BREVI OSSERVAZIONI ED INDICAZIONI SULLA PIÙ RECENTE GIURISPRUDENZA RELATIVA ALLE VARIE QUESTIONI OGGETTO DEI GRUPPI DI LAVORO



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BREVI OSSERVAZIONI ED INDICAZIONI SULLA PIÙ RECENTE GIURISPRUDENZA RELATIVA ALLE VARIE QUESTIONI OGGETTO DEI GRUPPI DI LAVORO Relatore: dott. Piero MESSINI D AGOSTINI giudice del Tribunale di Ferrara A) Sul danno biologico: in generale. Ribadito da ultimo (Cass. 16 settembre 1995 n. 9772 - massima CED) l orientamento da tempo acquisito in dottrina e giurisprudenza, secondo il quale il principio costituzionale della integrale ed illimitabile tutela risarcitoria del diritto alla salute, come diritto fondamentale dell individuo ex art. 32 Cost., riguarda prioritariamente ed indefettibilmente il danno biologico, inteso come menomazione dell integrità psicofisica della persona in sé considerata, ontologicamente diverso da quello connesso alla diminuita capacità lavorativa e di guadagno e, pertanto, autonomamente risarcibile. Ne consegue che, in ipotesi di danno alla persona, tale menomazione, sempre presente, va risarcita in linea prioritaria rispetto ad ogni altro danno (nella specie la S.C. ha cassato la sentenza del giudice del merito, in base alla quale la compagnia assicuratrice aveva corrisposto al danneggiato solo la metà di quanto liquidatogli per danno biologico, provvedendo poi a pagare l INAIL e l ente ospedaliero, con ciò violando il principio di priorità sopra enunciato). Pare condivisibile il recente indirizzo della Suprema Corte (Cass. 27 luglio 1995 n. 8216, Cass. 22 febbraio 1995 n. 1955, Cass. 26 ottobre 1994 n. 8787, Cass. 10 giugno 1994 n. 5669) secondo il quale può essere riconosciuto il danno biologico anche in assenza di specifica istanza (ad es.: tutti i danni nessuno escluso, tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali ), salva l ipotesi in cui il danneggiato indichi espressamente le voci di danno che intende ottenere, non menzionando quella del danno biologico (ma nel caso in cui si chieda come spesso si fa impropriamente il risarcimento del danno da invalidità permanente, in assenza di compromissione della capacità di lavoro e di guadagno, a mio giudizio si potrebbe ben convertire tale voce di danno in quella del danno biologico. Mi sembra giusto, per quanto possibile, non far ricadere sul danneggiato l eventuale omissione od imprecisione del suo legale). Non contrasta con il predetto orientamento la più recente Cass. 26 ottobre 1995 n. 11141 (in Guida al Diritto, n. 9/96): Ove nelle conclusioni precisate in primo grado siano specificate le singole voci di danno senza alcuna menzione del danno biologico (che, quindi, non è stato oggetto di domanda di risarcimento) costituisce domanda nuova, vietata in appello, la richiesta di risarcimento di quest ultimo formulata per la prima volta in secondo grado. Recentemente ribadita l inclusione nel danno biologico del danno alla vita di relazione e del danno estetico, quando quest ultimo non costituisca causa di minore guadagno per la particolare attività svolta dall infortunato: cfr. Cass. 7 agosto 1995 n. 8651 (Guida al Diritto, n. 43/95), Cass. 18 settembre 1995 n. 9828 (Guida 49/95) e Cass. 5 novembre 1994 n. 9170 (massima CED). Contra App. Venezia 18 gennaio 1995 n. 510: la deformazione del volto, anche se non grave, costituisce sempre danno alla capacità lavorativa, specie in una persona di giovane età (massima CED pubbl. in Arch. Giur. Circ. Sin. Strad., 1995, 839).

Quanto al danno alla vita di relazione pare importante porre attenzione all assolvimento dell onere probatorio. Laddove il danneggiato lamenti una incidenza delle lesioni patite su di una serie di attività non necessariamente comuni od ordinarie (ad es.: pratica di sports, hobbies particolari, frequenza di determinati clubs), lo stesso avrà l onere di fornire la prova relativa e detto onere andrebbe assolto prima dell espletamento della C.T.U. medico-legale, affinché il C.T.U. possa esprimere una valutazione anche sul punto in questione (v. infra proposta di quesiti). Dette attività, se compromesse anche in parte, vanno risarcite anche se non hanno un valore di scambio in senso stretto, essendo comunque stimabili secondo valori d uso. La giurisprudenza più recente, del resto, individua nel danno alla salute non più un tertium genus bensì un danno patrimoniale in senso lato ricompreso, pertanto, nell art. 2043 c.c. distinto dal danno patrimoniale in senso stretto, incidente sulla capacità di produrre reddito. B) In particolare: la quantificazione. Va richiamato innanzitutto il nuovo indirizzo della Suprema Corte segnato dalla fondamentale Cass. 13 gennaio 1993 n. 357 (sez. III, Pres. Bile, est. Rebuffat: in Foro It., 1993, I, 1897, con commento significativo di G. DE MARZO), cui fecero seguito Cass. 18 febbraio 1993 n. 2009 (in Giust. Civ., 1993, I, 2101, annotata da G. ALPA), Cass. 9 dicembre 1994 n. 10539, Cass. 13 aprile 1995 n. 4255, Cass. 13 maggio 1995 n. 5271 (massime CED), in tema di inidoneità, ai fini della liquidazione del danno alla salute, di ogni criterio che, come quello del triplo della pensione sociale, assuma a parametro il reddito del danneggiato. È rimasta isolata la successiva pronunzia di Cass. 3 giugno 1994 n. 5380 (CED), contraria al revirement. Recentemente, infatti, e stato più volte ribadito questo principio: poiché il danno biologico è indipendente dal ruolo che i requisiti e gli attributi biologici della persona sono in grado di svolgere sulla capacita di reddito, essendo invece collegato alla sfera di incidenza non patrimoniale di essi, la sua determinazione, essenzialmente equitativa, deve avvenire mediante l individuazione del valore umano perduto, attraverso la personalizzazione quantitativa e qualitativa di parametri in linea di principio uniformi per la generalità delle persone. Conseguentemente è inidoneo alla determinazione del danno alla salute il criterio indicato dall art. 4 comma 3 del d.l. 857/76, conv. nella legge 39/77, che si riferisce alla menomazione della capacità di produzione del reddito personale, estraneo all assenza del danno medesimo: in questo senso cfr. Cass. 15 settembre 1995 n. 9725 (CED), Cass. 16 settembre 1995 n. 9772 e Cass. 18 settembre 1995 n. 9828 (CED e Guida 49/95). È il de profundis per uno dei criteri di riferimento fra i più utilizzati, sia pure in modo non rigido, dai giudici di merito per la quantificazione del danno biologico. Poi vi sono i calcoli a punto, le note tabelle del Tribunale di Milano (di quello di Venezia, di Firenze, etc.), le più diverse, contrastanti non solo per i valori ma anche per la loro impostazione medico-legale. In questo panorama non è forse utilissimo, da un punto di vista pratico, sapere che costituisce valido criterio di liquidazione equitativa quello che assume a parametro il cosiddetto punto di invalidità, determinato sulla base del valore medio del punto di invalidità calcolato sulla media dei precedenti giudiziari concernenti invalidità di quel determinato grado (così Cass. 13 aprile 1995 n. 4255), così come dotti quanto astratti erano apparsi i riferimenti a criteri di liquidazione equitativa del danno biologico contenuti nelle note sentenze del 93 in precedenza citate.

Pur condividendo ed avendo personalmente compiuto tutti i tentativi utili volti a cercare una certa uniformità nelle liquidazioni, quantomeno nell ambito dello stesso Ufficio giudiziario, a vantaggio della certezza del diritto e della prevenzione e deflazione del contenzioso (si che meritorio appare, comunque, il lavoro compiuto in particolare dai colleghi di Milano), mi sembra legittimo attendersi uno sforzo di unificazione della giurisprudenza mediante l elaborazione di tabelle a livello nazionale, nell auspicio, forse, di un intervento del legislatore che fornisca delle indicazioni non rigide, magari con la previsione di soglie minime e massime: non si tratta, infatti, di individuare quale sia la giusta liquidazione (proprio perché si tratta di danno privo di un valore di scambio in senso stretto: quanto vale la perdita di un arto ovvero di un figlio?) bensì una liquidazione che possa essere ritenuta equa pur con gli opportuni adattamenti del caso di specie ad ogni latitudine del nostro Paese. Secondo la già citata Cass. 15 settembre 1995 n. 9725 (CED) la liquidazione del danno biologico con importi distinti, in relazione ai due momenti della inabilità temporanea e della invalidità permanente del danneggiato, non comporta duplicazione di una voce di danno ontologicamente unitaria, ma adozione di un criterio di liquidazione ammissibile se il riferimento alla inabilità temporanea e alla invalidità permanente non è finalizzato alla individuazione della diminuita capacità di guadagno del danneggiato, criterio non utilizzabile per la liquidazione del danno biologico, ma alla individuazione di periodi diversi, che corrispondono a una diversa intensità della lesione della integrità psicofisica del soggetto, ai quali rapportare la liquidazione equitativa di un danno, risarcibile per equivalente con una prestazione patrimoniale, atta a reintegrare un valore leso che non ha di per sé una immediata natura patrimoniale. Pare opportuno ricordare (anche perché il dato non sembra essere tenuto di regola in considerazione al momento delle richieste di risarcimento) che, con sentenza del 15 marzo 1994 n. 2442, la Suprema Corte ha ribadito (così, in precedenza, Cass. 4 dicembre 1992 n. 12916) che l ammontare annuo della pensione sociale, cui fa riferimento l art. 4 della legge n. 39/77, deve ritenersi comprensivo dell aumento previsto dall art. 2 della legge 140/85. Peraltro, detto aumento ( maggiorazione sociale ) è stato confermato dall art. 2 della legge 544/88 per il periodo dall 1 luglio 1988 in poi. Dall 1 gennaio 1996 l importo mensile della pensione, comprensivo del predetto aumento, e di L. 500.550; considerate 13 mensilità annue, dunque, il triplo della pensione sociale ammonta attualmente a complessive L. 19.521.450. C) Sui rapporti fra danno biologico e danno da riduzione della capacità produttiva. Notevoli incertezze e seri contrasti giurisprudenziali, anche se spesso non resi espliciti, esistono, purtroppo, anche su questo tema fondamentale. In linea generale, sembrano condivisibili e sagge le recenti pronunzie della Suprema Corte (Cass. 9 ottobre 1995 n. 10538, in Guida 7/95, e Cass. 1 dicembre 1994 n. 10269, massima CED) secondo le quali il danno biologico e quello patrimoniale, pur attenendo a due distinte sfere di riferimento (riguardando il primo il diritto alla salute ed il secondo la capacità di produrre reddito), costituiscono entrambi proiezione negativa nel futuro di un medesimo evento, sicché le liquidazioni degli stessi, pur se distinte, devono essere tenute presenti contemporaneamente affinché la liquidazione complessiva corrisponda al danno globale subìto ed il risarcimento del danno sia completo e, per altro verso, non si traduca in un arricchimento senza causa.

Il superamento della rilevanza autonoma del concetto di riduzione della capacità lavorativa generica pare ormai un dato acquisito. In proposito assai significativa è stata la pronunzia della Corte di Cassazione (Cass., sez. III, Pres. Bile, 19 marzo 1993 n. 3260, in Arch. Giur. Circ. Sin. Strad., 1993, fasc. 7, 685) secondo la quale in caso di illecito lesivo dell integrità psico-fisica della persona, la riduzione della capacità lavorativa generica, quale potenziale attitudine all attività lavorativa da parte di un soggetto che non svolge attività produttive di reddito né sia in procinto presumibilmente di svolgerle, è risarcibile quale danno biologico, nel quale si ricomprendono tutti gli effetti negativi del fatto lesivo che incidono sul bene della salute in sé considerato, con la conseguenza che l anzidetta voce di danno non può formare oggetto di autonomo risarcimento come danno patrimoniale, in quanto già valutata come danno biologico. In proposito va segnalato l acuto commento a Cass. 18 febbraio 1993 n. 2008 di D. CARUSI ( Diminuzione della capacità di reddito, danno biologico ed equità ), in Giur. It., 1994, I, sez. I, 43. In senso del tutto conforme alla citata Cass. 3260/93 si è recentemente espressa la Suprema Corte (Cass. 14 marzo 1995 n. 2932 massima CED - e Cass. 18 settembre 1995 n. 9828, in Guida 49/95). Corollario di tale principio, a mio avviso, è che nel caso di un soggetto quale un minore, un disoccupato (soggetti che non svolgono né sono in procinto di svolgere attività lavorativa produttiva di reddito; per la casalinga il discorso è un po più complesso ed in questa sede tralascio questo aspetto) non sarà risarcibile un danno patrimoniale da lucro cessante al quale pur sempre fa riferimento l inciso dell art. 4 comma 3 della legge 39/77: in tutti gli altri casi... bensì solo il danno biologico, magari opportunamente aumentato. Infatti, nella già menzionata Cass. 10269/94, si afferma in massima che il predetto inciso va riferito alle ipotesi in cui il reddito da lavoro non risulti in base ai criteri indicati nei due commi precedenti e non anche nelle ipotesi in cui il soggetto sia privo di un reddito. Questo orientamento, tuttavia, non è pacifico neppure nella giurisprudenza di legittimità: ad esempio, secondo Cass. 10 giugno 1994 n. 5669 (in Foro It., 1994, I, 2070) il criterio del triplo della pensione sociale, di cui all art. 4 ult. comma legge 39/77, deve essere utilizzato anche per il risarcimento del danno da invalidità permanente (che si sommerebbe, quindi, al risarcimento del danno biologico) subìto da soggetti ancora privi di reddito quali i minori, con la precisazione (secondo la più recente Cass. 7 agosto 1995 n. 8651, in Guida 43/95) che detto criterio opererebbe solo in via sussidiaria dopo la valutazione degli elementi di determinazione del probabile futuro reddito in relazione agli studi ed alle condizioni familiari. Fra i giudici di merito, poi, il Tribunale di Firenze, ad esempio, ritiene che debba essere accertata l incidenza degli eventuali esiti permanenti non solo sulla attività lavorativa esercitata ma, più in generale, sulla capacità di produrre reddito (avuto riguardo alla età del danneggiato, alle sue condizioni psico-fisiche e attitudini professionali) ed afferma, pertanto, la risarcibilità del danno futuro, cioè di un danno che non produce (necessariamente) effetti attuali sul patrimonio del danneggiato. Personalmente ritengo preferibile il diverso orientamento della Suprema Corte (in considerazione del nesso di causalità che deve esistere fra fatto lesivo e lucro cessante, pure secondo un apprezzabile grado di probabilità art. 1223 c.c.: in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta ), con la precisazione che nella liquidazione del danno biologico dovrà in qualche modo essere considerata quella che una volta era la riduzione della capacità lavorativa generica (importante, in proposito, sara la formulazione dei quesiti al C.T.U., sulla quale v. infra). Pacifica, invece, è la rilevanza della c.d. micropermanente (inabilità inferiore al 10%) nell ambito solo del danno biologico, da liquidare in via equitativa, e non come menomata capacità di lavoro e di guadagno (cfr., anche di recente, Cass. 4 marzo 1995 n. 2515 e Cass. 21 gennaio 1995 n. 699, massime CED).

Recentemente ribadito un principio del tutto consolidato: nulla compete a titolo di risarcimento da invalidità temporanea al lavoratore che, rimasto infortunato per fatto illecito del terzo, abbia continuato a percepire, durante il periodo di invalidità, l intera retribuzione dal proprio datore di lavoro, dato che, sotto questo specifico profilo, nessuna diminuzione si è prodotta nella sfera patrimoniale dell infortunato, salvo restando la prova, a carico del lavoratore, di avere subìto altri pregiudizi economici (Cass. 11 ottobre 1995 n. 10597 - Guida 48/95). Questo principio, però, non è applicabile sic et simpliciter anche all invalidità parziale permanente, poiché quest ultima, secondo l id quod plerumque accidit, rende presumibile una prestazione lavorativa più sofferta e disagiata, aumentando le probabilità di una cessazione anticipata del rapporto di lavoro, e potendo causare un impossibilità o difficoltà di esercitare, a fine rapporto, professioni alternative (Cass. 6 dicembre 1995 n. 12569, in Gazzetta Giuridica, n. 2/96, p. 42. Nel caso di specie, peraltro, la S.C. ha confermato sul punto la sentenza impugnata, ritenendo che i giudici di merito avessero evidenziato come in concreto il lavoro svolto dal danneggiato non prevedesse avanzamenti di carriera e come lo stesso non svolgesse alcuna altra attività economicamente rilevante che potesse in futuro essere pregiudicata dalle lesioni riportate). L onere di provare la mancata percezione della retribuzione o di parte di essa nel periodo di invalidità temporanea e a carico dell attore danneggiato (Cass. 28 novembre 1995 n. 12301, Guida 5/96). D) Quesito al C.T.U.. Per una proposta molto (forse troppo) articolata, ma comunque assai ben motivata, formulata da un medico legale cfr. G. BARBUTI, in Tagete (rivista medico giuridica), n.4/95, p. 11. Una più sintetica formulazione del quesito potrebbe essere la seguente: Il C.T.U., esaminati gli atti e i documenti di causa, visitato l infortunato ed esperito ogni altro accertamento ritenuto opportuno (anche specialistico, purché svolto sotto il suo diretto controllo): 1) descriva le lesioni riportate dal periziando nel sinistro de quo, ne indichi le cause, i trattamenti praticati, la presumibile evoluzione e lo stato attuale delle medesime; 2) determini la durata della inabilità temporanea totale e/o parziale; 3) accerti l eventuale sussistenza di esiti di carattere permanente e ne indichi l incidenza sulla integrità psico-fisica (danno biologico, ivi compreso il danno estetico), valutando se lo stato del periziando sia suscettibile di miglioramento o di aggravamento; 4) precisi quali attività di relazione del periziando (tenuto conto delle sue deduzioni e delle risultanze istruttorie) risultino abolite, compromesse o limitate; 5) dica se i postumi permanenti eventualmente accertati siano tali da incidere e in caso affermativo: in che misura percentuale (*) sulla capacità lavorativa specifica dell infortunato (anche, ad esempio, rendendo il lavoro esercitato più usurante ovvero compromettendo la possibilità di effettuare determinate prestazioni o di superare determinati orari); 6) indichi, infine, l ammontare delle spese mediche che fu necessario od opportuno sostenere nonché di quelle che in futuro potranno eventualmente rendersi tali. Il quesito di cui al punto 5) è valido nel caso di soggetto che svolga stabilmente una attività lavorativa (il che provato documentalmente o comunque dedotto dalla parte senza che sul punto sorgano contestazioni). Nel caso di infortunato che non svolge attività produttive di reddito né sia in procinto presumibilmente di svolgerla (minore, disoccupato) si potrebbe chiedere al C.T.U. un giudizio prognostico di questo tipo:

dica se i postumi permanenti eventualmente accertati siano tali da incidere considerate l età del periziando e le sue condizioni psico-fisiche ed attitudini professionali sulla capacità lavorativa dell infortunato, con riferimento alle presumibili attività che lo stesso potrà in futuro svolgere. Al C.T.U., però, non chiederei trattandosi di un giudizio probabilistico di indicare anche la misura di tale incidenza. In caso affermativo, poi, il risarcimento (conseguente alla diminuzione della capacità lavorativa generica ) verrebbe fatto rientrare nell ambito del danno biologico secondo l orientamento sopra richiamato che mi pare preferibile avendo però una indicazione tecnica di supporto. Seguendo il diverso orientamento, al C.T.U., invece, andrebbe sempre richiesto: nel caso sussistano esiti di carattere permanente, dica se essi siano tali da incidere sulla capacità produttiva del periziando e li valuti percentualmente: a tal fine tenga presente la effettiva attività lavorativa eventualmente esercitata, nonché quelle diverse con essa compatibili e coerenti, avuto altresì riguardo alla età del periziando stesso e alle sue condizioni psicofisiche e attitudini professionali (così la proposta del collega Raffaele D AMORA del Tribunale di Firenze). E) Sul danno biologico da morte (iure proprio). Sui criteri per la liquidazione del danno patrimoniale e morale in favore dei congiunti v. Cass. 6 ottobre 1994 n. 8177, in Foro It., 1994, I, 1852 (con nota di R. CASO) ed. in Giur. It., 1995, fasc. 8-9, I, sez. I, p. 1534 (con commento di G. CITARELLA). Secondo Cass. 3 novembre 1995 n. 11543 (Guida 1/96) costituisce danno patrimoniale risarcibile a norma dell art. 2043 c.c. quello subìto dal marito e dal figlio minore per il decesso del congiunto (rispettivamente moglie e madre) a seguito di altrui fatto illecito anche nel caso in cui quest ultimo fosse stato privo di un effettivo reddito personale. Tale danno, infatti, si concreta nella perdita, da parte dei familiari, di una serie di prestazioni attinenti alla cura, alla educazione ed alla assistenza cui il marito ed il figlio avevano e hanno diritto nei confronti della rispettiva moglie e madre nell ambito del rapporto familiare stesso, prestazioni che sono economicamente valutabili come qualsiasi altra attività corrispondente al lavoro della donna casalinga. Sulla rilevanza delle nuove nozze del coniuge superstite ai fini della determinazione del danno patrimoniale (lucro cessante) subìto per la morte del primo coniuge cfr. Cass. 4 gennaio 1996 n. 25, in Gazzetta Giuridica, n.4/96, p. 45. Corte Cost. 27 ottobre 1994 n. 372 ha aperto una breccia, distinguendo fra patema d animo o stato d angoscia transeunte (danno morale soggettivo derivante da reato risarcibile come pretium doloris ex art. 2059 c.c.) e danno alla salute come momento terminale di un processo patogeno che, in persone predisposte da particolari condizioni ad es. debolezza cardiaca, fragilita nervosa può degenerare in un trauma fisico o psichico permanente (danno alla salute psichica). Prima di tale pronunzia tale distinzione era già presente fra i giudici di merito, i quali opportunamente, a mio avviso, facevano rientrare il danno da trauma psichico all interno del danno biologico e, nel contempo, richiedevano una seria prova con l ausilio, chiaramente di una C.T.U. medico-legale sulla esistenza di tale danno. In proposito molto ben motivate sembrano App. Milano 5 luglio 1994 (in Giur. It., 1995, p. I, sez. II, p. 425) e App. Milano 11 ottobre 1994 (in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 1995, fasc. 3, I, 490). La Corte Costituzionale, invece, ha ritenuto azionabile il danno alla salute psichica ex art. 2059 c.c.. Fra le numerosissime note di commento (quasi tutte critiche, almeno in parte) può essere richiamata quella di BUSNELLI (in Giust. Civ., 1994, I, p. 3029) che in poche pagine traccia i principi fondamentali in tema di responsabilità civile.

La soluzione della Corte appare assai dubbia (ed essa stessa forse costituzionalmente censurabile!... Il danno da trauma psichico anch esso danno alla salute tutelato dall art. 32 Cost. verrebbe risarcito solo in caso di reato...) e muove da una accezione ristretta e discutibile del concetto di prevedibilità dell evento, quasi che il danneggiante dovesse prefigurarsi la concreta situazione parentale della vittima (secondo FRANZONI, la Corte avrebbe confuso, quanto al profilo della prevedibilità, i due distinti piani della colpa e del nesso di causalità). Peraltro, trattandosi di sentenza interpretativa di rigetto, la pronunzia della Corte non appare vincolante per i giudici diversi da quello remittente, cosicché si potrebbe tuttora far rientrare il danno alla salute psichica (da tenere ben distinto dal patema d animo e che raramente sarà riscontrabile nell ambito del danno biologico, inteso come danno latu sensu patrimoniale in quanto suscettibile, a differenza del danno morale, di valutazione economica secondo un apprezzamento socialtipico in grado di assicurare una adeguata base di uniformità pecuniaria al risarcimento (così BUSNELLI), sì da evitare una frantumazione dell unitaria categoria del danno alla salute. In senso conforme alla prospettiva della Corte, invece, cfr. Trib. Napoli, 16 gennaio 1995, in Giust. Civ., 1996, fasc. 1, 255, con nota di P. GIAMMARIA ( Danno da morte, danno alla salute e danno psichico: tra vecchi dogmi e rischi di alluvione ). Sul danno da trauma psichico cfr. anche, di recente, Trib. Trento 19 maggio 1995 n. 470, in Riv. Giur. Circ. Trasp., 1995, 782. F) Sul danno biologico da morte (iure hereditatis). Per una sintetica illustrazione dell annoso dibattito aperto in dottrina e giurisprudenza sulla questione cfr. la citata nota di P. GIAMMARIA nonché il commento di G. CIACCI a Cass. 27 dicembre 1994, in Giust. Civ., fasc. 12, I, 3081. La Corte di Cassazione, sulla scorta della pronunzia della Corte Costituzionale, pare ormai avere disatteso sia il modello negativo che il modello positivo (sulle due contrapposte tesi possono essere ricordate le efficacissime osservazioni, a commento di App. Roma 4 giugno 1992, rispettivamente di Gennaro GIANNINI e Mario POGLIANI, in Resp. Civ. Prev., 1992, 597) per seguire il modello compromissorio, che fa riferimento al periodo di tempo compreso tra l evento lesivo e la morte. Con la citata Cass. 27 dicembre 1994 n. 11169, la Suprema Corte ha statuito che nel caso in cui da un fatto illecito sia derivata dapprima una menomazione dell integrità psico-fisica e, dopo una fase intermedia di malattia, la morte del soggetto leso, gli eredi di quest ultimo possono far valere, iure hereditatis, nei confronti dell autore dell illecito, il diritto al risarcimento del danno biologico sopportato dal medesimo soggetto leso nel periodo che va dal momento della lesione a quello della morte. Già in precedenza (con la citata Cass. 6 ottobre 1994 n. 8177) si era affermato che, nelle medesime condizioni e con gli stessi limiti, fosse trasmissibile agli eredi il risarcimento del danno non patrimoniale, ipotizzabile anche nel caso di sofferenze fisiche e morali sopportate in caso di incoscienza. In senso conforme al predetto orientamento si sono recentemente pronunziate Cass. 29 settembre 1995 n. 10271, Cass. 12 ottobre 1995 n. 10628 e Cass. 28 novembre 1995 n. 12299 (tutte CED), le quali affermano la trasmissibilità agli eredi del danno biologico subìto dal danneggiato nel caso in cui fra l evento lesivo ed il decesso intercorra un apprezzabile lasso di tempo e limitatamente ai danni verificatisi tra l illecito e la morte. In senso favorevole alla risarcibilità del danno biologico iure successionis anche in caso di decesso immediato cfr., invece, di recente, la menzionata pronunzia di Trib. Napoli 16 gennaio 1995, con argomentazioni che, invero, non appaiono molto convincenti.

G) Danno biologico ed infortunio sul lavoro. Sulla specifica problematica cfr. la chiara nota di A. RIVARA (in Giur. It., 1995, I, p. 1117), la recente Cass. 15 settembre 1995 n. 9761 (in Foro It., 1995, fasc. 11, I, 3140, con commento di D. POLETTI), nonché lo scritto Danno biologico, indennità previdenziale e rivalsa di G. MARANDO e D. VERRINA (in Giust. Civ., 1995, fasc. 12, II, 459). Secondo la recentissima Cass. 6 dicembre 1995 n. 12569 (in Gazzetta Giuridica, n. 2/96, p. 42) il danneggiato da sinistro stradale ha titolo a conseguire dal danneggiante il risarcimento del danno biologico e di quello morale, ove esistenti, anche nell ipotesi venga escluso qualsiasi suo diritto al risarcimento dei danni patrimoniali (per invalidità temporanea e permanente), ancorché il danneggiato stesso abbia conseguito dall Inail le prestazioni (indennità temporanea e rendita vitalizia) del caso e l Istituto previdenziale abbia agito in surroga nei confronti del danneggiante (o della società assicuratrice della responsabilità civile di questo, conseguendo l intero massimale assicurato). H) Interessi e rivalutazione. A seguito della sentenza 17 febbraio 1995 n. 1712 delle Sezioni Unite, il Tribunale di Ferrara ha adottato una motivazione standard che può essere utile riportare: Pacifico essendo che nella fattispecie trattasi di debito di valore, il Tribunale osserva che sino a pochissimo tempo fa la giurisprudenza largamente prevalente riconosceva, in tale caso, il cumulo tra rivalutazione monetaria ed interessi legali, sostenendo che la rivalutazione della somma da liquidarsi a titolo di risarcimento dei danni e gli interessi legali sulla somma rivalutata assolvono funzioni diverse: la prima mira a ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato quale era prima del fatto illecito generatore del danno ed a porlo nelle condizioni in cui si sarebbe trovato se l evento dannoso non si fosse verificato, mentre i secondi hanno natura compensativa, con la conseguenza che le due misure sono giuridicamente compatibili e che sulla somma risultante della rivalutazione debbono essere corrisposti gli interessi dal giorno in cui si è verificato l evento dannoso. Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con una recentissima pronunzia (Cass. S.U. 17 febbraio 1995 n. 1712), nel ribadire che il risarcimento del bene perduto deve essere effettuato nel suo valore rivalutato e nel confermare che anche il ritardo con il quale il creditore ottiene la disponibilità dell equivalente pecuniario del debito di valore, a titolo di lucro cessante, deve essere risarcito, hanno sottoposto a vaglio critico la tradizionale qualifica di compensativi degli interessi da ritardo nell adempimento dell obbligazione di risarcimento del danno extracontrattuale ed hanno enunciato, ai sensi dell art. 384 c.p.c., il seguente principio di diritto:...omissis.... La motivazione della citata sentenza appare pregevole ed in larga parte condivisibile, anche se non estranea alla decisione della Corte pare essere stata la determinazione nella misura del 10% dell interesse legale, operata dall art. 1 della legge 26 novembre 1990 n. 353 (unica norma della legge ad avere avuto immediata applicazione!). Non va sottaciuto, tuttavia, come il ricorso a criteri equitativi e presuntivi, con la possibilità financo di determinare un tasso di interesse diverso da quello legale, comporterà indubbiamente difficili problemi applicativi e rischi di difformità, in una materia dove già non regnano principi di certezza giuridica.

Ritiene il Tribunale che il lucro cessante provocato dal ritardato pagamento della somma rivalutata (che costituisce l espressione monetaria del valore del bene perduto dal danneggiato all epoca del fatto illecito) possa essere risarcito mediante il criterio suggerito, nella sostanza, dalla Suprema Corte degli interessi da calcolare sulla somma originariamente riconosciuta, rivalutata anno per anno in base agli indici I.S.T.A.T. (un poco inferiori come noto alla reale perdita del potere d acquisto della moneta). Ricorrendo a criteri equitativi, presuntivi, di normalità e probabilità, in relazione alle comuni modalità di impiego del denaro, il Collegio ritiene di determinare nel 5% il saggio degli interessi da applicare sulla somma rivalutata anno per anno, come sopra esposto. Anche negli ultimi anni, infatti, il rendimento medio di un comune impiego del denaro (si pensi al diffusissimo ricorso all investimento in titoli del debito pubblico), tenuto conto della misura della rendita al netto della svalutazione e delle imposte, è all incirca attestato su tale percentuale ed è certamente ben lontano dal 10%, attuale tasso legale. Tuttavia, può essere che salvo nuovi mutamenti del saggio di interesse legale (questione di fatto a cui non sembra estranea la pronunzia delle Sezioni Unite) si arrivi, tra qualche tempo, ad una scomparsa della distinzione, di creazione giurisprudenziale, fra debito di valuta e debito di valore, distinzione criticata da tempo da una parte della dottrina (cfr. nota di G. VALCAVI alla sentenza, in Foro It., 1995, p. I, 1470). In questo senso cfr. le seguenti recenti pronunzie: Cass. 19 maggio 1995 n. 5525, in Foro It., 1995, fasc. 10, I, 2829, con note di G. DE MARZO e R. PARDOLESI; Cass. 26 gennaio 1995 n. 907, in Giust. Civ., 1995, fasc. 9, I, 2129, con nota di P. TARTAGLIA (sul credito previdenziale ); Trib. Crema 14 settembre 1995, in Foro It., 1995, fasc. 12, I, 3583, con commento di F. D AQUINO; Trib. Napoli 5 maggio 1995, in Giust. Civ., 1995, fasc. 10, I, 2544. Con le stesse ci si è avviati verso un superamento, per strade diverse, della predetta distinzione. Di difficile lettura appaiono le due sentenze della sezione lavoro della S.C. (est. Berni Canani); anche secondo le citate pronunzie di merito (molto ampia e motivata la prima), gli interessi dovuti sulla somma liquidata a titolo di risarcimento danni (moratori secondo Trib. Crema e compensativi secondo Trib. Napoli) vanno calcolati sul capitale originario e non sulla somma rivalutata. Conforme, invece, alle SS.UU. è Cass. 28 novembre 1995 n. 12304 (CED), secondo la quale gli interessi per il ritardato pagamento non possono essere computati sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno e definitivamente rivalutata, allorché è possibile la determinazione con riferimento ai singoli momenti da stabilirsi in concreto secondo le circostanze del caso, con riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto del danneggiato si incrementa nominalmente in base ai prescelti indici di rivalutazione. Fa riferimento, genericamente, ad un cumulo tra rivalutazione monetaria ed interessi legali la massima della recente Cass. 27 dicembre 1995 n. 13108 (CED). Si è ribadito, infine, che la liquidazione del danno compiuta dal giudice del merito determina la trasformazione dell obbligazione risarcitoria da obbligazione di valore in obbligazione di valuta, che la sentenza rende esigibile, sicché sulla somma risultante dalla liquidazione sono dovuti, dalla data della sentenza, gli interessi al saggio legale (Cass. 9 gennaio 1996 n. 83 - CED). (*) Secondo alcuni, non sarebbe opportuno richiedere al C.T.U., in tutti i casi, una valutazione anche percentualistica.