MIRKO TAVONI «CONVERREBBE ESSERE ME LAUDATORE DI ME MEDESIMO» («VITA NOVA» XXVIII 2)



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11-tavoni 6-12-2006 9:30 Pagina 1 «CONVERREBBE ESSERE ME LAUDATORE DI ME MEDESIMO» («VITA NOVA» XXVIII 2) Perché, nella Vita nova, Dante non tratta della morte di Beatrice l evento cruciale dell intero libro nel momento in cui essa accade? Questa singolare reticenza o preterizione, questa vera e propria lacuna al centro della storia, è così motivata da Dante (XXVIII 2 ed. Barbi, 19 2 ed. Gorni): 1 E avvegna che forse piacerebbe a presente trattare alquanto de la sua partita da noi, non è lo mio intendimento di trattarne qui per tre ragioni: la prima è che ciò non è del presente proposito, se volemo guardare nel proemio che precede questo libello; la seconda si è che, posto che fosse del presente proposito, ancora non sarebbe sufficiente la mia lingua a trattare come si converrebbe di ciò; la terza si è che, posto che fosse l uno e l altro, non è convenevole a me trattare di ciò, per quello che, trattando, converrebbe essere me laudatore di me medesimo, la quale cosa è al postutto biasimevole a chi lo fae; e però lascio cotale trattato ad altro chiosatore. I commenti in uso non sanno spiegare questo ragionamento. Sintetizza bene Gorni: «Dante non tratterà della morte dell amata per tre motivi, poco perspicui nella loro formulazione»; 2 «della morte come 1. D. Alighieri, Vita nuova, edizione critica a cura di M. Barbi, Firenze, Bemporad, 1932 2 ; Vita nova, a cura di G. Gorni,Torino, Einaudi, 1996. 2. G. Gorni, La Vita nova nell opera di Dante, in Vita nova cit., p. XXXVII.

11-tavoni 6-12-2006 9:30 Pagina 2 2 evento Dante non tratta, per ragioni che non cessano di apparire misteriose». 3 Quanto alla prima ragione cioè che trattarne «non è del presente proposito, se volemo guardare nel proemio che precede questo libello», il «proemio» chiamato in causa si identifica certamente con ciò che sta scritto sotto la «rubrica» del libro della memoria «la quale dice: Incipit Vita nova. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d assemplare in questo libello; e se non tutte, almeno la loro sententia» (I). Ma perché la morte di Beatrice non rientrerebbe fra gli argomenti che è «proposito» o «intendimento» di Dante di «assemplare» dalle «parole» scritte nel libro della memoria, o almeno dalla loro «sententia»? De Robertis, nel suo commento al passo, scartate le spiegazioni addotte dal Barbi e da altri (che qui non si riesumano, perché palesemente non persuasive), scrive: «In realtà la morte di Beatrice non tocca la Vita Nuova in altro senso: che nulla è veramente accaduto, che il rinnovamento è interamente compiuto»; 4 nel senso che «Vita Nuova era il titolo e l argomento del libro: la celebrazione di un umanità e di una poesia nuove, la patria ritrovata. E a questa realtà nulla toglieva la morte di Beatrice, la storia di questo rinnovamento non era la storia di lei [come, nel Laelius ciceroniano, all amicizia di Lelio nulla toglieva la morte di Scipione]. Nulla in effetti era accaduto». 5 Ma è una spiegazione molto generica. Come scrive Gorni, «è arduo ammettere che tra le parole da asemplare in questo libello, pur con la restrizione e se non tutte almeno la loro sententia non trovi posto la partita di Beatrice». 6 Indica una direzione in cui cercare, ma non un preciso punto d arrivo, il commento di Luca Carlo Rossi: «forse perché l evento doloroso e le parole in prosa o in versi che lo trattano sono state escluse dal libro della memoria ; la mancata registrazione memoriale potrebbe anche essere segno di un esperienza mistica». 7 3. G. Gorni, La Beatrice di Dante, dal tempo all eterno, in D.Alighieri, Vita nova, a cura di L. C. Rossi, Introduzione di G. Gorni, Milano, Mondadori, 1999, p. XII. A esplorare queste ragioni Gorni dedica quasi l intero saggio. 4. D. Alighieri, Vita nuova, a cura di D. De Robertis, in Opere minori, Milano-Napoli, Ricciardi, 1984, p. 191 nota ad locum. 5. D. De Robertis, Il libro della Vita nuova, Firenze, Sansoni, 1961 e 1970 2, pp. 160-1. 6. Vita nova, a cura di G. Gorni, cit., p. 167, ad locum. 7. D. Alighieri, Vita nova, a cura di L. C. Rossi, p. 153, ad locum.

11-tavoni 6-12-2006 9:30 Pagina 3 «CONVERREBBE ESSER ME LAUDATORE DI ME MEDESIMO» 3 La seconda ragione «ancora non sarebbe sufficiente la mia lingua a trattare come si converrebbe di ciò» viene da tutti i commentatori ascritta al topos dell ineffabilità, il che è tautologico: ma perché proprio questo evento dovrebbe essere ineffabile? Della morte di Beatrice Dante tratta prima, nel cap. XXIII, sotto forma di «erronea fantasia» premonitrice, particolarmente allucinata, se scende a dettagli del tipo: «quando io avea veduto compiere tutti li dolorosi mestieri che a le corpora de li morti s usano di fare»; e ne tratta dopo, nei capp. XXIX e XXX e nella canzone Li occhi dolenti, che la presenta come un ascensione al cielo: «Ita n è Beatrice in l alto cielo», ecc. Poiché queste cose vengono dette, non si capisce bene che cosa sia indicibile. Sulla terza ragione «per quello che, trattando, converrebbe essere me laudatore di me medesimo» i commenti gettano la spugna: «è generale la resa degli interpreti davanti a questa oscura ragione» (De Robertis, ad locum); «anche a norma dell esegesi pregressa, sembra questa la ragione più oscura» (Gorni, ad locum). Al di fuori dei commenti al testo ricordo, fra le interpretazioni degli ultimi decenni, quella di Singleton, per cui «la morte di Beatrice è stata un evento così straordinario che il poeta non può neppure trattarne. Le sue capacità espressive sono impari al compito. Inoltre scrivere di quella morte significherebbe lodare se stesso. Entrambi i motivi additano inequivocabilmente un miracolo, l intervento di un potere di origine soprannaturale». 8 Ma non è una spiegazione specifica, soprattutto per il lodare sé stesso, anche perché «malgrado le ragioni addotte per non trattarne l autore seguita in un certo senso a occuparsi di quella morte», ecc. Alla prima ragione Singleton dedica buona parte del capitolo «Il Libro della Memoria», sostenendo che essa «significa semplicemente che non sarebbe conforme all intenzione espressa nel Proemio l essere qualcosa di diverso da uno scriba» (p. 49), ovvero che Dante si sarebbe programmaticamente vincolato a non scrivere niente di nuovo, che non trovasse già scritto nel libro della memoria (cioè le poesie già scritte e le relative «divisioni»); ma lo studioso stesso nel séguito individua cospicue 8. Ch. Singleton, Saggio sulla «Vita Nuova», Bologna, Il Mulino, 1968, p. 19 (An Essay on the «Vita Nuova», Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1958).

11-tavoni 6-12-2006 9:30 Pagina 4 4 «aggiunte dello scriba all originale», quali (quasi per intero) i capitoli XI, XXV, XXIX (p. 74). Un altra studiosa americana, Barbara Nolan, in linea con l idea singletoniana di Beatrice come figura di Cristo, nota che Dante, poiché, «like St. John in the Apocalypse, is writing not about the death of his Messiah (that can be left to other writers), but about her eternal presence, which is the grace of his salvation, he eschews a meditation on his death». 9 Non c è molto altro, e quindi allo stato della bibliografia corrente le tre ragioni sembrano in effetti abbastanza misteriose. Nel proporre, anzi riproporre, quella che a me appare la spiegazione del tutto convincente del passo, non conviene essere me laudatore di me medesimo, perché questa spiegazione è stata pubblicata dal linguista americano Charles Hall Grandgent più di un secolo fa, in una rivista filologica non proprio peregrina. 10 Di tale contributo, al massimo, mi farò chiosatore. La «più oscura» delle tre ragioni addotte da Dante contiene il più chiaro dei segnali congiuntivi del passo con l auctoritas massima che lo illumina. Lo schermirsi di Dante dal riportare un fatto che suonerebbe a suo vanto, che gli sarebbe ascritto a vanagloria, ricalca alla lettera le ripetute parole di S. Paolo nei capitali versetti della seconda lettera ai Corinzi (XII 1-9) in cui l apostolo si decide a riferire, dopo quattordici anni dall averlo sperimentato, il suo raptus al terzo cielo, superando con ciò, a superiore beneficio della comunità dei fedeli, la remora del doversi apparentemente vantare della eccezionale grazia ricevuta: 1 si gloriari oportet non expedit quidem veniam autem ad visiones et revelationes Domini 2 scio hominem in Christo ante annos quattuordecim sive in corpore nescio 9. B. Nolan, The Gothic Visionary Perspective, Princeton, Princeton University Press, 1977,p.120. 10. Ch. H. Grandgent, Dante and St. Paul, «Romania», XXXI (1902), pp. 14-27.

11-tavoni 6-12-2006 9:30 Pagina 5 «CONVERREBBE ESSER ME LAUDATORE DI ME MEDESIMO» 5 sive extra corpus nescio Deus scit raptum eiusmodi usque ad tertium caelum 3 et scio eiusmodi hominem sive in corpore sive extra corpus nescio Deus scit quoniam raptus est in paradisum et audivit arcana verba quae non licet homini loqui 5 pro eiusmodi gloriabor pro me autem nihil gloriabor nisi in infirmitatibus meis 6 nam et si voluero gloriari non ero insipiens veritatem enim dicam parco autem ne quis in me existimet supra id quod videt me aut audit ex me 7 et ne magnitudo revolutionum extollat me datus est mihi stimulus carnis meae angelus Sathanae ut me colaphizet 8 propter quod ter Dominum rogavi ut discederet a me 9 et dixit mihi sufficit tibi gratia mea nam virtus in infirmitate perficitur libenter igitur gloriabor in infirmitatibus meis ut inhabitet in me virtus Christi. L ascesa di San Paolo al cielo sarà ovviamente, con la discesa di Enea agli inferi, uno dei due soli precedenti su cui si modellerà il viaggio oltremondano di Dante: «Tu dici che di Silvïo il parente, / corruttibile ancora, ad immortale / secolo andò, e fu sensibilmente Andovvi poi lo Vas d elezïone Ma io, perché venirvi? o chi l concede? / Io non Enëa, io non Paulo sono; / me degno a ciò né io né altri l crede» (If II 13-33). E sarà, come scrive la Chiavacci Leonardi, «il fondamento di tutta l invenzione della terza cantica», 11 con puntuali riprese dai versetti paolini: «Nel ciel che più da la sua luce prende / fu io, e vidi cose che ridire / né sa né può chi di là su discende» (Par. I 4-6: cfr. «et vidit arcana Dei, quae non licet homini loqui»); «S i era sol di me quel che creasti / novellamente, amor che l ciel governi, / tu l sai, che col tuo lume mi levasti» (ivi, vv. 73-5: cfr. «sive in corpore sive extra corpus nescio Deus scit»); e, con riferimento all accecamento di Paolo sulla via di Damasco e quindi 11. D.Alighieri, Commedia, con il commento di A. M. Chiavacci Leonardi, vol. III, Paradiso, Mondadori, 1994, p. 27.

11-tavoni 6-12-2006 9:30 Pagina 6 6 al suo risanamento (Atti degli Apostoli 917-8): «e fa ragion che sia / la vista in te smarrita e non defunta: / perché la donna che per questa dia / regïon ti conduce, ha ne lo sguardo / la virtù ch ebbe la man d Anania» (Par. XXVI 8-12). Nel nostro passo della Vita nova, con questa precoce, nascosta ripresa, Dante dice a chi sappia intenderlo letteralmente che nel momento esatto della «partita da noi» di Beatrice, lui l ha vista salire al cielo, l ha in qualche modo seguita nella sua assunzione al cielo. Le altre due ragioni conseguono linearmente. La prima: «trattare alquanto de la sua partita da noi non è del presente proposito, se volemo guardare nel proemio che precede questo libello», perché questa esperienza non è scritta nel «libro della memoria». E non perché dalla notizia della morte Dante sia stato «sopraffatto al punto da dimenticare le sensazioni provate all annuncio fatale», 12 ma perché l assunzione al cielo è un esperienza soprannaturale che trascende le capacità della memoria. Nella nota sopra citata, Luca Carlo Rossi ipotizza che «la mancata registrazione memoriale potrebbe anche essere segno di un esperienza mistica»: bene, direi proprio che l esperienza mistica è questa. A questa esperienza sì il topos dell ineffabilità si attaglia perfettamente, come in ripetuti notissimi passaggi del Paradiso, culminanti nella visione di Dio, per cui Dante invocherà dalla «somma luce»: «a la mia mente / ripresta un poco di quel che parevi ché, per tornare alquanto a mia memoria / e per sonare un poco in questi versi, / più si conceperà di tua vittoria» (Par. XXXIII 67-75). Seconda ragione: «ancora non sarebbe sufficiente la mia lingua a trattare come si converrebbe di ciò». Dove ancora, a mio giudizio, non «ha valore aggiuntivo (oltre al già detto)» (De Robertis, ad locum), ma temporale: la mia lingua non è ancora pronta a trattarne adeguatamente. È l identico concetto che sarà espresso a tutte lettere nell ultimo capitolo, dove Dante si proporrà «di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei»; e dichiarerà che «di venire a ciò io studio quanto posso, sì com ella sae veracemente»; e che, 12. J. E. Shaw, Essay on the «Vita Nuova», Princeton, Princeton University Press, 1929, cap. VI.

11-tavoni 6-12-2006 9:30 Pagina 7 «CONVERREBBE ESSER ME LAUDATORE DI ME MEDESIMO» 7 se «la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d alcuna». Per la verità già lo Scherillo aveva addotto il passo di San Paolo in un suo lavoro del 1896, ma come uno dei riferimenti possibili, affiancandolo per esempio a un passo del De consolatione philosophiae (I 4) di cui non si vede la pertinenza; 13 mentre è merito del Grandgent aver individuato il riscontro paolino come la spiegazione del passo dantesco. Il riferimento alla lettera ai Corinzi, con doppio rimando allo Scherillo e al Grandgent, permane nel commento alla Vita nova del Melodia (1905) 14 e in quello dello stesso Scherillo (1911), 15 dopodiché esce inspiegabilmente dalla bibliografia. Inspiegabilmente fino a un certo punto. È possibile che abbia giocato a sfavore di questa spiegazione, facilitandone la caduta, la doppia diffidenza di parte crociana e di parte filologica verso la dimensione visionario-profetica di Dante. Il Grandgent, peraltro, non era un mistico ma un linguista storico, che si mostra molto scettico e dismissing nell interpretare il senso di questa ripresa dantesca. Egli addirittura concorda con chi aveva scritto che le tre ragioni del cap. XXVII erano «un po stiracchiate»; e ritiene che siano scuse «the youthful author, whose wits have already been sharpened by the study of philosophy, is casting about for excuses to account for this conspicuous flaw in his work» per giustificare una lacuna empiricamente dovuta al fatto che «allo sparire improvviso di quella gentilissima, la musa del poeta amante era rimasta in silenzio, ché i dolori profondi tolgono la parola»; 16 e che insomma ammantare quella lacuna con le parole di San Paolo fosse, a questa altezza, poco più di un espediente, balenatogli alla mente quando intravide la famosa «mirabile visione» e con essa lo svi- 13. M. Scherillo, Alcuni capitoli della biografia di Dante, Torino, Loescher, 1896, pp. 367-8. 14. La vita nuova di Dante Alighieri, con introduzione commento e glossario di G. Melodia, Milano, Vallardi, 1905, pp. 205-6, ad locum. 15. La vita nuova di Dante, per cura di M. Scherillo, Milano, Hoepli, 1911,pp.203-5, ad locum. 16. Così il Colagrosso nella recensione al libro dello Scherillo, in GSLI, XXX, 18, p. 454, che il Grandgent cita con consenso a p. 19.

11-tavoni 6-12-2006 9:30 Pagina 8 8 luppo letterario che sembrava promettere, un embrione di poema paradisiaco: «so nothing is more natural than that he should excuse himself in the words of St. Paul»; «if our reasoning so far has been correct, it follows that, in Dante s mind, his own poetic vision was analogous to the raptus of St. Paul» aggiungendo subito, però: «of course, in the Vita nuova period, the ressemblance was only external». 17 Mentre poi, «as the poet developed, as his character broadened and deepened, and as religious fervor gradually gained the mastery, in his heart, over earthly love, his likeness to the apostle became more intrinsic, until, in the grand final vision of the Paradiso, Dante may well have felt that the difference between his illumination and that of St. Paul was one of degree rather than of kind». 18 Se lo dovessimo inquadrare nel dibattito sulla natura del poema dantesco visio o fictio Grandgent starebbe dalla parte della fictio: Dante ascese al cielo «according to his fiction» (p. 22), mentre sia in S. Agostino che in S.Tommaso Dante avrebbe potuto trovare «an interpretation of St. Paul s rapture which is not at all inconsistent with the belief that his vision and Dante s contemplation not his fictitious journey were essentially alike, both voluntary, both intellectual, both transcending the bounds of ordinary human experience» (p. 27). E a proposito di volontarietà, tornando alla Vita nova, Grandgent svolge considerazioni non so se esatte, ma interessanti, sulla natura delle visioni (o immaginazioni, o fantasie insomma su tutta la componente onirica e para-onirica del libello). Interessanti, intendo, per chi ritenga che l abbondante sostanza onirico-visionaria della Vita nova (nonché della Commedia) sia una sostanza che non ha senso eludere, e di conseguenza si chieda come essa geneticamente agisca nella costruzione di testi caratterizzati, per contro, da iper-programmazione strutturale, quello che Gorni ha chiamato il «controllo implacabile, da parte dell autore, su tutto quanto il suo ergasterium». 19 Così il Grandgent (p. 17): 17. Grandgent, Dante cit., p. 20. 18. Grandgent, Dante cit., pp. 20-1. 19. Gorni, Lettera nome numero. L ordine delle cose in Dante, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 16.

11-tavoni 6-12-2006 9:30 Pagina 9 «CONVERREBBE ESSER ME LAUDATORE DI ME MEDESIMO» 9 Every reader of the Vita Nuova is struck by the prominence there given to «visioni», and is at first led to suppose that the author dwelt in a world of dreams. When, however, we analyse these so called visions, without attaching too much importance to our own associations with the name that Dante applies to them, we discover that they are not uncontrolled imaginings, but voluntary evocations. They form a fundamental part of the author s creative method. When he has chosen his topic, he fixes his mind upon it with such intensity, surveying it in all its aspects and excluding every irrelevant thought, that he succeeds in bringing it before his mind s eye in the shape of a picture or series of pictures. Even in Chapter XXIII, where the poet is ill and perhaps delirious, the ensuing dream does not crop up unexpectedly from his subconsciousness, but is deliberately constructed out of his meditations, although, in its later developments, it doubtless passed beyond the control of the fever-stricken youth who called it into being. The visione of the Vita Nuova is, then, the visualization of a poetic theme under the stress of mental concentration. Mi fermo qui. Mi basta aver riproposto una connessione intertestuale indebitamente rimossa dagli studi, che a me appare lampante in sé stessa, oltre che perfettamente convalidata, ex post, dalla funzione fondante del raptus paolino nel poema sacro. Dunque, a mio giudizio, la seconda lettera ai Corinzi chiarisce senza dubbio qual è l informazione che Dante consegna, occultandola, a Vita nova XXVIII 2. Ma come dobbiamo interpretare questa cosa che Dante dice e non dice, censurandosi, attraverso le parole di San Paolo? Qual è il senso e quali sono le implicazioni di questa visione non detta, criptata, al centro della storia? Evidentemente essa ha qualcosa di diverso da tutte le altre visioni, sulle quali Dante non esercita alcuna censura, anzi si effonde. Ma che cosa ha di diverso, in particolare, dalla «mirabile visione» conclusiva, e dal sonetto Oltre la spera che in un certo senso la mette in movimento? Non dovrebbe avere sostanzialmente lo stesso contenuto? E quindi fermo restando che neanche della «mirabile visione» Dante è ancora pronto a dire alcunché perché l occorrere di questa seconda visione è detto pianamente, mentre la prima è tout court soppressa? La mia impressione (io non credo affatto che il passo sia banale come lo presenta il Grandgent) è che il fatto di occorrere in tempo reale faccia di questa esperienza psichica una esperienza di una forza unica, di cui anche fuori dalle griglie retori-

11-tavoni 6-12-2006 9:30 Pagina 10 10 che e teologiche possiamo percepire perché possa o forse debba risultare indicibile. Ma qui mi fermo, perché la ricerca è da fare, e anche perché (qui Enzo si ricorderà di una conversazione nella «noche blanca» di Salta) desidero che il maestro a cui queste pagine sono dedicate le possa leggere, se non proprio con perfetto consenso, almeno con personale amichevole gradimento.