I PANNI SPORCHI NON SI LAVANO PIU A CASA! LAVAGGIO DEGLI INDUMENTI DI LAVORO sentenza della Corte di Cassazione 5.11.1998, n.11139



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I PANNI SPORCHI NON SI LAVANO PIU A CASA! LAVAGGIO DEGLI INDUMENTI DI LAVORO sentenza della Corte di Cassazione 5.11.1998, n.11139 Motivazione della sentenza Si ritiene prioritario l'esame del secondo e del terzo motivo del ricorso. 1 - Con il secondo motivo i ricorrenti, denunziando violazione dell'art. 4 del d.p.r. 19 marzo 1956, n. 303 e degli artt. 377-378 - 379 del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 e successive modificazioni introdotte dal decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, nonché vizio logico di motivazione, deducono che la sentenza impugnata non si pone il problema che venne dettagliatamente esposto nel ricorso in appello laddove si evidenziò, sulla base d'idonea argomentazione: che un'azienda di raccolta, trasporto e smaltimento di rifiuti solidi urbani è un'azienda insalubre di prima classe, e che il personale è esposto al pericolo d'infezioni, cosicché gli indumenti di lavoro consegnati allo stesso personale, per esigenze di servizio normalmente in contatto con detti rifiuti, hanno una specifica funzione di protezione dei lavoratori; che ai sensi delle citate norme, l'azienda ha l'obbligo di fornire tali indumenti ai dipendenti e di tenerli in condizioni di efficienza. Il motivo è fondato per le ragioni che seguono. Indubbiamente, gli indumenti ordinari di lavoro dei dipendenti dell'azienda resistente sono specificamente destinati alla protezione della salute dei lavoratori posti a contatto con i rifiuti solidi urbani. La circostanza è pacificamente presupposta dalle argomentazioni del Tribunale, il quale osserva, tra l'altro (pag. 19 della sentenza), che gli stessi appellanti hanno dato atto che nel corso del 1995 l'azienda aveva provveduto ad attivare il servizio di lavaggio; e ciò in esecuzione dell'accordo Aziendale del lavaggio a carico dell'azienda stessa. Opinando diversamente, l'assunzione di tale obbligo da parte della datrice di lavoro non troverebbe nessuna plausibile giustificazione. Inoltre, l'art. 379 del D.P.R. 27 aprile 1955 n. 457 (norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) impone al datore di lavoro, quando si è in presenza di lavorazioni, o di operazioni o di condizioni ambientali che presentano pericoli particolari non previsti dalle disposizioni del capo secondo del presente titolo, di mettere a disposizione dei lavoratori "idonei indumenti di protezione" (norma ritenuta applicabile in fattispecie fortemente analoga da questa Corte con sentenza del 9 ottobre 1997, n. 9808). Al riguardo non può essere condiviso l'assunto del Tribunale secondo cui né il citato art. 379 né l'art. 2087 c.c. pongono a carico dell'azienda l'obbligo specifico di provvedere al lavaggio degli indumenti in questione, dovendo essa garantire, esclusivamente, la salubrità dell'ambiente di lavoro. Invero, l'idoneità degli indumenti di protezione, come sopra imposta dall'art. 379, essendo la norma finalizzata alla tutela della salute quale oggetto di un autonomo diritto primario assoluto (art. 32 cost.), deve sussistere non solo nel momento della consegna degli indumenti stessi ai lavoratori, ma anche durante l'intero periodo di esecuzione della prestazione di lavoro, perché solo in tal modo si consegue lo scopo della norma che, nella concreta fattispecie, è quello di prevenire l'insorgere e il diffondersi d'infezioni, per effetto dell'uso dei mezzi protettivi connesso alla stessa durata della prestazione di lavoro. Ne consegue che, essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza, esso non può non essere a carico del datore di lavoro, quale destinatario dell'obbligo previsto dall'art. 379 più volte menzionato. Si è, infatti, deciso che l' art. 4 lett. c) del D.P.R. del 9 marzo 1956, n. 303 (norme generali per l'igiene del lavoro), il quale prescrive che il datore di lavoro deve fornire ai lavoratori i mezzi di 1

protezione necessari, dev'essere inteso nella più ampia latitudine, essendo finalizzato ad ogni possibile tutela della salute e dell'igiene del lavoratore nel corso del lavoro; quindi non può essere limitato all'iniziale momento della fornitura del mezzo protettivo, sì da far ritenere irrilevante l'inidoneità dell'uso successivo (Cass., 3 sez. pen., 31 maggio 1986 - Silvestico). Peraltro, anche sotto il profilo dell'art. 2087 c.c., che, com'è noto, ha un valore sussidiario rispetto alla normativa speciale dettata per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, in quanto presuppone che risultino insufficienti o inadeguate le misure all'uopo previste dalla normativa speciale, si è deciso che l'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità fisiopsichica dei dipendenti impone l'adozione - "ed il mantenimento" - delle idonee misure protettive (in tal senso Cass., 6 settembre 1988, n. 5048). Le considerazioni che precedono trovano conferma in alcune importanti disposizioni del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626 (attuazione di direttive comunitarie per il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro), e precisamente: a) nell'art. 40, il quale definisce il dispositivo di protezione individuale (DPI) come qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo; b) nell'art. 43, comma 3, dello stesso decreto, il quale pone a carico del datore di lavoro l'obbligo di fornire ai lavoratori i predetti dispositivi conformi ai requisiti previsti dall'art. 42 e dal decreto di cui all'art. 45, comma 2 ; c) nel comma 4 dello stesso art. 43, laddove si statuisce che lo stesso datore di lavoro "mantiene in efficienza i DPI e ne assicura le condizioni d'igiene, mediante la manutenzione, le riparazioni e le sostituzioni necessarie". L'art. 98 del citato decreto stabilisce che restano in vigore, in quanto non specificamente modificate dal presente decreto, le disposizioni vigenti in materia di prevenzione degli infortuni ed igiene del lavoro. Poiché il provvedimento in esame non risulta avere carattere retroattivo (art. 11 disp. della legge in generale), se ne deduce che, nella fattispecie in esame, l' art. 379 del D.P.R. n. 547 del 1955 è ad essa applicabile fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, mentre, per il periodo successivo, trovano applicazione le disposizioni del titolo quarto (articoli 40 e seguenti) dello stesso decreto, le quali, attesa la loro articolata formulazione, connotata da numerosi e dettagliati precetti, devono ritenersi specificamente modificative delle previgenti disposizioni (art. 379 suindicato e art. 4 lett. c) del D.P.R. n. 303/1956), ex art. 98 citato. 2 - Con il terzo motivo i ricorrenti denunziano violazione degli artt. 1364 e 1362, comma 2, c.c., nell'interpretazione del contenuto del contratto collettivo del 1987, nonché violazione dell'art. 1418 c.c. per avere ipotizzato che detto contratto collettivo attribuiva ai lavoratori l'obbligazione di curare il mantenimento in efficienza di strumenti di protezione in violazione delle richiamate norme del D.P.R. n. 303/1956 e n. 547/1955; nonché vizio logico di motivazione. Sostengono al riguardo che, avendo gli indumenti in discussione funzione di protezione della salute dei lavoratori, le clausole contrattuali che pongono a carico del lavoratore il lavaggio e altra manutenzione sono nulle per contrasto con norme imperative; la relativa questione è stata sempre ignorata dai giudici di merito. Il motivo è fondato per quanto di ragione. 2

Non è esatto che la sentenza abbia ignorato la questione come sopra prospettata, atteso che il Tribunale, avendo escluso che l'obbligo della datrice di lavoro di provvedere al lavaggio degli indumenti scaturisse dalle suindicate norme speciali o dall'art. 2087 c.c. (il Tribunale non richiama espressamente anche l' art. 4 lett. c) del D.P.R. n. 303/1956 ma non si ravvisa sostanziale differenza in relazione al caso di specie, fra detta norma e quella dell'art. 379 D.P.R. n. 547/1955 coerentemente, esclude per implicito la nullità delle clausole contrattuali che ponevano tale obbligo a carico dei dipendenti, sia pure errando nell'interpretazione delle stesse norme speciali e dell'indicato art. 2087. Viceversa, questa Corte, avendo già deciso, esaminando il secondo motivo dell'odierno ricorso, che il lavaggio, indispensabile per mantenere gli indumenti, quali idonei mezzi di protezione, in istato di efficienza, doveva essere eseguito dall'azienda datrice di lavoro, non può non ritenere la nullità della clausola di cui all'art. 23, punto 3, del contratto collettivo nazionale di lavoro del 1987, la quale impone ai dipendenti anche l'obbligo della manutenzione degli indumenti, che ricomprende altresì la pulitura ed il lavaggio; ciò secondo l'interpretazione data dallo stesso Tribunale alla predetta clausola (pag. 16 e seguenti della sentenza), interpretazione che si sottrae al sindacato di legittimità per difetto di specifica censura sul punto. Tale nullità consegue all'applicazione dell'art. 1418, comma 1, c.c., considerato altresì che l'obbligo posto dall'art. 379 D.P.R. n. 547 del 1955 a carico del datore di lavoro di mettere a disposizione dei lavoratori indumenti di protezione, è diretto alla tutela della salute degli stessi lavoratori, che è un bene primario assoluto, tutelato non solo come fondamentale diritto dell'individuo "ma anche come interesse della collettività" (art. 32, comma 1, Cost.). Poiché, pertanto, la posizione del lavoratore assurge a livello d'interesse pubblico, la normativa in questione, singolarmente e complessivamente tenuta presente, in quanto tutela anche tale interesse, non può non essere considerata "imperativa" ai sensi del citato articolo, secondo l'interpretazione datane dalla giurisprudenza (in tal senso vedasi, sia pure in fattispecie diverse, Cass., Sez. Un., 21 agosto 1972, n. 2697; Cass., 13 maggio 1977, n. 1901; Cass., Sez. Un., 26 aprile 1994, n. 3965 e n. 3966). 3 - Con il quarto motivo i ricorrenti, denunziando vizio logico di motivazione con riferimento al carattere interpretativo delle specifiche statuizioni del contratto collettivo nazionale di lavoro del 1991, assumono che sussiste il denunciato vizio logico nella parte della sentenza in cui si sostiene che il contratto del 1987 e quello del 1991 hanno lo stesso contenuto, senza rilevare che i contratti del 1991 sono due, uno stipulato con la CGIL - CISL - UIL, che esplicitamente pone a carico del lavoratore il lavaggio degli indumenti e uno stipulato con la FIADEL - CISAL, in cui, fermo tutto il resto, si prende atto della riserva della FIADEL - CISAL circa il quarto comma dell'art. 20 relativo appunto al lavaggio indumenti (vedansi i documenti 26 e 27 di primo grado, con la precisazione che il doc. n. 26 è erroneamente indicato come 17 dicembre 1987, in luogo di 17 dicembre 1991). Il fatto più rilevante è che la Federambiente, organizzazione stipulante per parte datoriale nel 1991, non ha rifiutato di stipulare con la Fiadel-Cisal, che ha dichiarato di non sottoscrivere la clausola del comma quarto dell'art. 20; al contrario, ha stipulato con la stessa prendendo atto della riserva circa il quarto comma dell'art. 20. La censura, così dedotta, è inammissibile, perché sollecita l'esame di documenti da parte di questa Corte di legittimità, precisandone persino i numeri del relativo elenco; così dimenticano i ricorrenti che tale esame esula dai compiti istituzionali della stessa Corte (art. 65 r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 e art. 360 c.p.c.), non essendo stata denunciata la violazione di norme processuali. 4 - Con il primo motivo i ricorrenti, denunziando violazione dell'art. 1172 c.c., con riferimento all'art. 2071 e violazione degli artt. 2697, 2733, 2734 e 2735, con riferimento alla ricognizione della ricorrenza nel caso di specie dei presupposti dell'applicazione dell'art. 4 del D.P.R. n. 303/1956; 3

nonché vizio logico di motivazione, deducono che in primo e in secondo grado i dipendenti (pag. 6, 7 e 8 del ricorso in appello) avevano richiamato l'obbligo assunto contrattualmente dall'azienda e, comunque, dalla stessa riconosciuto nella sussistenza dei suoi presupposti di fatto e di diritto di provvedere al lavaggio indumenti. Tale questione è stata completamente pretermessa dalla decisione del Tribunale. Il Collegio osserva: che quest'ultimo ha rilevato sul punto che l'assunzione dell'obbligo di lavaggio da parte dell'azienda ha comportato soltanto il riconoscimento in favore dei lavoratori di un'indennità avente natura non risarcitoria ma retributiva; che, comunque, il motivo in esame rimane assorbito a seguito di quanto già ritenuto esaminando i motivi secondo e terzo. 5 - Con il quinto ed ultimo motivo i ricorrenti denunziano violazione dell'art. 112 c.p.c. in relazione alla dichiarazione di cessazione della materia del contendere per adempimento di una domanda del giudizio in corso di causa; vizio logico di motivazione; violazione dell'art. 91 c.p.c. in relazione al regolamento delle spese, in presenza dell'accoglimento, da parte della datrice, di una domanda nel corso del grado d'appello. Deducono al riguardo che essi avevano dato atto che l'azienda aveva accolto parzialmente la domanda provvedendo all'adempimento del proprio obbligo di lavare gli indumenti; ciò peraltro non determinava la cessazione della materia del contendere proprio perché si trattava di un adempimento tardivo e parziale dell'obbligazione oggetto della domanda stessa dei dipendenti, che non giustificava peraltro la condanna dei medesimi ~ pagamento delle spese processuali. Per quanto già osservato, rimane assorbito anche questo motivo, eccetto il punto relativo alla discussa cessazione della materia del contendere. Tale cessazione può pronunciarsi, anche d'ufficio, solo quando sia sopravvenuta una situazione, riconosciuta ed ammessa da entrambe le parti, che ne abbia eliminato la posizione di contrasto anche circa la rilevanza giuridica delle vicende sopraggiunte ed abbia perciò fatto venir meno, oggettivamente, la necessità di una pronuncia del giudice su quanto costituiva l'oggetto della controversia (art. 1000 c.p.c.) (cfr. fra le tante, Cass., n. 12826/1992; Cass., 11 aprile 1995, n. 4151; Cass., 21 gennaio 1994, n. 576). Ciò premesso, non può sfuggire che il Tribunale ha errato nell'affermare che era venuto meno ogni motivo di controversia fra le parti. Infatti, come risulta dalla stessa motivazione della sentenza impugnata, soltanto per effetto dell'accordo del 19 luglio 1991 l'azienda aveva assunto l'obbligo del lavaggio; accordo che la stessa aveva eseguito nell'anno 1995 attivando il relativo servizio, cosicché non poteva dirsi cessata la materia del contendere con riferimento alla questione se tale obbligo incombeva sull'una o sull'altra parte per il periodo antecedente la stipula del predetto accordo, in relazione all'art. 23, punto 3 del contratto collettivo del 1987. Peraltro, le parti non avevano raggiunto nessun accordo circa il regolamento delle spese processuali, tant'è vero che il Tribunale condannò i dipendenti alla rifusione delle spese del grado. Per le ragioni esposte il ricorso principale va accolto per quanto di ragione (secondo e terzo motivo); per l'effetto dev'essere cassata la sentenza impugnata, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, con rinvio della causa per nuovo esame del merito ad altro giudice d'appello che si designa nel Tribunale di Venezia, sez. lav., il quale, fermo restando che va esclusa la cessazione della materia del contendere per quanto già osservato, si uniformerà al seguente principio di diritto (art. 384 c.p.c.): "L'idoneità degli indumenti di protezione, che il datore di lavoro deve mettere a disposizione dei lavoratori - a norma dell'art. 379 del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 457 (norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) fino alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626 e ai sensi degli artt. 40, 43, commi terzo e quarto, di tale decreto, per il periodo successivo - 4

essendo tali norme finalizzate alla tutela della salute quale oggetto di un autonomo diritto primario assoluto (art. 32 Cost.), deve sussistere non solo nel momento della consegna degli indumenti stessi ai lavoratori, ma anche durante l'intero periodo di esecuzione della prestazione di lavoro, perché solo in tal modo si consegue lo scopo della norma che, nella concreta fattispecie, è quello di pervenire l'insorgenza e il diffondersi d'infezioni, per effetto dell'uso dei mezzi protettivi connesso alla stessa durata della prestazione di lavoro. Ne consegue che, essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in istato di efficienza, esso non può non essere a carico del datore di lavoro, quale destinatario dell'obbligo previsto dalle citate disposizioni". Il Giudice di rinvio prenderà atto altresì che con la presente sentenza è stata ritenuta la nullità della clausola di cui all'art. 23, punto 3, del contratto collettivo nazionale del settore, relativo all'anno 1987, per contrasto con l'art. 1418, comma 1, c.c., e provvederà altresì al regolamento delle spese del presente giudizio di cassazione (art. 385, comma 3, c.p.c.). Rimane, infine, assorbito il ricorso incidentale condizionato della resistente relativo alla liquidazione delle spese processuali (pretesa violazione di minimi tariffari). P.Q.M. La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso principale per quanto di ragione, nei sensi e nei limiti da cui in motivazione; dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato; cassa per l'effetto la sentenza impugnata e rinvia la causa per nuovo esame del merito al Tribunale di Venezia, sez. lav., il quale provvederà altresì al regolamento delle spese del presente giudizio di cassazione. Così deciso in Roma il 9 luglio 1998. DEPOSITATA IN CANCELLERIA, 5 NOV. 1998. 5