dalla

4 legge (D.Lgs. n. 74/2000) vigente all'epoca in cui scadeva il termine per la presentazione della dichiarazione (anno 2001) e non certamente quella vigente all'epoca di percezione, peraltro solo parziale, dei redditi da dichiarare. Sono altresì, infondate le censure afferenti a vizi di motivazione della impugnata sentenza in ordine alla esistenza dell'elemento psicologico del reato. Nella pronuncia di primo grado, che, per l'uniformità della decisione integra quella di appello, si è puntualmente rilevato, quale elemento di riscontro in ordine all'esistenza del dolo specifico, che lo stesso imputato aveva dichiarato di avere omesso, su consiglio di terzi, non indicati, di chiedere i rimborsi IVA e, quindi, di effettuare la corrispondente dichiarazione, presupposto necessario perché sorga il diritto al rimborso, "perché questo avrebbe determinato controlli". Sicché l'accertamento della esistenza del dolo specifico richiesto dalla fattispecie criminosa è stata fondata dal giudice di primo grado su una motivazione assolutamente esaustiva ed immune da vizi logici "attesa l'intenzione (dell'imputato) di omettere la dichiarazione dei redditi a fini di evasione di imposta". E', invece, fondata la censura del ricorrente in ordine alla determinazione da parte dei giudici di merito dell'ammontare dell'imposta evasa. Va in primo luogo precisato in punto di diritto che l'art. 32, comma primo n. 2), del DPR n. 600 contiene una presunzione legale di corrispondenza delle partite attive, risultanti dai rapporti del contribuente sottoposto a verifica con gli istituti di credito, con i ricavi dell'attività di impresa o professionale, in assenza della dimostrazione che le stesse "non hanno rilevanza" ai fini della determinazione del reddito soggetto ad imposta. Detta presunzione, tuttavia, non opera in sede penale, sicché il giudice di merito deve motivare in ordine alle ragioni per le quali i dati della verifica effettuata in sede fiscale sono stati ritenuti attendibili. E' stato, infatti, affermato sul punto da una recente pronuncia di questa Suprema Corte che "Ai fini dell'individuazione del superamento o meno della soglia di punibilità di cui all'art. 5 D.Lgs. n. 74 del 2000, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di procedere all'accertamento e alla determinazione dell'ammontare dell'imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi o anche ad entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario." (sez. III, n , De Cicco, RV ). Con la stessa pronuncia è stato inoltre precisato che, ai fini dell'accertamento in sede penale, deve darsi prevalenza al dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l'ordinamento tributario (sent. cit. RV 23983). Va inoltre osservato che, ai fini della determinazione del reddito imponibile, i giudici di merito dovevano, in ogni caso, tener conto dei costi d'esercizio fiscalmente detraibili sostenuti dalla azienda. In sede penale, peraltro, il giudice non può applicare le presunzioni legali, sia pure di carattere relativo, o i criteri di valutazione validi in sede tributaria, limitandosi a porre l'onere probatorio in ordine alla esistenza di costi deducibili a carico dell'imputato. Deve, invece, procedere di ufficio agli accertamenti del caso, eventualmente mediante il ricorso a presunzioni di fatto.

5 La sentenza impugnata deve essere, pertanto, annullata con rinvio per una valutazione di merito che tenga conto degli enunciati principi di diritto ai fini dell'accertamento dell'ammontare dell'imposta evasa e, quindi, del superamento della soglia di punibilità di cui all'art. 5 del D.Lgs n. 74/2000. P.Q.M. La Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Milano.

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