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«My Kind of Town» C era una volta a New York: Willie Nile, un uomo e la sua città Marco Denti e Mauro Zambellini L 11 settembre 2001 Keith Neudecker, sopravvissuto agli attentati, torna a casa accompagnato dalla moglie da cui si era separato un anno prima. La valigetta che ha con sé non è la sua, ma di Florence, una sopravvissuta al crollo con cui in seguito intreccerà una relazione. Attorno a loro cresce l enigma di Bill Lawton (la storpiatura del nome Bill Laden a opera del figlio di Keith e dei suoi amici) e di un performer che cerca di riprodurre i corpi nel loro ultimo e disperato volo dal World Trade Center. Forse proprio per questo approccio indiretto, a tratti persino dadaista, il romanzo di Don DeLillo L uomo che cade contiene un analisi tra le più lucide degli eventi dell 11 settembre e di come quegli stessi eventi abbiano inciso sulle nostre vite e sul nostro modo di pensare. A New York city, dopo l 11 settembre 2001 le risorse dell immaginazione e dell immaginabile sembrano non essere più suf- ficienti per descrivere ciò che sta accadendo, e ai bambini basta deformare un nome preso dall aria nera della realtà per ottenere Bill Lawton, l emblema di tutte le paure, degli allarmi, delle pa- ranoie, dei mostri nascosti nel buio e nella coscienza. Sono quelle le piccole soluzioni cambiare un nome per cambiare una perce- zione che servono a tracciare «una piega profonda nella trama delle cose, nel modo che hanno le cose di attraversare la mente, nel modo che ha il tempo di oscillare nella mente, che è poi l unico posto in cui esiste in maniera significativa» come scrive DeLil- lo. Mettere in gioco le parole o il proprio corpo, come fa l uomo che cade, dall 11 settembre 2001 non è più e non è soltanto un arte o un modo per non «sprofondare nelle nostre piccole vite», ma è un esorcismo per salvaguardare quello che abbiamo dentro, che 8

poi è tutto quello che conta. Il senso di smarrimento raccontato da Don DeLillo o Patti Smith o Bruce Springsteen, per citare altri due artisti che si sono spesi nel cercare di sviscerare quei drammatici e lugubri momenti non è soltanto personale (come si legge nell Uomo che cade: : «Continuo a ripetermi che sono pro- prio qui. Non ci si crede. Trovarsi qui e vedere tutto questo») o storico (DeLillo è lapidario quando scrive: «Presto verrà il gior- no in cui nessuno più penserà all America, se non in virtù dei pericoli che crea. Sta perdendo la sua centralità. Sta diventando il centro della sua stessa merda. È l unico centro che occupa»). Dovrebbe essere anche filosofico: «La verità era condannata a un lento e inevitabile declino», dichiara infatti DeLillo, ma quest af- fermazione, in un romanzo denso di riflessioni e mappe mentali, è soltanto un amara e incondizionata resa a un mondo in cui gli aerei entrano nei palazzi e i «cellulari squillano nelle tasche dei cadaveri». New York, «tempi duri in America», all inizio di un nuovo secolo di morte. Essere cresciuti con Bob Dylan e con la Beat Generation e ritrovarsi a vivere l 11 settembre 2001 deve essere stata un esperienza traumatizzante, paragonabile allo stress de- gli shock da combattimento. Non c è solo il vuoto dove prima c era il World Trade Center. C è il vuoto alle spalle, il vuoto in cielo, il vuoto ovunque. «C è l evento, il fatto specifico. Misurare quello. Lasciare che ci insegni qualcosa. Vederlo. Porsi sul suo stesso piano», scrive Don DeLillo, ed è qui che certi arcani vanno sviluppati. E DeLillo sa che anche di fronte alla peggiore cata- strofe «vogliamo trascendere, vogliamo oltrepassare i limiti della comprensione, e quale modo migliore per farlo se non tramite la creazione di fantasia». Il senso è questo, e c è chi l ha fatto tirando fuori le parole con l aiuto di una chitarra elettrica. Willie Nile ha saputo descrivere questi giorni in una canzone tagliente, dura e dolorosa il cui titolo, Cell Phones Ringing (In The Pockets Of Dead), è tanto surreale quanto esplicito. Proprio come DeLillo, Willie Nile tenta di raccontare la realtà dei fatti, l urlo di chi legge nei titoli delle ultime notizie qualcosa che è incredibi- le, terrorizzante, brutale e macabro allo stesso tempo: «Cellulari 9

squillano nelle tasche dei morti», e benvenuto ventunesimo seco- lo. Non c è via di fuga, se non attraverso quell esorcismo che è il rock n roll, e allora la crudele constatazione diventa una canzone e la canzone finisce nel cuore del disco più intenso e coraggioso di Willie Nile, quello che non a caso s intitola Streets Of New York, perché, come direbbe William Carlos Williams, «un uomo è egli stesso una città». E l uomo, in cima a trent anni di su e giù in una carriera ammirevole, è proprio Willie Nile. La città, aggredita e mutilata, è pur sempre New York. L uno e l altra, indivisibili. Nonostante sia nato a Buffalo, Willie Nile è considerato una delle voci più importanti di New York. In lui prevale un gusto quasi romantico nel coltivare la passione per gli aspetti più com- plessi e affascinanti di una città di cui si sente partecipe. Alla base della sua musica c è un atteggiamento cosmopolita che, invece di ostentare le differenze o le singole influenze, è capace semmai di sintetizzarle rendendole una cosa sola, come può succedere solo a New York City, e come succede in quell ibrido fenomenale che è il rock n roll. Cresciuto in una grande famiglia irlandese e cattolica in cui, mentre i genitori ascoltavano musica classica, i fratelli più grandi compravano dischi e mandavano rock n roll a tutto volume, Wil- lie Nile non solo si è formato in un denso humus musicale, ma anche in una naturale condizione di cosmopolitismo. Gli ospiti della sua famiglia, provenienti da ogni parte del mondo, gli inse- gnarono, anche soltanto con la loro presenza, che esistono abiti, usanze, lingue, cibi differenti che spesso vale la pena di scoprire e condividere. Quell educazione spontanea, unita al fatto che il padre era un appassionato storyteller, spinse ben presto il giovane Willie Nile verso la scrittura. All inizio furono brevi poesie, ma non appena imparò a suonare la chitarra la trasformazione in can- zoni divenne inevitabile e il background musicale, cosmopolita e letterario, cominciò a fermentare. D altra parte l attrazione verso New York, una delle ultime isole della Beat Generation, appassionava Willie Nile quanto e più del rock n roll. Vi si trasferì sull onda dell entusiasmo per quei sognatori (Allen Ginsberg e Gregory Corso in particolare), 10

e anche perché molte etichette discografiche avevano sede a New York, e la città era più vicina a Buffalo di quanto non lo fossero Los Angeles o Nashville. Così ricorda lo stesso Willie Nile: «Avevo un mucchio di canzoni e volevo farne un disco. In estate facevo l autostop da Buffalo per venire a New York, e dormivo nel parco. Mi sembrava che fosse un posto magico: mi sentivo libero». E infatti dalla città non se ne andrà più. «È stato un periodo fantastico. Ho vissuto nel Village a partire dal 1972,, e nell aria c erano ancora parecchi fantasmi dei Sixties. Invece nei quartieri attorno c era una certa pretestuosità che ho sempre trovato ridicola. Un giorno stavo cercando sul giornale nuovi posti dove suo- nare e vidi un annuncio per il CBGB s. Era sulla Bowery e non era molto lontano da dove vivevo, così presi la chitarra e ci andai a piedi. All epoca era un posto frequentato soprattutto dagli Hell s Angels e da un sacco di altri personaggi della zona». Oltre al CBGB s, che resterà nella storia per essere diventato l epicentro del sound di New York, Willie Nile sarà di casa anche al Songwriter s Exchange del Cornelia Street Café e al Kenny s Castaways. Sono le tappe del suo provare a «crescere in pubbli- co», per dirla con Lou Reed. Le sue canzoni lasciano il segno: non cerca di imitare Bob Dy- lan, come verrebbe spontaneo a chiunque, non cerca il numero a effetto o la sorpresa dei fuochi d artificio. È un songwriter che quando sale su un palco ha un energia particolare. Non è aggres- sivo né caotico, ma si capisce che nelle sue aspirazioni non c è semplicemente il suono della voce e della chitarra del folksinger, ma quello di una vera e propria rock n roll band. Diventerà tutto chiaro al momento del suo esordio, nel 1980: Willie Nile rimane ancora oggi un cardine fondamentale per i songwriter urbani, quelli che hanno eletto New York capitale del loro mondo. L immagine che ne emerge è romantica e misteriosa allo stesso tempo, e tale resterà perché Willie Nile vive sul confine tra giorno e notte, come lui stesso ammette: «Il mondo è metà innocente e metà folle. In alcune giornate vuoi il rock n roll; in altre vuoi l amore. Quando sei fortunato li hai tutti e due contem- poraneamente. La più grande gioia per me è comporre canzoni, 11

trovare qualcosa di bello dove sembrava non esserci, combinare parole e melodie che parlano a quella parte dell anima che è rima- sta nell ombra troppo a lungo». L esordio di Willie Nile è stato, in un certo senso, l apoteosi di quel gusto per la ballata elettrica che era cominciato con Bob Dylan e che aveva poi trovato in Darkness di Bruce Springsteen la sua essenza. All inizio è Bob Dylan, naturalmente. È da lì che è cominciato tutto, ma Willie Nile ha avuto l accortezza di impa- rare la lezione e di cercare una strada personale, pur partendo da quell indiscutibile punto di riferimento. Willie Nile,, il disco, e Willie Nile, il musicista, hanno messo a fuoco una disposizione verso il rock n roll e la poesia che non ha la dimensione artistica a tutto tondo di Patti Smith, o la drammatica e lacerante visiona- rietà di Jim Carroll o Richard Hell, ma che ha tutta l aria di essere un trait d union fra l underground e la superficie, fra il centro e la periferia, fra words & music. Viene spontaneo il paragone, fatte salve le differenze stilistiche, con gli esordi di Elvis Costello. Sebbene la visione comune lo identifichi come l alfiere del ro- manticismo, Willie Nile, proprio come Elvis Costello sul versante inglese della rivoluzione, ha partecipato all ultima svolta elettrica del rock n roll, con la grazia che è propria degli storyteller e dei songwriter. La copertina, con il bianco e nero di rigore, la fotografia di un giovane di bell aspetto con giacca, camicia scura e sigaretta tra le labbra, è eloquente: Willie Nile è un disco che trasuda New York da tutti i solchi e mette in fila una sequenza di canzoni capaci di catapultarvi in un film sotto una luna vagabonda, dietro la cat- tedrale mentre qualcuno sing me a song.. Scampoli di romantici- smo springsteeniano, espliciti fin nel titolo in Across The River, e reminiscenze di linguaggio stonesiano (She s So Cold) ) mischiati a crudi scatti di vita urbana negli Old Men Sleeping On The Bo- wery e accorate preghiere (Dear Lord), il tutto all insegna di un rock n roll diretto, tagliente e senza fronzoli, che sa di Fender, di ritmi nervosi e di riff degli Who. Nonostante tutto, la stampa americana gridò al nuovo Dylan, l ennesimo, il solito, ma era solo l inizio. 12

Qualcuno vide giusto. Robert Hilburn descrisse Willie Nile come «quel tipo di rara collezione che vi risveglia alle più ispirate qualità del rock n roll». David Okamoto lo descrisse come «uno dei più entusiasmanti dischi folk-rock post Byrds di tutti i tem- pi». L unico reale collegamento con Bob Dylan era Roy Halee, il produttore di Willie Nile,, che aveva cominciato la sua lunga carriera negli studi di registrazione proprio assistendo alle session di Like a Rolling Stone.. Roy Halee è più noto però per il suo lavoro con Simon & Garfunkel, e la collaborazione con Nile ha generato qualche perplessità in quanto secondo alcuni avrebbe ammorbidito l irruenza delle chitarre. Nel disco suonano Jay Dee Daugherty, batterista del Patti Smith Group, Clay Barnes, Tom Ethridge e Peter Hoffman. L esordio di Willie Nile, al di là del fascino degli esordi, è uno dei punti più luminosi di una stagione che vedrà molti prota- gonisti firmare alcuni dei loro capolavori (Garland Jeffreys con Ghostwriter,, Ian Hunter con You Never Alone With A Schizo- phrenic,, David Johansen con In Style,, Elliott Murphy con Murph The Surph,, Willy De Ville con Return To Magenta,, Bill Chinnock con Badlands). Una bella compagnia che da Darkness di Bruce Springsteen in poi ha definito un nuovo vocabolario e che trova in Willie Nile un classico della ballata elettrica. Secondo Willie Nile, l influenza di New York ha delle basi persino geologiche: «C è un elettricità in questa città che mi ha sempre affascinato. È una città cosmopolita dove ricchi e pove- ri possono camminare insieme a chiunque altro e vagabondare in mezzo a canyon di cemento e d acciaio. Ho sentito dire che Manhattan è costruita su un certo tipo di granito che è un forte conduttore elettrico. Quando lasci l isola, in effetti, ti senti molto più tranquillo». New York è l essenza, l anima di Willie Nile, perché corrisponde a una lunga tradizione di musica da e per la città. In que- sto senso è il suo secondo disco, Golden Down,, a celebrare il le- game con il sound elettrico di New York, con la vita nelle strade e nei locali, nelle backstreets.. Una vicinanza più diretta e immediata perché Willie Nile suona con gli stessi musicisti di Patti Smith, dei 13

Television (e poi ancora con Clay Barnes, il chitarrista che con- dividerà le sue gesta con un altro nuovo Dylan, Steve Forbert, autore a sua volta di una convincente panoramica di paesaggi ur- bani con Streets Of This Town). Golden Down è un album più vicino al Willie Nile di oggi. Anche la differenza fotografica delle due copertine è chiarissima: il beatnik in bianco e nero con la sigaretta del disco d esordio, camicia e giacca da poeta metropoli- tano, lascia il posto all uomo appoggiato al muro, con il giubbotto di pelle e lo sguardo torvo, forse conscio delle difficoltà in arrivo. Le due copertine hanno però in comune il cavo della Stratocaster sempre inserito (persino nelle fotografie in posa) come se fosse un cordone ombelicale che lega l autore al sound della città. Sono dettagli che si notano. Golden Down appare come un album ancora più importante del precedente perché lega in modo chiarissimo Willie Nile al suono di New York: è frutto di un ulteriore avvicinamento alle onde del CBGB s, ormai diventato una specie di punto di riferi- mento cittadino. Così a completare il gruppo che inciderà il disco (in gran parte lo stesso dell esordio) viene chiamato al basso Fred Smith dei Television. Con lui si crea una sezione ritmica (che, per inciso, qualche anno dopo sarà utilizzata proprio da Tom Verlai- ne nel tour di Flash Light) ) perfetta per interpretare le scansioni delle canzoni di Willie Nile, e assolutamente a proprio agio nel tenore urbano del disco. Sulle chitarre questa volta non c è nulla da dire, e così diventano un classico. L ultimo messaggio che la- scerà Willie Nile nei successivi lunghi anni di silenzio è la dedica di Golden Down a John Lennon. Non deve essere stato facile esordire nell anno del suo omicidio, e un piccolo omaggio è il minimo. Il problema è che entrambi i dischi di Willie Nile, pur susci- tando ammirazione e rispetto, non sfondano, non raggiungono le vette delle classifiche e, come tutti sanno, le belle parole contano fino a un certo punto. Incombevano anche altre regole, difficili da comprendere per un songwriter come lui, e ancora più difficili (se non impossibili) da mettere in pratica e da rispettare. In cerca di fiducia, nel 1982 firmò con la Geffen Records, che aveva tutte 14

le prerogative per ospitare un artista del suo calibro. Era nata nello stesso momento in cui Nile esordiva, aveva da poco pubbli- cato Double Fantasy di John Lennon, e David Geffen veniva da quell Asylum Records che aveva fondato per lanciare i dischi di Jackson Browne e di Tom Waits, e per pubblicare gli unici dischi di Bob Dylan (Planet Waves e Before The Flood) ) fuori dagli storici confini della Columbia. L Asylum in tutta evidenza era il passato, e la Geffen Records aveva (John Lennon a parte) ben altri oriz- zonti. Il contratto però si rivelò un cul de sac. Con la sua consueta pacatezza, lo stesso Nile ricorda: «Il suc- cesso, qualunque cosa sia, può essere un arma a doppio taglio. Ci sono cose buone e cose cattive. A giudicare da alcuni disastri provocati dalla nostra cultura della celebrità, ci sono parecchi in- convenienti, ma a chi non piacerebbe entrare nel proprio garage, e aprire un forziere pieno di dollari e dobloni d oro per soddi- sfare ogni suo desiderio? L adulazione iniziale fu interessante ma non la presi troppo sul serio, comunque fu stimolante sapere che la mia musica era ascoltata e apprezzata. Non avevo un progetto per dominare il mondo o robe del genere, per cui vissi la cosa con molto relativismo. Più che per il successo, penso di essere stato fortunato a continuare a fare quello che volevo senza dover sot- tostare a pressioni e imposizioni. In questo modo sono cresciuto come autore e come persona evitando interferenze nocive, e ciò mi ha reso migliore e mi ha permesso di mantenere quel giusto livello di pazzia che volevo, seguendo un andatura dolce e tran- quilla». Ci vorranno però molti anni per trovare «la giusta andatura». Fino al 1991 il suo sarà un lungo e faticoso guado. Tra Golden Down e Places I Never Been la musica sembra diventare semplicemente la colonna sonora di un mondo fatto di immagini, e Willie Nile non è un personaggio adatto a competere con Madonna o, ben che vada, con i muscoli e la stars n stripes del Bruce Springsteen di Born In The U.S.A.,, cioè i fenomeni del periodo. Tornerà però con il suo disco più ricco e variopinto, e con una parata di ospiti speciali (da Roger McGuinn a Richard Thompson), ma questo non basterà a convincere la Columbia (dove alla fine aveva tro- 15

vato ospitalità) a concedergli una seconda chance. Si ricomincia daccapo, ma gli anni sono cambiati e le risposte che arrivano dai piani alti sono sempre più inconsistenti. I primi segnali di un Willie Nile ritrovato compaiono nel solido EP Hard Times In America (1992), anche se ci vorranno ancora quasi dieci anni prima di arrivare alla compiutezza di Streets Of New York.. Senza drammi, perché Willie la prende con una filo- sofia tutta sua: «Non ho mai visto nessuno dei miei dischi come un comeback.. Mi sono preso il mio tempo e li ho incisi quando sentivo che era il momento giusto». Alla fine degli anni novanta Willie Nile decide di fare da solo e sforna un disco intenso e amaro fin dal titolo, Beautiful Wreck Of The World,, in cui spicca, fra le altre, On The Road To Cal- vary,, canzone dedicata a Jeff Buckley. Non un omaggio sconta- to se fatto da Willie Nile (tra l altro uno dei primi a rendergli omaggio), che in Jeff Buckley doveva aver rivisto qualcosa di sé, dato che, al di là delle speculazioni e dei pettegolezzi seguiti alla misteriosa scomparsa nel Mississippi, prima della morte Jeff Buckley stava cercando di produrre il suo secondo disco, con tutte le difficoltà in cui uno come Nile era già passato. A dimo- strazione del fatto che Willie Nile è un uomo che «parla come cammina», in quegli anni si dedicò all insegnamento alla scuola dei giovani songwriter. Del resto se c è uno che può spiegare come funziona quello strano mestiere che è scrivere le canzoni, è proprio Willie Nile. I tempi recenti lo hanno portato a rivedere il suo connubio con la città, come se le devastazioni dell 11 settembre 2001 gli aves- sero imposto di aggrapparsi ai legami più forti, quelli più veri. È un modo diverso di concepire New York, e quasi per colmare, riempire la storia di una carriera, Willie Nile celebra la città pro- prio con Streets Of New York.. Il disco dispiega tutto l affetto, la passione e l appartenenza dell artista alla sua città d elezione, ma è chiara, fin dal titolo e dall immagine della copertina, la scelta di parte, quella di ricominciare dalle strade. La canzone che dà il nome al disco e che chiude l album è un esplicita dichiarazio- ne d amore, così come The Day I Saw Bo Diddley In Washington 16

Square,, splendida canzone che mette insieme le radici irlandesi di Willie Nile, il volto di uno dei più grandi inventori ritmici del ventesimo secolo e uno degli snodi fondamentali nella map- pa culturale della città. Un discorso a parte va fatto per Police On My Back: : un songwriter che suona una canzone dei Clash e non semplicemente dal vivo, ma la incide anche sul suo disco più rappresentativo tra quelli recenti conferma l attitudi- ne e la disposizione a vivere e a pensare come una rock n roll band. Police On My Back,, incisa originariamente per il tributo a Sandinista! voluto da Jimmy Guterman, è un altro esempio della natura cosmopolita di Willie Nile. Tutto Streets Of New York vi- bra di una ritrovata identità, anche se l artista non sembra essere cambiato: «Non ho pensato ad un tema preciso per questo disco. Però quando ho messo insieme le canzoni e le ho risentite mi è sembrato che fossero delle riflessioni riportate da un viaggiatore, cose che ho visto, ascoltato e sentito lungo la strada. Volevo che fossero rilevanti nei loro significati e nelle loro visioni, non so se ci sono riuscito ma musicalmente funzionano». Streets Of New York riceve presto gli elogi di Lou Reed, Graham Parker, Ian Hunter, Little Steven e Lucinda Williams, e per lui non è soltanto una specie di nuovo esordio (come lo stesso Nile ha detto più volte), ma è anche il risultato di una carriera. È un disco pieno di pro- duttori che si mettono a sua disposizione, e proprio per questo sembra più il disco di una rock n roll band che di un songwri- ter. Andy York, chitarrista con un curriculum lungo così (e a sua volta produttore dello stupendo Man Overboard di Ian Hunter: quando i percorsi s incrociano ) e alter ego di Willie Nile nella costruzione di Streets Of New York dice che «è stato un labour of love». Frutto della condivisione degli amori e delle passioni musicali comuni: Beatles, Kinks, Stones, Who, Clash sono i nomi ricorrenti nella lavorazione del disco, così come la città attraver- sata dall 11 settembre. Cell Phones Ringing (In The Pockets Of Dead) appare come una delle canzoni più furiose scritte da Willie Nile in tutta la sua carriera, ma sono anni in cui la sensibilità è messa a dura prova. Lo stesso Nile ne racconta così la genesi: «Vivo non molto lonta- 17

no dal World Trade Center ed ero in città quel giorno. Ho visto le torri bruciare e ho sentito lo shock e l orrore, come tutti. Qualche giorno dopo ero su uno dei primi voli che lasciavano la città. Partivo per un tour in Spagna e sono rimasto impressionato dall affetto, dalla compassione e dall attenzione che gli spagnoli mi ri- servavano notte dopo notte. Continuavano a chiedermi cos era successo, se conoscevo qualcuno scomparso nelle torri, ed erano veramente interessati a ciò che era accaduto, a quello che stavamo facendo e a come ci sentivamo. Così, nel marzo del 2004,, quando gli attentati colpirono i treni di Madrid, cercai immediatamente tutti i miei amici spagnoli per sapere se stavano bene. Il giorno uno dei giornali newyorchesi titolava: Cell Phones Ringing In The Pockets Of Dead. Pare che si fossero circa centonovanta zaini al- lineati lungo i binari e i cellulari continuavano a suonare». Non ci vuole molto a intuire il senso di quegli squilli: «La gente stava cercando i propri cari, i cellulari suonavano. È una cosa che mi ha colpito, mi ha dato i brividi e mi ha fatto incazzare. È incredibile che si possa fare una cosa del genere in quello che chiamiamo mondo moderno. In qualche modo volevo contrastare quell idea. Ho pensato che noi in quanto esseri umani siamo capaci di fare di meglio. Dobbiamo trovare la maniera di avere più compassio- ne. Così ho cominciato a battere sui tasti del mio computer e la canzone è uscita da sola. Quando la canto dal vivo è sempre una sorpresa sentire quanta gente canta con me il ritornello, fino alla fine, in risposta a questa follia. Colpisce al cuore». È la risposta di Willie Nile all incubo, perché vivere nelle stra- de di New York nel ventunesimo secolo vuol dire affrontare ogni giorno la realtà dell 11 settembre 2001.. Una città cosmopolita, un luogo a parte persino rispetto al resto degli Stati Uniti d Ame- rica, colpita nel suo simbolo più ardito, rappresenta l inizio di un era allucinante. In Live In The Streets Of New York,, presen- tando Hard Times In America dice: «L ho scritta molti anni fa, ma è più attuale adesso di allora». Streets Of New York,, come tutti i lavori riusciti, se ne porta appresso altri, per cui diventa un disco dal vivo (e un DVD) in cui Willie Nile si conferma un grande performer, a discapito di una timidezza e una gentilezza atavica 18

che, nella presentazione del gruppo, lo spinge a presentarsi come Hank Williams. L occasione per presentare Streets Of New York è lo show del 26 febbraio 2006 al Mercury Lounge, e il gruppo è la stessa rock n roll band che ha prodotto il disco e che non ha nulla da invidiare a ensamble che seguono nomi ben più altisonanti. Uno show elettrico, compatto, senza esitazioni, da parte di un artista maturo e ormai conscio di non aver nulla da dimostrare e molto invece da raccontare. Live From The Streets Of New York,, oltre a confermare l indomabile anima rock n roll di Willie Nile, sembra anche collegare idealmente le strade di New York alla casa delle mille chitarre (perché il rock n roll si suona con quelle, non con altro). Per trovare un bis così convincente, solido e concreto bi- sogna tornare all accoppiata degli album dell esordio. House Of Thousand Guitars,, ancora più di Streets of New York è un espli- cita, plateale dichiarazione d amore per il rock n roll, una totale e incondizionata attestazione di appartenenza. A tratti sembra il disco di una grezza garage band e ricorda, non soltanto per l ov- via assonanza del titolo, Perfectly Good Guitar di John Hiatt: le vibrazioni elettriche in eccesso sono le stesse, e anche la quantità di chitarre, usate senza moderazione. Ne è passato di tempo, quasi tutti i nuovi Dylan si sono persi, nessuno è diventato Dylan ma Willie Nile è rimasto quel folletto arguto, vivace, pieno di cuore ed entusiasmo che saltava impugnando la Fender di spalle al pubblico e volgendo lo sguar- do al proprio batterista, che altri non era che Jay Dee Daugherty, quello che ancora oggi suona nel Patti Smith Group. A conti fatti, Willie Nile non ha fatto un incredibile carriera, c era da aspettar- selo, troppo cuore ed eleganza per entrare nel ring, ma nemmeno è diventato una figura patetica del Greenwich che fu. Ha conti- nuato per la sua strada, pubblicando dischi in giusta misura, né troppi né troppo pochi, togliendosi dalla circolazione per un po ma continuando a lavorare sulla sua arte, e senza avvilirsi perché i tempi erano cambiati. Ha saputo aspettare e al momento giusto, quando il battito del cuore della città era ormai un rantolo, ha giocato il jolly con un disco, Streets Of New York,, che rimetteva in 19

scena la bohème di New York come solo lui la sapeva cantare, con una selezione di canzoni che, senza retorica passatista, coniugano lo spirito poetico del songwriter con una schietta dimostrazione di rock n roll urbano. House Of A Thousand Guitars,, il nuovo disco, è il degno suc- cessore di quel lavoro e, come suggerisce il titolo, è ancora più intriso di rock n roll e chitarre elettriche anche se, come è nella tradizione dell autore, ci sono languori, malinconie e ballate. Con l atteggiamento spavaldo e scapigliato che lo ha sempre contrad- distinto, e con il solito amore per le strade e i romanzi, Willie Nile si ripropone al meglio recuperando il sound aguzzo ed essenziale del suo esordio. House Of A Thousand Guitars ha il vantaggio di avere una band, gli Worry Dolls, che sembra tagliata su misura su Nile, col chitarrista Andy York talmente bravo nel sintetizzare un assolo da togliere qualsiasi cosa in eccesso, e una sezione ritmica il bassista Brad Albetta e il batterista Rich Pagano che cono- scono a memoria il groove metropolitano, ovvero quel misto di arditi saliscendi che sembrano le montagne russe ritagliate sulla skyline della città. È vero che gli Worry Dolls partecipano solo a parte del disco, perché il resto è affidato all inseparabile Frankie Lee nelle vesti di batterista, a Steuart Smith nelle vesti di chitar- rista e a Stewart Lerman in quella di bassista, ma l amalgama è perfetto e al di là di qualche sfumatura il disco suona omogeneo e compatto. Che le chitarre, compresa la Stratocaster di Willie Nile, siano costantemente all offensiva lo dice il titolo del disco e la canzone da cui prende il nome, un vorticoso rock dove vengo- no citati i nomi dei grandi santi del rock in una sorta di omaggio a quella lezione musicale di cui Nile è figlio. Così la presenta lui stesso: «House Of A Thousand Guitars l ho scritta dopo che avevo fatto un sogno nel quale c era un luogo dove alcuni grandi musi- cisti, Dylan, Hendrix, Robert Johnson, gli Stones, John Lennon, Muddy Waters e John Lee Hooker, potevano rifugiarsi fuori dal caos e dalla follia del mondo e suonare la loro musica». Lezione che si ripropone nel vortice di ritmi e guitar sound di Run,, un pop veloce e frizzante, e nel tono rollingstoniano di Doomsday Dance.. Poi c è uno di quei brani che entrano nel cuore 20

e fanno la storia di un artista: Love Is A Train è metà ballata e metà rock n roll, ha forza, onestà e freschezza per diventare uno dei suoi classici in assoluto. Cosa che succede anche a Magdalena, sguaiato trash-punk da Lower East Side di una volta con le chi- tarre che gracchiano sporche, urgenti, insolenti e a The Midnight Rose,, enfasi springsteeniana e grande lavoro di squadra per un brano che ha muscoli e cuore in giusto dosaggio. Ma è nelle ballate che si ritrova il Willie Nile della New York City serenade,, nello splendido Her Love Falls Like Rain,, dove qualcuno potrà scorgere armonie vagamente beatlesiane, in Little Light,, dove sembrerà di essere in uno di quei momenti del concer- to in cui tutti cantano con l accendino in mano, ed in Touch Me, dove si verrà coinvolti da ricordi e malinconie attraverso la voce commossa del protagonista e del suo pianoforte. Poi il finale, non troppo enfatico, anche se già il titolo, When The Last Light Goes Out On Broadway,, dice di quanto sia bravo Willie Nile a cantare l anima profonda di New York City. Alla conclusione di una lunga stagione fortunata, Willie Nile si ritrova sul palco con Bruce Springsteen nella data finale del Working On Dream Tour, che si svolge proprio a Buffalo. Non era la prima volta che un duetto simile diventava realtà, ma il fatto che sia avvenuto nella città d origine di Willie Nile e su una canzone che è patrimonio comune (Higher And Higher) ) sembra quasi chiudere un discorso, come se si fosse arrivati alla fine di un lungo viaggio, chi in un modo chi nell altro, con Nile che detta con semplicità le uniche regole che ha sempre seguito: «Vivo la vita. Scrivo col mio cuore, scrivo come la vita richiede. Questo è il solo segreto, sento ancora lo stesso fuoco e la stessa passione di quando sono arrivato in città. Non conosco altri modi». Trent anni fa, un grande scrittore di rock n roll, Robert Pal- mer, vide con chiarezza, e prima di chiunque altro, lo spessore della personalità di Willie Nile, notando come fosse nello stesso tempo un perfetto testimone della sua epoca e un iconoclasta, per quanto avvolto in un aura di gentilezza e romanticismo. Era il 29 luglio 1979 e Robert Palmer scrisse che Willie Nile era «un artista iconoclasta e nello stesso tempo quasi la perfetta espressione dei 21

tempi correnti», una contraddizione che però è adatta a raccon- tare Willie Nile. Da allora è successo di tutto, ma l impressione che fa Willie Nile è ancora la stessa. È un piccolo romanzo del rock n roll che regala canzoni che entrano nella pelle, che trafiggono il cuore e suonano l ultimo atto di rivolta contro il degra- do dei nostri tempi. Un uomo che è la sua storia, e che non ha bisogno di inventarsela o reinventarsela ad ogni occasione. Un musicista che vive in una «casa dalle mille chitarre» e non ha biso- gno di aggiornare o riformare il proprio stile, perché il rock n roll contiene tutti gli elementi necessari per riempire una vita (e anche di più). Un cittadino di New York che ha vissuto tutte le stagioni della sua città, che ha contribuito a ridefinirne il sound, ma che, a differenza di molti colleghi e coetanei, dalla città non si è mai fatto fagocitare. Quando ai due estremi di una storia, non pri- va di svolte anche piuttosto complesse e difficili, l immagine che appare è sempre la stessa, vuol dire che c è un flusso di coerenza senza soluzione di continuità, vuol dire che quel modo di essere e di vivere ha retto negli anni. Perché, pur essendo originario di Buffalo, Willie Nile ha raccontato (e continua a raccontare) New York come nessun altro. La sua ultima dedica è perfetta perché descrive New York così: «È buia, è selvaggia, è pericolosa, è spor- ca ed è magica». Ed è ancora lì. 22