MODULO I STORIA DELLA FOTOGRAFIA

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1 MODULO I STORIA DELLA FOTOGRAFIA LE ORIGINI Da sempre l uomo ha voluto rappresentare ciò che lo circonda (dagli animali, ai paesaggi, alle persone). Le arti come il disegno, la pittura e la scultura hanno per secoli soddisfatto questa esigenza. Il loro limite, però, consiste nel dipendere dalla bravura, o meglio, dalla manualità dell artista. Con l avvento delle prime tecniche di acquisizione meccaniche dell immagine, meccaniche nel senso che non vi è nessun intervento manuale dell uomo per quanto riguarda la loro realizzazione, assistiamo ad un allargamento della produzione e ad una maggiore precisione nella riproduzione della realtà o di ciò che si vuole rappresentare. Già nel 1600 appaiono i primi congegni capaci di agevolare il disegno e/o di intrattenere le folle con spettacoli in cui viene riprodotta o allusa la realtà che ci circonda. Si pensi, ad esempio, alle ombre cinesi o alla lanterna magica. 1

2 LA CAMERA OBSCURA La camera oscura si diffonde particolarmente nel 600 e 700 tra i pittori vedutisti, di cui ricordiamo per esempio Canaletto, che la utilizzava per rivelare la struttura prospettica delle vedute. L'ingresso al canal grande con la dogana e la chiesa della salute, (?) di Cataletto (Venezia 7 ottobre 1697 Venezia, 19 aprile 1768). La camera oscura è costituita da una scatola, ma può anche essere una stanza a tenuta di luce (in cui non entra luce, ossia, una stanza al buio). Ad una parete è praticato un foro, detto stenopeico, attraverso il quale passa la luce, che forma sulla parete opposta a quella d entrata l immagine di ciò che, illuminato, sta fuori. L immagine per una semplice legge ottica apparirà capovolta sia in senso orizzontale che verticale. Successivamente, al foro stenopeico venne sostituita una lente e poi un obiettivo, con conseguente innalzamento della qualità e della luminosità. 2

3 Rappresentazioni del principio ottico della camera oscura. 3

4 L impiego della camera oscura è comunque strettamente legato allo studio della prospettiva, problema particolarmente sentito nel Rinascimento, e Leon Battista Alberti ne parla nel suo trattato Della pittura (1436) in base agli esperimenti effettuati dal Brunelleschi, durante la costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze. LA LANTERNA MAGICA Se la camera oscura è un mezzo per registrare le immagini, la lanterna magica, descritta per la prima volta nel 1646 da Athanasius Kircher, ha la funzione di proiettare le immagini collocate al suo interno. Grazie ad una candela, spesso sostituita con un lume ad olio, uno specchio concavo e una serie di lenti, l immagine su vetro viene proiettata all esterno da un obiettivo, ingrandendola. La lanterna magica era utilizzata per intrattenere il pubblico con spettacoli, che spaziavano dalla magia allo spiritismo, dall evocazione di luoghi fantastici ed immaginari. La lanterna magica conobbe continui miglioramenti, tra cui la simulazione del movimento, anticipando quello che sarà il futuro spettacolo cinematografico. Difatti, alle immagini dipinte vennero in seguito affiancate quelle fotografiche, assicurando veridicità e modernità. Rappresentazione della lanterna magica in sezione. 4

5 Esemplare di lanterna magica ad un obiettivo. LA FOTOGRAFIA La fotografia sorge all inizio dell Ottocento e rispecchia determinate esigenze come: - la necessità di disporre di immagini il più possibile veritiere, non influenzate quindi dall abilità o dall interpretazione dell esecutore, in altre parole si pretendevano immagini oggettive della realtà; - l aumento della richiesta di ritratti a causa del benessere e dunque dei nuovi ruoli assunti dalle diverse classi sociali; - la possibilità di ampliare la comunicazione mediante il maggior utilizzo di immagini. 5

6 La pittura, a causa dei lunghi tempi di lavoro, del costo elevato e dell inevitabile imprecisione non riesce più a soddisfare le numerose richieste, per cui cresce l esigenza di un mezzo più rapido ed economico che non preveda un eccessiva manualità, la fotografia per l appunto, che nasce grazie ai progressi verificatisi in due settori di ricerca: - l ottica (camere oscure, obiettivi, diaframma, otturatori); - la chimica (i materiali fotosensibili). L OTTICA E LA CHIMICA Se dal punto di vista dell ottica, i primi fotografi dovettero solamente adattare le conoscenze e gli strumenti che già utilizzavano, come la camera oscura o la lanterna magica, dotandoli di innesto per le lastre fotografiche, per quanto riguarda la chimica dovettero inventare delle superfici che fossero in grado di registrare autonomamente l immagine proveniente dall esterno. Spettò quindi alla chimica il compito di fornire un materiale che, in base alla quantità di luce che lo colpiva, fosse in grado di modificarsi, un materiale detto perciò fotosensibile. La sostanza individuata, e ancor oggi utilizzata, è l argento che, secondo varie formulazioni, annerisce sotto l azione della luce. Questo però è solo il primo passo. Alcuni, infatti, erano già riusciti ad ottenere immagini direttamente dalla luce e tra questi dobbiamo annoverare almeno gli inglesi Wedgwood e Davy ma, inesorabilmente, le lastre finivano con l annerire completamente al perdurare dell azione. Per completare l invenzione era necessario quel composto, che oggi chiamiamo fissaggio, in grado di bloccare stabilmente le modificazioni del materiale fotosensibile. 6

7 I PIONIERI Joseph Nicéphore Niépce Il primo ad ottenere un immagine fotografica e a conservarla perfettamente inalterata, fu il francese J. N. Niépce che, già nel 1816 ottiene un grande successo: realizza la prima immagine su carta sensibilizzata, con i toni invertiti, per mezzo della camera oscura. Deluso dall aver ricavato quello che oggi chiameremmo negativo e soprattutto dal fatto di non riuscire a stabilizzare l immagine, cambia supporto ed ingredienti, fino ad approdare ai famosi point de vue (letteralmente punto di vista, cioè veduta, vista ), figure ricavate direttamente dalla luce per mezzo del bitume di giudea, steso su una lastra di peltro inserita in camera oscura. Le prime fotografie ricavate con questo sistema sembrano risalire al 1824, ma sono andate perdute. La più antica eliografia, oggi conservata presso l Università del Texas, è la famosa veduta che Niépce ottiene dalla finestra dell abitazione ed è probabilmente del Per la realizzazione furono necessarie ben otto ore di esposizione. Tecnicamente, il bitume di Giudea colpito dalla luce schiariva stabilizzandosi; le parti rimanenti, rimosse mediante una miscela di essenza di lavanda e petrolio, lasciavano scoperto il peltro (successivamente rame argentato), che costituiva la parte scura dell immagine. Otteneva quindi un positivo, naturalmente in esemplare unico. Queste immagini sono solo il primo passo e Niépce ne è pienamente cosciente. Continuando le ricerche, consegue risultati incoraggianti dall utilizzo del vapore di iodio che aumenta il contrasto. 7

8 Vue de la fenêtre du domaine du Gras, à Saint-Loup-de-Varennes 8

9 Louis Jacques Mandé Daguerre Daguerre, pittore vedutista, immediatamente interessato alla scoperta di Niépce, prosegue la ricerca di quest'ultimo fino ad approdare nel 1935 ad una tecnica che prende il nome di dagherrotipia. Una lastra d'argento veniva a contatto con vapori di iodio, formando ioduro d'argento. Dopo un'esposizione non inferiore ai 15 minuti, i vapori di mercurio sviluppavano l'immagine che veniva poi fissata immergendo la lastra in acqua calda e sale da cucina (dal 1839, grazie alla scoperta dell'inglese F. Herschel, cominciò ad usare iposolfito di sodio). In questo modo Daguerre otteneva immagini direttamente positive, molto dettagliate, con tempi di esposizione ridotti ad alcuni minuti. La scoperta venne resa pubblica il 7 gennaio A differenza di quanto prodotto da Niépce nel 1826, il dagherrotipo costituiva un vero sistema fotografico, con tempi di realizzazione sufficientemente brevi e con un dettaglio d'immagine più che soddisfacente. Il governo francese, consapevole dell'importanza di tale scoperta, ne acquisì i diritti, favorendone da subito una larga diffusione. A causa dei lunghi tempi di esposizione, le prime applicazioni riguardarono l'architettura e le nature morte. L. J. M. Daguerre, Veduta di Parigi,

10 Il dagherrotipo Il dagherrotipo è costituito da una lastrina di metallo rivestita d'argento. La lastra veniva perfettamente lucidata e pulita, in modo da diventare uno specchio; a questo punto era pronta per essere resa sensibile alla luce. La si poneva all'interno di una scatola costruita appositamente nella quale veniva sensibilizzata ai vapori di iodio e successivamente esposta alla luce. Non esistevano otturatori e l'esposizione avveniva semplicemente togliendo e rimettendo a posto il tappo dell'obiettivo. Dopo l'esposizione, per rendere visibile l'immagine, la lastra doveva essere sviluppata all'interno di un secondo contenitore per mezzo di vapori di mercurio; infine veniva lavata con acqua distillata e posta ad asciugare. Nel dagherrotipo l'immagine è costituita da microscopiche particelle di mercurio sulla superficie argentata perfettamente lucida: le luci sono costituite da un deposito biancastro (amalgama mercurio-argento) mentre le ombre sono date dalla superficie lucida del metallo. Di conseguenza, per poter visionare l'immagine è necessario osservarla lateralmente: alla visione frontale, infatti, con il sole diretto, appare solo il metallo. Infatti, a seconda dell'inclinazione della lastra e dell'orientamento verso fondi luminosi o scuri, l'immagine appare positiva o negativa. Questa ambiguità dell'immagine, che appare sempre instabile ed evasiva, fa del dagherrotipo qualcosa di unico fra tutti i prodotti della fotografia. La superficie specchiata conferisce inoltre all'immagine dagherrotipica un effetto di tridimensionalità e, insieme alla ricchezza dei dettagli, riprodotti con grande finezza e precisione, contribuisce a dare al dagherrotipo un aspetto quasi "magico". Il procedimento per ottenere un dagherrotipo: Preparare una lastrina di metallo (rame) rivestendola di argento puro; esporre ai vapori di iodio; inserire la lastra in un telaio ed esporre non più di un'ora (al meno 15 minuti di esposizione); sviluppare l'immagine ai vapori di mercurio; fissare l'immagine per mezzo di sale marino o di iposolfito di sodio; lavare la lastra in acqua distillata calda. 10

11 Apparecchio per dagherrotipi realizzato da Enrico Federico Jest con ottica Lerebours, Parigi, 1840 ca., (Lugano, Collezione Antonetto). 11

12 William Henry Fox Talbot Sia col metodo di Niépce che di Daguerre, l'immagine ottenuta era in esemplare unico. Questo fatto costituisce sicuramente un limite per la fotografia così come la intendiamo oggi. Il primo ad ottenere un'immagine fotografica positiva riproducibile in più copie, grazie al passaggio intermedio del negativo, fu l'inglese Henry Fox Talbot. Questi usava della carta imbevuta di cloruro o nitrato d'argento (successivamente anche ioduro d'argento). In seguito all'esposizione ed allo sviluppo con acido pirogallico, si formava un'immagine negativa che veniva fissata con soluzioni a base di sale da cucina o iposolfito di sodio. Successivamente, dal negativo in carta resa trasparente con la paraffina, si potevano stampare per contatto un numero a piacere di copie positive. L'invenzione prese il nome di calotipia (che in greco significa bella immagine) ma venne chiamata anche talbotipia, in suo onore. Talbot procedeva nelle sue sperimentazioni all'oscuro di quanto accadeva in Francia con Daguerre, e solo quando l'invenzione del dagherrotipo divenne di dominio pubblico, si affrettò a comunicare i propri risultati. L'invenzione di Talbot, presentata alla Royal Society il 31 gennaio 1839, non ebbe un immediato successo, sia a causa del rigoroso controllo sui brevetti, sia perché le immagini ottenute non possedevano la qualità del dagherrotipo. Ciò non deve assolutamente togliere importanza all'invenzione, perché l'introduzione del negativo segna la nascita della fotografia moderna. Ne è comprova la realizzazione del primo fotolibro The Pencil of Nature da parte di Talbot, nel Mentre l'esperienza del dagherrotipo sarà destinata ad esaurirsi perché non era significativamente migliorabile, dalla calotipia si svilupparono nuovi procedimenti che portarono, attraverso passaggi significativi, alla fotografia attuale. Macchine fotografiche usate da E. F. Talbot 12

13 E. F. Talbot, calotipo, 1944 E. F. Talbot, Latticed Window with the Camera Obscura, 1835 (è il più antico negativo fotografico) 13

14 John Frederick William Herschel Scienziato dalle straordinarie qualità, è in grado dal 1819 di dimostrare la capacità dell'iposolfito di sodio di sciogliere i sali d'argento non esposti: fornisce, in pratica, la soluzione pressoché definitiva del fissaggio dell'immagine. Lo stesso Talbot, suo amico, utilizza procedimenti già sperimentati da Herschel, che gli aprono la strada verso il calotipo. A Herschel siamo debitori anche in termini linguistici: negativo e positivo, come fotografare e istantanea, sono i termini introdotti ufficialmente da Herschel. Non solo: nel 1839 realizza la prima fotografia su vetro e nel 1842 inventa la cianografia, una tecnica molto economica che permette di ottenere un'immagine direttamente positiva su carta. I SISTEMI La lastra umida al collodio Se al posto della carta resa lucida mediante paraffina usiamo una lastra di vetro, otteniamo un negativo di qualità elevata. La difficoltà da superare consiste nel far aderire stabilmente la soluzione d'argento al vetro, e all'inizio ci si riuscì utilizzando dell'albume d'uovo che fungeva da aggrappante. L'inventore della fotografia dell'albumina su vetro è Abel Niépce de Saint-Victor, nipote di Nicéphore, ed è datata Fino a quel momento, secondo la procedura studiata da Talbot, la tiratura delle copie positive da negativo calotipico avviene su fogli di carta salata. L elemento di novità fu introdotto da Blanquart Evrard e riguarda l uso dell albume d uovo come sostanza per far aderire i sali fotosensibili al foglio di carta, in analogia a quanto già sperimentato due anni prima da Abel Niépce de Saint Victor per le lastre negative su vetro. Il procedimento all albumina costituisce una notevole innovazione rispetto alla carta salata, in quanto per la prima volta il composto fotosensibile fatto di sali d argento non impregna direttamente il supporto, ma è separato da questo dalla sostanza collante costituita dall albume d uovo. Ciò determina un notevole miglioramento della qualità delle immagini, in quanto la visibilità delle fibre cartacee diminuisce nettamente conferendo alla copie positive maggiore dettaglio e ricchezza di toni. Il procedimento prevede che sul foglio di carta venga prima spalmata una mescolanza di albume d uovo e cloruro di ammonio, poi aggiunto nitrato d argento. La carta all albumina verrà utilizzata a partire dal 1854 anche per stampare le cartes de visite, i ritratti fotografici delle dimensioni di un biglietto da visita montati su cartoncino, brevettati dal fotografo ritrattista francese André Eugene Disderi. 14

15 Louis Désiré Blanquart Evrard (stampa all albumina), 1851 Alla migliorata qualità dell'immagine, non faceva ancora riscontro un'adeguata sensibilità, per cui l'esposizione necessitava di tempi ancora molto lunghi. Ne derivò un impiego destinato prevalentemente alla ripresa di architetture. A favore di questo nuovo metodo va citata la praticità, in quanto le lastre potevano essere preparate anche quindici giorni prima dell'utilizzo. Un consistente passo in avanti si ebbe nel 1851 con il procedimento al collodio umido, ad opera dell'inglese Frederich Scott Archer. I tempi di esposizione si ridussero drasticamente: pochi secondi o addirittura frazioni di secondo, con particolari metodi. Fu soprattutto questo fattore, assieme al metodo negativo-positivo, a decretarne il successo nonostante le difficoltà operative. I fotografi, per realizzare riprese in esterno, dovevano infatti disporre di un laboratorio portatile per eseguire tutte le operazioni necessarie. Con la lastra al collodio si ha inoltre una diffusione eccezionale del ritratto, che diventa una vera e propria moda. Inoltre, con il nuovo metodo, le fotografie che ritraggono le città si animarono di nuovi protagonisti: i passanti. L'avvento della lastra al collodio umido decretò inoltre l'abbandono della tecnica legata al dagherrotipo. 15

16 La lastra a secco e la pellicola Le lastre al collodio secco, introdotte a partire dal 1858, riscuotono un buon successo, ma richiedono esposizioni tre volte più lunghe. Dal 1871, grazie all'inglese Richard Maddox, sono introdotte le più pratiche lastre a secco che, con l'impiego della gelatina sensibilizzata con bromuro d'argento al posto del collodio, possiedono un'accresciuta sensibilità, destinata ad aumentare progressivamente grazie alle continue ricerche nel settore. Dal 1880 le foto alla gelatina al bromuro soppiantano definitivamente quelle al collodio. Le nuove lastre si possono preparare in anticipo e lo sviluppo non deve essere eseguito immediatamente dopo lo scatto. I tempi di posa si riducono a 1/25 di secondo. Da allora i miglioramenti riguardano la sostituzione della lastra di vestro con un supporto flessibile, più leggero e in gradodi consentire al fotografo di effettuare più scatti: la carta, per un breve periodo, e dal 1888 la pellicola. Quando la chimica permise queste innovazioni, ci fu un grande sviluppo relativamente alla macchina fotografica vera e propria, con la sostituzione della camera obscura con più sofisticati apparecchi. 16

17 Fotografia e cinematografo Nel corso degli anni la storia della fotografia e del cinema si sono intrecciate costantemente. I lavori condotti da Muybridge e Marey, ad esempio, risultano fondamentali per entrambe. Se da un lato la fotografia è riuscita a bloccare il movimento permettendone lo studio, questo è un ottimo punto di partenza per chi il movimento lo vuole riprodurre. Ai progressi fotografi dobbiamo aggiungere gli studi che portano nel 1829 Joseph Plateau alla teoria della persistenza delle immagini: la retina trattiene le immagini per un certo tempo. Questo fatto ci permette di percepire in modo continuo delle immagini che in realtà sono singole. Per verificare la teoria Plateau costruisce il il fenachistoscopio. Un notevole successo di pubblico lo ottiene Emile Reynaud con i suoi spettacoli al Museo delle cere Grévin di Parigi. Egli proietta brevi storie disegnate su nastri di carta. Lo spettacolo, corredato di accompagnamento musicale è conosciuto come teatro ottico. Reynaud anticipa sia il futuro cinema di animazione sincronizzato tra suono e immagine, sia la moderna pellicola cinematografica perché, come questa, la sua striscia è in grado di produrre rumori che accompagnano le immagini. Eadweard Muybridge E. Muybridge è il primo a realizzare nel 1878 una sequenza cronofotografica, riuscendo in tal modo a visualizzare, per esempio, il reale movimento degli arti di un cavallo al galoppo. Muybridge colloca 24 fotocamere una di fianco all'altra munite di cordicelle che vengono strappate dal cavallo stesso al suo passaggio azionando l'otturatore. Viene così dimostrato che per una frazione di secondo il cavallo solleva tutte e quattro le zampe. Seguiranno molti altri studi sugli animali e sulle persone che influenzeranno il mondo scientifico, fotografico, pittorico e cinematografico. A Muybridge dobbiamo anche l'invenzione dello zooprassinoscopio, con il quale era in grado di proiettare le istantanee del cavallo. E. Muybridge, Cavallo al galoppo,

18 Etienne-Jules Marey Etienne-Jules Marey, scienzato francese, realizza nel 1880 il cronofotografo a lastra unica a cui farà seguito nel 1882 il fucile fotografico in grado di scattare alla velocità di 12 foto al secondo una successione di 25 fotografie su altrettante lastre. Faranno seguito ulteriori miglioramenti, con l'utilizzo di una striscia di carta fotografica al posto delle lastre. Riesce in tal modo a descrivere con intento scientifico il volo degli uccelli ed analizza il movimento delle persone. Il fucile fotografico di E. J. Marey E. J. Marey, Studio sul volo degli uccelli 18

19 Nascita del cinematografo Edison, che conosciamo tra l'altro per aver inventato la lampada elettrica, conosce personalmente sia Muybridge che Marey e da questi ottiene preziosi suggerimenti, tra i quali quello di utilizzare un nastro di celluloide perforato. Il brevetto di Edison e del suo collaboratore Dickson di una macchina per la ripresa (cinetografo) e una per la visione individuale del filmato (cinetoscopio) è del Al costo di un nikel lo spettatore, che deve girare una manovella, può assistere ad una breve scenetta animata della durata di 15 secondi. I fratelli Lumière Partendo dal cinetoscopio di Edison, e prendendone l'idea della pellicola 35 millimetri perforata, i fratelli Lumière realizzano e brevettano nel 1895 un apparecchio chiamato successivamente cinematografo. Al ritmo di 16 immagini al secondo, registrate su una pellicola 35 mm di elevata qualità con un'unica perforazione circolare per fotogramma, la macchina è in grado di proiettare brevi filmati di tipo documentaristico. Tra questi, il più famoso è sicuramente L'arrivo del treno alla stazione di La Ciotat che terrorizza i presenti, sorpresi dal realismo della rappresentazione. L'apparecchio brevettato resterà sostanzialmente immutato fino al 1927, quando le esigenze del sonoro imporranno inevitabili aggiornamenti. Nascita del cinema sonoro Il cinema sonoro si afferma dal 1927, grazie ad un azzardo della Warner, casa cinematografica in difficoltà, che tenta il tutto per tutto producendo Il cantante di jazz. Il successo fu tale da spingere i concorrenti ad intraprendere la stessa strada. La cinepresa La pellicola esce dal caricatore e viene impressionata un fotogramma alla volta per mezzo di un otturatore rotante che si apre solamente quando la pellicola rimane bloccata per un brevissimo istante (1/50''). Le prime cineprese erano a manovella e necessitavano di operatori abilissimi nel mantenere costante la rotazione. Successivamente si perviene a più pratici meccanismi a molla e successivamente ai motori elettrici. Il proiettore cinematografico Il proiettore è una macchina da acquisizione ma da visione. La luce della lampada nel suo 19

20 percorso verso l'obiettivo incontra la pellicola che scorre verticalmente; prima della pellicola un otturatore rotante (a pale o a farfalla) permette la proiezione di un fotogramma alla volta. 20

21 Gli apparecchi fotografici Finché non si poté disporre della luce prodotta da una lampada elettrica, le fotografie venivano stampate per contatto per cui si usavano lastre di grande formato e, di conseguenza, gli apparecchi fotografici erano piuttosto voluminosi. Con l'utilizzo della lampadina invece, i negativi potevano avere dimensioni più contenute, poiché successivamente sarebbero stati stampati per ingrandimento. Se a ciò aggiungiamo la sostituzione del vetro con la pellicola, ecco creati tutti i presupposti per la costruzione degli apparecchi fotografici moderni. Mammouth Viste le iniziali difficoltà ad ingrandire le immagini (per la lampada ad incandescenza si deve attendere l'invenzione di Edison del 1878), si costruiscono macchine in grado di alloggiare lastre di notevoli dimensioni. Il più grande apparecchio fotografico costruito al mondo è il Mammouth. Commissionato da una compagnia ferroviaria americana per ritrarre nel massimo dettaglio un treno di lusso: pesava 650 chili e necessitavano di 15 operatori. Era in grado di fornire immagini grandi 1,35x2,40 m che suscitarono tale ammirazione da vendersi assegnato il Gran premio mondiale all'esposizione Universale di Parigi del Eseguite le fotografie per le quali era stato commissionato, non venne più utilizzato a causa della sua mole. La Kodak La pellicola in rullo consentì l'ideazione e la creazione di macchine fotografiche semplici e alla portata di tutti. Il primo produttore di apparecchi di grande diffusione, fu George Eastman fondatore della Kodak. Le prime macchine Kodak, commercializzate dal 1888, usavano rulli in celluloide dai quali si ricavano cento immagini rotonde del diametro di sei centimetri. Le difficoltà erano ridotte al minimo: il fotografo comprava l'apparecchio completo di pellicola; dopo aver effettuato gli scatti lo spediva al laboratorio che, oltre a sviluppare le foto, restituiva l'apparecchio ricaricato. La fotografia, grazie ad un crescente utilizzo amatoriale, è diventata un fenomeno economicamente rilevante. La Kodak occuperà per molti anni il ruolo di leader nella fotografia di larga diffusione, basti pensare al modello Instamatic, che dal 1963 per 25 anni rappresenterà lo standard della fotografia amatoriale. 21

22 La Leica Nel 1925 in Germani iniziò la commercializzazione di una fotocamera che utilizzava la pellicola cinematografica 35mm. La macchina venne chiamata Leica, unendo Leltz con Camera, dal nome della fabbrica. L'apparecchio, aggiornato sistematicamente, diede origine al formato 24x36 mm, che ancora oggi è il più diffuso. Tecnicamente all'avanguardia, disponeva di ottica intercambiabile, di otturatore sul piano focale, e di telemetro accoppiato per la corretta messa a fuoco. Leica I La reflex monoculare Il sistema reflex viene ulteriormente sviluppato quando a metà degli anni trenta sempre in Germania, si costruisce la prima reflex con un unico obiettivo. L'apparecchio, compatto e versatile, è dotato di uno specchio che si solleva al momento dello scatto consentendo perciò alla luce di passare e, una volta aperto l'otturatore, di colpire la pellicola. L'otturatore è di tipo a tendine. La Polaroid Nel 1948 Edwin Land iniziò la commercializzazione di un sistema fotografico rivoluzionario in grado di produrre una stampa fotografica in bianco e nero dopo un solo minuto dallo scatto. Il sistema, denominato Polaroid, oltre all'emulsione comprendeva un apparecchio in grado esporre e trattare le famose pellicole a strappo. Con gli anni si raggiunsero vari traguardi tra i quali la pellicola a colori (1963), la diapositiva in bianco e nero, agli inizi degli anni '80, la diapositiva 35 mm a colori. 22

23 Polaroid Land Camera 1000 La fotografia a colori La fotografia a colori costituì il sogno dei fotografi sin dai primordi non solo per motivi estetici, ma anche per avvicinarsi a quell'obiettività tanto ricercata. Non potendo tecnicamente arrivare subito a tale risultato, all'inizio ci si accontentò di colorare manualmente le immagini, finché all'inizio del 1900 i fratelli Lumière brevettano le lastre Autochromes con le quali si ottengono immagini positive dalla granulosità piuttosto accentuata. Bisogna invece arrivare agli anni 1930 per trovare un prodotto commercializzato a larga scala, e ci riescono quasi contemporaneamente l'americana Kodak e la tedesca Agfa, dapprima con pellicole diapositive e successivamente, dal 1942, con quelle negative. Il cinema a colori Oltre alla colorazione manuale delle pellicole, un'altra tecnica molto utilizzata fu quella del viraggio, che consiste nel colorare chimicamente di un unico colore la pellicola: a seconda delle condizioni, la colorazione variava. Per le scene notturne si usava il viraggio blu, mentre il giallo era 23

24 funzionale al sole. Le scene passionali erano rosse, ma diventavano violacee per sottolineare gli stati ansiosi; il viraggio verde era impiegato per le scene esterne. La tecnica del viraggio venne abbandonata perché pregiudicava la qualità del sonoro, che viene registrato sulla pellicola stessa. A iniziare dal 1908 si diffonde il Cinemacolor, mentre dal 1933 farà la sua apparizione il Technicolor che da allora sarà adottato dalle grandi case produttrici, che potevano permetterselo, e da Walt Disney. Si tratta di una pellicola a tre strati, chiamata tripach, con tre immagini sovrapposte riprese attraverso tre filtri colorati; i risultati sono notevoli ma i costi limitano l'impiego alle grosse produzioni. Più economico, invece, è il sistema messo a punto dalla Kodak, chiamato Eastman Color, che affiancherà il Technicolor fino al ritiro di quest'ultimo alla fine degli anni '70. La luce artificiale Abituati ai moderni flash elettronici, oggi stentiamo a renderci conto delle grandi difficoltà e dei pericoli che dovevano affrontare i fotografi nell'utilizzo delle prime luci artificiali. Già nel 1851 Talbot utilizzava la luce di una scintilla elettrica, ma il metodo era poco praticabile per l'esigua luce prodotta. Dal 1860 venne utilizzato il magnesio, la cui esplosione provocava un'intensa illuminazione da combinare con quella naturale, anche se l'operatore non era priva di rischi. Nel 1920 si pervenne alla lampada vacublitz consistente in un'ampolla di vetro nella quale la polvere di magnesio veniva accesa da una scintilla elettrica. Il sistema era del tipo usa e getta. Negli anni '30 si costruiscono i primi flash elettronici, utilizzati principalmente in campo scientifico e militare. I flash compatti e portatili che oggi conosciamo sono prodotti solo da pochi decenni. 24

25 LE MACCHINE FOTOGRAFICHE INFORMAZIONI GENERALI Il formato Una prima distinzione importante per gli apparecchi fotografici riguarda il formato del sensore della pellicola che sono in grado di alloggiare. Di prassi, si sono sempre distinte tre categorie: piccolo, medio e grande formato. Alla prima categoria appartengono gli apparecchi fino al 35 mm (24x36 mm), alla seconda quelli che utilizzano pellicole 120 (dal 4.5x6 al 6x9 cm), alta terza quelli che impiegano formati superiori. Questo, per quanto riguarda l'analogico; e per il digitale? Le macchine fotografiche digitali ricalcano, riguardo il formato, le ormai storiche denominazioni degli apparecchi a pellicola anche se, oggettivamente, il mercato delle fotocamere di medio e grande formato rappresenta, oggi più che mai, una nicchia. Ciò è dovuto agli enormi progressi fatti dai sensori, le cui potenzialità superano ormai di gran lunga le capacità di sviluppo offerte dalla pellicola. Un formato full-frame, ovvero 24x36 mm, offre un numero tale di pixel da rendere talvolta superfluo il ricorso a standard superiori che, ovviamente, possono offrire di più, ma a costi decisamente impegnativi. Il corpo macchina La grande diffusione dei modelli compatti porta spesso a considerare la fotocamera come un tutt'uno, ma per le macchine di un certo livello è utile distinguere due elementi fondamentali: il corpo macchina e l'obiettivo intercambiabile. Il corpo di un apparecchio fotografico deve offrire una garanzia assoluta di ermeticità alla luce e resistenza, ma non solo. A distanza di quasi duecento anni, la camera obscura prevalentemente meccanica, si è trasformata arricchendosi di componenti elettroniche in grado di conferirne prestazioni particolari e di velocizzare le varie operazioni che vanno dal calcolo dell'esposizione alla messa a fuoco automatizzati, dalla cattura di filmati alla registrazione dell'audio. Al di là del tipo di apparecchio e del suo grado di innovazione, nel corpo macchina trovano alloggiamento gli elementi fondamentali di ogni sistema fotografico. La parte posteriore, il dorso, è diventato un elemento fondamentale, perché alloggia il monitor con il quale si accede al menu e, soprattutto, si possono visionare le fotografie appena scattate. Di fianco al monitor sono collocati i pulsanti di rapido accesso con cui regolare rapidamente la fotocamera.

26 Fotocamere reflex 35 mm Le prime fotocamere reflex digitali utilizzavano in larga misura il corpo macchina dei tradizionali modelli 35 mm a pellicola, opportunamente adattati. Al posto della pellicola venivano collocati il sensore e gli altri componenti elettronici. Il dorso, apribile nei modelli analogici, diventò un tutt'uno con l'involucro e posteriormente fece la sua apparizione il monitor per visionare i menu e le immagini catturate. Oggi, pur ricalcando le forme ergonomicamente sviluppate in tanti anni di esperienza, la reflex vanta strutture originali perfettamente consone alle esigenze digitali; prodotta in una notevole quantità di varianti, rappresenta sia lo strumento professionale per eccellenza che il mezzo entrylevel per affacciarsi seriamente al mondo della fotografia e non solo, se si considerano gli enormi progressi che hanno riguardato la ripresa video. È un dato di fatto che le industrie siano sempre più orientate verso la produzione di prodotti ibridi dalle caratteristiche spesso eccellenti. GLI OTTURATORI Nel 1826 a Niépce furono necessarie ben otto ore di esposizione per ottenere la prima immagine fotografica; oggi, con l'incremento della sensibilità delle pellicole e dei sensori, per la stessa immagine basterebbero frazioni di secondo ed in condizioni particolari potremmo ipotizzare addirittura un tempo di 1/1000 di secondo o inferiore. Come si può effettuare un'esposizione per un tempo così breve ed in modo preciso? Ciò si ottiene grazie ad un congegno chiamato otturatore, che può essere di tipo meccanico, sebbene oggi sia più frequentemente a controllo elettronico. Otturatore sul piano focale, detto a tendina L'otturatore a tendina si colloca nel corpo macchina, sul piano focale, quindi immediatamente davanti alla pellicola. Assieme al dorso dell'apparecchio, è il congegno in grado di riparare costantemente dalla luce il sensore o l'emulsione, salvo il momento in cui il fotografo preme il pulsante di scatto. In questo caso, l'otturatore è in grado di aprirsi per un tempo che può durare da alcuni secondi a millesimi di secondo, durante il quale la luce impressiona la superficie fotosensibile. Questo modello prende il nome da due tendine costituite originariamente da una tela gommata a tenuta di luce, oggi sostituite da lamelle in metallo o in materiali compositi, come il carbonio, che ne ricalcano comunque i movimenti. Vediamo i movimenti nel dettaglio. Ipotizziamo di impostare un tempo di esposizione di 1'' al momento dello scatto, la prima tendina si apre spostandosi dall'alto in basso scoprendo

27 interamente il sensore (o la pellicola). esattamente dopo 1" dall'inizio del movimento della prima tendina, ne parte una seconda che, sempre dall'alto in basso, chiude l'otturatore coprendo il sensore. Notate che la zona che viene scoperta per prima, quella superiore, è anche la prima a richiudersi, garantendo così un identico tempo di esposizione in qualsiasi punto del sensore. Con un tempo di esposizione lungo come quello dell'esempio, il sensore resta completamente scoperto. Questo avviene anche per alcuni tempi più brevi ma, accorciandosi drasticamente l'esposizione, il movimento delle due tendine si fa più ravvicinato, tanto che la seconda inizia il movimento quando la prima non ha ancora concluso la sua corsa. In questo caso la pellicola viene esposta mediante la luce che passa attraverso una finestrella, di larghezza costante, che scorre dall'alto verso il basso, la cui larghezza è determinata dal tempo di esposizione, e che si riduce ad una feritoia impercettibile per i tempi ultra rapidi. L'otturatore centrale L'otturatore storicamente di più antica data è quello a lamelle, comunemente detto centrale. La funzione svolta è la medesima di quello a tendina: garantire alla pellicola un'esposizione alla luce in un tempo preciso predeterminato, però la forma costruttiva e la collocazione lo fanno differire nettamente dall'altro tipo di otturatore. Innanzitutto si deve osservarne il posizionamento: l'otturatore centrale è tutt'uno con l'obiettivo, posizionandosi nel punto di contatto tra questo e il corpo macchina. La sua forma è ovviamente circolare, ed è costituito da una serie di lamelle che al momento dello scatto si aprono, lasciando passare la luce. Dopo essersi aperte totalmente, trascorso il tempo di otturazione impostato, le lamelle tornano alla posizione iniziale, richiudendosi. È importante notare che per qualsiasi tempo di esposizione si ha la totale apertura dell'otturatore, consentendo in questo modo l'utilizzo del flash anche con i tempi più brevi che, tuttavia, sono limitati ad 1/500'' o ad 1/800''. Questa categoria di otturatori trova impiego nelle fotocamere di grande formato ma anche in alcune

28 reflex di medio formato, pur con i dovuti accorgimenti per renderti compatibili a questa tipologia. Nelle fotocamere a pellicola, era spesso utilizzato negli apparecchi non reftex per la semplicità costruttiva. Tipi di otturatore a confronto L'otturatore a tendina ha dimensioni pari al formato della pellicola. Di conseguenza il suo utilizzo è limitato al piccolo formato e alle misure inferiori del medio. È impensabile la costruzione di otturatori per macchine di grande dimensione quali il 4x5'' o addirittura l'8x10'' (misure in pollici: un pollice corrisponde a 25,4 mm). L'otturatore centrale è perciò obbligatoriamente impiegato nel medio grande formato, ma trova un suo largo utilizzo anche negli apparecchi analogici di piccolo formato ad ottica fissa. I punti di forza dell'otturatore a tendina sono: i brevissimi tempi di esposizione la collocazione sul piano focale, che lo rende perfettamente idoneo per l'utilizzo in apparecchi reflex. A favore dell'otturatore centrale vanno invece: la semplicità costruttiva la sincronizzazione totale con il flash l'adattabilità a qualsiasi formato. Per contro, qualora l'apparecchio abbia le ottiche intercambiabili, ognuna di queste dovrà essere munita di otturatore, con un aggravio di spese. I tempi di esposizione I tempi di esposizione classici seguono una regola molto semplice: ogni tempo è il doppio o la metà di un altro. Nelle macchine fotografiche troveremo quindi i tempi espressi in secondi come riportato in tabella, tenendo presente che, per ragioni di spazio, nelle fotocamere i suddetti valori vengono indicati senza la frazione per cui 1/125", ad esempio, viene visualizzato solo con 125, mentre i valori interi (1 secondo o superiori) riportano il simbolo dei secondi (l" - 2" - 4" eccetera).

29 Scala dei valori di base da l'' a 1/2000'' 1'' 1/2 1/4 1/8 1/15 1/30 t/6o 1/125 1/250 1/500 1/1000 1/2000 I modelli recenti inoltre hanno introdotto l'impiego di tempi intermedi, del valore di un terzo di stop (per stop si intende la variazione tra un tempo ed il suo doppio, ad esempio tra 1/60 e 1/30 e viceversa). Si tratta di regolazioni fini che aumentano il grado di precisione dell'esposizione. Nell'esempio riportato nelle tabelle, la differenza di uno stop può essere ad esempio tra 1/125 e 1/250, tra 1/160 e 1/320, tra 1/200 e 1/400. Per tempi Superiori a 30" si può utilizzare la posa B (bulb) che consente di mantenere aperto l'otturatore finché resta schiacciato il pulsante di scatto. In questo caso è consigliabile l'uso di un cronometro e del telecomando, per evitare di trasmettere vibrazioni con la pressione del dito. Scala di alcuni valori intermedi da 1/40'' a 1/500'' 1/40 l/50 1/60 1/80 1/100 1/200 1/250 1/320 1/400 1/500

30 L'obiettivo e il diaframma L'obiettivo costituisce il cuore di un sistema fotografico, influendo sulla qualità dell'immagine più di qualunque altra innovazione tecnica. Dal semplice foro stenopeico dei primi modelli di camera obscura ai più recenti sistemi ottici, le case produttrici si sono costantemente impegnate per migliorarne qualità e versatilità. Un foro stenopeico è un foro estremamente piccolo, in grado di far passare i raggi provenienti dal soggetto inquadrato in modo selettivo. Con un'apertura maggiore, i raggi passerebbero in modo disordinato senza formare l'immagine. Grazie all'ausilio di lenti, un obiettivo è invece in grado di formare un'immagine con aperture molto maggiori, ottenendo quindi una notevole diminuzione del tempo di posa. Gli obiettivi sono tutti dotati di diaframma. Oggi è comunemente impiegato il modello ad iride, formato da un numero di lamelle variabile da cinque ad otto, che ne danno la forma caratteristica da pentagonale ad ottagonale. Il diaframma svolge una duplice funzione: regola l'esposizione della pellicola (insieme all'otturatore) conferisce all'immagine una forte caratterizzazione relativamente all'estensione delle zone messe a fuoco (profondità di campo). La scelta del diaframma da utilizzare costituisce uno dei momenti delicati nella ripresa fotografica, e va pondera attentamente.

31 Il mirino Le macchine fotografiche di piccolo e medio formato si differenziano anche in base al mirino utilizzato per inquadrare. Distinguiamo principalmente tre tipi: fotocamere a mirino separato (mirino diretto o galileiano) fotocamere a mirino reflex fotocamere a mirino elettronico Le prime hanno un sistema di inquadratura separato dall'obiettivo. Le fotocamere reflex monobiettivo permettono invece di vedere t'immagine attraverso l'obiettivo utilizzato per la ripresa, col vantaggio, rispetto al mirino separato, di una coincidenza perfetta tra ciò che s'inquadra e ciò che si fotografa. I mirini elettronici consentono la visione attraverso il monitor ed hanno trovato larghissima diffusione nelle macchine compatte e nei telefoni cellulari. Per le nuove generazioni rappresentano il sistema più naturale per inquadrare ma non sono privi di inconvenienti quali la scarsa visibilità con luce alle spalle, una visione comunque piccola (lo schermo ha dimensioni ridotte) ed una maggiore difficoltà nel tenere fermo l'apparecchio la cui forma, tra l'altro, non è per nulla ergonomica. Recentemente alcune macchine reflex hanno adottato, assieme alla classica visione da mirino, il mirino elettronico, chiamato Live View: abbinato ad un monitor orientabile, può essere molto utile per riprese dal basso o dall'alto, o dal cavalletto, mentre per riprese normali resta preferibile il mirino tradizionale. Mirino diretto o galileiano Mirino reflex

32 L'errore di parallasse L'errore di parallasse, che consiste nella mancata coincidenza tra ciò che il fotografo vede attraverso il mirino e quello che l'obiettivo effettivamente inquadra e registra ed è dovuto alla mancata coincidenza tra l'asse ottico dell'obiettivo e quello del mirino. Tale difetto si evidenzia soprattutto con riprese ravvicinate o comunque quando, nella stessa inquadratura, sono presenti soggetti vicini e lontani, dal momento che viene sfalsata la relazione tra di essi. L'errore è praticamente assente invece nelle foto di paesaggio. Bisogna comunque dire che con gli anni, grazie anche all'uso dell'elettronica, si sono raggiunte correzioni molto significative. LA REFLEX MONOCULARE SLR La visione reflex La grande innovazione introdotta in questo tipo di macchine consiste nella visione dell'inquadratura direttamente dall'obiettivo attraverso il quale si formerà successivamente l'immagine fotografica. In questo caso abbiamo la perfetta coincidenza tra l'asse ottico dell'obiettivo e quello del mirino. L'apparecchio viene chiamato reflex perché l'immagine arriva all'occhio del fotografo dopo aver subito una serie di riflessioni tramite lo specchio a 45 posto dietro l'obiettivo, e successivamente dal pentaprisma. Grazie a quest'ultimo, l'occhio del fotografo è posto nella posizione più naturale,

33 dietro la fotocamera, e l'immagine inquadrata risulta perfettamente dritta, sia orizzontalmente che verticalmente. Osservando la sezione di un apparecchio reflex è facile intuire che la macchina ha una serie di componenti mobili. Lo specchio infatti costituisce un ostacolo al passaggio dell'immagine verso il sensore (la pellicola nei modelli analogici). Ecco allora che al momento dello scatto viene sollevato mediante una rotazione, così che i raggi possono dirigersi verso il sensore. È importante sottolineare che lo specchio non garantisce affatto l'impermeabilità alla luce: questo compito è affidato interamente all'otturatore a tendina, posto sul piano focale. Al momento dello scatto lo specchio, sollevandosi, interrompe la visione del fotografo. Nella pratica questo non costituisce un problema, poiché i tempi di esposizione sono talmente brevi da rendere l'interruzione appena percettibile. Con tempi più lunghi e l'uso del cavalletto, l'immobilità del soggetto rende inutile il controllo dell'inquadratura. Cosa succede dunque ogni volta che si preme il pulsante di scatto? Ad ogni click corrispondono questi movimenti in successione: lo specchio si solleva l'otturatore si apre per un tempo prefissato permettendo l'esposizione del sensore l'otturatore si richiude lo specchio ritorna in posizione a 45 Per completezza, durante il sollevamento dello specchio si verifica anche la chiusura del diaframma ai valori impostati; con il riposizionamento dello specchio il diaframma si riapre alla massima apertura.

34 La messa a fuoco Come spesso verrà ricordato, la reflex rappresenta la macchina per eccellenza, anche in termini di flessibilità. Ecco perché non può mancare in modelli così sofisticati la messa a fuoco manuale, utile quando l'autofocus non funziona a dovere (con un insufficiente livello di illuminazione o di contrasto possono verificarsi errori di valutazione, se non addirittura l'impossibilità di effettuare lo scatto) oppure nei casi in cui il fotografo ritenga questo metodo più efficace.

35 GLI OBIETTIVI CARATTERISTICHE GENERALI Prima di utilizzare un obiettivo, le camere obscure erano semplicemente munite di un foro stenopeico, di diametro estremamente ridotto, capace di fornire immagini sufficientemente dettagliate ma molto morbide e poco incisive. L'impiego di un obiettivo, oltre ad aumentare la nitidezza generale, consentì la diminuzione dei tempi di posa, poiché l'apertura dell'obiettivo può essere maggiore di quella del foro stenopeico. Gli innumerevoli elementi presenti in un'inquadratura, per venire registrati su una pellicola grande pochi centimetri quadrati, o su sensori, generalmente ancora più piccoli, hanno bisogno di un dispositivo in grado di proiettarne l'immagine nitidamente e senza distorsioni: l'obiettivo. Qualità e difetti dell'obiettivo Ad un obiettivo vengono richieste tutta una serie di prerogative in grado di conferire all'immagine due grandi categorie di requisiti: la qualità nella resa dei particolari e la mancanza di distorsioni ottiche. Vediamole più approfonditamente. Qualità nella resa dei particolari La capacità di cogliere i particolari più minuti del soggetto, è indicata con il temine nitidezza. Ad essa concorrono diversi fattori, tra i quali il progetto e la qualità delle lenti, ma è fondamentale porre molta attenzione anche alla scelta del diaframma da utilizzare. La massima qualità d'immagine si ottiene sempre diaframmando a valori intermedi, nel qual caso si possono correggere anche le aberrazioni. Mancanza di distorsioni ottiche Se s'immagina di fotografare un reticolo fatto di linee orizzontali e verticali, la fotografia potrebbe risultare affetta da distorsione a barilotto o a cuscinetto. Nel caso dei grandangolari è tipica quella a barilotto, che assume caratteristiche spettacolari negli obiettivi fìsh-eye.

36 Diaframma e qualità L'utilizzo del diaframma alla massima apertura porta ad una minore qualità dell'immagine (minor nitidezza, caduta di luce ai bordi, mancata correzione delle eventuali aberrazioni), pertanto se ne consiglia l'uso solo come ultima risorsa nei casi di scarsità di luce. La regolazione del diaframma alla massima chiusura, pur comportando una minore nitidezza, è più praticabile, perché costruttivamente si limita la chiusura a valori che non danneggiano l'immagine. Con diaframmi strettissimi, infatti, si andrebbe incontro alla diffrazione, un fenomeno determinato dalla deviazione subita dai raggi più prossimi alle lamelle, con conseguente diffusione della luce e quindi minor nitidezza. - Caduta di luce (vignettatura): indica la diminuzione di luce dei bordi dell'immagine rispetto al centro, ed è massima per diaframmi aperti. - Nitidezza: a livello di laboratorio, è data dalla capacità di distinguere il maggior numero di linee per millimetro nella fotografia prodotta. Anche in questo caso, viene valutato il comportamento dell'obiettivo, con riferimento ai diversi diaframmi, al centro dove la qualità è massima, ed ai bordi, dove c'è un generale decadimento.

37 - Distorsione: viene valutato il comportamento dell'ottica nella restituzione di linee orizzontali e verticali, con misurazioni al centro (dove è nulla), in zone intermedie ai bordi. - Aberrazione cromatica: è l'incapacità di mettere a fuoco sullo stesso piano colori differenti. - Aberrazione sferica: è l'incapacità di mettere a fuoco sullo stesso punto i raggi visuali più esterni con quelli interni. LE MISURE FONDAMENTALI La lunghezza focale L'obiettivo è un sistema di lenti assemblate in gruppi, in grado di fornire un'immagine capovolta e rimpicciolita su un piano di messa a fuoco detto piano focale. La lunghezza focale ne è l'elemento più caratterizzante, poiché al suo variare le caratteristiche dell'ottica cambiano in modo macroscopico: si può passere da ottiche che fanno vedere poche cose ma ingrandite (come i cannocchiali o, al limite, i telescopi), ad obiettivi che inquadrano, rimpicciolite, larghe porzioni di spazio. Per comprendere e dare una definizione di lunghezza focale semplificata, possiamo prendere in esame una lente positiva, cioè convergente, in cui distinguiamo i seguenti elementi ): - l'asse ottico - il centro ottico (c) - i centri nodali anteriore (n) e posteriore (n') - i piani nodali anteriore (pn) e posteriore (pn') Punti nodali: un raggio oncidente passante per il centro subisce uno spostamento dovuto allo spessore della lente. I punti nodali sono dati dall'intersezione dei prolungamenti dei raggi, incidente ed emergente, con l'asse ottico. I piani perpendicolari all'asse ottico passanti per questi punti sono chiamati piani nodali anteriore e posteriore.

38 Ipotizzando come in figura un soggetto a distanza infinita, i cui raggi visuali arrivano parallelamente all'asse ottico, possiamo fornire la seguente definizione: la lunghezza focale è la distanza tra il piano focale posteriore e il piano focale, mettendo a,fuoco all'infinito. Ingrandimento angolo di campo lunghezza focale - Ingrandimento: L'ingrandimento è in stretta relazione con la lunghezza focale e varia con legge direttamente proporzionale: al raddoppiare della focale, corrisponde una dimensione doppia del soggetto sulla pellicola e viceversa. Mantenendo fissa la distanza di ripresa, mantenendo costante il formato fotografico (sensore o, pellicola) l'elemento che può modificare la grandezza del soggetto sulla pellicola è dunque la lunghezza focale. - Angolo di campo: L'angolo di campo è l'indice dell'area inquadrata dall'obiettivo. I dati trasmessi dai fabbricanti si possono riferire a tre parametri: angolo orizzontale, verticale e diagonale. Un obiettivo 50 mm per il formato 35 mm, ad esempio, ha un angolo di campo che vale rispettivamente 40, 27, 46. Quest'ultimo dato è il più utilizzato. Se classifichiamo gli obiettivi in base all'angolo di campo, otteniamo: obiettivi normali: obiettivi con angolo di campo i di circa 50 obiettivi di lunga focale (teleobiettivi): obiettivi :on angolo di campo inferiore a 45 obiettivi di corta focale (grandangolari): obiettivi con angolo di campo maggiore a 60 Per l'angolo di campo vale quanto detto per l'ingrandimento, inteso in senso opposto: dipende dalla lunghezza focale ma è ad essa inversamente proporzionale. Al suo raddoppiare, quindi, si dimezza.

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