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GIORNATA DELLA FORMAZIONE PENALE DECENTRATA DISTRETTO CORTE APPELLO DI TORINO 10 APRILE 2008 DETERMINAZIONE ED ESECUZIONE DELLA PENA EFFETTI DEL BILANCIAMENTO DELLE CIRCOSTANZE E TRATTAMENTO PROCESSUALE E PENITENZIARIO NEL RAPPORTO ESECUTIVO PENALE 1. Entrata in vigore della legge Cirielli : effetti peggiorativi sulle vicende del rapporto esecutivo penale e sul trattamento penitenziario dei condannati recidivi reiterati La L. 5.12.2005 n. 251 ha introdotto, come già era successo con l entrata in vigore, dapprima del D.L. 13.5.1991 convertito nella L. 12.7.1991 n. 203 ( che ha introdotto l art. 4bis O.P. ) e successivamente del D.L. 8.6.1992, convertito con modificazioni nella L. 7.8.1992 n. 356 ed infine della L. 23.12.2002 n.279, nuove modifiche riguardanti il trattamento sanzionatorio nei confronti dei condannati definitivi, nell ambito del procedimento esecutivo penale e del trattamento penitenziario propriamente detto. La nuova disciplina ha previsto sostanzialmente restrizioni alla applicabilità delle norme generali relative alla sospensione tout court dell ordine di esecuzione della pena nei confronti dei soggetti che non si trovassero in regime di custodia cautelare in carcere al momento del passaggio in giudicato della sentenza da eseguire ( c.d. condannati liberi ), nonché limitazioni alla fruizione di benefici penitenziari ed alternativi alla espiazione in carcere della pena e quindi una disciplina in peius che questa volta, anzichè riguardare una particolare categoria di condannati per delitti ad alta riprovazione sociale o morale, si rivolge alla categoria generale dei recidivi reiterati, ovvero coloro che, dopo avere subito condanna per almeno due delitti non colposi, ne commettono un altro ( art. 99,4 comma O.P. ), qualunque sia la tipologia di reato penale commesso. 2. Natura sostanziale o processuale delle norme che disciplinano il trattamento in peius dei condannati recidivi reiterati Il primo quesito che ha posto l applicazione della novella del 2005, è stata quella attinente alla natura sostanziale o processuale della nuova disciplina, che restringeva l ambito di applicazione di alcuni benefici penitenziari nei confronti dei condannati recidivi reiterati. In altri termini,occorreva chiarire se la nuova disciplina restrittiva potesse trovare applicazione nei confronti dei condannati che, al momento della entrata in vigore della L. 05/279, fossero già stati giudicati con sentenza che avesse applicato, ovviamente per delitti commessi prima della novella, la circostanza aggravante soggettiva della recidiva reiterata, oppure la stessa dovesse operare unicamente nei confronti di condannati che fossero giudicati come recidivi per delitti commessi dopo l 8 dicembre 2005.

La questione non è di poca importanza, dato che poteva significare, per taluni condannati, la possibilità di essere ammessi da subito a fruire di determinati benefici o vedersi dichiarare inammissibili le istanze, pur ritualmente presentate alla luce della vecchia normativa, superata da quella peggiorativa entrata in vigore successivamente. Inoltre, emergeva in modo assolutamente evidente anche la problematica relativa al trattamento di quei condannati recidivi reiterati, i quali fossero stati ammessi già a benefici penitenziari, divenuti non più godibili o godibili con un maggiore quantum di pena da espiare per effetto della novella citata. L orientamento pressoché costante della Suprema Corte ( si citi, per esempio, Cass. 18.2.1993, Cass. 22.9.1994, Cass. 20.9.1995, Cass. 14.1.1997, Cass. 19.4.1997 ) ritiene che l applicazione di norme che introducono restrizioni alla possibilità di fruire di benefici penitenziari, possa operare nei confronti di soggetti colpiti da condanna irrevocabile intervenuta prima della loro entrata in vigore, atteso che non vi osterebbe il principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole sancita dall art. 25 Cost., giacchè tale principio riguarda solo le leggi penali sostanziali, tra le quali non possono farsi rientrare le norme che disciplinano l esecuzione della pena e le misure a questa alternative, ivi comprese le condizioni per la loro applicazione. L art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale e, per la sola materia penale, l art. 25 della Carta costituzionale sanciscono il principio di irretroattività, che vieta di applicare la legge a fatti commessi prima della sua entrata in vigore. Tale principio trova una compiuta disciplina nell art. 2 del codice penale, intitolato successioni di leggi penali, il cui primo comma ribadisce l irretroattività della norma incriminatrice, mentre il secondo e terzo comma esplicitano il principio ( consequenziale al primo ) della retroattività della norma più favorevole, eventualmente emanata. In particolare, il secondo comma dell art. 2 c.p. si occupa della abrogazione della fattispecie criminosa ( c.d. abolitio criminis ), mentre il terzo comma stabilisce che, se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile ; secondo questa disposizione, laddove la fattispecie criminosa non venga abrogata, ma si abbia semplicemente una nuova e diversa disciplina di incriminazione, comprensiva di diverso trattamento sanzionatorio, si applicherà pertanto alternativamente la prima o la seconda legge quale che sia quella più favorevole al reo. Alla luce della rubrica dell art. 2 del codice penale, che disciplina il fenomeno della successione delle leggi penali, la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione esclude che le norme che attengono alla esecuzione della pena ed alle misure alternative abbiano natura sostanziale, alla stregua delle norme incriminatici ; solo per queste ultime, vale, infatti, il principio di irretroattività della legge più sfavorevole e di ultrattività di quella, pur se abrogata, più favorevole. Per sottolineare ulteriormente la distinzione tra norme penali sostanziali e norme inerenti alle modalità di esecuzione della pena e alla applicazione di misure alternative o altri benefici in favore del condannato, di natura processuale, la S.C. ha ripetutamente affermato che le norme processuali non sono fonti di diritti, di qualsivoglia specie, nei

confronti dei loro eventuali destinatari, né possono indurre alcuna aspettativa in relazione al riconoscimento di trattamenti previsti da norme precedentemente in vigore ; per esse, pertanto, salvo naturalmente il caso di una specifica disposizione transitoria, vale il principio tempus regit actum. Pertanto,le norme che disciplinano l esecuzione penale e le misure alternative alla detenzione non attengono alla cognizione del reato e all'irrogazione della pena, ma riguardano invece le modalità esecutive della pena stessa. Esse, pertanto, non sono norme penali sostanziali e ad esse non si riferisce il dettato dell'art. 2 del codice penale, ne' il principio costituzionale di cui all'art. 25 Cost. Conseguentemente, le sorti del rapporto esecutivo penale sono regolate dal P.M. e la concessione delle misure alternative è disposta dalla magistratura di sorveglianza, secondo la legge vigente al momento della sua applicazione. (Cass. sez. I, sentenza n. 6297 del 17/11/1999). Detto orientamento si è consolidato anche successivamente all entrata in vigore della legge Cirielli,in quanto più volte la Suprema Corte ha affermato che ( v. sez. I sentenza n. 24767 del 5.7.2005 per l immediata applicabilità dell art. 50bis O.P., sez. I sentenza n. 27853 del 13.7.2006 per la concedibilità della detenzione domiciliare a soggetti ultrasettantenni per le esecuzioni penali in corso al momento dell entrata in vigore della legge, sez. I sentenza n. 33075 del 21.9.2006 per l applicabilità immediata dell art. 656 comma 9 c.p.p. e cioè il divieto di sospensione dell ordine di carcerazione per i recidivi reiterati, anche procedimenti esecutivi in corso all 8.12.2005 ) la modifica delle norme che regolano l esecuzione della pena e l applicazione delle misura alternative alla detenzione, pur incidendo di fatto sul trattamento sanzionatorio del condannato, non ha natura sostanziale e ad essa, salvo la previsione espressa e specifica contenuta in norme intertemporali, è applicabile il principio tempus regit actum. Molti interpreti hanno sottolineato, in contrapposizione all orientamento espresso dalla Corte di Cassazione, la giurisprudenza della Corte Costituzionale che, sollecitata ad esprimersi sulla legittimità delle discipline di rigore introdotte dalla normativa del 1991 e del 1992, ha risolto le questioni di successioni di leggi penitenziarie, non ricorrendo alla dicotomia leggi processuali/leggi sostanziali. Sulla base di questa diversa impostazione, la Corte Cost. ha emanato le pronunce additive che hanno integrato l art. 4 bis L.354/75, inserendo in quella disposizione le condotte da ritenersi normativamente equivalenti al requisito della collaborazione per collaborazione impossibile o inutile per integrale accertamento dei fatti operato con sentenza irrevocabile. Va tuttavia rilevato che dalle iniziali premesse non è discesa una affermazione tout court della irretroattività delle norme penitenziarie di sfavore ; in particolare, espressamente chiamata a pronunciarsi sul punto, con la sentenza 273 del 2001 la Corte non entrava nel merito della distinzione tra leggi processuali e sostanziali, preferendo focalizzare il thema decidendum sul requisito della collaborazione. Occorre a questo proposito sottolineare, che le medesime considerazioni potrebbero facilmente essere svolte anche con riferimento alle modifiche introdotte dalla L. 25/05 per la categoria dei recidivi reiterati, cui sono state inasprite le condizioni di accessibilità alle misure, i cui presupposti sostanziali, tuttavia, non sono stati modificati.

Così ricostruiti gli orientamenti espressi dalla S.C. e dal giudice delle leggi, il problema della applicazione temporale delle disposizioni penitenziarie della L. 251 del 2005 non può prescindere dall art. 10, che testualmente recita: Ferme restando le disposizioni dell'articolo 2 del codice penale quanto alle altre norme della presente legge, le disposizioni dell'articolo 6 non si applicano ai procedimenti e ai processi in corso se i nuovi termini di prescrizione risultano più lunghi di quelli previgenti. Dalla formulazione letterale della norma pertanto si evince che l unica disciplina transitoria è riservata all art. 6 della medesima legge; le altre disposizioni, ivi compreso l art. 7 di cui ci occupiamo, sono regolate dai principi già esposti previsti dall art. 2 c.p. in materia di successione di leggi. Con ciò il legislatore del 2005 si è sensibilmente discostato dal modello usato in primis con la L. 12.7.1991 n. 203, che ha introdotto l art. 4bis e l art. 58quater O.P., imponendo l applicazione della nuova disciplina ai condannati per delitti commessi dopo l entrata in vigore del decreto originario e più recentemente, in occasione della modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 operata dalla legge 23 dicembre 2002, n. 279. L art. 4, comma 1, della L.279/02 prevede infatti che le disposizioni di cui all art. 1 che modifica l art. 4-bis dell ordinamento penitenziario, sostituendo l intero comma 1 e parzialmente il comma 2-bis non si applicano nei confronti delle persone detenute per i delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602 del codice penale ovvero per delitti posti in essere per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell ordine democratico commessi precedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge. L assenza di disciplina transitoria, che caratterizza la L.251/05, secondo il brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit sembrerebbe far ipotizzare che il legislatore abbia voluto richiamare per la nuova normativa (che entra in vigore il giorno della sua applicazione), i principi consueti, e pertanto il principio tempus regit actum, suggerito dalla tradizionale distinzione, mai abbandonata dalla S.C., né, come si è visto, espressamente sconfessata dalla C. Costituzionale. Tale intento, del resto, risulterebbe pienamente conforme alle esigenze generalpreventive espresse nell ambito dei lavori preparatori, che mal si accorderebbero con una applicazione differita della disciplina di rigore. Può essere comunque utile analizzare le conseguenze applicative del superamento della distinzione tra norme processuali, governate dal principio tempus regit actum, e norme sostanziali, governate dal principio di irretroattività, verificando gli effetti dell applicazione della disciplina ex art. 2 c.p. alla normativa finora esaminata, della quale si assumesse la natura sostanziale. A tal fine, occorre in primo luogo individuare l effetto abrogativo o modificativo delle innovazioni legislative introdotte dalla L.251/05 in tema di recidiva reiterata, già prevista al comma IV art. 99 c.p. nel testo modificato. Il fenomeno della successione delle leggi nel tempo, da distinguere dai casi di abrogazione del reato, prescinde da ogni valutazione in ordine al trattamento

sanzionatorio, poiché, trattandosi del rapporto tra diverse fattispecie incriminatici, riguarda la sola configurazione astratta della figura criminosa e non la pena per essa irrogata. Infatti, solo in un momento successivo avrà rilievo la sanzione comminata dalla vecchia e nuova norma: allorchè, una volta constata la sussistenza della successione (e non di abrogazione) di legge, dovrà essere individuata la disciplina più favorevole da applicarsi ex art. 2 c. 3 c.p. Sul piano sostanziale, la nuova formulazione dal comma 4 dell art. 99 c.p. si è limitata ad escludere dal campo della recidiva reiterata i delitti colposi e contravvenzionali; per i quali non può più essere applicata la recidiva reiterata. Le ulteriori modifiche introdotte dalla L.251/05 attengono al trattamento sanzionatorio della recidiva reiterata, che come si è già detto, non influisce ai fini della individuazione del fenomeno della successione delle leggi penali. Appare pertanto evidente che non c è stata alcuna abrogazione della c.d. recidiva reiterata, ma una successione di leggi intervenute a restringere l ambito applicativo di tale istituto, diminuendone l area di disvalore penale; tra la nuova e la vecchia fattispecie sussiste il c.d. rapporto di continenza per cui, in assenza della seconda norma i fatti rientrerebbero certamente nella prima. Alla stregua di tali principi, appare evidente che tra la nuova e la vecchia formulazione dell art. 99 c. IV c.p. si è realizzata una successione di leggi penali, non una abrogazione; una volta ammessa la natura sostanziale delle norme penitenziarie, non deve pertanto applicarsi il comma 2 dell art. 2 c.p., dedicato al fenomeno della c.d. abolitio criminis, ma il comma 3 della medesima disposizione, relativo alla successione di leggi., con l applicazione la legge più favorevole. La valutazione dell interprete di fronte a questo fenomeno si sostanzia, in pratica, nel verificare se la fattispecie concreta per cui il condannato ha riportato l applicazione della recidiva reiterata sia tuttora riconducibile alla fattispecie prevista dall art. 99 c. IV c.p., secondo l attuale formulazione, (e quindi che né nella precedente condanna né in quella attuale ricorrano fattispecie contravvenzionali o colpose ), con conseguente applicazione della disciplina previgente (e quindi di favore ) in caso di continuità nel tipo di illecito. Non può pertanto essere condiviso l assunto relativo al rinvio operato dall art. 7 L.251/05 all art. 99 c. IV c.p., da intendersi quale rinvio necessitato alla nuova norma, e non a quella sostituita. L art. 7 L.251/05 costituisce infatti una fattispecie complessa, ove il concetto di recidiva reiterata si pone come un elemento normativo della fattispecie, a sua volta soggetto ai principi delle successioni di leggi penali nel tempo. Per le considerazioni finora esposte, il passaggio dalla vecchia alla nuova fattispecie di recidiva c.d. reiterata, si configura come una successione di leggi caratterizzata da continuità nel tipo di illecito, e non una abrogazione di un istituto preesistente; pertanto, l avvicendarsi delle leggi non cancella la vecchia recidiva reiterata, posto che la nuova differisce dalla prima solo perché limitata alle precedenti condanne per reati dolosi.

Infatti, se è vero che le disposizioni previste dalla L. 251/05 in materia di disciplina degli aumenti di pena da applicare in caso di recidiva aggravata, hanno natura sostanziale e dunque sono soggette ai principi che regolano la successione di leggi penali nel tempo ( art. 2 c.p. ), le norme che invece hanno novellato gli istituti del diritto penitenziario, introducendo limitazioni alla concedibilità dei benefici nei confronti dei recidivi reiterati, non possono e non debbono, per il solo fatto di fare riferimento ( recependo il loro contenuto per rinvio recettizio ) a norme sostanziali ( quelle che disciplinano il nuovo ambito di applicazione e l aumento della pena stabilito per la recidiva reiterata ), essere considerate norme di identica natura, ma mantengono la loro originaria struttura di norme processuali e pertanto sono soggette al principio tempus regit actum, trovando applicazione, nella nuova formulazione, alle fattispecie oggetto di esame dopo la entrata in vigore della novella 251/05, indipendentemente dal fatto che il reato di cui alla condanna irrevocabile sia stato commesso prima o dopo la riforma de quo. Ciò chiarito, va tuttavia evidenziato che alla ricostruzione sostanzialistica basata sull applicazione dell art. 2 c. 3 c.p. alle norme di diritto penitenziario, si oppone un preciso argomento testuale desunto dalla medesima disposizione : il limite del giudicato, (.salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile ). Il riferimento alla cosa giudicata pertanto non può essere utilmente richiamato da chi sottolinei la natura sostanziale delle norme inerenti alle modalità di esecuzione della pena e alla applicazione di misure alternative, trattandosi di un principio antitetico alle norme medesime. Esso è invero un limite connaturato al processo di cognizione, atteso che a quel processo faceva senza dubbio riferimento il legislatore mentre dettava la disciplina codicistica in tema di successione di leggi penali nel tempo. Evidentemente, si tratta dell espressione di un principio (l intangibilità del giudicato) che nessun senso ha nell ambito del procedimento di sorveglianza, che trova nell esecutività della sentenza il proprio presupposto, la propria ragion d essere. Nè il rinvio operato dall art. 10 L.251/05 all art. 2 c.p. consente di operare delle distinzioni all interno della medesima disposizione,cosicchè non risulta alcun riferimento testuale che consenta di espungere dalla norma rinviata, l art. 2 c.3 c.p., il riferimento alla cosa giudicata. La ricostruzione sostanzialistica delle norme inerenti all esecuzione della pena, spiegata alle sue naturali conseguenze, si mostra alle corde; l art. 2 c. 3 c.p. non può sorreggere una interpretazione completamente soddisfacente della efficacia differita della normativa di rigore alle sentenze emanate in forza della nuova normativa sulla recidiva reiterata. Pertanto, nel limitare l accesso ai benefici penitenziari per i condannati recidivi reiterati, il legislatore ha voluto rivolgersi ad ogni recidivo che commette un altro delitto ( e solo delitto ) non colposo, indipendentemente che lo stesso sia stato fatto oggetto degli aumenti di pena previgenti o introdotti dalla nuova disciplina. 3. Ambito di efficacia della disciplina che riguarda i recidivi :

a) necessità di applicazione della circostanza e differenze rispetto ad altre previsioni dell ordinamento penitenziario ( quelle che riguardano la condanna per ipotesi di delitto aggravate) Per quanto attiene alla questione interpretativa della dizione normativa che, per l operatività della normativa introdotta dalla L. 251/05, richiede che ai condannati sia stata applicata la recidiva prevista dall art. 99,4 comma c.p., occorre fare riferimento alla sentenza emessa dalla Corte di Cassazione sez. unite in data 18.6.1991 dep. il 23.7.1991. Infatti la stessa, dirimendo la questione giuridica relativa alla formulazione della norma ( art. 3 ) che prevedeva le esclusioni oggettive in materia di applicazione dell indulto emanato con la L. 22.12.1990 n. 384, fa espresso riferimento alla circostanza secondo la quale, a differenza di altri provvedimenti indulgenziali, nei quali per taluni reati la esclusione dall indulto operava solo se il reato fosse stato aggravato oppure quando ricorre l aggravante, nella fattispecie di cui all art. 3 dell ultimo provvedimento indulgenziale, vi fosse una diversa formulazione della norma che sanciva ove applicate le circostanze aggravanti ivi previste. Proprio la diversa formulazione letterale della norma, che prevedeva le esclusioni oggettive dell indulto rispetto ai precedenti testi indulgenziali, rendeva necessario procedere ad una diversa interpretazione, discostandosi così dai molteplici precedenti giurisprudenziali ( Cass. Sez. unite 23.2.1980, Cass. Sez. II 11.1.1983 n. 5574, Cass sez. II 11.2.1983 n. 7735, Cass. Sez. II 9.1.1984 n. 4209, Cass. Sez. II 28.6.1984 n. 2601 ), univocamente assestati sulla tesi secondo cui la eventuale concessione di circostante attenuanti, ancorchè prevalenti sulle aggravanti, incideva soltanto sulla determinazione della pena da irrogare, ma non alterava la fattispecie legale tipica del reato-aggravato, del quale l imputato veniva riconosciuto colpevole, sicchè il riconoscimento della sussistenza degli estremi costituenti l aggravante, a prescindere dal suo esito sanzionatorio, era ostativo alla concessione dell indulto o dell istituto per il quale operava la preclusione. La diversa formulazione della norma da parte del legislatore del 1990, faceva considerare che egli avesse inteso discostarsi dai precedenti storici, richiedendo che l aggravante, per essere ostativa, dovesse essere applicata. Sicchè una circostanza aggravante deve essere ritenuta, oltre che riconosciuta, anche come applicata, non solo allorquando nella realtà giuridica di un processo viene attivato il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando se ne tragga ai sensi dell art. 60 c.p. un altro degli effetti che le sono proprii e cioè quello di penalizzare un attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena irroganda per il reato. Invece, non è da ritenersi applicata l aggravante allorquando, ancorchè riconosciuta la ricorrenza dei suoi estremi di fatto e di diritto, essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri a cagione della prevalenza attribuita all attenuante, la quale non si limita a paralizzarla, ma la sopraffà in modo che sul piano dell afflittività sanzionatoria l aggravante risulta tamquam non esset. Alla luce del citato precedente giurisprudenziale,il cui criterio interpretativo è da ritenere applicabile anche nel caso di

specie, occorre ritenere sempre che la circostanza aggravante ( tra cui rientra certo le recidiva ) sia da ritenersi applicata solo nei casi in cui le circostanze attenuanti siano state concesse con un giudizio di equivalenza o minusvalenza con le aggravanti, nel quale caso queste ultime, ancorchè non spieghino effetto sotto il profilo della loro idoneità ad aumentare la pena, connotino e qualifichino comunque il reato come di una certa gravità, al punto da bloccare l effetto delle attenuanti generiche. Quando queste ultime, che sono un criterio di valutazione del fatto e della personalità del reo e quindi incidono sulla determinazione della pena, siano state concesse con giudizio di prevalenza sulle aggravanti, di queste ultime non si può tenere conto, perché l effetto delle medesime è stato totalmente esiliato dal processo. Questa interpretazione è stata ripresa e ribadita, successivamente all entrata in vigore della legge 251/05, dalla Suprema Corte che ( sez. I sentenza n. 25113 dell 11.7.2006, n. 27814 del 10.7.2006, n. 29989 del 26.6.2007 ) ha affermato che per potere essere considerata applicata la recidiva, il bilanciamento delle circostanze effettuato dal Giudice della cognizione deve concludersi con un giudizio di prevalenza della recidiva o di equivalenza tra la stessa e le attenuanti, in caso diverso non potendosi affermare applicata la recidiva stessa. Non vale ritenere che l applicazione della recidiva aggravata, richiesta per la esclusione di determinati soggetti dalla ammissione a benefici penitenziari, debba essere conseguente ad un effettivo accertamento di responsabilità penale effettuato con sentenza, con esclusione dunque di quei provvedimenti che si limitano ( art. 444 c.p.p. ) ad applicare la pena su richiesta delle parti senza che la irrogazione della stessa sia preceduta da un vero e proprio accertamento di responsabilità, giacchè la dizione della legge si limita a richiedere non già l effettivo accertamento della colpevolezza per un numero di volte sufficiente a giudicare il reo recidivo reiterato, ma solo che la medesimo sia applicata in sede di trattamento sanzionatorio una circostanza aggravante specifica, indipendentemente dal titolo esecutivo penale on il quale la pena venga irrogata. La dizione normativa della L. 205/05 che richiede, per l operatività della normativa ivi prevista in tema di limitazioni alla concedibilità dei benefici penitenziari, l applicazione della circostanza aggravante della recidiva reiterata, differisce molto dallo schema di previsione adottato dal legislatore in passato, quando, nel dettare le condizioni di ammissibilità alle misure alternative alla detenzione ( art. 4bis O.P. ) enuncia fra le categorie di detenuti ritenuti di particolare pericolosità sociale quelli condannati per taluni delitti, esclusivamente nelle ipotesi aggravate ( art. 7 L. 12.7.1991 n. 203, art. 73, 80 secondo comma D.P.R. 309/90, 628, terzo comma, 629 secondo comma c.p. ), senza fare riferimento agli effetti del bilanciamento delle circostanze stesse nella commisurazione della pena. Pertanto, perché le limitazioni alla godibilità di alcuni benefici penitenziari introdotte dalla legge Cirielli abbiano effetto, è necessario che la recidiva reiterata sia ritenuta dal Giudice e produca effetti nel trattamento sanzionatorio del condannato,producendo un aumento di pena o annullando per lo meno gli effetti delle circostanze attenuanti, mentre per rientrare nella categoria di condannati che non possono fruire di benefici penitenziari

oppure possono farlo salva l assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata in quanto ritenuti di particolare pericolosità sociale, è sufficiente che la circostanza aggravante prevista dalla legge sia contestata e ritenuta dal Giudice, qualunque sia l effetto che la stessa abbia prodotto sul trattamento sanzionatorio. Vi è comunque un orientamento interpretativo di merito che ritiene comunque necessario, anche nella ipotesi in cui l ordinamento penitenziario citi la condanna per ipotesi di delitto semplicemente aggravate, che la circostanza aggravante per potere esplicare effetti preclusivi in ordine alla fruibilità dei benefici penitenziari, abbia sortito effetti tangibili sul trattamento sanzionatorio del condannato ( e quindi non sia stata ritenuta minusvalente ) : ma, a mio modestissimo parere, detta interpretazione è in contrasto con quella autorevole espressa dalla Suprema Corte sia per il varo dell indulto del 1990 e sia in occasione della entrata in vigore della novella de quo, che ha ormai risolto un dubbio che si era fondato in primis su pressoché identici elementi di valutazione ( differenza ermeneutica per l esclusione dal provvedimento di clemenza, tra fattispecie di delitto aggravate e di delitti in cui l aggravante fosse invece applicata ). b) permanenza o meno dello status di recidivo La disciplina introdotta dalla L. 205/05 in materia di deroghe alla disciplina generale del rapporto esecutivo e limitazioni alla concedibilità di benefici penitenziari pone il quesito, oltre che della decorrenza temporale della sua efficacia ( se si applichi anche ai vecchi recidivi reiterati ) sopra esposto, anche della durata nel tempo degli effetti preclusivi da essa disposti. Infatti, per molto tempo la giurisprudenza di legittimità ha discusso se lo status di recidivo dovesse ritenersi permanente, cioè essere una qualificazione soggettiva di un condannato per il solo fatto di essere stato in passato già condannato, oppure fosse necessario che la recidiva, quale circostanza soggettiva facoltativa, dovesse essere contestata e ritenuta nel provvedimento giurisdizionale per potere produrre gli effetti giuridici suoi propri ( si pensi alla querelle per il calcolo del termine di prescrizione di una pena nei confronti dei pluricondannati ai quali la recidiva fosse stata contestata sempre in forma generica ). Recentemente ( Cass. Sez. I 46229/04, 10425/05, 11348/06 ) l orientamento di legittimità si è consolidato nel senso che la recidiva, per potere produrre quegli effetti non esclusivamente inerenti all aggravamento della pena, deve essere dichiarata con la sentenza di condanna, non essendo sufficiente che vi siano i presupposti per la sua formale contestazione o che la stessa possa essere desunta da elementi rilevabili sul certificato penale. Sulla base di queste premesse, occorreva chiarire, al momento della entrata in vigore di detta legge, se i condannati dichiarati recidivi reiterati per effetto di una sentenza di condanna la cui esecuzione fosse già estinta prima della vigenza della nuova normativa, dovessero ancora essere sottoposti a preclusioni nella fruibilità di benefici penitenziari, nella espiazione di una pena irrogata successivamente, magari da un titolo esecutivo nel quale non fosse stata applicata la recidiva stessa, o fosse stata applicata un diverso tipo di recidiva ( specifica, infraquinquennale ).

Già in passato, quando era stata chiamata a pronunciarsi in ordine all ambito di applicazione della normativa in peius introdotta dal legislatore per talune categorie di condannati che aspirassero ai benefici penitenziari, la Suprema Corte aveva stabilito che le limitazioni peggiorative dovessero applicarsi unicamente ai condannati che si trovassero in espiazione proprio della pena riferita alle categorie di reati indicate dal legislatore, senza alcun riferimento ai precedenti penali del reo. Anche in occasione dell entrata in vigore della nuova normativa, la Suprema Corte ha affermato che ( Cass. Sez. I, 28.6.2006 n. 28632, Sez. I 30.1.2007 n. 8152 ) le limitazioni alla concedibilità di alcuni benefici penitenziari nei confronti dei condannati recidivi, operano tout court da subito anche nei confronti dei vecchi recidivi, ma soltanto nelle procedure esecutive che si riferiscono alla sentenza di condanna con la quale la recidiva indicata è stata dichiarata e dunque non operano, se la recidiva ex art. 99 comma 4 c.p. è stata dichiarata con altre sentenze di condanna, in quanto la recidiva in questo caso deve considerarsi una circostanza aggravante del reato, prevalente sulla funzione di identificare uno status personale del condannato. 4. Questioni pratiche sulla applicazione della recidiva reiterata Senza volere affrontare argomenti non oggetto della presente trattazione, vorrei attirare l attenzione dell uditorio sui problemi pratici che possono presentarsi nel caso in cui il giudice di sorveglianza sia chiamato ad applicare la nuova normativa che impone limitazioni alla fruibilità di benefici per i condannati recidivi. Il punto di partenza è, ovviamente, la lettura dei provvedimenti di condanna di primo e di secondo grado, per valutare l effettiva contestazione della circostanza aggravante della recidiva reiterata e gli effetti che la stessa abbia prodotto sul trattamento sanzionatorio, cosicché la stessa possa sicuramente ritenersi applicata o non applicata. E risaputo che la legge Cirielli ha introdotto limitazioni alla discrezionalità del giudice nel bilanciamento delle circostanze attenuanti con l aggravante della recidiva, nonché ha imposto, in determinati casi, aumenti di pena in misura fissa nelle ipotesi di recidiva pluriaggravata e reiterata. Quali che siano gli orientamenti interpretativi fra i giudici della cognizione, emersi per salvaguardare il principio di uguaglianza e di commisurazione della pena alla effettiva gravità del fatto ( anche alla luce della riaffermata facoltatività della recidiva reiterata nel giudizio di comparazione fra circostanze sancita dalla Corte Costituzionale con la sent. 4-14.6.2007 n. 192 ), occorre ritenere che, sia nel caso si aderisca alla tesi dell esclusione della circostanza della recidiva reiterata dal bilanciamento ex art. 69 c.p. con altre circostanze attenuanti e/o aggravanti ( sicchè la stessa viene applicata con relativo aumento di pena, dopo il bilanciamento tra altre aggravanti ed attenuanti o dopo la diminuzione di pena per effetto della applicazione di circostanze attenuanti ), sia nell ipotesi in cui venga effettuato un giudizio di equivalenza con le attenuanti ( espressamente facoltizzato dal legislatore ), che la recidiva reiterata sia stata in entrambi i casi applicata, mentre non lo è nell ipotesi in cui la recidiva reiterata, pur contestata, non sia stata ritenuta dal giudice, cioè non abbia in alcun modo influito sul trattamento sanzionatorio del condannato. In questo caso, nessuna preclusione potrà essere applicata

nei confronti del condannato, che pur nelle condizioni per essere dichiarato recidivo reiterato, non sia stato dichiarato tale. 5. Rapporto esecutivo penale e fase della sospensione dell ordine di carcerazione : divieto di sospensione per soggetti recidivi L art. 9 della L. 5.12.2005 n. 251 ha introdotto la lettera c) del comma 9 dell art. 656 c.p.p., la quale, in deroga alla regola generale della sospensione dell ordine di esecuzione di pene detentive brevi ( tre anni o sei anni nella ipotesi di richiesta di affidamento in prova da parte di condannato alcol o tossicodipendente ) prevede che la sospensione dell ordine di esecuzione di cui al comma 5 dell art. 656 c.p.p. non possa essere disposta nei confronti dei condannati ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall art. 99, comma 4, c.p. Questa disposizione, anticipando, per i recidivi,alla prima fase dell esecuzione penale alcuni effetti peggiorativi della disciplina generale, sostanzialmente demanda all organo preposto alla esecuzione dell ordine di carcerazione ( pubblico ministero ) la valutazione circa la effettiva applicazione della recidiva reiterata da parte del Giudice della cognizione. Egli quindi non potrà semplicemente accertare l eventuale contestazione della aggravante della recidiva reiterata, ma dovrà necessariamente verificare se la recidiva reiterata sia stata dichiarata e abbia altresì concretamente influito sul trattamento sanzionatorio del condannato, provvedendo in difetto alla sospensione dell ordine di esecuzione, se il limite di pena inflitto lo consenta. Contro la decisione del p.m. è ricorribile il giudice della esecuzione, il quale potrà eventualmente rettificare la valutazione effettuata dal p.m., attraverso la emissione del suo provvedimento di sospensione o di esecuzione per la carcerazione del condannato. Il condannato a cui sia stata applicata la recidiva reiterata pertanto,non potrà attendere in libertà la decisione del Tribunale di Sorveglianza in ordine ad una sua richiesta di ammissione a misura alternativa, ma potrà unicamente richiedere al Magistrato di Sorveglianza, una volta eseguito l ordine di traduzione in carcere, la scarcerazione provvisoria in regime di sospensione della pena ex art. 47,4 comma O.P. o l applicazione provvisoria della detenzione domiciliare fino alla successiva decisione dell organo collegiale, dimostrando la concreta esistenza di un pericolo di pregiudizio derivante dalla protrazione della restrizione. Quindi, mentre per i condannati non recidivi, vi è una presunzione di legge superabile dalla decisione di merito da parte del Tribunale di Sorveglianza in ordine ad un concreto pregiudizio che possa derivare dalla instaurazione della carcerazione prima di detta decisione, per i recidivi reiterati vi è una presunzione di legge in senso assolutamente contrario e cioè che l eventuale esistenza di un concreto pericolo di pregiudizio deve essere dimostrata dal condannato medesimo dopo l esecuzione dell ordine di carcerazione, ottenendo la scarcerazione provvisoria dal Magistrato di Sorveglianza. Anche in questo caso, conformemente a quanto statuito in passato, la Suprema Corte ( v. sent. III sez. 15.11.2006, n. 37582 ) ha ribadito la natura processuale del divieto di sospensione dell esecuzione delle pene detentive fino a tre anni previsto dall art. 656

comma 9 c.p.p. per i recidivi come novellato dall art. 9 L. 5.12.2005 n. 251, sancendo che esso si applica ai procedimenti esecutivi non ancora esauriti al momento della entrata in vigore della novella. 6. Condannati recidivi in regime di arresti domiciliari Direttamente collegata alla questione discussa sopra, è quella attinente alla estensione del divieto di sospensione dell ordine di esecuzione pena nei confronti dei condannati a cui sia stata applicata la circostanza della recidiva reiterata, ma che al momento del passaggio in giudicato della condanna, si trovassero in regime di arresti domiciliari per il fatto oggetto del giudizio. La legge ( art. 656 comma 10 c.p.p. ) prevede che il pubblico ministero, se il condannato si trova agli arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna da eseguire, sospende l esecuzione dell ordine di carcerazione e trasmette gli atti senza ritardi al Tribunale di Sorveglianza perché provveda alla eventuale applicazione di misure alternative di cui al comma 5. Fino alla decisione del Tribunale di Sorveglianza, il condannato permane nello stato detentivo nel quale si trova ed il tempo corrispondente è considerato pena a tutti gli effetti. La dizione letterale dell art. 656 comma 9 c.p.p. non contiene alcun riferimento al comma 10 e viceversa. E possibile solo ragionale sull ermeneutica delle due norme, l una della quali impone al p.m. di non sospendere l ordine di esecuzione pena nei casi previsti dal comma 5 dell art. 656 c.p.p. se si tratti di condannati ai quali sia stata applicata la recidiva, mentre l altra prescrive al p.m., sempre nei casi di cui al comma 5, di sospendere l ordine di esecuzione nei confronti dei condannati definitivi se il condannato si trova agli arresti domiciliari per lo stesso fatto. Il collegamento tra le due norme è dato proprio dal riferimento al comma 5 ( regola generale che prevede la sospensione dell ordine di esecuzione pena ), perché il comma 9 esclude la sospensione di cui al comma 5 per i recidivi proprio nello stesso numero di casi in cui il comma 10 facoltizza il p.m. a sospendere l ordine di esecuzione pena per i condannati agli arresti domiciliari. Se pertanto i condannati recidivi reiterati liberi non potranno fruire di sospensione dell ordine di carcerazione, a maggior ragione i condannati recidivi in regime di arresti domiciliari dovranno subire la stessa sorte, non potendo attendere la decisione del competente Tribunale di Sorveglianza in un regime sostanzialmente alternativo alla restrizione, pur essendo soggetti che, per la loro residua pericolosità sociale, non sono stati scarcerati dalla misura custodiale, seppure attenuata, nel corso del giudizio di cognizione. L interpretazione più accreditata dalla Procure è, tuttavia, quella di ritenere non suscettibile di applicazione in via analogica la disposizione di cui all art. 656 comma 9 lettera c) c.p.p. e di consentire al condannato, al quale sia stata applicata la recidiva reiterata, la possibilità di attendere in regime di arresti domiciliari la decisione del Tribunale di Sorveglianza sulla concedibilità delle misure alternative.

7. Modifiche alla disciplina di ammissione dei condannati recidivi a benefici penitenziari o alternativi alla detenzione : a ) permessi premio ( art. 30 quater O.P. introdotto dall art. 7 comma 1 della L. 5.12.2005 n. 251 ) La normativa peggiorativa entrata in vigore ha introdotto nuovi e diversi quantum di pena da calcolare per potere ammettere i condannati recidivi reiterati ai benefici premiali. L art. 30 ter comma 4 lettera a) O.P. stabilisce che i condannati a pena detentiva dell arresto o della reclusione non superiore a tre anni possano essere ammessi ai benefici premiali senza nessun limite di pena da espiare o espiata : secondo l art. 30quater lettera a) O.P., i condannati recidivi devono invece avere espiato almeno un terzo della pena dell arresto o della reclusione non superiore a tre anni inflitta ( al massimo, dunque, un anno ). L art. 30 ter comma 4 lettera b) O.P. stabilisce che nei confronti dei condannati alla reclusione superiore a tre anni possano essere concessi i benefici premiali dopo l espiazione di almeno un quarto della pena inflitta : secondo l art. 30quater lettera b) O.P.,i condannati recidivi devono invece avere espiato almeno metà della pena superiore a tre anni inflitta. L art. 30 ter comma 4 lettera c) e d) O.P. stabilisce che nei confronti dei condannati alla reclusione per taluno dei reati indicati nel comma 1 dell art. 4bis O.P. o all ergastolo, possano essere concessi i benefici premiali dopo l espiazione di almeno metà della pena inflitta e comunque di non oltre 10 anni : secondo l art. 30quater lettera c ) O.P.,i condannati recidivi devono invece avere espiato almeno due terzi della pena inflitta e non oltre 15 anni, così come gli ergastolani almeno 15 anni. Si pone evidente la questione se occorra procedere alla scissione del cumulo materiale e giuridico delle pene irrogate al condannato che sia stato giudicato per delitti per cui sia stata applicata la recidiva reiterata e per altri delitti, onde calcolare il quantum richiesto dalla legge solo ed unicamente per l effettiva entità della pena riferita a condanne nelle quali sia stata applicata la recidiva reiterata. La giurisprudenza di legittimità ( Cass. Sez. Un. 5.10.1999 n. 14, sez. I 12.5.1999 n. 2529, sez. I 22.3.1999 n. 613, sez. I 4.3.1999 n. 941 ), dopo avere per anni vietato ( anche con pronunce a sezioni unite : v. per tutte Cass. Sez. Un. 3.2.1998 n. 15 ) la possibilità di procedere a scindere cumuli materiali di pene o rompere l unità del reato continuato, è passata ad un orientamento opposto, affermando, per il principio del favor rei la necessità di procedere allo scioglimento dei cumuli e delle pene unificate ex art. 81 c.p. e 671 c.p.p., onde enucleare ed eventualmente ritenere già espiata sulla base del presofferto e dell eseguito, la sola parte di pena riferita a delitti per i quali l ordinamento penitenziario disponeva limitazioni per l accedibilità ai benefici di legge ( art. 4bis O.P. ). L orientamento indicato deve essere nuovamente ripreso per il calcolo della pena che i recidivi debbono avere espiato per potere essere ammessi ai benefici dei permessi premio. Occorre procedere alla somma della parte di pena ( nel reato continuato ex art. 81 c.p. ) o della pena inflitta da condanne ( nel cumulo materiale ) effettivamente riferita a titoli in

cui sia stata applicata la recidiva reiterata e/o eventualmente sia stata espressa pronuncia giurisdizionale per delitti compresi nella fattispecie di cui all art. 4bis O.P., distinguendo fra pene riferibili a condannati comuni e condannati per delitti di cui all art. 4bis O.P., recidivi reiterati ( con pena inflitta superiore od inferiore a tre anni ) e riferibili e recidivi reiterati condannati per delitti di cui all art. 4bis O.P.,formando tanti distinti sub- cumuli e formulando un diverso computo e quindi un diverso calcolo del quantum di pena necessario per ciascuna categoria, sommando poi i risultati parziali, per verificare l effettiva espiazione di tutto il periodo di tempo richiesto dalla legge. b) detenzione domiciliare ( art. 47ter comma 01 O.P. ) L art. 7 comma 2 della L. 5.12.2005 n. 251 ha introdotto la previsione nel comma 01 dell art. 47ter O.P. di una misura detentiva domiciliare speciale che consentisse di essere collocati in regime detentivo domiciliare a quei condannati ultrasettantenni che, pur avendo una pena detentiva residua superiore al limite di 4 anni fissato dal comma 1 dello stesso articolo, non avessero subito condanna per talune categorie di reati previsti dagli artt. 600 604 c.p., 609bis, 609quater, 609octies c.p., dall art. 51 comma 3bis c.p.p. e dall art. 4bis O.P. e non fossero mai stati dichiarati delinquenti abituali,professionali o per tendenza, né mai avessero subito condanna con l aggravante di cui all art. 99 c.p. Nella dizione di questa norma, che ha introdotto una misura alternativa speciale per soggetti ultrasettantenni primari che abbiano subito condanna per delitti non a particolare riprovazione sociale, il legislatore fa riferimento alla necessità che mai prima di allora il condannato abbia avuto altra condanna per la quale sia stata ritenuta ed applicata la recidiva di cui all art. 99 c.p. In questo caso, non solo il legislatore non cita la recidiva qualificata di cui all art. 99,4 comma c.p. ( unico caso in cui la preclusione di accessibilità alla misura è collegata alla semplice circostanza di essere già stato dichiarato recidivo semplice ), ma il divieto di concessione della misura opera, secondo una interpretazione letterale difficilmente contestabile, per colui che sia stato dichiarato recidivo anche in passato, per un fatto diverso da quello per il quale è in corso l esecuzione penale a cui è collegata la richiesta di ammissione a misura alternativa. In altri termini, in questo specifico ed unico caso, il legislatore considera la recidiva ( anche semplice e non solo quella reiterata! ) come status soggettivo che connota, come un marchio, il condannato, anche nel periodo successivo alla estinzione del rapporto penale collegato alla sentenza che l ha qualificato come tale, precludendogli quanto meno la possibilità di essere ammesso, se ultrasettantenne, alla detenzione domiciliare per l espiazione di pene superiori al limite generale di quattro anni. c) detenzione domiciliare ( art. 47ter comma 1.1 O.P. ) L art. 7 comma 3 della L. 5.12.2005 n. 251 ha introdotto il comma 1.1. dell art. 47ter O.P. stabilendo per i condannati ai quali ( di nuovo! ) sia stata applicata la recidiva reiterata, che gli stessi non possono aspirare alla misura detentiva domiciliare, nei casi ( comma 1 ) in cui siano donne aventi prole con loro convivente di età inferiore agli anni 10 ( o padri esercenti la potestà parentale su figli di età inferiore ad anni 10 con loro conviventi, quando la madre sia deceduta o sia assolutamente impossibilitata a darvi

assistenza ), persone in condizioni di salute particolarmente gravi che necessitano di continui e costanti contatti con presidi sanitari territoriali, persone plurisessantenni in condizioni di parziale inabilità fisica e persone di età inferiore ad anni 21 per comprovate esigenze di salute, famiglia, studio e lavoro, qualora la pena residua sia superiore al limite di tre anni ( e non quattro anni come previsto per gli altri condannati ). d) detenzione domiciliare ( art. 47ter comma 1bis O.P. ) L art. 7 comma 4 della L. 5.12.2005 n. 251 ha introdotto una ulteriore, rigida limitazione alla concedibilità della c.d. detenzione domiciliare generica ( misura residuale concedibile ai condannati a pene detentive inferiori a due anni, non ancorata ad esigenze specifiche ), sancendo che la stessa non possa essere applicata ai condannati ai quali sia stata applicata la recidiva di cui all art. 99,4 comma c.p. ( oltre a quelli per delitti di cui all art. 4bis O.P. ). Il legislatore del 1005 ha proseguito l iter già intrapreso dalla legge c.d. Simeone, che aveva limitato in misura preponderante la concedibilità della detenzione domiciliare generica, misura di contenuto assai ridotto rispetto a quella dell affidamento in prova al s.s., invece rimasta ancorata nel corso dei molti anni alla semplice eseguibilità di una pena complessivamente non superiore a tre anni ed alla eseguibilità di condanne per delitti non compresi nella fattispecie di cui all art. 4bis comma 1 prima parte O.P. ( delitti assolutamente ostativi ) e quindi paradossalmente più facile da ottenere, nonostante l ampiezza del suo contenuto, rispetto a quella detentiva domiciliare, soggetta a diverse limitazioni in base alla tipologia del delitto commesso ed alla qualifica di pluricondannato. e) semilibertà ( art. 50bis O.P. ) Analoghi nuovi e maggiori limiti nel quantum di pena da espiare ha introdotto l art. 7 comma 5 della L. 5.12.2005 n. 251 nel dare vita all art. 50 bis O.P. che, a differenza di quanto stabilito dall art. 50 O.P. per i condannati comuni, i quali debbono avere espiato ( se non sono in esecuzione di una condanna alla sola pena dell arresto o della reclusione non superiore a sei mesi ) almeno metà pena o 2/3 della stessa se sono in espiazione di un delitto compreso nella fattispecie di cui all art. 4bis comma 1 seconda parte O.P., stabilisce che i limiti di pena espiata, per i condannati ai quali sia stata applicata la recidiva reiterata di cui all art. 99, 4 comma c.p., siano di due terzi della stessa, oppure se si tratta di condannato per taluno dei delitti di cui all art 4bis O.P., di almeno tre quarti di essa. 8.Divieto di concessione di identico beneficio già fruito in passato ( art. 58quater O.P. ) L art. 7 comma 7 della L. 5.12.2005 n. 251 ha introdotto il comma 7bis dell art. 58quater O.P. ( divieti di concessione di benefici in talune circostanze ), il quale prevede che l affidamento in prova al s.s., la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi più di una volta al condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall art. 99, 4 comma c.p. Molti problemi interpretativi ha posto il varo di questa norma.

Innanzitutto, si è discusso se il divieto di concessione di taluno dei benefici indicati fosse cumulativo od alternativo : in altre parole, se chi avesse già fruito dell affidamento in prova al s.s. non potesse più fruire di semilibertà o detenzione domiciliare e viceversa. La dizione della norma e il comune senso letterale delle parole inserite, suggeriscono di intendere la disposizione come indicante la impossibilità, per i condannati ai quali sia stata applicata la recidiva reiterata, di ottenere una nuova concessione di misura identica a quella già fruita in passato. In questo senso, si è espressa anche la Suprema Corte ( sez. I sentenza n. 42415 del 22.11.2006, sez. I sentenza n. 5853 del 22.12.2006 ) che ha affermato che il divieto di concessione di più di un beneficio ai recidivi reiterati, opera solo con riferimento ad identica misura, ma non anche in relazione a misura diversa. Sarebbe, invero, del tutto illogico ed irragionevolmente affittivo ritenere che, se in passato il condannato recidivo si sia dimostrato meritevole della più ampia misura dell affidamento in prova ( unica misura ad essergli stata concessa ), non possa essere valutata, per l espiazione di una pena relativa a condanna successiva, la sua ammissione ad una misura diversa e più restrittiva, come la detenzione domiciliare, senza pregiudizio alcuno, in ottemperanza al principio di gradualità ( in senso lato ) del trattamento peniteniziario. Pertanto, deve ritenersi che il divieto di concessione operi separatamente per ciascuna misura solo e solo se il condannato recidivo reiterato abbia già fruito di misura identica a quella nuovamente richiesta. E ovvio ritenere che la fruizione di identica misura debba essere intesa in senso assoluto ( e cioè nell intero arco della vita detentiva del condannato ), essendo del tutto improbabile che il legislatore sia intervenuto per vietare la concessione di identici benefici nel corso della medesima esecuzione penale, essendo già presente nell ordinamento penitenziario una norma che vieta la concessione di gran parte delle misure alternative qualora sia intervenuta revoca per comportamento colpevole di altro beneficio nel periodo successivo fino a tre anni dalla intervenuta revoca ( art. 58quater comma 3 O.P. ), coprendo così la maggior parte del periodo esecutivo penale successivo alla conclusione con esito negativo della prova a cui il condannato era stato ammesso. Così, sembrerebbe possibile considerare ultroneo che il legislatore, dopo avere previsto la impossibilità, per almeno tre anni dalla intervenuta revoca di un provvedimento di ammissione a misura alternativa, di concessione di altra misura, si preoccupasse di vietare, nel seguito eventuale del rapporto esecutivo penale, ulteriori concessioni. 9.Correttivi introdotti dalla Corte Costituzionale alla retroattività delle norme peggiorative sul trattamento penitenziario dei condannati recidivi reiterati La ormai ampiamente ammessa retroattività delle norme sul trattamento penitenziario varate dalla legge Cirielli, che avrebbero dovuto essere applicate ad una grande varietà di situazioni detentive e a diversi livelli di evoluzione del processo di rieducazione del condannato, in itinere al momento della loro entrata in vigore, non avrebbe potuto resistere a lungo al vaglio di costituzionalità del Giudice delle Leggi, sempre attento a far emergere, secondo un orientamento giurisprudenziale costante ed univoco, la finalità

rieducativa della pena stabilita dall art. 27,terzo comma, Cost., che deve riflettersi in modo adeguato su tutta la legislazione penitenziaria, la quale deve prevedere modalità e percorsi idonei a realizzare l emenda e la risocializzazione del condannato, secondo scelte del legislatore le quali, pur nella loro varietà tipologica e nella loro modificabilità nel tempo, debbono convergere nella valorizzazione di tutti gli sforzi compiuti dal singolo condannato e dalle istituzioni per conseguire il fine costituzionalmente sancito della rieducazione. La massima valorizzazione dei percorsi rieducativi compiuti da chi deve espiare una pena mal si concilia con la vanificazione, in tutto o in parte, degli stessi per effetto di una mera successione delle leggi nel tempo. Le diverse valutazione di carattere generale e preventivo, operate dal legislatore in ordine alla previsione di misure alternative alla detenzione o di benefici penitenziari, non possono incidere negativamente sui risultati già utilmente raggiunti dal condannato. Nell ipotesi di una sopravveniente normativa che escluda da un beneficio una data categoria di soggetti, l applicazione della nuova restrizione a chi aveva già maturato, secondo la previdente disciplina, le condizioni per godere del beneficio stesso, rappresenta, rispetto all iter rieducativo, una brusca interruzione, senza che ad essa abbia in alcun modo corrisposto un comportamento colpevole del condannato ( C.Cost. sentenza 445 del 1997 ). Tale interruzione pone nel nulla le positive esperienze già registrate ed ostacola il raggiungimento della finalità rieducative della pena prescritta dalla Costituzione ( C.Cost. sentenza n. 137 del 1999 ). Per questi motivi, la Corte Costituzionale, con pronuncia n. 79 del 5.3.2007, ha dichiarato l incostituzionalità del comma 7bis dell art. 58quater O.P. nella parte in cui non prevede che i benefici in esso indicati possano essere concessi, sulla base della normativa previgente, nei confronti dei condannati che, prima dell entrata in vigore della citata legge n. 251 del 2005, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato ai benefici richiesti. Sulla stessa scia di pensiero, anche se anteriore nel tempo, si è collocata la sentenza emessa dalla Corte Costituzionale il 21.6.- 4.7.2006 n. 257, la quale è intervenuta sullo scottante problema dei condannati i quali, avendo già maturato i termini per potere essere ammessi alla fruizione dei permessi premiali secondo la vigente normativa ( o addirittura essendovi già ammessi ), non potessero più avanzare domanda nel momento della efficacia della nuova normativa, la quale aveva introdotto nuovi limiti minimi di pena espiata per l ammissione ai benefici citati. Mentre la concessione di una misura alternativa, decisa secondo la normativa previgente e più ampia, non può più essere messa in discussione dal sopravvenire di una legislazione più restrittiva ( trattandosi di decisione adottata nel vigore di differente disciplina per la quale nessuna norma transitoria impone la revoca del beneficio già concesso ), l ammissione ai permessi premiali, rinnovabile volta per volta attraverso provvedimenti singoli che presuppongono il permanere delle condizioni di legittimità e di merito che ne costituiscono il substrato, poteva subire per il condannato recidivo reiterato, forti contraccolpi per effetto della modifica della disciplina, bene potendo

accadere che lo stesso soggetto si vedesse rifiutare la concessione del permesso per il sopravvenire di condizioni più restrittive, immediatamente eseguibili. La Corte è intervenuta in questo senso, dichiarando incostituzionale la previsione dell art. 30 quater O.P. ( introdotto dall art. 7 comma 1 della L. 251/05 ) nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso, sulla base della normativa previgente, nei confronti dei condannati che, prima della entrata in vigore della citata legge 251/05 abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto. Questa pronuncia ha espressamente statuito un principio costituzionalmente orientato che già si stava diffondendo in molti Tribunali di Sorveglianza italiani, a seguito di alcune pronunce della Suprema Corte ( v. per tutte Cass. sez. Unite 28.6.2006 ric. Alloussi, sez. I 10.7.2006 n. 33634 e Cass. sez. I n. 4688 del 10.1.2007 ) secondo il quale, l introduzione della disciplina restrittiva non avrebbe dovuto interrompere il percorso rieducativo compiuto da alcuni condannati prima della entrata in vigore della nuova normativa, ma unicamente interdire a quelli meno meritevoli, la possibilità di ottenere nuove scappatoie. Sicchè, il divieto di concessione di nuove misure sancito dall art. 58quater comma 7bis O.P. non doveva operare automaticamente, ma doveva essere doverosamente preceduto da una attenta valutazione in ordine alla avvenuta realizzazione di tutte le condizioni per usufruire di nuovo di un identico beneficio richiesto. Elena BONU Magistrato di Sorveglianza Presso il Tribunale di Torino